Azione 17 del 24 aprile 2017

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 24 aprile 2017

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Società e Territorio Pro Single Schweiz difende gli interessi delle persone che vivono sole: intervista alla presidente Sylvia Locher

Ambiente e Benessere Fa scuola il progetto delle FFS che dal 2015 impiegano ottanta pecore quali «operaie tosaerba»

Politica e Economia I ribaltoni di Trump in politica estera: pragmatismo o improvvisazione?

Cultura e Spettacoli Guernica di Picasso, madre di tutte le guerre, in una spettacolare mostra a Madrid

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di Lucio Caracciolo pagina 21

AFP

Erdogan, presidente assoluto

L’ultimo nemico del sultano di Peter Schiesser Ora Recep Tayyip Erdogan è anche formalmente, e non solo di fatto, il nuovo sultano della Turchia. Sebbene con una maggioranza risicata, con una votazione che non può dirsi davvero democratica, ha ottenuto pieni poteri fino ad almeno il 2029, se consideriamo che non esiste politico che possa sfidarlo nelle prossime due elezioni presidenziali. Schiacciati o messi a tacere quasi tutti gli avversari interni, si prepara a imprimere il suo stampo sul paese per almeno un altro decennio, e in modo ancora più radicale che in passato. Ma quali sono le ambizioni del nuovo sultano? Quale ruolo sogna di ricoprire nella storia della Turchia? Alcune visite altamente simboliche compiute ad Istanbul dopo la vittoria, prima di tornare ad Ankara, sono rivelatrici: Erdogan si è recato alla tomba del presidente Adnan Menderes, giustiziato dai militari nel 1961, poi alla tomba del suo padre putativo Necmettin Erbakan, primo capo di governo islamico, quindi ai sepolcri dei sultani Mehmet II (Maometto II) e Selim I. L’omaggio al presidente Menderes è un messaggio all’esercito: ormai piegato dopo il fallito del golpe del luglio scorso, non

rappresenta più (per il momento) una minaccia al suo potere. Quello a Erbakan è un omaggio all’islamizzazione della società, che questi aveva iniziato e che Erdogan intende portare a termine. Le visite ai sepolcri dei due sultani hanno un respiro storico più ampio e portano un messaggio all’Europa e al mondo islamico sunnita: nel 1453 Mehmet I è stato, a soli 21 anni, il conquistatore di Costantinopoli, che ribattezzò Istanbul, e quindi dell’impero bizantino, che allargò all’Anatolia. Ambiva a conquistare anche Roma e per questo avanzò nei Balcani, ma venne fermato dai serbi alle porte di Belgrado (1456), tentò la via del mare occupando Otranto (1480), che poi riperse. Morì a 49 anni senza aver realizzato il sogno di conquistare la Mecca e Medina e diventare califfo. Questo sogno lo concretizzò Selim I, che nei suoi otto anni di regno (1512-1520) oltre ad espandere ulteriormente l’impero ottomano incluse anche le città sacre dell’Islam, diventando il primo califfo turco e quindi regnante di tutti i sunniti. Sono messaggi diretti ai propri concittadini, all’Europa, al mondo musulmano. E danno la misura della megalomania del novello sultano. Senz’altro, il suo impatto sullo scacchiere arabo è sia culturale sia geopolitico: Erdogan ha dimostrato che il suo tentativo

di coniugare democrazia e islamismo moderato è fallito e che la Turchia intende imporsi nella regione in virtù della propria forza militare. Non sappiamo dove vuole arrivare né se ci arriverà, ma possiamo supporre che vorrà proseguire sulla via del conflitto con l’Europa (un’adesione all’Ue, a questo punto, è morta e sepolta - vedi Caracciolo a pagina 21) e dell’ingerenza negli affari mediorientali, percorsa negli ultimi anni con toni bellicosi. A questo punto, l’unico nemico che resta al sultano è Erdogan stesso. La sua sete di potere, il controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione e della giustizia, la repressione con ogni mezzo degli avversari, gli hanno dato la vittoria nel referendum (questo è il vero aspetto illiberale, non democratico della votazione), ma hanno spaccato il paese. Se agirà da dittatore, e i segnali ci sono (il primo annuncio fatto dopo la vittoria è stato di voler reintrodurre la pena di morte), minaccerà la coesione politica e sociale della Turchia, con tutto ciò che comporterebbe per l’economia. Erdogan è giunto al potere assoluto grazie ad una stabilità, un’apertura e a una crescita economica che lui ha grandemente favorito, la sua involuzione a presidente assoluto con la scimitarra sguainata può diventare anche la sua rovina.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Attualità Migros

M Generazione M: il momento della verifica

Controlling Il programma legato alla sostenibilità di Migros ha formulato numerose promesse:

ogni anno sono stati fissati due momenti in cui si esamina il loro raggiungimento, e il risultato della valutazione viene reso pubblico

Andreas Dürrenberger* Generazione M è il programma di sostenibilità di Migros. Nel suo quadro sono state formulate un certo numero di promesse vincolanti, incentrate su vari temi, che vanno dalla protezione dell’ambiente al consumo responsabile, dalla salute al mantenimento di un rapporto esemplare con la società e i collaboratori. Dal momento del lancio dell’iniziativa, nel 2012, Migros ha formulato 67 promesse: 38 delle quali sono già state mantenute, mentre altre 8 non sono più in corso. Al momento attuale ne sono aperte ancora 21. Per 18 di esse l’impegno è ancora in corso di raggiungimento, per altre tre è stato interrotto.

Una quantità eccessiva di sale, zucchero e grassi può causare malattie del sistema circolatorio e incrementi di peso. Per questo Migros ha promesso quattro anni fa di proporre entro il 2019 150 prodotti con un tenore ridotto di sale, zucchero e grassi. Fino a oggi ha modificato le ricette di 210 prodotti di marca propria. In tal modo ha diminuito la quantità di sale nelle zuppe e nelle salse e ridotto la quantità di zucchero nei latticini come iogurt e quark. La promessa può quindi già considerarsi mantenuta. Imballaggi ecologici

Migros si è posta entro il 2020 l’obiettivo di ottimizzare in senso ecologico

L’impianto solare sul tetto della Centrale di Sant’Antonino. (Ti-Press)

l’uso di più di 6000 tonnellate di materiale da imballaggio. Per farlo opera su vari fronti. Ad esempio riducendo lo spessore dei barattoli di marmellata della marca Favorit, risparmiando così 126 tonnellate di vetro all’anno. Le bottiglie di acqua minerale Aproz sono fatte con una maggiore quantità di PET riciclato. Ciò ha come effetto un risparmio di 116 tonnellate di PET nuovo. Tra il 2013 e il 2016 Migros ha già ottimizzato in senso ecologico l’uso di 2726 tonnellate di materiale da

imballaggio. In questo modo si pone leggermente sotto il suo obiettivo intermedio di 3000 tonnellate. Produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili

L’obiettivo principale di Migros nel settore energetico è diminuire il proprio consumo di energia. Oltre a questo ha contemporaneamente promesso di sostenere le energie rinnovabili. A questo impegno rispondono ad esempio i sistemi fotovoltaici di cui

Un contributo a progetti in tutto il mondo

Solidarietà L’aiuto all’auto-aiuto è un tema sociale di attualità

e Migros si impegna in modo importante grazie al proprio «Fondo di sostegno» Dal 1979 il Fondo di sostegno Migros dà il suo contributo a progetti di sviluppo e cooperazione in Svizzera e nel mondo. Per questo mette a disposizione ogni anno un milione di franchi. Fino ad oggi questo impegno ha permesso di investire più di 36 milioni di franchi. Ogni anno sono scelti in media una ventina di progetti di organizzazioni non-profit riconosciute: ad ognuno sono assegnati tra i 40 e i 100’000 franchi. Uno dei progetti sostenuti che riguarda il Ticino è l’intervento di sistemazione dell’alpe Arami. L’alpe Arami è un luogo suggestivo di rara bellezza. Si trova nel Bellinzonese, nei monti sopra Gorduno, in un pendio a 1446 m/ sm che guarda su Bellinzona e la Riviera. Il suo impiego è di vario tipo: per il lavoro forestale, agricolo ma anche per il tempo libero e le passeggiate. Un progetto della Schweizer Patenschaft für Berggemeinden, che si propone di adottare le comunità montane in diffi-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

L’alpe Arami è sui monti sopra Gorduno. (Patenschaft für Beggemeinden)

coltà, vuole fare in modo che l’alpe continui ad essere utilizzata e si mantenga in buone condizioni. In primo luogo dovrà essere ricostruita una stalla, che sarà coperta poi da un tetto in piode. In questo modo durante l’estate potrà nuovamente essere utilizzata per ospitare mucche e capre. La costruzione dell’alpeggio sarà rinnovata, e servirà in futuro quale alloggio per gruppi di escursionisti e per le scuole. Il Fondo di sostegno Migros si accolla le spese del progetto. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Altre iniziative riguardano la cooperazione allo sviluppo di associazioni attive in varie parti dell’Africa. Una di esse si occupa ad esempio del sostegno dell’economia lattiera in Mali. Qui l’80 per cento della popolazione è attiva nell’allevamento bovino. Diversi tipi di problemi impediscono però che si raggiunga una produzione di latte sufficiente a soddisfare i bisogni generali. L’organizzazione «Veterinari senza frontiere» si impegna in loco per trovare una soluzione. Altra zona sensibile è la parte orientale della Repubblica democratica del Congo. La rete di sostegno svizzera Medair vi ha creato numerosi centri medici, utilizzando proprio gli aiuti che vengono dal Fondo di sostegno Migros. In questa regione Medair sta aiutando alcune cliniche a risolvere i problemi connessi con l’uso dell’acqua, presupposto per una presa a carico ottimale e per la fornitura di un trattamento medico di buona qualità. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

è proprietaria. Fino ad oggi ne sono stati messi in opera circa 220. Producono 25’300 MW/h di corrente, ciò corrisponde all’uso normale di 8400 economie domestiche. Nel 2016 Migros ha nuovamente ampliato il più potente impianto di pannelli solari della Svizzera, che si trova sul tetto del centro di distribuzione di Neuendorf AG e copre una superficie pari a quella di 185 campi da tennis. L’obiettivo di questa promessa sta per essere raggiunto.

Concorso

Prodotti con un tenore ridotto di zucchero, sale e grassi

Informazioni

Tutte le promesse su: www.generazione-m.ch * Redattore di Migros Magazin

Parte di

L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi

900 Presente Rassegna di Contemporanea Auditorio RSI, Lugano Besso Domenica 30 aprile, ore 17.30 Racconti Ensemble 900 diretto da Arturo Tamayo. Musiche di Maurice Ohana, Manuel de Falla.

Tra Jazz e Nuove Musiche Rassegna di RETE DUE Casa Cavalier Pellanda, Biasca Venerdì 28 aprile, ore 21.00 Shai Maestro Trio Shai Maestro, pianoforte Jorge Roeder, contrabbasso Ziv Ravitz, batteria

giochi@azione.ch Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate. Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite

in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi. Per aggiudicarsi i biglietti basta inviare un’email martedì 25 aprile all’indirizzo indicato, specificando la manifestazione scelta. Buona fortuna!

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino Tiratura 101’614 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio Una settimana con la Svizzera italiana Il progetto «+identità. Settimana della Svizzera italiana» è arrivato alla sua sesta edizione e quest’anno ha coinvolto gli studenti dei licei bernesi pagina 5

Ai margini Inizia a Casa Astra una serie di articoli dedicata alle persone che nel nostro cantone vivono in una situazione di precarietà pagina 6

In Svizzera un milione e 300mila persone vivono da sole. (Keystone)

Le rivendicazioni dei single

Pro Single Schweiz L’associazione nazionale di riferimento per le persone che vivono sole denuncia

alcune discriminazioni politiche e fiscali. Intervista alla presidente Sylvia Locher Roberto Porta Chi l’avrebbe mai detto, la Svizzera non è un Paese per single. Malgrado il numero di chi vive da solo sia decisamente elevato – un milione e 300mila persone, secondo l’Ufficio federale di statistica – questa categoria sociale si sente discriminata a livello politico e legislativo. È perlomeno quanto ritiene l’associazione Pro Single Schweiz, presieduta dalla signora Sylvia Locher. «Sì per noi – ci dice subito con piglio deciso questa single zurighese – nel nostro Paese ci sarebbe bisogno di una lobby che sappia farsi sentire con vigore dentro Palazzo federale». E questo è uno degli obiettivi che si è data la stessa Pro Single Schweiz. «Le persone che vivono da sole vengono spesso considerate una categoria privilegiata – continua la signora Locher – visto che di regola non abbiamo figli e nemmeno dobbiamo far fronte agli impegni e alle preoccupazioni famigliari». A ben guardare però questo è uno stereotipo che molto spesso non regge alla prova dei fatti. Il concetto di «single» raggruppa in sé diverse categorie di persone. C’è quello che potremmo chiamare il «single puro», colui o colei che in età adulta ha sempre vissuto da solo, per scelta propria o perché semplicemente così è andata la sua vita. C’è poi il «single di ritorno», chi ha avuto una

vita di coppia, magari anche dei figli, ma che dopo qualche anno, per scelta propria o del partner, si ritrova da solo. E poi c’è il «single sì ma non troppo», colui che vive da solo ma che ha comunque una relazione sentimentale con un partner che abita però sotto un altro tetto. Categorie diverse di persone che vivono sulla propria pelle il concetto di «individualizzazione della società» ma che ciononostante continuano ad avere diversi impegni sociali, nei confronti dei genitori, dei fratelli o semplicemente degli amici o dei vicini di casa. «Anche noi – afferma Sylvia Locher – contribuiamo al benessere e all’evoluzione della società attraverso il nostro lavoro, ad esempio, o il nostro impegno in associazioni di vario genere». Per questo motivo Pro Single Schweiz ritiene che a livello politico sia giunto il momento di concretizzare diverse rivendicazioni di categoria, per dare ai single ciò che è dei single. «Ci sono parecchie cose da sistemare, in primo luogo nell’ambito delle assicurazioni sociali e della fiscalità – fa notare la presidente di Pro Single Schweiz – In particolare ci disturba parecchio tutto ciò che ruota attorno all’imposta di successione. A Ginevra il single, senza figli o senza parenti stretti, che vuole destinare i propri averi ad un amico deve pagare più del 50% di imposte sul valore

della propria eredità. Ma quando l’eredità passa dai genitori ai figli allora lo si può fare senza pagare un centesimo, ed è così anche quando l’eredità viene trasmessa da un coniuge all’altro». Sempre in questo ambito Sylvia Locher ci vuole fare un altro esempio. «Prendiamo ora il canton Zurigo dove le casse cantonali nel 2015 hanno potuto incassare 250 milioni di franchi grazie all’imposta di successione, e visto che le famiglie non pagano questo tipo di imposte, ciò significa che questi soldi sono stati sborsati in gran parte proprio dai single. Malgrado questo, malgrado che i single debbano pagare più di tutti gli altri, nell’opinione pubblica la loro immagine continua ad essere la stessa, siamo visti come dei privilegiati, come persone che non portano nulla alla società in cui vivono. Calcoli alla mano è vero proprio il contrario». Per quanto riguarda l’erario va detto che l’imposizione fiscale dei single varia molto da cantone a cantone. Ci sono realtà cantonali che effettivamente penalizzano le persone sole, altre in cui a passare maggiormente alla cassa sono invece le famiglie. In Ticino, ad esempio, ma anche a Ginevra e nei Grigioni, i single con un reddito lordo di 100mila franchi pagano all’incirca il triplo rispetto alle coppie. Dalla fiscalità passiamo ora alle pensioni, un altro ambito in cui Pro

Single Schweiz ritiene che ci siano margini di miglioramento per la loro categoria. A ben guardare però per quanto riguarda la sola AVS non si può dimenticare che una coppia in pensione non riceve due rendite ma una rendita e mezzo, o se vogliamo il 150%. In questo caso a dover recriminare non sono pertanto le persone che vivono da sole ma le coppie. «Sì, è vero – ammette la signora Locher – attualmente ci sono svantaggi per le coppie in cui entrambi i coniugi hanno lavorato fino alla pensione. In tutti gli altri casi però per le coppie c’è un vantaggio evidente. Se la moglie non è mai stata attiva professionalmente riceve ugualmente una rendita, quella metà che le spetta anche se non ha mai lavorato. E se ha avuto dei figli le verrà versato anche un riconoscimento finanziario per questo sforzo educativo. Il problema si manifesta dunque per le coppie in cui entrambi i coniugi hanno lavorato, per tutti gli altri casi tocca sempre e ancora ai single finire nella casella dei penalizzati». Per Pro Single Schweiz anche la nuova riforma del sistema pensionistico non apporta le soluzioni sperate. Sul tema va ricordato voteremo il prossimo 24 settembre, dopo che lo scorso mese di marzo il parlamento ha dato il suo nullaosta a questo progetto che tocca il primo e il secondo pilastro. «Con que-

sta riforma – ricorda la signora Locher – le coppie riceveranno fino a 226 franchi in più al mese, una persona single invece 70 franchi. E questa è davvero un’ingiustizia, i single incasseranno di fatto soltanto un terzo di questo aumento delle rendite AVS su cui tanto hanno discusso le Camere federali». Non mancano dunque problemi concreti legati all’essere single, con conseguenze dirette sul portafoglio di questa categoria di persone. Ma i guai continuano anche al di fuori della fiscalità o delle assicurazioni sociali. Da single è relativamente più caro andare in vacanza, in diversi Paesi europei gli alberghi non offrono sconti per single, lo stesso vale per l’acquisto di un abbonamento generale delle FFS, non ci sono tariffe speciali nemmeno per l’abbonamento del telefonino o per le assicurazioni malattia complementari. Tutti contesti in cui le famiglie possono beneficiare di sconti particolari. «Sia ben chiaro – conclude la signora Locher – noi non siamo contro le famiglie. Vogliamo soltanto che il nostro statuto di single venga maggiormente considerato, per porre fine a queste discriminazioni». E chissà se in futuro l’uno o l’altro dei partiti politici svizzeri non inserirà nel proprio programma anche un capitolo dedicato proprio a loro.


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Società e Territorio

È bello conoscersi

Settimana della Svizzera italiana Il progetto +identità è nato

in seno all’USI e si rivolge ai licei d’Oltregottardo: intervista alla responsabile Nicole Bandion

Un’estate nella natura Famiglie I soggiorni estivi promossi

dal WWF e sostenuti da Migros propongono attività originali per tutte le fasce d’età

Natascha Fioretti

Stefania Hubmann

Dietro ai progetti che funzionano ci sono sempre belle menti e spiriti appassionati. Non fa eccezione Nicole Bandion, in passato già direttrice del Servizio Orientamento e Promozione dell’Università della Svizzera italiana, oggi totalmente dedita al suo progetto «+identità. Settimana della Svizzera italiana» nato e cresciuto all’interno dell’USI. Non temete, non si tratta di una formula matematica ma di un’iniziativa che deve la sua vitalità e riuscita alla messa in Rete di contatti umani, competenze, risorse e idee nell’intento di diffondere e far conoscere la lingua e la cultura della Svizzera italiana Oltregottardo, in particolare nei licei, sensibilizzando docenti e studenti. Giunta alla sua sesta edizione, si ispira alla «Settimana della lingua italiana nel mondo» con l’intenzione di colmare una lacuna invece presente sul nostro territorio che in passato non aveva uno o più giorni dedicati interamente alle lingue nazionali. Quali sono però le risorse, i punti forti e gli scopi del progetto ce lo racconta proprio lei, Nicole Bandion, vallesana, giunta in Ticino per caso per poi decidere di mettere radici, che abbiamo raggiunto proprio mentre era in corso la Settimana della Svizzera italiano nel liceo bernese di Kirchenfeld dal 3 al 7 aprile.

Perché non vivere il primo campo estivo con la famiglia? Pochi giorni riservati a più nuclei familiari con bambini piccoli che trascorrono il tempo vivendo in maniera sostenibile a stretto contatto con la natura. Le attività? Cucinare con i prodotti dell’orto, fare da sé pane e marmellate e ovviamente giocare e divertirsi come in ogni colonia. A proporre questo innovativo approccio sono i Campi Natura WWF, che ormai vantano una lunga tradizione anche in Ticino. Attraverso diversi tipi di soggiorni essi permettono ogni anno a oltre duecento ragazze e ragazzi fino a 17 anni di sperimentare attività originali, scoprendo luoghi del Ticino poco conosciuti. Le nuove idee giungono spesso dai giovani animatori che iniziano a impegnarsi nell’elaborazione del loro progetto già in autunno, seguendo anche un’apposita formazione del WWF. Quest’anno sono una sessantina e animeranno sull’arco di due mesi sedici campi destinati a bambini e adolescenti. Fra le novità, oltre al soggiorno per famiglie con figli piccoli (dai 5 ai 10 anni) che si svolgerà in agosto a Loco, ci sono le avventure sull’acqua da vivere in kayak. «Si tratta di un campo itinerante che partirà dall’Isola dei conigli sul Lago Maggiore per poi spostarsi sul fiume Ticino». A rivelare dettagli e curiosità della nuova proposta è Fabienne Lanini, coordinatrice dei Campi Natura WWF. «Questa esperienza è organizzata in collaborazione con il Gruppo Canoisti Ticinesi – precisa la nostra interlocutrice – per garantire sicurezza e professionalità. Anche per altre attività ci appoggiamo a enti presenti sul territorio, al quale i campi sono fortemente ancorati». In effetti il WWF, il cui programma per bambini e ragazzi può contare dal 2009 su Migros quale sponsor principale, promuove la scoperta e la conoscenza dell’ambiente da parte delle giovani generazioni affinché, crescendo, imparino a proteggerlo. Nel ventaglio di proposte per l’estate 2017 figurano, come ogni anno, alcuni campi organizzati fuori cantone. È il caso della settimana con i lama, che si svolgerà in Vallese, del campo bilingue con dieci partecipanti della Svizzera francese in programma nel canton Friburgo o ancora del trekking nel Parco Nazionale Svizzero. I Campi Natura WWF riflettono anche l’evoluzione della società, come dimostra la proposta di affrontare il tema della migrazione attraverso una colonia teatrale. Fabienne Lanini: «Anche in questo caso il tema è stato suggerito dagli animatori. Abbiamo già organizzato il campo “La natura va in

Quest’anno il progetto è giunto alla sua sesta edizione. Ci racconta in che cosa consiste?

Nasce con l’intento di far conoscere il termine Svizzera italiana e ciò che ad essa è legato e rappresenta anche Oltralpe dove si parla sempre ed esclusivamente del Ticino. In un’ottica di un più ampio discorso di plurilinguismo e lingue nazionali vogliamo comunicare il messaggio che avvicinarsi e conoscere una lingua significa anche fare proprie la cultura e la conoscenza di un territorio. A livello di pubblico abbiamo da subito compreso che i nostri interlocutori sono i giovani, i loro luoghi e i loro contesti. Dunque il progetto sin dal principio ha preso forma nei licei.

La settimana, sin dalla sua nascita, si svolge in un cantone della Svizzera, quest’anno tocca a Berna. Cosa è cambiato dalla prima edizione?

Va detto, innanzitutto, che si tratta di un progetto che si palesa in una specifica settimana all’anno ma che presuppone un percorso di preparazione e di lavoro molto più lungo nel quale interagiscono diversi attori. Per l’edizione di quest’anno abbiamo iniziato a lavorare ad agosto dell’anno scorso coinvolgendo i docenti di diversi licei e di diverse materie, arti visive, musica, italiano ma anche le mense e le biblioteche per trovare proposte e soluzioni che andassero bene per tutti e motivassero le persone a partecipare e a contribuire. La risposta è stata estremamente stimolante, infatti anziché collaborare con un solo liceo come in passato, abbiamo collaborato con 10 licei del territorio bernese. Ognuno dal suo interno ha proposto dei lavori sulla lingua e sulla cultura della Svizzera italiana che sono confluiti in un percorso unico. Risultato: il liceo di Kirchenfeld che quest’anno ospita la settimana + identità propone ogni giorno delle attività sul tema mentre gli altri licei gli dedicano un giorno della settimana. Insomma, siamo arrivati alla sesta edizione e al sesto cantone, nel cuore della sua città capitale e bilingue, con il programma più ricco in assoluto. Un’impresa resa possibile anche dal sostegno dell’Ufficio federale della cultura che sponsorizza l’evento insieme ai

Tra le iniziative anche un calendario per diffondere la conoscenza della Svizzera italiana.

cantoni di Berna, Ticino, Grigioni, e le fondazioni Oertli e Bindi.

Quanto è importante fare Rete tra le varie realtà liceali e i loro attori?

È vitale e infatti anche qui possiamo dire di avere raggiunto un importante traguardo frutto di tutti questi anni di dedizione al progetto: abbiamo creato molte connessioni, messo in contatto moltissime persone, abbiamo fatto sì che nascessero importanti relazioni e scambi ma, soprattutto, siamo stati in grado di coinvolgere ed appassionare gli studenti dei licei che sono stati contenti di poter contribuire con le loro idee e i loro progetti alla realizzazione di questa settimana dell’italianità. Il lavoro su questo territorio in particolare ha potuto approfittare di un rapporto di scambio coeso tra le varie realtà liceali e dall’interazione di persone particolarmente aperte e disponibili quali sono i bernesi. L’eco di questa iniziativa viene percepita anche in Ticino?

Certo, è importante che vi sia uno scambio tra le realtà ginnasiali ticinesi e quelle degli altri cantoni. Proprio in questi giorni due classi di Kirchenfeld sono nella Svizzera italiana per restituire un report di quanto sta accadendo a Berna. È molto importante stabilire un contatto diretto sul territorio. Per diffondere la cultura della Svizzera italiana anche oltralpe funzionano anche i gadget e le app…

Sí, abbiamo realizzato il calendario per il 2017 «365 giorni con la Svizzera italiana» distribuito a tutti gli allievi e ai docenti d’italiano dei licei e delle scuole secondarie del canton Berna coinvolte. Un vero e proprio viaggio alla scoperta della Svizzera italiana e delle sue peculiarità, per garantire continuità al progetto al di là della durata della Settimana. Il calendario naturalmente è cartaceo ma per chi ne fosse incuriosito consiglio di andare sulla nostra pagina dedicata al progetto sul sito dell’USI. Un altro progetto al quale hanno collaborato tutti i licei è invece quello

dell’app Quiz sulla Svizzera italiana, disponibile sull’iTunes store: uno strumento creato dagli studenti per gli studenti mirato a conoscere la Svizzera italiana divertendosi.

Il progetto nasce in ambito universitario ma si rivolge ai licei, perché?

Quando abbiamo pensato a questa iniziativa ero a capo del Servizio Orientamento e Promozione dell’USI e dunque ero primariamente in contatto con chi non è ancora all’università. È naturale che un progetto del genere si rivolga in primis agli studenti liceali come è anche naturale che le università comunichino e lavorino con i licei del proprio cantone e non solo. A livello personale cosa le ha insegnato sul tema del plurilinguismo in Svizzera?

Quando ero agli inizi del mio incarico di responsabile del Servizio Promozione e Orientamento, dunque diversi anni fa, per promuovere la nostra università nei cantoni di lingua tedesca o francese, mi resi conto che non aveva nessun senso girare con la bandiera dell’USI se, in fondo, nessuno sapeva per che cosa stesse USI e tanto meno fosse interessato a conoscere questa parte linguistica del territorio. Da Vallesana, giunta in Ticino per caso e poi rimasta, ho voluto fare un lavoro che affrontasse la radice del problema comunicando un messaggio molto semplice: abbiamo diverse regioni linguistiche, ognuna con la sua cultura e le sue peculiarità ed è bello conoscersi, promuovere uno scambio inteso come arricchimento e ampliamento degli orizzonti. Personalmente mi è piaciuto molto imparare e migliorare una lingua e farla diventare mia muovendomi in un paese dove ogni giorno cambio lingua. Trovo sia una ricchezza. La prossima edizione?

Dopo il coinvolgimento di tanti attori su un così vasto territorio, l’anno prossimo saremo nel Giura. D’altronde questo è il nostro obiettivo, portare il nostro progetto in tutti i cantoni della Svizzera.

Con i Campi Natura i bambini si divertono e imparano a rispettare l’ambiente. (WWF)

scena!” la scorsa estate ospitando otto giovani siriani. L’esperienza è stata davvero arricchente per tutti». Molto apprezzato anche il campo inclusivo per adolescenti (11-14 anni) che ospita quattro ragazzi disabili. «Organizziamo questo campo da un paio d’anni – precisa la coordinatrice – mettendo a disposizione un’équipe in parte appositamente formata. Divertimento, amicizia e gioia sono le parole chiave di questa vacanza immersa nella natura durante la quale si impara a conoscersi e a confrontarsi. Il campo si svolgerà all’Alpe di Pazz, in territorio di Novaggio». I campi organizzati dal WWF sono caratterizzati da piccoli gruppi (composti in genere da 10-12 ragazzi fino ad un massimo di 20) e da fasce d’età ristrette. Ciò significa che la differenza di età fra i diversi partecipanti varia di poco, soprattutto per i più piccoli. Due soggiorni di una settimana dall’impronta fiabesca sono riservati ai bambini fra i 6 e gli 8 anni e altrettanti alla fascia seguente (8-10 anni), per scoprire rispettivamente il bosco e l’alpe. Ad attirare l’attenzione di pandine e pandini, ai quali si rivolge affettuosamente il programma firmato da Fabienne Lanini e Nora Pedrazzini richiamando l’animale simbolo del WWF, sono proprio gli animali. Quest’anno si offre la possibilità di conoscere gli animali dell’alpe, ma anche di avventurarsi in scoperte particolari con i già citati lama o con i somarelli, dall’asino nano al mulo gigante. Quest’ultimo campo si svolgerà a Casserio, in valle di Blenio, e prevede quale attività principale, oltre alla cura degli animali e alle relative passeggiate, la preparazione dei pasti. «Cucinare insieme è un’esperienza centrale di quasi tutti i campi», spiega Fabienne Lanini. «Il rispetto della natura e dei suoi ritmi passa anche da un’alimentazione sostenibile. Prodotti locali e di stagione sono la base dei pasti del campo, dove tutti aiutano, imparando ad arrangiarsi anche in situazioni non sempre agevoli. Alcuni campi sono itineranti e a volte elettricità ed acqua corrente non sono disponibili». Il bello di un’avventura con i Campi Natura WWF è però proprio questo. Scoprire che si può fare a meno di diverse comodità, che l’ambiente offre inaspettate risorse e che queste permettono di vivere un’esperienza positiva nella natura. Imparare a rispettare il territorio divertendosi è, come auspica il WWF, il modo migliore per interiorizzare questa attenzione e farla crescere nelle nuove generazioni. Informazioni e iscrizioni

www.wwf.ch/campi


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Società e Territorio

L’attesa di chi non ha nulla

Ai margini – 1 Inizia con questo articolo una serie dedicata alle persone che nel nostro cantone

vivono in una situazione di precarietà. Le testimonianze sono state raccolte a Casa Astra

Laura Di Corcia

un’altra ospite: la coccola, la accarezza, la porta a passeggio. Poi si siede e l’unico rosario che conosce, che recita in silenzio, è: pazienza, attesa. Quel che mi viene da pensare non come giornalista, ma come essere umano, è che non siamo nessuno per giudicare. Lo dico anche a Francesco, che racconta tutto a scatti, tende a giustificarsi e allo stesso tempo a colpevolizzarsi, come Giorgio. Sono io che devo chiedergli, a fronte di racconti sull’uso e sul presumibile spaccio di droga, del suo passato, di come è cresciuto. «Venivamo dal Sud – mi racconta – mio padre era manesco e si riempiva di debiti. Mia madre si spaccava la schiena come donna delle pulizie, per rimettere a posto le finanze». Un ambiente difficile, che non crea le basi per una serenità futura: aggiungici le battute razziste a scuola, e il gioco è fatto. «Picchiavo gli altri ragazzini, perché mi davano del terrone. Un giorno, in terza elementare, ho spinto un compagno giù da un muretto e si è fatto male. La maestra è stata intelligente: ha chiamato le due famiglie e ha detto alla mamma ticinese: dovete smetterla di educare i vostri figli a insultare gli italiani, ci stanno dando una mano a costruire il Paese». Francesco ammette di aver bisogno di fare ordine, di schiarirsi le idee. «Ho avuto un tutore, ma è andata malissimo; mi faceva stalking, l’ho dovuto

denunciare. Ora ho bisogno di riposo, ho i ricordi appannati: sono pittore e so fare bellissime decorazioni, mi piace leggere e studiare, vorrei fare una riqualifica». Glielo auguriamo tutti. Prima di salutarlo, non mi dimentico di dirgli che è stato coraggioso a raccontarmi tutto. Poi è il turno di Mariano (nome vero), che arriva dalla Romania, ed è cresciuto in orfanotrofio, con un’educazione rigidissima; appena ti ribellavi, botte da orbi. Sono queste che ha trovato anche in Italia, nei vari dormitori che l’hanno ospitato dopo che ha seguito una donna di lui innamoratasi, una volontaria partita dalla Romania, subito rivelatasi inaffidabile e incongruente. Così inizia «la vita agra» di Mariano, che passa da un dormitorio all’altro, senza tregua, alternando anche momenti di clochardisme. «Non ce la facevo sempre a stare nei dormitori. Sono tutti violenti, devi fare quello che vogliono loro e non fiatare. Ma io non ce la faccio a stare zitto, se vedo qualcosa che non va». A Mariano piace il profumo. Perfino quando dormiva in tenda, trovava il modo di lavarsi e di essere sempre a posto, «la gente, quando le dicevo che vivevo per strada, non ci credeva». Poi c’è stato un intervento, al Niguarda, un episodio sul quale non vuole soffermarsi. «Sono cose mie – mi dice fiero – ma quel momento mi ha segnato e

sono caduto in una forte depressione. Non vedevo vie d’uscita in Italia e ho pensato che dovevo emigrare all’estero». Inghilterra: no. Amsterdam: no, «troppa droga». Allora Svizzera. E quindi Casa Astra. Così Mariano è arrivato alle nostre latitudini, portando con sé una storia di dignità e coraggio, di soprusi e riscatti. Adesso attende, spera un giorno di poter fare il parrucchiere in un negozio tutto suo, e nel frattempo ringrazia Casa Astra. «Mi hanno dato il sorriso, la loro pazienza e la voglia di vivere; quando uscirò di qui, continuerò ad aiutarli». Alim vive in Svizzera da trent’anni, e da trent’anni lavora: da quando, cioè, si è trasferito dalla Turchia, suo Paese natale. È andato tutto liscio fino a pochi mesi fa: due figli, una moglie e un divorzio. Poi, qualche forza misteriosa ha rovesciato la tavola piana su cui aveva basato la sua esistenza. Un incidente in auto, la revoca della patente, quindi il licenziamento (faceva l’autista); e poi, il mancato rinnovamento del permesso C per cavilli burocratici. Senza soldi, senza la possibilità di cercare un nuovo posto di lavoro, Alim si appoggia a qualche amico (i figli stanno in Svizzera francese, sono giovani e si stanno costruendo un futuro; non vuole esser loro di intralcio); poi non ce la fa più. Ultima spiaggia, Casa Astra. «Son tranquillo – dice – perché se non

Stefano Spinelli

Appena entri, la prima cosa che vedi e che ti colpisce sono tavoli. Tavoli con attorno sedie, tavoli lunghi, pronti a radunare cinque, sei, sette persone; tavoli che, come presenze mute, sottolineano il materializzarsi di un tempo altro, che non osserva le leggi della realizzazione personale, della rincorsa alla carriera, dello sgomitare per il proprio posto nel mondo. Qui c’è un tempo che si addensa, che sa accogliere il pianto e la fatica, la rabbia, qui ci sono un tempo e uno spazio che si srotolano davanti agli occhi degli ospiti, alle loro mani, ai gesti, ricordando due parole antiche, oggi un po’ stranianti, avulse come sono dal contesto attuale: pazienza, attesa. «Io qui non ci sto bene, voglio tornare da lei – dice Giorgio (nome di fantasia, così come tutti gli altri, a parte un’eccezione) – è lei che mi ha denunciato, è lei che mi ha buttato fuori di casa, ma io voglio tornare da lei, a casa, perché la amo». Giorgio è a Casa Astra da qualche settimana e ha alle spalle un passato di alcolismo e di violenze domestiche. «Bevevo, sì, è vero: ma quando lavori sui binari per anni e vedi suicidarsi cinque persone, le vedi buttarsi sotto il treno, non lo dimentichi tanto facilmente». Parla e piange, Giorgio, piange e parla, al punto che tutto il racconto diventa una sorta di pianto ritmato, un pianto dove talvolta è difficile separare, discernere fra realtà e fantasia, bene e male. «Mi hanno allontanato, dicono che l’ho picchiata. Ma era lei che alzava le mani su di me! Ho denunciato l’accaduto alla polizia e non mi hanno creduto. Le avrò dato al massimo uno schiaffetto; non so da dove provenga quell’occhio nero, che mi han mostrato in foto». Verrebbe da credere che sia tutto frutto della sua mente, che il colpevole sia solo lui, ma l’assistente sociale conferma la sua teoria: la casa di Giorgio era un nido di malattia e violenza (la stessa moglie prendeva farmaci pesanti), infine c’è stato un episodio grave. Ora lui una casa non ce l’ha più, e passa le giornate con la cagnetta di

Stefano Spinelli

In questo viaggio vogliamo parlare di chi non sta al centro delle cose, ma resta in disparte. Da quell’angolazione, però, vede altro, rimesta i fondi di quell’edificio che chiamiamo società. Vogliamo ficcarci il naso, raccontare le loro storie, ascoltarli, prenderli per mano, cercare di capirli, riportarli a voi lettori. Spalancare, attraverso questi racconti, nuove prospettive sul nostro territorio.

mi han cacciato fino ad ora, non mi cacceranno più». Vive sospeso, Alim, dice di aver sempre lavorato, sempre pagato le tasse, e di trovarsi con un pugno di mosche in mano; è arrabbiato, anche con chi lavora dietro gli sportelli, perché non mostra nessuna umanità. «Non ho mai pensato all’alcol e alle droghe; non mi piacciono quelle cose, e poi non avevo tempo, perché lavoravo». È arrivato in Svizzera seguendo il padre, che lavorava nei Grigioni. Lo chiama «il mio povero padre». «Potrei pensare di rientrare in Turchia, ma che cosa farei? Ormai anche lì sono uno straniero». Si sentono stranieri dappertutto, gli ospiti di Casa Astra, sono frastornati, scivolano sui margini, li fanno propri, e poi li perdono di nuovo. Ma quello di cui parlano sempre, tutti, è lo strano abisso che si viene a creare sul confine fra bene e male. «È una scelta – dice Mariano. Io scelgo di non fare del male agli altri». Non sono cattivo, sembrano dire, non è colpa mia. Pazienza, attesa. E forse, in fondo, un po’ di speranza. Io e il collega Stefano usciamo di lì con la stessa consistenza della nebbia, non commentiamo nulla, ognuno si ficca in auto e torna a casa. Le loro parole non ci abbandonano, rimangono lì, a girarci in testa, come animelle fragili di un Purgatorio che è lì, dietro l’angolo.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Annalisa Strada, Il principe sul pisello, Coccole Books. Da 6 anni Ma quanto è viziato il principino Battista? Maggiordomi, valletti, cameriere fanno tutto al posto suo (anche i gargarismi) e obbediscono ad ogni suo capriccio. Persino ciò che di bello accade al mondo, pensa Battista, accade per lui. «Ora vorrei uscire a vedere un po’ gli uccellini che volano per me in cielo!». E solo per lui: «Non voglio che vediate lo spettacolo della migrazione, che le rondini lo fanno solo per me!». Quando arriva l’annuncio della sua imminente incoronazione come re, Battista attende i messaggi di congratulazioni da parte di tutta la corte. Ne arrivano più di diecimila, grondanti lodi («Sei il più bello, il più grande e il più simpatico!»), tranne uno, scritto su un foglietto di carta da formaggio usata e racchiuso in una busta «color cagarella», su cui c’è

scritto: «Io non sono sicura che sarai bravo come re...». Chi può essere stato? Battista è furibondo, non si dà pace, e si mette ad indagare. Quello che scoprirà gli sarà molto utile a imparare a vivere. Oltre che a diventare davvero degno di fare il re. Un piccolo libro (con illustrazioni di Laura Désirée Pozzi) perfetto per i primi lettori, dove ancora una volta emerge il talento di Annalisa Strada, capace di efficacia su tutti i registri narrativi e su tutti i ritmi di narrazione, dal romanzo intenso per adolescenti alla misura breve del racconto

per la prima infanzia, sempre sorretta da un senso dell’umorismo intelligente e sottile, ma anche immediato e in grado di suscitare grandi risate. Come non divertirsi di fronte alle iperboli che raccontano l’arroganza del principino? Un messaggio etico, come nella migliore satira, trasmesso con leggerezza e con il sorriso. Il titolo rimanda al mondo delle fiabe con un ironico capovolgimento di genere (come già in un altro bel titolo di Annalisa Strada, La bella addormentata è un tipo sveglio, Piemme). La collana, in stampatello maiuscolo, è dedicata ai primi lettori: «Libri per Prima». Manuela Monari, Evelyn Daviddi, Tutto in un abbraccio, Zoolibri. Da 3 anni È uno di quegli albi in cui, più che una storia, ciò che avviene è un dialogo, poetico e filosofico nella sua sempli-

cità, tra un genitore e un cucciolo. Un dialogo molto affettivo, che prende il tempo di chinarsi sulle grandi domande dei piccoli. Un «prendere il tempo», indicato molto chiaramente sin dal ritmico incipit del testo di Manuela Monari: quattro frasi brevi, semplici e solenni, come passi, che culminano appunto nell’ultima («Il bosco è una macchia d’autunno. Rosso, giallo, arancio, ora. Scricchiolii di tane e di foglie. Passi lenti sul sentiero.»). I passi sono quelli di Papà Orso e del suo cucciolo, ma questo ce lo dice la bella illustrazione di Evelyn Daviddi. Non

c’è mai ridondanza tra parola e immagine, ma perfetta complementarietà e ritmo. È un abbraccio anche il loro, quello del testo e delle illustrazioni, proprio come è un abbraccio, secondo Papà Orso, tutto ciò che esiste nell’universo. Il tema del libro, fin dal titolo, è proprio questo. Dal mondo della fisica (i gas e le polveri cosmiche che si abbracciano per formare le stelle) a quello metaforico (il sole abbraccia la sera), a quello che dà vita ad ogni cosa («allora anch’io sono nato da un abbraccio!»), persino alle idee capaci di cambiare il mondo, che nascono quando i pensieri abbracciano i sogni. Tutto nasce da un abbraccio. Niente e nessuno è un’isola. Un libro da leggere e rileggere con calma, per pensare e sognare. Un libro da concludere, come fanno i due protagonisti, con un tenero abbraccio letterale, antidoto perfetto al «vento forte» che a volte si alza e ci scompiglia, nel bosco come nella vita.


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Giappone: quarto movimento Il metodo di ricerca altropologico prevede che le primissime, superficiali impressioni di una cultura nuova e diversa siano cruciali per la comprensione futura. Caotiche, confuse e confondenti che siano, le annotazioni dell’altropologo allo stadio infantile diventeranno cruciali, nella fase adulta della comprensione, per cogliere il senso profondo dell’alterità che apparve in prima battuta opaca, impenetrabile. Così ragionava il Vostro, ex-post factum, mentre passeggiava nell’area del porto antico di Kobe qualche settimana fa. Porto Garibaldi, sulla costiera adriatica romagnola, è base di una flotta peschereccia seconda in zona solo a Chioggia. Come tutti i porti di mare quello intitolato a Garibaldi è… appunto: un porto di mare. Detriti un po’ dappertutto, avanzi di pescato in eccesso anche della quota parte dei gatti, frammenti di cassette di polistirolo per il trasporto del pesce… insomma: un generale senso di disordine organizzato condito coi versi sgraziati dei gabbiani e quell’afrore di mare un po’ stantio che è – peral-

tro – parte del fascino di posti come quello. Bene: a Kobe tutto il contrario. I pescherecci che attraccano in banchina per scaricare il pescato sembrano salotti di un dipinto di Watteau: puliti, lindi spic e span – mancano solo le damine in crinolina. Come facciano non lo si capisce. E nemmeno puzzano di pesce: che lo lavino a mare prima di sbarcarlo? Gabbiani poi pochi o nulla: io dico che sono morti di fame. Insomma, un mistero. Mistero ancor che si infittisce nelle strade dell’angiporto: non una carta, non un frammento, una lattina, un avanzo, una cicca: nada de nada. E, si badi, non si tratta della pulizia – peraltro anch’essa proverbiale da questa parte del mondo – di un Cantone confederato. Si perché da noi – ovvero da voi – ci sono cestini dei rifiuti di ogni foggia, capienza e funzione ogni tre per quattro. Con relativo, discreto ed invisibile esercito di addetti alla pubblica pulizia operativo (suppongo, perché non li si vede mai) nottetempo, come i commando dei marines. La cosa straordinaria del Paese del Tenno è che

di contenitori dei rifiuti di qualsiasi ordine e grado non si vede l’ombra: non un cestino, non un bidone… Come facciano non si capisce. Anche perché se c’è un’attività nella quale i nipponici eccellono è quella dell’incartare qualsiasi cosa nella maniera più complicata ed esteticamente squisita: altroché gli imballi di Christo. Dove finiscano i sei strati che rivestono – in media – una caramella non è dato sapere. E poi: a mezzogiorno e mezza in punto spuntano per ogni dove banchetti volanti che vendono scatole di plastica trasparente con dentro, allineati e coperti, sushi e quant’altro andrà a costituire la magra razione del lavoratore medio. All’una e dieci è tutto finito. Svaniti i banchetti i marciapiedi tornano immacolati. La prima ipotesi è che i rifiuti vengano consumati. Ma è un’ipotesi che non regge. O forse vengono messi in tasca – ma se così fosse dovrebbero esserci tasche come marsupi, e anche quello è da scartare. La terza è che vi sia un sistema ancora a noi sconosciuto che conosce e può praticare solo chi vive dentro

una cultura radicata nella concezione profonda che vede tanto nell’Armonia come rifiuto del disordine e della confusione quanto nel correlato di quella che distingue il Puro dall’Impuro uno dei pilastri dell’Ordine Cosmico. Prendete un giardino karesansui (quello che da noi si chiama impropriamente «Zen»). Qui gli elementi «naturali» che lo compongono sono ridotti all’osso in senso letterale: pietre arrangiate in schemi, alberi potati ed invitati a crescere in un certo modo – il tutto organizzato attorno ai templi Shinto cosicché uno non capisce più bene dove finisca il giardino (il «fuori») e dove cominci il tempio stesso («il dentro»). Che è poi la stessa logica delle culture bonsai: un addomesticamento della Natura che è allo stesso tempo una naturalizzazione della Cultura. Operazione che si compie secondo un canone estetico ben diverso – mettiamo – tanto dal giardino rinascimentale all’italiana quanto dal giardino-paesaggio all’inglese. Se nel caso occidentale l’intento è di imporre – pur secondo modalità diverse per non dire

divergenti, un’ordine culturale sulla natura, l’intenzione giapponese sembra essere quella di creare un terzo elemento che non sia «né di qua, né di là» ma che armonizzi, invece, in una sintesi originale, le due componenti secondo un ordine nuovo. È noto come i giapponesi – al contrario degli «occidentali» almeno dall’ Età dei Lumi – non siano grandi praticanti del trekking – o anche solo delle passeggiate in montagna. Come i giardini, i bonsai e le fioriture primaverili dei ciliegi – la sintesi di cui sopra non è materia di «pratica» (il giardino karesansui si contempla da punti prestabiliti, non si «passeggia») bensì di contemplazione. Da qui – mi sembra di capire – anche la prospettiva «piatta» dei paesaggi delle stampe giapponesi. Un modo di vedere che non invita a «penetrare la distanza» entrandovi dentro così come succede dal Rinascimento in poi nell’arte occidentale. Piuttosto ci si immagina un «punto di vista» che tale rimane, immobile e contemplativo, su di un Monte Fuji sul quale chissà se sia mai salito nessuno…

tener presente la situazione complessiva, il contesto in cui il bambino cresce, che non è un dato di fatto immutabile. Teniamo presente che viviamo nella società della fretta, per cui dobbiamo trovare più tempo da dedicare ai nostri figli, che abbiamo paura del futuro per cui si tratta di dar loro fiducia e speranza. Insomma, la prima cosa è lavorare su di noi, diventare genitori consapevoli, competenti, responsabili, cercando di non esagerare nel difenderli dal mondo esterno, di non ergersi ad avvocati difensori contro tutto e tutti. Il genitore che critica l’insegnante, litiga con l’allenatore, seleziona gli amici dei figli, decide per lui gli sport, le vacanze, l’indirizzo scolastico, gli proibisce di mangiare qualche volta con gli amici cibi non dietetici, agisce indubbiamente per amore. Ma anche l’amore può essere eccessivo. In anni di crisi la competitività, che

anima ogni società, tende a esasperarsi inducendo gli educatori a sottovalutare i desideri, i talenti, le disposizioni dei figli. Temono che, scegliendo corsi di studi letterari o artistici, si troveranno poveri e disadattati. Ma nessuno è infelice come chi fa un lavoro che non gli piace, chi ha dovuto rinunciare alle sue aspirazioni, in altre parole «a non vivere per sopravvivere». Per riflettere insieme, senza precipitare subito nella risposta rassicurante, suggerisco di leggere il bel libro di Daniele Novara e Silvia Calvi: L’essenziale per crescere. Educare senza il superfluo, Mondadori.

avviene nella più democratica India, dove i Versi satanici di Salman Rushdie rimangono sempre vietati, mentre cresce la diffidenza verso autori stranieri, incapaci «per motivi religiosi» di capire il Paese. E di questo diffuso clima di nazionalismo, tipo «prima i nostri» a livello mondiale, fanno le spese i libri, messi al bando per motivi a volte pretestuosi, persino ridicoli. E non soltanto sotto un regime autoritario o dittatoriale. Anche nelle democrazie non mancano esempi di divieti grotteschi, dovuti, però, non tanto a interventi governativi quanto alla suscettibilità e al moralismo di singoli cittadini. Negli USA, furono associazioni di genitori a chiedere l’eliminazione di Harry Potter dalle biblioteche scolastiche, perché «accusato di occultismo». A sua volta, è finito sotto processo un classico quale La capanna dello zio Tom: conteneva l’impronunciabile parola «nigger» e, sempre in America, Il diario di Anna Frank fu giudicato «scioccante» perché l’autrice vi «descriveva il suo corpo».

Con ciò, non tutti i libri meritano l’assoluzione incondizionata. E qui si apre un discorso delicato, che vede protagonista Mein Kampf, proibito in Germania fino allo scorso anno, e ora liberamente in vendita, e a quanto pare con successo. In ogni caso non figurerà fra i 100mila volumi «proibiti», con cui l’artista argentina, Marta Minujin, costruirà un nuovo Partenone, che sarà al centro della prossima edizione di «Documenta», a Kassel, a partire dal 10 giugno. Si tratta di un singolare edificio che sfrutta un materiale, in apparenza fragile, in realtà indistruttibile: le opere di autori, illustri e sconosciuti, che furono, e continuano a essere, le vittime dell’oscurantismo politico e culturale. Sono stati raccolti, catalogati e, ovviamente, protetti con un involucro di plastica, dagli studenti dell’università di Kassel, e destinati a un doppio obiettivo: da un lato, non dimenticare il passato ma, dall’altro, preoccuparsi del presente. La carta stampata è più che mai in pericolo.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Educare nella società del troppo A un recente Convegno di Psicologia dell’età evolutiva, con la simpatia immediata che contraddistingue certi incontri tra donne, una partecipante non esita a confidarmi il senso di smarrimento che prova di fronte alle modalità educative adottate dai suoi figli ormai adulti. «Sono una professoressa in pensione – esordisce – e benché abbia avuto ben cinque figli, tre femmine e due maschi, ho sempre trovato il tempo per occuparmi di loro, sia dal punto di vista fisico, sia da quello educativo. Ma ora che i primi tre sono diventati a loro volta genitori, mi sento spaesata. Tutto quello che ho messo in pratica con successo, almeno mi pare, non funziona più e, quando esprimo il mio punto di vista (sempre su richiesta), mi sembra di parlare una lingua straniera. Che cosa è accaduto negli ultimi vent’anni?».

Un cambio di secolo innanzitutto, anzi di millennio: uno snodo epocale in cui tutto è mutato e così in fretta da lasciarci frastornati e privi di riferimenti. Difficile enumerare i cambiamenti ma, prima di tutto, porrei le trasformazioni del lavoro. Per le giovani coppie, con uno o due figli, garantire un reddito economico sufficiente per le esigenze familiari è diventato un compito talmente impegnativo da condizionare tutti gli altri. Quando entrambi i coniugi lavorano fuori casa , con orari così lunghi da farli sentire in colpa rispetto alle esigenze dei bambini, cercano di rimediare alla loro assenza colmandoli di cose – mobiletti, giocattoli, vestiti, dolciumi – che simbolizzino il loro affetto. Ma così facendo spengono il desiderio e inibiscono la domanda per cui tutto diventa indifferente e superfluo. Poiché amano i lori figli e vorrebbero

evitare che soffrano, li tutelano e li proteggono sino a negargli ogni spiraglio di libertà. I bambini di oggi crescono sotto lo sguardo vigile di educatori che programmano le attività, prescrivono il comportamento, escludono qualsiasi alternativa. Ma senza mettersi alla prova, senza tentare e rischiare non si cresce. Questa è la società del troppo, come simbolizzano i corpi pieni, che colmano ogni fessura, rappresentati da Botero. A uno sguardo generale, che non si smarrisca nella frammentazione dei problemi e dei consigli occasionali, risultano evidenti due considerazioni: quando vogliamo modificare i comportamenti di un bambino, non possiamo svitargli la testa e sostituirla con un’altra, come si fa con una lampadina. Ciò che possiamo fare è cambiare il nostro rapporto con lui. Ma perché qualcosa possa mutare davvero occorre

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Quando e dove i libri diventano nemici È stato, senza dubbio, uno dei roghi più simbolici e premonitori della storia moderna: il 19 maggio 1933, a Berlino, i nazisti bruciarono, sulle piazze, centinaia di volumi, ritenuti veicoli di idee sovversive e immorali, e quindi una minaccia per l’integrità della madre patria germanica. Vi figuravano opere di scrittori illustri, fra cui Heinrich Mann, il figlio di Thomas Mann, Heinrich Maria Remarque, autore di un bestseller dell’epoca, Niente di nuovo sul fronte occidentale, poi emigrato ad Ascona, e persino la leggendaria Helen Keller, sordocieca, impegnata sul fronte dei diritti umani. Tuttavia, non si può parlare di una primizia. La svastica, se aveva tragicamente attualizzato l’evento, non rappresentò un marchio esclusivo. Sotto altre etichette, persino quella del Vaticano, con l’Indice dei libri proibiti, (introdotto da Papa Paolo IV e abolito dalla Congregazione per la dottrina della fede, nel giugno 1966), questa forma di censura ha accompagnato le sorti della carta stampata, sia

quella dei giornali sia dei libri, coinvolgendo la letteratura che conta, e per questo più temibile. Come, appunto, testimoniano le reazioni di chi detiene il potere, e tanto più se assoluto. «Certi libri sono più pericolosi delle bombe» dichiarava, recentemente, il

Un monumento a Berlino celebra l’invenzione della stampa di Gutenberg.

presidente turco Erdogan, per giustificare l’arresto di scrittori, accusati di minare l’ordine pubblico e favorire il terrorismo. Sta di fatto che, sotto mentite spoglie, con il pretesto di tutelare le identità tradizionali, insidiate dall’occidentalizzazione, nel mirino di questi tribunali finiscono, evidentemente, scrittori indipendenti, che rivendicano la libertà d’espressione e la ricerca di linguaggi innovativi. Gli esempi, in proposito, ormai si sprecano. Ecco il caso di Hong Kong, dove case editrici e librerie, accusate di pubblicare e vendere libri critici nei confronti di Pechino, hanno dovuto chiudere. Anche la Cina, si dimostra commercialmente aperta e culturalmente chiusa: il Nobel per la pace Liu Xiaobo è agli arresti dal 2009, mentre si alzano barriere per limitare le importazioni di una merce subdola quale, appunto, le pagine stampate. Cominciando da quelle per l’infanzia: la popolarità di Pippi Calzelunghe e dell’Orso Pooh, modelli stranieri, allarma gli educatori di regime. Come


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Ambiente e Benessere La dolcezza dell’Icewine Vale la pena di provare i favolosi «vini di ghiaccio», rari bianchi prodotti in Canada

Cucina: più che arte, artigianato Se l’arte per definizione non è riproducibile, un piatto può essere rifatto e persino migliorato

Nuove strategie per la vite Ecco come affrontare le sfide più rilevanti garantendo una viticoltura più ecologica

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Un ricco menù sportivo Dalle partite di hockey a quelle di calcio per finire con le attività di Roger Federer pagina 19

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Paesaggio ferroviario tra St. Moritz e Zermatt: chissà se l’esempio delle FFS verrà seguito anche dalle Ferrovie Retiche e dalla MatterhornGotthard-Bahn. (Keystone)

Lunga vita al gregge!

Mondoanimale Instancabili lavoratrici ligie al dovere, le pecore tosaerba delle Ferrovie federali svizzere

fanno scuola oltre confine Maria Grazia Buletti Circa 2700 ettari di scarpate lungo la rete ferroviaria (pari a 3800 campi di calcio) da falciare, 22 ore di lavoro, 2 ore di riposo, 10-20 metri quadrati al giorno e 80 pecore. Dal 2015 queste ultime sono le instancabili «operaie tosaerba» delle Ferrovie federali svizzere (FFS). Risale a qualche anno fa la pensata delle FFS quando ingaggiò un gregge di pecore per mantenere pulite le tratte ferroviarie e le loro scarpate, liberandole da sterpi ed erbacce: «Un sistema semplice ed economico», affermano gli addetti ai lavori. Le «lavoratrici lanose» sono già state impegnate in precedenza, sempre dalle Ferrovie federali svizzere, per «falciare» più di 6mila ettari di terrapieni erbosi lungo le tratte ferroviarie del Paese. Sono passati quasi un paio d’anni da quando, nel presentare le originali collaboratrici, il portavoce delle FFS Daniele Pallecchi ha annunciato: «Abbiamo un totale di 80 pecore impiegate con la nostra società e non è dunque una sorpresa se i nostri percorsi ferroviari sono molto puliti». E pare proprio che la pecora si sia rivelata migliore del tosaerba, rispetto

al quale presenta parecchi vantaggi: «In primo luogo, le pecore al pascolo favoriscono la biodiversità». Difatti, esse non estirpano tutto come una macchina e perciò continuano a crescere differenti tipi di piante erbacee. «In secondo luogo, le pecore hanno cura del terreno, mentre i tosaerba possono causare danni al tappeto erboso e alla vegetazione, soprattutto se usati su scarpate particolarmente ripide». Il terzo e ultimo motivo che ha convinto le FFS nell’impiego delle pecore risiede nella loro elegante discrezione: «Sono meno rumorose del tosaerba, e sono molto più carine!». Pensando al fatto che ogni pecora è attiva per circa ventidue ore al giorno, su una superficie delle dimensioni di una grande camera, nasce spontaneo il sospetto che il gregge debba lavorare parecchio. Troppo? Le FFS fanno sapere che le pecore, in realtà, non lavorano affatto: «Vivono e fanno ciò che qualsiasi altra pecora fa: si muovono e brucano, poi si stendono continuando a ruminare». Proprio per questo pare svolgano il loro compito «di buon grado», in sintonia con la loro indole naturale, senza forzature da parte dell’essere umano. Si tratta di 80 capi di razza Skudde:

«Un’antica razza minacciata di estinzione negli anni Settanta». Sono pecore robuste, si adattano facilmente e preferiscono un’alimentazione variata: «Amano nutrirsi di cibo magro, ricco di fibre, selezionato tra diverse specie, proprio come si presentano le scarpate lungo i binari». Le pecore Skudde sono una razza protetta da Pro Specie Rara e in Svizzera sono piuttosto rare. Un ulteriore motivo d’orgoglio per le FFS che, impiegandole in questo nobile compito di pulizia, favoriscono la conservazione della razza. Vien da chiedersi se il lavoro così prossimo ai binari e al passaggio dei treni sia sicuro, e le pecore non siano in pericolo. Ma anche su questo aspetto le rassicurazioni delle FFS non tardano ad arrivare: «Si muovono lungo le rotaie, ma non sussiste alcun pericolo che esse riescano a giungere sui binari e nemmeno nelle loro adiacenze, in quanto il “luogo di impiego” è protetto da un sistema di recinzione rinforzato da una rete di contenimento neve nei punti più pericolosi». Come se non bastasse, la recinzione è composta da corde con fili in metallo intrecciati ed è percorsa da corrente, in modo che esse desistano dal provare a sfondarla: «Le pecore riman-

gono così al sicuro, sul prato». E non si lasciano quasi mai disturbare: «Imparano velocemente se un rumore significa o meno pericolo e quando passa un treno continuano a pascolare tranquillamente». Scopriamo che, stranamente, esse non sono sensibili al rumore e perfino il 1° di agosto non si spaventano di fronte ai fuochi d’artificio e ai razzi. «Ciò che tuttavia non tollerano sono i cani che abbaiano». Coraggiose e noncuranti dei passaggi del treno, le pecore continuano imperterrite a brucare e a «tosare» le scarpate, facendo gioco di squadra: «Vivono in gregge e non sopravvivrebbero separate, perché da sole avrebbero paura e soffrirebbero di stress fino al punto di mangiare poco e ammalarsi, col tempo». Le FFS non hanno interesse che mangino poco, perciò le loro pecore tosaerba vivono in greggi di almeno dieci capi, anche se può accadere che pascolino in gruppi fino a 50 soggetti. E sono pure resistenti alle intemperie: «Quando è caldo lasciano ciondolare la testa, ma non sono tristi o sofferenti». Pare si tratti di una difesa: «L’aria vicina al suolo è più fresca e, dunque, prediletta dalle pecore che, in caso di pioggia batten-

te, si ritirano in un rifugio o rimangono ferme in posizione in modo da impedire che l’acqua penetri nel loro manto di lana a causa del movimento». Con quest’iniziativa originale delle FFS, la Svizzera ha fatto scuola insieme alla Francia, tanto che già da qualche anno l’impiego delle greggi di pecore tosaerba è presente anche in qualche luogo della vicina Penisola. Ad esempio, il comune di Ferrara ha ingaggiato un gregge di pecore per tagliare l’erba del Sottomura, alle porte della città. Un altro gregge, col proprio pastore bresciano Massimo Freddi, è addirittura arrivato a Ponti Spagna, nel Bondenese. E a Lodi, sempre nel 2015, la giornalista Silvia Canevara ha deciso di dare una svolta alla sua vita, dando via al progetto Pecorelle (pecorelle.it), insieme ai suoi lanosi toserba a quattro zampe che si sostituiscono ai mezzi meccanici nella manutenzione dei campi. Stendhal disse che il pastore cerca sempre di convincere il gregge che gli interessi del bestiame e i suoi sono gli stessi. Pare che le Ferrovie federali svizzere e i pastori italiani di cui abbiamo avuto notizia abbiano fatto lo stesso, pensiamo, con grande soddisfazione anche da parte degli ovini.


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Ambiente e Benessere

L’origine della viticoltura canadese Bacco giramondo Fu un caporale tedesco delle guerre d’Indipendenza americane a impiantare

il primo vigneto vicino a Toronto: era il 1811 Davide Comoli Come tutti sappiamo, i pregiudizi hanno vita lunga, ed è per questo che i vostri interlocutori vi guarderanno in modo strano quando voi parlerete della vostra degustazione di vini canadesi. Non tutti, infatti, hanno mai provato i favolosi Icewine, il «vino di ghiaccio», un raro vino bianco dolce di cui il Canada è il più grande produttore. Ogni anno nella regione dell’Ontario e nella ColumbiaBritannica, le temperature sono così basse, che le uve tardive gelano sui tralci; gli acini congelati sono così pressati con una tecnica speciale. I vitigni privilegiati per la produzione di questo costoso nettare sono: il Riesling e l’ibrido bianco dalla buccia molto spessa chiamato Vidal. Può sembrare infatti paradossale trovare circa 200 produttori di vino in un paese universalmente conosciuto per il rigore e la lunghezza dei suoi inverni. Eppure, di fatto, oggi, il Canada è il secondo al mondo per superficie vitata, con i suoi oltre 5mila km che vanno da est a ovest con poco più di 10mila ettari vitati. Se credete alle saghe norvegesi, fu l’esploratore vichingo Leif Erikson che – sbarcando sul continente americano nel 1001 – trovò delle vigne con i suoi frutti e battezzò queste terre con il nome di: «Vineland». Si trattavano sicuramente di viti selvatiche, ma la storia del vino canadese non è comunque così antica. Fu Johann Schiller, un caporale te-

desco che aveva combattuto nelle guerre d’Indipendenza americane, il padre della viticoltura canadese. Nel 1811 Schiller ebbe in concessione (come pensione) un terreno ad ovest di Toronto, dove, con ceppi di vite selvatica (labrusca) trovate sulle rive del Credit River, creò il suo piccolo vigneto e incominciò a vinificare e vendere il vino prodotto ai suoi vicini. Trentacinque anni più tardi, il podere fu acquistato da un aristocratico francese, Justin de Courtenay, il quale, senza successo, aveva provato a produrre una specie di rosso di Borgogna a Quebec. La prima vera impresa commerciale vinicola nasce in Canada nel 1866, quando tre gentlemen farmers provenienti dal Kentucky, acquistarono delle terre sull’Ile Pelée (lago Eire) all’estremo sud del Canada e impiantarono 12 ettari di ceppi di uva Catawba. Qualche mese più tardi, nella stessa zona, due fratelli inglesi, Edward e John Wardoper misero a dimora il loro vigneto di 6 ettari. I vitigni abilmente selezionati e idonei all’ambiente arrivarono dagli Stati Uniti e appartenevano tutti non alla vitis vinifera europea, ma alla vitis labrusca. Erano, e sono tutt’ora coltivate, il Concord, il Delaware, il Creveling, il Niagara, il Catawba, il Rebecca e il Salem. È importante sottolineare che queste uve presentano un sapore caratteristico, che a suo tempo i francesi battezzarono con il nome di: queue de renard (coda di volpe) e i coloni inglesi fox grape (uva di

Vigneti nella regione vinicola della Nuova Scozia, Canada. (Gavin Langille)

santa perché i vitigni ibridi come Vidal, Baco Noir, Maréchal Foch, così come i vitigni europei tradizionali, cominciassero a poco a poco a rimpiazzare le varietà di vitis labrusca. E fu solo nel 1988 che nacque la Vinters Quality Alliance, un sistema di denominazione instaurato dalla regione più importante di produzione del Paese, l’Ontario, seguito dalla Columbia-Britannica che ha dato ai vini canadesi un buon livello di qualità. L’inverno è il principale fattore che limita la produzione vinicola: le temperature possono toccare i -20° C. La penisola del Niagara è sulla stessa latitudine della Toscana, ma non gode degli stessi benefici. I Grandi Laghi forniscono però una certa protezione dai freddi dell’inverno e soprattutto dalle gelate di primavera. I terreni variano, dalle ghiaie e ciottoli dell’Ontario a terreni sabbiosi e ricchi di sostanze organiche e argille.

volpe). In effetti il loro aroma è particolarmente spiccato e inconfondibile. Poco a poco le vigne furono impiantate verso la penisola del Niagara (43° parallelo) dove oggi troviamo la maggior parte degli impianti, e nel 1890 in Canada si trovavano 35 cantine che vinificavano. Bisogna però ammettere che, più dei coloni, fu la Chiesa a incoraggiare la viticoltura e l’arte della vinificazione. I canadesi consumano più vino per abitante dei loro vicini americani. Più della metà del vino prodotto è bianco (come gli Icewine), ma i rossi stanno guadagnando terreno. Anche i vini prodotti con ceppi europei cominciano ad avere un certo successo, ma di certo non arriveranno mai ad accumulare le medaglie d’oro vinte nei concorsi dai favolosi «vini di ghiaccio» canadesi. Si dovette attendere gli anni Ses-

La viticoltura in Canada si concentra in aree al riparo dai rigori invernali, in quattro zone principali. La più importante, come detto, è la zona dell’Ontario che risente dell’influenza del lago omonimo e del Lago Eire. In questa zona si producono circa i 2/3 del vino dell’intero Paese. Il clima, nonostante la latitudine sia quella della zona del Chianti e della Languedoc, è molto più simile a quello dell’Alto Adige o della Borgogna. In annate particolari si producono eccezionali Chardonnay o Riesling tra i bianchi, e discreti Pinot Neri e Gamay tra i rossi. Ma dopo una buona cena godetevi il resto della serata bevendo (servito freddo tra gli 8-10° C, ma poi lasciato riscaldare lentamente) un Icewine, prodotto con solo uve Vidal, forte, complesso, con note fruttate di pesche, melone, albicocche e miele… indimenticabile! Nella Columbia-Britannica, e più precisamente nella valle di Okanagan, prevale un clima quasi desertico, piove pochissimo e c’è bisogno d’irrigazione; si trova all’altezza dello Champagne. Qui si punta molto sui vini rossi prodotti con ceppi francesi. Il Quebec è la regione meno favorevole alla viticoltura e in inverno i ceppi di vite sono ricoperti di terra per proteggerli dal gelo. Nella Nova Scotia i 100 ettari di vigneto hanno un ciclo vegetativo molto breve (per forza di cose) per cui qui troviamo vecchi vitigni russi come il Michurinetz, il Severny (che è un ibrido) e altri cloni a maturazione rapida. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

La cucina è un’arte? Sono giornalista e autore di libri di cucina. Quindi sono sempre in giro per l’Italia a presentare libri, miei o di altri, ma anche a dare lezioni di cucina: una cosa che mi diverte tantissimo, perché il saper spadellare è stato, è e sempre sarà, la base del pensiero gastronomico.

«No, non è un’arte. E non va mescolata ad altre forme artistiche. È molto di più: è una forma di cultura superiore» Nei tanti incontri che ho avuto in questi anni ho sempre amato dialogare con chi mi ascoltava con un interesse partecipativo, che è il modo migliore per rendersi utili agli altri. Quindi tante domande, di tutti i tipi, alle quali ho sempre cercato di farmi trovare pronto a rispondere. L’esperienza mi ha insegnato che prima o poi, alla fine, viene sempre fuori una domanda: «Ma la cucina è un’arte?». Il più delle volte è sottointesa «l’alta cucina», ma a volte si parla di tutti gli insiemi di fenomeni che chiamiamo «cucina». La mia risposta è sempre immediata: no, non è un’arte. Né è bene mescolarla ad altre forme di espressione artistica. È molto di più: è una forma di cultura superiore. Esatto: è superiore a tutte le altre, o quasi, per un motivo ben preciso. Intellettuali e scrittori possono permettersi – certo non sempre, ma concedetemi di generalizzare – di dribblare il mondo al quale appartengono, di non affrontare un confronto diretto e in qualche modo decisivo per le loro opere, per il loro pensiero. Tutto viene riversato in un libro, e l’unica sfida è trovare un editore che lo pubblichi, e prima o poi lo si trova. Una partitura deve trovare il suo esecutore, e prima o poi lo si trova. Ma

le storie, le riflessioni, le musiche si riescono a concepire anche nel chiuso di un microcosmo, nello spazio, più o meno difeso, della propria interiorità. Sarà poi il destino, che non è mai cinico e baro, a collocare le creazioni dell’ingegno nella giusta posizione. Ben diverse sono le discipline dove da subito devi confrontarti col tuo mondo. Penso all’architettura, in cui devi convincere un committente e le autorità preposte – parlo di edifici costruiti, non di progetti. Penso appunto alla cucina, dove hai voglia di progettare e costruire fughe in avanti, ma devi poi confrontarti, giorno dopo giorno, con un pubblico difficile, spesso competente quanto te. Devi convincerlo che vale la pena di spendere una cifra che è generalmente molto superiore al costo di un romanzo per godere dei piatti che hai preparato. Se la fuga in avanti è eccessiva, rischi la stroncatura, e giustamente. Se è insufficiente, finisci nel dimenticatoio. Se invece riesci a entrare in sintonia con il pubblico, stando un passo, non di più, davanti a lui, allora hai successo, quello vero. Riuscendo magari alla fine a influire – modificare è una parola eccessiva – su quell’immenso pachiderma inamovibile che è la cultura legata al cibo e al modello di gusto che ne consegue. Ma questo è un merito che condividi con il tuo pubblico, solo questa sintonia ti permette di diventare qualcuno. Ed è proprio questa condivisione – meglio: la lotta per questa condivisione – che rende la cucina una forma superiore di cultura. Poi, una cosa va detta: l’arte per definizione non è riproducibile; se ridipingi la Monna Lisa fai un esercizio manuale forse utile a te ma culturalmente nullo. Invece un piatto che hai assaggiato o di cui hai la ricetta, puoi tranquillamente rifarlo, riprodurlo, anche cercare di migliorarlo. Ma questo è un lavoro tipico non dell’arte ma dell’artigianato. Sì, la cucina è una forma di artigianato. Alto, medio o anche basso, ma sempre artigianato.

CSF (come si fa)

David Monniaux

Allan Bay

Pexels-photo

Gastronomia Ecco che cosa accomuna la preparazione di un piatto e la progettazione di un edificio architettonico

I ravioli li amo. Quelli di carne anche di più. Se sono in vena, faccio questa ricetta piemontese per un super ripieno. Vediamo come si fa. Per 12 mangioni: 1 kg di reale di manzo, 2 bottiglie di vino rosso, 4 cipolle, 1,5 kg di carote e sedano, 1 mazzetto di alloro, rosmarino, timo, 1 bouquet garni di garza (contenente una stecca di cannella, 4 chiodi di garofano, 1 cucchiaino di bacche di ginepro e uno

di pepe in grani), zucchero, noce moscata, farina, lardo, 3 spicchi di aglio, rosmarino, olio di oliva, sale e pepe. Massaggiate la carne con sale, pepe e poco zucchero. Mondate e spezzettate le verdure. Mettete carne e verdure in un contenitore e ricoprite con il vino. Lasciate marinare per 24 ore in frigorifero, poi scolate la carne e asciugatela. Infarinatela e fatela rosolare con poco olio e una fetta spessa di lardo finché non sarà completamente abbrustolita. Negli ultimi minuti aggiungete l’aglio e 1 rametto di rosmarino. Eliminate quel che resta del lardo, l’aglio e il rosmarino, levate la carne e tenetela in caldo. Unite nella casseruola le verdure scolate dal vino e rosolatele. Rimettete la carne, aggiungete il vino della marinatura e il bouquet di spezie.

Coprite e cuocete a fiamma bassissima per 3 ore, rigirando di tanto in tanto e aggiungendo se necessario brodo vegetale. Nell’ultima mezz’ora eliminate le spezie e mettete il mazzetto aromatico, che così cederà i suoi profumi senza disfarsi né rilasciare l’amaro. Levate la carne e fatela raffreddare; fate ridurre il liquido di cottura, eliminate le erbe, raffreddatelo, sgrassatelo con un cucchiaio e frullatelo con le verdure. Su un tagliere sbriciolate la carne al coltello. Mettetela in una bastardella, aggiungete la purea di verdure e il fondo di cottura, grattugiate la noce moscata e regolate di sale. Mettete il ripieno in una tasca da pasticciere e riponetelo in frigorifero finché il collagene del reale non avrà reso il ripieno tirato ma ancora cremoso.

Ballando coi gusti Oggi due pizze che potremmo definire parzialmente dolci: proposte meno rare di quanto sembri, ma altrettanto ghiotte.

Pizza con mele

Pizza datteri e pancetta

Ingredienti per 4 persone: 500 g di pasta da pizza · 4 mele · 150 g di gorgonzola dolce · 150 g di sbrinz · olio di oliva · pepe in grani · limone.

Ingredienti per 6 persone: 700 g di pasta da pizza · 20 datteri · 300 g di pancetta dolce · vino bianco · olio di oliva · sale e pepe.

Stendete la pasta, trasferitela in una teglia unta di olio e fatela riposare per circa 30’ nel forno aperto, appena tiepido. Sbucciate le mele, eliminate i torsoli e tagliate la polpa a pezzetti, passandola subito in acqua acidulata con succo di limone perché non annerisca. Tagliate il gorgonzola a dadini e grattugiate lo sbrinz. Distribuite sulla base della pizza, alternando formaggi e mele. Spolverizzate con una generosa macinata di pepe e fate cuocere per 15’ in forno a 230°, se sono 250° (è meglio e bastano 15’).

Stendete la pasta divisa in due parti uguali, mettetele in due teglie unte di olio e fatele riposare per circa 30’ nel forno aperto, appena tiepido. Ammollate i datteri nel vino per 30’, poi scolateli, apriteli, eliminate il nocciolo e tagliateli a julienne. Tagliate la pancetta a dadini, rosolateli in una padella antiaderente per una decina di minuti, mescolando, poi versateli in un colino per eliminare l’eccesso di grasso. In una ciotola mescolate datteri e pancetta, regolate eventualmente di sale e profumate con pepe. Prendete la prima teglia e distribuite il composto, livellandolo. Coprite con il secondo disco di pasta, saldando bene i bordi con le dita inumidite. Con i rebbi di una forchetta punzecchiate la superficie. Spolverizzate con una generosa macinata di pepe e fate cuocere per 15’ in forno a 230°, se sono 250° è meglio e bastano 15’.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Ambiente e Benessere

Nuovi scenari per la viticoltura ticinese?

Ecosostenibilità Fra gli addetti ai lavori si fa strada la necessità di trovare nuove strategie per adattarsi

ai cambiamenti climatici, ma anche per far fronte alle malattie fungine più diffuse, fra cui la peronospera e l’oidio Elia Stampanoni Nuove varietà e nuovi metodi di lotta. Sono questi i due punti forti emersi durante l’ultima Giornata del viticoltore organizzata da Federviti e Agroscope al Centro del verde di Mezzana. Fondamenti su cui fa affidamento la viticoltura del futuro, con l’aspettativa di ridurre l’impiego di prodotti fitosanitari di sintesi (chimici). Una tendenza, quella delle nuove varietà, che non è comunque una novità, dato che già diversi vitigni resistenti o meno suscettibili alle malattie (interspecifiche) vengono coltivati con buon esito, garantendo raccolti di qualità in un contesto vitivinicolo oggi ancora incentrato sui classici vitigni, con il Merlot in prima fila. Ne è un esempio la varietà Divico, selezionata dal centro di ricerca Agroscope di Cadenazzo e omologata nel 2013 come particolarmente interessante per il Ticino. Dopo il successo dei vitigni Gamaret, Garanoir, Diolinoir, Carminoir e Galotta, affermatisi per il loro potenziale di qualità e la loro resistenza al marciume degli acini, la stazione di ricerca ticinese si è attivata (dal 1996) per la ricerca di nuove varietà resistenti alle principali malattie fungine della vite (oidio e peronospora).

Fra i vitigni più interessanti selezionati dal centro di ricerca Agroscope di Cadenazzo c’è la varietà Divico Divico è stata ottenuta con incroci naturali tra Gamaret e Bronner (quest’ultimo è una selezione ottenuta dall’istituto tedesco di Friburgo (Staatliches Weinbauinstitut Freiburg) e porta i geni per la resistenza alla peronospora e all’oidio provenienti dalle viti selvatiche americane e asiatiche). Un vitigno interessante per la qualità enologica (vicina alla media) e soprattutto dotato di ottime caratteristiche agronomiche con un’elevata sopportazione alla peronospora, all’oidio e al marciume gri-

Un vigneto a Cevio. (Keystone)

gio. Divico, così denominata in onore di un leggendario conduttore svizzero, s’indirizza verso una viticoltura più ecologica, dove risulta possibile ridurre drasticamente l’utilizzo dei prodotti fitosanitari. Agroscope continua comunque a lavorare, in collaborazione con altre stazioni di ricerca e istituti, alla creazione e scoperta di varietà che possano avere dei rendimenti e una qualità paragonabile ai vitigni tradizionali, ma senza l’impiego sistematico di prodotti fitosanitari di sintesi. Lo sviluppo di nuove varietà riveste un interesse ancor maggiore se si considerano i cambiamenti climatici in corso. La temperatura in 150 anni è aumentata di 1,3-1,6 °C circa, accompagnata da una chiara diminuzione del numero di giorni di gelo, da un aumento del numero di giorni estivi e tropicali e da una netta diminuzione delle nevicate. Un insieme di condizioni mutevoli che hanno un’influenza diretta sulla vite e sui suoi parassiti, e che potreb-

bero aumentare l’attrattività di vitigni interspecifici come Divico. Ma sarà soprattutto il consumatore, con le sue scelte, a deciderne la sorte. Per ridurre l’utilizzo dei prodotti chimici nei vigneti, le possibilità non si esauriscono però con la scelta delle varietà. Per il Merlot, per gli altri vigneti classici, ma anche per le varietà interspecifiche (che ricordiamo non sono immuni alle malattie, ma solo più resistenti), la giusta scelta del prodotto, le dosi e il giusto tempismo sono essenziali per la buona riuscita della strategia di lotta. A tal proposito è sicuramente utile il portale Agrometeo, definito come un dispositivo di supporto alle decisioni. Si tratta di una piattaforma a disposizione di tutti, dove trovare gli strumenti e le informazioni per una migliore gestione della lotta fitosanitaria in agricoltura. Agrometeo si basa su una rete costituita da oltre 150 stazioni che rilevano i dati microclimatici (precipitazioni, temperatura, umidità) e la

loro evoluzione, poi utilizzati in modelli per elaborare previsioni sui rischi di attacchi da parte di malattie fungine o parassiti. Le centraline trasmettono costantemente (ogni dieci minuti) i valori percepiti, mentre i modelli si basano sulle conoscenze della biologia dei parassiti in relazione ai fattori meteorologici. Attualmente, oltre che per la peronospora e l’oidio, sono disponibili pure dati per la tignola e la tignoletta, due insetti che interessano il viticoltore. Grazie a Agrometeo il viticoltore trova consigli su dove e come intervenire con i suoi trattamenti fitosanitari, ottenendo pure indicazioni sul dosaggio, un fattore essenziale per avere il massimo dell’efficacia e il minimo spreco, il tutto a favore dei costi ma anche dell’ambiente. Un terzo tema di rilevanza per una viticoltura più ecologica è senz’altro quella delle sostanze naturali, sempre più valide alleate nella lotta antiparassitaria. La ricerca sta infatti

testando diversi alternative che, pur non dando ancora delle garanzie assolute, forniscono dei risultati confortanti. In questa categoria di sostanze rientrano per esempio estratti di alghe o di piante come la laminarina o l’olio di arancio, sottoprodotti animali come il siero di latte, oppure anche altre sostanze naturali come zolfo o rame, che possono però avere effetti negativi se utilizzati in modo eccessivo (accumulo nel terreno). Tra i derivati della natura rientrano pure microorganismi come batteri o funghi che possono distruggere il patogeno oppure ostacolarne la crescita. Altre sostanze si dimostrano invece particolarmente efficaci nell’aumentare le capacità di resistenza della vite, rendendola così meno suscettibile agli attacchi parassitari. Accanto alla scelta della varietà, l’utilizzo dei giusti prodotti al momento giusto e nella dose giusta è quindi la scelta vincente per il viticoltore che desidera un prodotto il più possibile sostenibile. Annuncio pubblicitario


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Nasce la Cuv, dall’unione di una Suv e di una coupé

Motori Volkswagen sceglie il Salone dell’Auto di Shanghai per presentare la sua nuova crossover I.D.

Mario Alberto Cucchi Si tiene ogni due anni ed è uno degli eventi più importanti dedicati al mondo delle quattro ruote. Si tratta del Salone dell’Auto di Shanghai, in Cina, che apre i suoi battenti tra il 19 e il 29 di aprile. Questa la sede scelta da Volkswagen per il debutto della nuova crossover della famiglia I.D.; questo prototipo è il terzo membro dopo la I.D. presentata a Parigi nel 2016 e la I.D. Buzz mostrata a Detroit a inizio 2017. La concept di Shanghai prefigura le linee del primo crossover a emissioni zero della Casa di Wolfsburg. Per crossover si intende una vettura il cui stile unisce il design di una coupé a quattro porte a quello di un SUV, sigla che da

tempo identifica gli Sport Utility Vehicle, i quali oggi vanno per la maggiore. Il risultato potrebbe essere identificato dall’acronimo CUV che sta per Crossover Utility Vehicle.

Con il sistema CCS a 40 kW alla nuova Cuv bastano 45 minuti per una ricarica pari all’ottanta per cento Secondo i progetti Volkswagen, nel giro di tre anni, quindi a partire dal 2020, la piattaforma modulare EMB con propulsione elettrica utilizzata da questo proto-

tipo andrà a equipaggiare molti modelli che arriveranno nelle concessionarie e che saranno tutti caratterizzati dalla propulsione a zero emissioni e dal design che non passa inosservato con un occhio di riguardo al comfort e alla struttura flessibile degli interni. Con questo prototipo è stata inoltre sviluppata una trazione elettrica efficace sia sulle strade di tutti i giorni sia sui terreni difficili come le strade innevate di montagna e le strade bianche di campagna. Come per gli altri membri della famiglia I.D. anche qui è prevista la possibilità di viaggiare utilizzando la guida autonoma. Il volante si ritrae nella plancia e il pilota diventa un passeggero mentre a guidare ci pensa il computer. Scanner laser, sensori ad ultrasuo-

ni, radar e telecamere vengono sfruttati per riconoscere tutto ciò che circonda l’auto. Se il futuro è «verde», il presente di Volkswagen è già a emissioni zero. Lo dimostra la gamma della settima generazione Golf che è stata recentemente completata dalle nuove e-Golf e Golf GTE. La prima è equipaggiata con un propulsore elettrico sincrono a magneti permanenti in grado di erogare una potenza di 136 cavalli. La velocità massima è di 150 orari limitati elettronicamente. Dieci in più rispetto alla e-Golf di prima generazione. Mentre per scattare da ferma a cento all’ora sono necessari 9,6 secondi. Otto decimi meglio della precedente. Le batterie agli ioni di litio da 35,8 kW permettono un’ autonomia massima di

300 chilometri. La ricarica avviene da una normale presa di corrente in circa 13 ore, ma con il sistema CCS a 40 kW bastano 45 minuti per una ricarica pari all’ottanta per cento. La nuova e-Golf è già in vendita in Svizzera con prezzi a partire da 39’700 franchi. La GTE adotta invece una motorizzazione ibrida plug-in. Sotto il cofano quindi si trova un motore a benzina 1.4 TSI abbinato a un propulsore elettrico per una potenza sistema di 204 cavalli gestiti da un cambio DSG a sei rapporti. Su questa Golf, l’autonomia a zero emissioni è pari a 50 chilometri e promette consumi nel ciclo combinato di appena 1,6 litri per 100 chilometri, a fronte di emissioni di CO2 contenute a soli 36 grammi per chilometro. Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Ali e sulla sua famiglia: www.farelacosagiusta.caritas.ch

Ali Al-Ahmad (49), Siria Ha perso il figlio in guerra


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E per Pasqua un bel gulasch sportivo 3

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Sportivamente Nel ricchissimo menu agonistico che abbiamo appena archiviato: la vittoria 9del Berna,5 4

la salvezza dell’Ambrì, le promesse del FC Lugano e le palline da tennis che si innamorano di Federer 4 2

(il suo uomo di maggior classe, sempre trattato però coi guanti bianchi da gran parte della stampa oltre che dallo staff tecnico). Dall’altra, va detto che per l’Ambrì, nonostante qualche buona prestazione, sul piano dei risultati non s’è mai visto uno spiraglio di luce. Andare a segno è diventato sempre più difficile e questa è una delle principali ragioni per cui il Lugano s’è fermato sul più bello, dopo la sensazionale eliminazione degli ZSC Lions, ed è pure il motivo (non l’unico) che spiega la caduta libera dell’Ambrì. Nella scelta degli stranieri nessuno ha avuto la mano felice. Fra i bianconeri, il ritorno del canadese Lapierre – noto come difensore «cattivo» però burlone – è stata una mossa lodevole del direttore sportivo luganese Roland Habisreutinger, tant’è che alla fine è stato giustamente festeggiato quale miglior attaccante, grazie al buon intuito del nuovo coach Greg Ireland, sostituto dell’impacciato connazionale Doug Shedden. Tuttavia a dare i veri impulsi alla squadra sono stati due giovani: il portiere Elvis Merzlikins, fenomenale in molte occasioni contro Zurigo e Berna e l’attaccante Luca Fazzini, uno dal sangue freddo ma dalla mano calda che Shedden aveva relegato dapprima nel dimenticatoio. Naturalmente, finché i mille acciacchi collezionati durante un’onorata carriera non lo hanno messo in ginocchio, anche il veterano Julien Vauclair, difensore con spiccate doti offensive, ha contribuito non poco al salto di qualità dei bianconeri nel finale di stagione, concluso con un ennesimo duro colpo rimediato contro il Berna. Mentre lo SC Berna si è imposto facilmente nella serie decisiva del-

Alcide Bernasconi Quanta roba, per la miseria, ci ha proposto lo sport di casa nostra nelle ultime settimane e tutta che scivola via davanti al computer, il quale del resto la ignora. A volte le manifestazioni sportive s’ingolfano in un marasma di discipline per tutti i gusti. Le competizioni classiche, ossia i campionati nazionali di hockey soprattutto, sono approdate alle sfide finali, i cosiddetti playoff e playout. Questi ultimi fanno parte purtroppo di un pezzo di storia hockeistica ticinese, quella dell’Ambrì. Il club leventinese ci è cascato molte, perfino troppe, volte. Non c’è però da farne un dramma, perché i limiti della squadra leventinese sono noti da tempo. Se si vuole, i playout sono stati con la loro introduzione una rete di salvataggio per i biancoblù, i quali nell’atto conclusivo hanno dovuto fare i conti negli anni con avversari sempre inferiori, anche se in alcune occasioni certamente pericolosi. Battuto alla fine in quattro partite (un paio tiratissime) il Langenthal, campione della LNB, l’Ambrì Piotta continuerà anche nella prossima stagione a difendere il suo nome (e il suo posto) nella massima lega, chiusa quest’anno in fondo alla classifica, dopo una lunga serie di gare inguardabili a causa dei chiari limiti palesati da troppi giocatori. Da una parte il Lugano ha destato perplessità durante la regular season, per una lunga serie di motivi: dagli infortuni occorsi a giocatori di buon valore alle prestazioni deludenti in tutti i settori di gioco e, soprattutto, per le scarse prestazioni dei suoi svedesi, incluso troppe volte anche Linus Klasen

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Paolo Duca (ora nominato direttore sportivo) segna la rete del 2-0, durante i playout tra lo SC Langenthal e l’HC Ambrì Piotta. (CdT - Crinari)

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la finale contro lo Zugo, riconquistando tendono miracoli, ma si vuole prima di il titolo vinto un anno fa, in Ticino, sia tutto evitare un campionato come l’ula nord sia a sud, sono venuti alla ribal- timo, puntando sulle conferme dei gio6 Gordie ta i giovani. Ad Ambrì hanno dato una vanissimi. Quanto all’allenatore mano decisiva per la salvezza Christian Dwyer, per l’ex capitano Duca il «salvaStucki, il «razzo» Noele Trisconi, e Ro- tore», è per ora soltanto un candidato. man Hrabec. Una svolta positiva si speDai dischi nerissimi dell’hockey ra quindi di assicurarla con un’impron- ticinese, eccoci al colorato pallone da 5 ta più ticinese, anche con gli stranieri football che il FC Lugano ha calciato cresciuti nel vivaio biancoblù. con decisione nelle porte dei suoi tre ulPer questo e altri motivi non meno timi avversari salendo al quinto 7 posto importanti, il 36enne attaccante Pao- in classifica sotto la guida del tecnico lo Duca sostituisce Ivano Zanatta nel italiano Paolo Tramezzani. Una posiruolo di direttore sportivo. Ecco perché, zione sognata chissà quante volte dal Giochi per “Azione” - Angelo Aprile 2017 dopo aver raccolto nella porta del Lanpresidente Renzetti. Il pericolo 6 9 Stefania Sargentini genthal il disco col quale ha messo al della retrocessione sembra un ricordo sicuro la vittoria contro i bernesi, Duca lontano e Renzetti punta ora all’Euro1 aveva in pratica anticipato con quel ge- pa, sempre che i suoi ragazzi non faccia(N. 13 ... girasoli, mais e saggina) sto la fine della sua carriera di giocatore no passi indietro. L’attacco si avvale di (13 stagioni nell’Ambrì, con esperienze due campioni per i quali8il futuro sarà G I O R G I A a Zurigo e Zugo). Alla Valascia non si at- difficilmente luganese: Ezgjan Alioski,

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Giochi per E L “Azione” L A D M - Maggio 2017 4 S E I P O P Stefania T O R E Sargentini I Vinci una delle 3 carte regalo da 50N franchi con il cruciverba 7

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Giochi

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trasformato a Cornaredo da difensore una3delle6frecce offensive di sicuro 5in valore e Armando Sadiku, goleador di razza. Ora il presidente Renzetti si attende che il pubblico luganese risponda in maggior numero al richiamo dello stadio di calcio, per vedere all’opera una 9 7 2 3 squadra che può offrire molte soddisfazioni. 5 Eccoci infine alle palline, 8 quelle 6 da tennis. Sembra che pure loro si siano in6 namorate di 2 Roger Federer, il quale ha effettuato un rientro spettacolare dopo 9 a rimettersi in sesto. una pausa servita I risultati li conosciamo, a partire dal successo nell’Australian 7 9 5Open. Prima di una nuova pausa concordata con il suo preparatore, Federer 4 3 ha voluto concedersi un saluto ai suoi tifosi svizzeri, e lo scozzese Andy 6 Murray si è sportivamente prestato per l’incontro–spettacolo dell’Hallenstadion di Zurigo servito 1 dal per la raccolta di altri soldi destinati basilese all’aiuto di ragazzi africani in7 versa una digenti.8Roger, che da tempo parte dei suoi guadagni a questo scopo («sento questa necessità, visto che mia madre è sudafricana e ho vissuto parecchio da ragazzo in quel continente», ha 9 detto il campionissimo della racchetta). A 35 anni suonati il nostro campione continua a 9 far innamorare di sé non soltanto ragazzine, signore e nonnine, di tutto8 il mondo, oltre 1 alle3palline gialle o bianche citate sopra che lo adorano, nonostante le staffilate che si buscano 3 a ogni partita (a picchiare più forte, ma con un po’ meno di classe, sono però 2 che i suoi avversari). A noi non resta applaudire per le vittorie e l’impegno 2 1 di Roger, da anni4lo svizzero umanitario più popolare in tutto il globo.

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9 5 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku (N. 17 - Impacchi con acqua fredda e aceto) 6 7 13

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Cruciverba Leggendo a soluzione ultimata le lettere evidenziate, scoprirete cosa bisogna fare per mandar via al più presto un brutto livido. (Frase: 8, 3, 5, 6, 1, 5)

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M B O M A R E A A R T E D I O I C E S ASUDOKU R G PER AZIONE - APRILE 2017 M I S S E G O N. 9 FACILE N I S T I Schema A N A Soluzione

I M PN.12 A GENI T T O1 4 6 2 7 8 5 9 3 7 8 2 A L Scoprire L M U C i 3Enumeri A I 4V E N C R47 I C95 32 78 64 59 13 26 18 74 corretti da inse5 1 T I E N M A I S S rire nelle caselle 37 6 59 8 1 4 9 7 12 I M O 3 G6 A L A L T9 7 B E H I C colorate. P E B U I A9 V I R 2 8 4 9 6 7 1 3 5 14 3 I R E A L9 N O 5T84 I I4 T O S87 91 39 13 42 25 674 56 68 C U O A R I LE 16 17 18 19 I O N E R L 6 3 6 5 2 7 8 9 3 4 1 2 1 R E A C Q U E O T D N R EEI 4 7 1 5 3 6 8 2 9 A N A T E M1 A 5 3 67 22 8 D E R A R I O F R N. 10 MEDIO (N. 15 - ... quattrocentotrentacinque ponti) 26 5 8 3 1 9 7 2 3 5 6 1 9 7 8 2 4 3 Q U A LI E MT E T R E O D E N D3 O 9 5 8 6 9 2 7 5 4 1 C 8 6 U S C I R E K A N T 5 4 3 17 9 5 29 30 6 2 3 8 4 6 1 2 O E T E R E T A SN A ST A T E T2 R I 9 6 1 7 T A R S8C I A 9 O 9 4 5 8 3 8 2 32 A N S I1 A O T R 7 E 9 5 1 3 2 8 6 7 9 5 4 A7 S QR EC4O L AO3 R 2E7 9S67 1T 44 5I 53 O 2 8 27

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno 20 21 sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro23il venerdì seguente24 la pubblicazione del gioco.

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31. La madre delle imbarcazioni 32. Poco propenso, riluttante VERTICALI 1. Lo può essere la tavola 2. Addolcisce la prima luna… 3. Le iniziali dello scrittore Camilleri 1 4. Piccolo gruppo 5. È ripetitivo 6 6. Il «sì» di Provenza 10. Affitto a Londra 9 13. La Madre di Calcutta 14. Spogliate, non presentabili 16. Altari pagani 11 17. Due di questo 18. Magistrati dell’antica Sparta 13 14 15 16 19. Vaso di terracotta 21. La Negri scrittrice

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ORIZZONTALI 1. Contatto violento 7. Pronome personale 8. Non deve mai mancare in auto 9. Ebbene, dunque 11. 99 romani 12. Lieve soffio 15. Le macchie dell’anaconda 16. L’umore tra la cornea e l’iride 20. Il tesoro pubblico 22. Le iniziali del cantante Renga 23. Le separa la «L» 25. Fu abitato per primo 26. Sigla di autenticità 27. Tributo 29. Tutt’altro che luminosi

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O I L O N E 24. Morto in Palestina 1 2 7 9 4 5 3 8 6 1 26. Detti senza vocali Soluzione settimana T ZdellaG I A N precedente 6 8 6 4 3 2 8 1 5 7 9 28. Le iniziali dell’attore Connery IL PROVERBIO NASCOSTO! –7 Proverbio risultante: 30. Si ripetono per esteso CALDO LETTO E CENE CORTE VITA LUNGA, SANA E FORTE. (N. 16 - Caldo letto e cene corte, vita lunga, sana e forte) N. 11 DIFFICILE 34

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(N. 18 - Il sole, il debito, la neve)

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Vincitori22 del concorso Cruciverba 23 24 10 su «Azione 15», del 10.4.2017 26 27 28 29

U. Tagliabue, M. Fransioli, E. Rigotti 30

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Vincitori del concorso Sudoku su «Azione 15», del3810 .4.201739 33

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F. Catti-Patocchi, U. Duchini 41

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Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del 22 sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. 25 26 la lettera o Partecipazione postale: la cartolina postale che riporti la so28

C I R C O L O

A S M A 6 R A 8

L E5 T7 R E N 9 T I 1 L N A E R4 T I 6 A O

N D E S I A R A 9 C 8 C E 1T E R E S I 3 I T E R A S T A 2 1 U S E E L A R S 5 E F O 4R S P 7E L

O 9L E T E O R 3 A E C V I 2 L E A 4 C N N A C 1 A T I A I A

I L L1 7E 6 S 3 2O 9 5 8 4 2 4 9 5 8 6 1 3 7 L E O6 9N 2 7 5 R4 3 I1 8 6 9 8 7 5 2 A G I4 3 1 P I L 8 5 7 2 1 3 9 4 6 1 4 9I 3 O 2 8 E6 5 R A 7 C G 9 2 3 8 6 5 4 7 1 N 9 A R I N E P5 6I 8 A 1 4 N 7 2O 9 3 S T T N.12 GENI A corredata U Lda nome, A cognome,D è possibile O Nun pagamento N E in contanti luzione, indirizzo, email del partecipante deve dei premi. 9 7I vincitori 1 8 saranno 6 2 5avvertiti 4 3 essere spedita aA «Redazione Azione, iscritto. Il nome dei vincitori sarà 7 9 1 I perT B O Z T O L 4 6 5 3 7 9 2 8 1 Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». pubblicato su «Azione». Partecipazione 8 3 6 8 esclusivamente 2 3 1 4 5 9 6che7 Non si intratterrà corrispondenza sui riservata U T S A A L Ta lettori I 6 3 NonN risiedono concorsi. Le vie legali sono escluse. 6 in 1 Svizzera. 2 5 9 4 7 3 8


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Politica e Economia Minaccia nucleare La psicosi collettiva della guerra atomica di Pyongyang e dell’Amministrazione Usa non sembra impensierire troppo Seul

Regno Unito al voto l’8 giugno A convincere la premier Theresa May, che ha sempre escluso di voler tornare alle urne, i sondaggi e la consapevolezza che con una maggioranza parlamentare di soli 15 deputati il cammino verso la Brexit sarebbe stato difficile

Caracas: è il caos Maduro sostenuto da militari divisi in due fazioni e il popolo che marcia contro la crisi politica e economica: questa la miscela esplosiva venezuelana

Stop alla carne? Dopo il bio, si fa largo il veganismo; che cosa comporterebbe per l’agricoltura?

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Erdog˘an vince ma il Paese perde

Referendum Con questa vittoria di misura (51 per cento) e probabilmente truccata il leader turco assumerà

anche i poteri esecutivi fino ad oggi attribuiti al premier governando come un sultano assoluto Lucio Caracciolo La Turchia è una potenza ferita alla deriva. La risicata e probabilmente truccata vittoria di Recep Tayyip Erdoğan (foto) nel referendum sul presidenzialismo non risolve nessuno dei suoi problemi, anzi ne espone la grave crisi di identità. A cominciare da una leadership sempre più autoritaria e meno autorevole, che spacca il Paese a metà e lascia prevedere un incerto futuro per il suo vecchio/nuovo presidente sultano, in balìa dei suoi deliri di onnipotenza. Il catalogo delle crisi che investono la nazione turca può essere riassunto in quattro punti. Primo: Erdoğan sarà pure investito di poteri inauditi, superiori persino a quelli di molti dei monarchi ottomani cui ama richiamarsi, ma la base su cui queste prerogative poggiano è friabile. Sul piano sociale e culturale, il voto di Istanbul, Ankara e delle principali città della «Turchia bianca», ovvero della fascia costiera e dintorni, suona come l’approfondimento della linea di faglia fra questa parte della popolazione, tradizionalmente più aperta e laica, e l’Anatolia

profonda, in cui il potere erdoganiano affonda le sue radici islamiste. Se a questo aggiungiamo il Sud-Est ribelle, largamente inaccessibile, dilaniato da decenni di rivolta e guerriglia curda, tuttora non domata, il quadro che ne emerge è di un Paese di oltre 70 milioni di abitanti sull’orlo della guerra civile. L’idea che questo mosaico possa essere tenuto insieme dalla volontà quasi inappellabile di un presidente dotato di poteri semidittatoriali è piuttosto azzardata. Anzi, l’accentramento di ogni decisione nella figura del leader dell’Akp rende ancora più palesi, e potenzialmente pericolose, le fratture interne alla società nazionale. In teoria, Erdoğan potrebbe restare a capo della Turchia fino al 2029. Molto probabilmente la sua parabola sarà più breve, e comunque condizionata dalle criticità strutturali della Nazione. Secondo: è di fatto chiusa la prospettiva dell’integrazione della Turchia nell’Unione Europea. Si è trattato di una interminabile commedia, in cui tutti gli attori erano più o meno consapevoli di dover recitare una parte, senza che nessuno credesse fino in fondo in ciò che proclamava. Gli europei,

specie tedeschi e francesi, non hanno mai davvero considerato plausibile l’ammissione di Ankara nella famiglia comunitaria. Per ragioni di incompatibilità cultural-religiosa, certo. Si ricorda ancora il veto di un cancelliere austriaco, il quale spiegava ai colleghi comunitari che il suo Paese non avrebbe mai potuto convivere con Ankara: «Non possiamo dimenticare l’assedio di Vienna». Più concretamente, l’idea di avere nel Parlamento europeo la delegazione turca come maggioritaria, in forza della mera demografia, era evidentemente intollerabile – specialmente per la Germania. Aggiungiamo a questo la svolta autoritaria, sancita dal referendum, e ne concludiamo che la farsa è chiusa. D’altra parte, lo stesso Erdoğan non ha più bisogno di recitare una commedia che pure gli è stata assai utile. Infatti, ricordando alla sua opinione pubblica e ai suoi avversari nelle Forze armate che in un paese dell’Unione Europea il posto dei militari è la caserma – o eventualmente il fronte – e non la scena politica, il presidente sultano ha potuto legittimare la sua strategia di emarginazione politica

dell’esercito. Non sappiamo ancora quando, ma è possibile che Erdoğan decida di sancire la rottura definitiva delle pseudo-trattative con Bruxelles tramite un referendum nazionale sul ripudio dell’Ue. Voto dall’esito piuttosto scontato. Terzo: la Nato ha perso un alfiere importante e militarmente credibile sul suo fronte orientale. Nei decenni della Guerra fredda Ankara è stata un fondamentale avamposto antisovietico, deputato a sbarrare la strada degli Stretti e del Mediterraneo all’espansionismo di Mosca. Oggi Erdoğan è stato spinto a scendere a patti con Putin, in un’ambigua alleanza sorretta da grandiosi progetti energetici. In più, le purghe che hanno colpito i militari dopo il fallito golpe della scorsa estate hanno infiacchito e demoralizzato le Forze armate. Quello che era considerato il secondo esercito della Nato è oggi uno strumento di dubbia efficienza e lealtà, che gli stessi americani non sanno bene se e come considerare utile alle loro priorità geostrategiche. Resta poi, fra Turchia e Usa, l’irrisolta diatriba sul rimpatrio di Fethullah Gülen, nemesi di Erdoğan,

rifugiato in Pennsylvania, che molto difficilmente la giustizia Usa vorrà estradare in patria. Quarto: Erdoğan ha sempre concepito la sua geopolitica in termini grandiosi, neo-ottomani. La guerra di Siria, avviata nel 2011, avrebbe dovuto sancire il ritorno della potenza turca nel mondo arabo, su cui la Turchia ottomana dovette mollare la presa alla fine della Prima guerra mondiale. Risultato: fallimento totale. Il regime di Bashar alAssad è sempre al suo posto, si profila anzi come baldanzoso vincitore, mentre i ribelli sostenuti da Ankara sono in ripiegamento quasi ovunque. Inoltre, le forze curde, per quanto fra loro piuttosto divise, stanno approfittando del vuoto di potere tra ciò che resta della Siria e dell’Iraq per conquistare spazi e insediamenti. Almeno sulla carta, il miraggio di un vasto Kurdistan, tra Anatolia e Iraq settentrionale, è meno improbabile di qualche anno fa. In ogni caso, le ambizioni neo-ottomane della Turchia paiono stroncate. Erdoğan ha dunque vinto (?) il referendum che ne sancisce il rango di uomo solo al comando. Ma il suo Paese ha perso.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Politica e Economia Donald Trump nello studio ovale della Casa Bianca. (AFP)

Glasnost a Seul

Corea del Sud C on l’incriminazione

dell’ex presidente Park Geun-hye, è iniziato il processo di catarsi della storia del Paese

Vero pragmatismo?

Politica estera Usa È lungo l’elenco delle posizioni che Trump

ha cambiato completamente: dall’isolazionismo all’interventismo (in Siria e Corea del Nord), dal putinismo alla nuova Guerra fredda Federico Rampini «La Corea del Nord cerca guai. Se la Cina decide di aiutarci sarà ottimo. Altrimenti risolveremo il problema senza di loro». Com’è sua consuetudine, Donald Trump ha usato Twitter per lanciare questo ultimatum al regime di Pyongyang, mettendolo in guardia contro azioni aggressive (che includono, presumibilmente, un nuovo test nucleare). Il regime di Kim Jong-un reagisce con la consueta durezza: «Le mosse irresponsabili dell’America per invaderci hanno raggiunto una fase cruciale. Siamo pronti a reagire in ogni modo alla guerra voluta dagli Stati Uniti. Saranno loro i responsabili per le conseguenze catastrofiche». Il linguaggio è in linea con la cultura bellicosa di un regime che da mezzo secolo sostiene di essere alla vigilia di un’invasione americana, e giustifica ogni sorta di crudeltà contro il proprio popolo in nome di questo stato di mobilitazione permanente. L’allusione a «reagire in ogni modo» è un chiaro riferimento al possibile uso di ordigni nucleari, di cui Pyongyang già dispone, avendoli costruiti in spregio alle norme internazionali (di cui la stessa Cina è firmataria e garante). Il gioco iniziato da Trump comporta rischi per tutti, anche se è ovvio che la pericolosa instabilità di quell’area non l’ha creata lui, è un problema che si aggrava da molti anni. Tra i pericoli a cui si espone l’America: la Corea del Nord non è la Siria, Kim Jong-un è un personaggio ancora più misterioso e imprevedibile di Assad. Forse anche clinicamente folle, a giudicare da molti suoi comportamenti. Inoltre lui ha l’atomica, Assad no. Militari e scienziati di Pyongyang stanno tentando di sviluppare missili intercontinentali capaci di trasportare ogive nucleari fino alla West Coast americana, ma è improbabile che siano vicini al loro traguardo. L’ultimo test di un missile di lunga gittata è stato un flop. Tuttavia, anche con capacità missilistiche limitate, possono colpire un bersaglio vicinissimo: la Corea del Sud, densamente popolata, e un alleato degli Stati Uniti. Ci sono grossi rischi anche per la Cina, l’altro attore decisivo in questa partita. Qualora partisse un attacco americano su Pyongyang, potrebbe Pechino assistere passivamente all’aggressione contro un suo «vassallo» e vicino? Mao Zedong entrò in guerra a fianco dei nordcoreani, e fu solo grazie all’intervento cinese che quel conflitto si concluse nel 1953 con un sostanziale «pareggio» e la divisione in due della penisola. Per la Cina c’è anche lo spettro di un collasso del regime di Kim – una delle più feroci dittature del mondo – con al termine lo sbocco probabile di una riunificazione coreana sotto egemonia Usa. Un bis della riunificazione tedesca che portò la Nato ai confini della Russia. Sarebbe un disastro per Xi Jinping.

L’ipotesi più probabile resta quella di una mossa tattica, audace o spregiudicata, azzardata o irrazionale, a seconda degli sbocchi che avrà. Trump vuole mettere paura ai cinesi perché finalmente riducano alla ragione uno staterello impazzito che dipende da loro: senza gli aiuti di Pechino la Corea del Nord sarebbe già implosa. Solo l’energia fornita dalla Cina tiene le luci accese a Pyongyang. Trump al bastone alterna la carota, offre ai cinesi «un accordo commerciale molto migliore, se ci risolvono il problema nordcoreano». Anche il protezionismo finisce sul tavolo di questa trattativa al cardiopalmo. Ed è pur vero che la leadership cinese ha avuto un comportamento molto ambiguo, da sempre, condannando a parole i test nucleari nordcoreani, ma senza azioni coerenti per stopparli. Nel frattempo proprio sulla Corea del Nord gli americani sono incappati in un infortunio clamoroso, perfino comico. Dov’è finita l’Invincibile Armada che Trump annunciò di avere spedito al largo della Corea del Nord? Ha continuato a navigare, per una settimana, nella direzione opposta. Allontanandosi sempre di più dal Paese che doveva minacciare, intimidire, indurre alla ragione. Si tinge di giallo, o di farsa, il gesto imperioso con cui il presidente voleva mandare un messaggio a Kim Jong-un per costringerlo a rinunciare a nuovi test nucleari. La decisione di reagire all’escalation nucleare nordcoreana con l’invio di una poderosa flotta militare – inclusa la mega-portaerei Uss Carl Vinson – era stata recepita nel mondo intero come una conferma del «nuovo corso» trumpiano, da isolazionista a interventista in politica estera. Gli unici a non avere ricevuto quel messaggio, a quanto pare, sono stati proprio gli ammiragli della U.S. Navy e tutti gli equipaggi della flotta in questione. Che ha continuato per una settimana intera a navigare nella direzione opposta. Dirigendosi, imperterrita, verso la sua destinazione «normale», puntando cioè verso quei mari dell’Australia dov’era attesa per un’esercitazione. Il gesto che doveva intimorire Pyongyang non c’era stato, o non era stato trasmesso ai vari livelli della gerarchia militare? O qualcuno non aveva preso sul serio quell’annuncio, all’interno del Pentagono? Il bilancio di questo mese di aprile è denso di novità nella politica estera, e non solo per quanto riguarda la Corea del Nord. Il presidente americano in poche settimane – e prima ancora di avere raggiunto la fatidica soglia dei «cento giorni alla Casa Bianca» – ha capovolto sistematicamente le promesse fatte in campagna elettorale. Trump è saltato a pié pari dall’isolazionismo all’interventismo (Siria, Corea del Nord), dal putinismo alla nuova Guerra fredda, con tanto di rivalutazione della Nato. Il caso Nato è istruttivo per come Trump gestisce i

voltafaccia: dichiarando che sono gli altri ad avere cambiato. Infatti si è attribuito il merito di avere convinto i partner atlantici a occuparsi anche di lotta al terrorismo (cosa che la Nato fa da anni). Un po’ meno clamoroso, ma significativo, è l’aggiustamento sull’Unione europea: ha smesso di prevedere che altri Stati europei seguiranno l’esempio di Brexit. I ribaltoni a 180 gradi non si limitano alla politica estera. Un paio di novità di rilievo lui le ha annunciate, sempre negli ultimi giorni, su temi economici importanti. Ha improvvisamente detto che la Cina «non manipola la sua valuta» e quindi almeno su quel fronte non è colpevole di concorrenza sleale. Tutto il contrario di ciò che Trump disse per mesi in campagna elettorale, e ancora dopo l’insediamento alla Casa Bianca. Verso la presidente della Federal Reserve, che lui accusava di una gestione politicizzata ed elettoralistica della politica monetaria, ha avuto parole di stima giovedì, ventilando la possibilità di confermare l’obamiana Janet Yellen alla scadenza del suo mandato nel 2018. C’è una logica in questo vortice di ripensamenti, revisionismi, sterzate? Si può apprezzare il pragmatismo di un uomo talmente privo di ideologie e di principi, che per lui tutto è «negoziabile», da buon businessman. O al contrario si può temere l’improvvisazione, l’incompetenza, il dilettantismo alla guida della superpotenza mondiale. Il filo comune è il ritorno verso posizioni più tradizionali della destra repubblicana. Coincide con l’emarginazione dell’estremista Stephen Bannon, nonché l’emergere di gruppi di potere influenti a cui Trump sta delegando molte scelte: in politica estera i generali McMaster, Mattis, Kelly (con la cooptazione di Tillerson nel loro gioco di squadra); nell’economia la cordata Goldman Sachs da cui provengono diversi consiglieri, il genero, e il segretario al Tesoro. Wall Street e le multinazionali lavorano alacremente per svuotare le sue promesse protezioniste. Qualcuno a sinistra è disposto ad un’apertura di credito: nella sua improvvisazione creativa, Trump forse azzecca qualche mossa giusta. È la tesi del sinologo John Pomfret in un’analisi sul «Washington Post». Pomfret nota che Xi Jinping per la prima volta in assoluto minaccia la Corea del Nord di tagliarle i rifornimenti energetici. Nessun altro presidente Usa aveva costretto i cinesi a un gesto così duro verso il regime vassallo di Pyongyang. Resta un’altra spiegazione per il Nuovo Trump: scottato da due disfatte gravi in politica interna – i decreti anti-immigrati bloccati nei tribunali, la contro-riforma sanitaria affondata dalle divisioni della destra – non c’è di meglio che una tensione internazionale per distrarre l’attenzione e ricompattare il Paese.

La psicosi collettiva della Guerra nucleare globale, minacciata dalla Corea del nord e dall’Amministrazione Trump, sembra non colpire più di tanto l’unico Paese che rischierebbe la sua stessa esistenza nel caso di un bombardamento americano contro la dinastia dei Kim: la Corea del sud. Da una parte, da sessant’anni Seul vive la minaccia costante nordcoreana e conosce intimamente il pericolo dato da un incidente, nel caso in cui si trasformasse in un conflitto. Ma c’è anche un altro motivo che finora ha evitato il diffondersi della psicosi della guerra imminente. Da più di sei mesi, il Paese – diviso dalla Corea del nord dal 38° parallelo e formalmente ancora in guerra con i cugini di Pyongyang (nel ’53 fu firmato soltanto un armistizio) – vive in una epocale fase di evoluzione democratica: i sudcoreani hanno appena ricominciato a ricostruire la propria democrazia, e difficilmente vorranno sacrificarla per un tweet aggressivo di Trump. È in questo contesto che il 24 marzo scorso il relitto del traghetto Sewol è stato finalmente issato sopra la superficie del mare, dopo più di mille giorni sott’acqua. Quel momento, per la Corea del sud, è stato uno dei momenti più liberatori, sconvolgenti e catartici della propria storia moderna. Perché c’è una simbologia che vive dentro a quel traghetto, un disastro che ha raccolto attorno a sé le vittime della tragedia insieme con l’intera società civile coreana, trasformandole poi in un’unica voce di protesta: la forza di un’intera nazione. Ed è indicativo che il traghetto affondato sia stato portato alla luce una settimana prima del giorno in cui l’ex presidente sudcoreana, Park Geun-hye, è stata condotta nel carcere di Seul, in attesa di giudizio. Park ha dovuto lasciare la Casa Blu – il sontuoso palazzo della presidenza sudcoreana, dove aveva vissuto anche tra il 1963 e il 1979, quando il padre Park Chung-hee era presidente – e si è dovuta trasferire in una cella di pochi metri quadrati, con pasti da un euro al giorno. Il Sewol si è inabissato il 16 aprile del 2014 al largo dell’isola Jindo, in circostanze ancora da chiarire. A bordo c’erano 476 persone. 325 di loro erano studenti del liceo Danwon della città di Ansan, che stavano partendo per una gita scolastica. Tutti ricordano le immagini di quei giorni: i videomessaggi sui telefonini di qualcuno dei ragazzi, recuperati dalla Guardia costiera, dove avevano registrato i loro addii per gli amici, per i genitori. Il comandante Lee Joon-seok immortalato mentre scappa prima di tutti, in mutande, dalla nave che affonda – condannato un anno dopo all’ergastolo per omicidio colposo. E l’equipaggio che nel frattempo, attraverso l’interfono, ordina ai ragazzi di restare chiusi nelle loro cabine, dritti verso la morte certa. Da più di mille giorni i cittadini sudcoreani cercano la

verità su quel disastro, soprattutto sui nove corpi dei ragazzi che ancora risultano dispersi. Da più di mille giorni, al centro della capitale Seul, in piazza Gwanghwamun, il luogo delle proteste che hanno condotto all’impeachment dell’ex presidente Park Geun-hye (foto), un’istallazione permanente tenuta in vita dai volontari ricorda i volti delle 325 vittime del naufragio. Oggi, accanto a quei volti, ci sono anche i cartelli che chiedono al presidente Donald Trump di evitare una inutile guerra con il Nord. Le operazioni di recupero del traghetto Sewol sono state trasmesse in diretta televisiva, e anche l’arrivo del relitto al porto di Mokpo, dove la commissione del Ministero dei trasporti ha iniziato una nuova indagine sui motivi del disastro. Nell’aprile del 2014 le autorità, ma soprattutto la politica, furono ritenuti responsabili della crisi di informazioni e della poca trasparenza sui fatti accaduti in mare. E più i giorni passavano, più il mistero s’infittiva: Yoo Byung-eun, proprietario della Chonghaejin Marine, armatore del Sewol, una figura già nota alla polizia per essere stato leader di una pericolosa setta religiosa e un oscuro businessman sudcoreano, divenne l’uomo più ricercato di Corea. Il suo corpo fu trovato senza vita due mesi dopo, in un remoto luogo di campagna. Il primo ministro Chung Hong-won fu costretto alle dimissioni. E poi quelle famose sette ore, subito dopo l’incidente, durante le quali la presidente Park Geun-hye – eletta con oltre il 50 per cento dei voti alle elezioni del 2012 – era risultata irraggiungibile. È qui che il disastro del Sewol e la presidenza di Park si incrociano, e l’uno diviene il simbolo dell’altra, ed entrambi segnano la trasformazione della Corea del sud. Nell’ottobre scorso, quando venne fuori la figura della sua confidente e sciamana Choi Soon-sil – oggi in carcere per corruzione – tutti pensarono a lei, al suo ruolo di Rasputin e di suggeritrice della presidente. Sulla stampa iniziò a circolare la voce che Choi e Park, quel 16 aprile del 2014, stessero partecipando a un rito per Choi Tae-min, il padre di Choi, che a sua volta era stato il mentore e consigliere dell’ex presidente Park Chung-hee. Su internet si diffusero molte leggende, come quella del Sewol come «sacrificio umano» voluto da Park e Choi per commemorare il vecchio sciamano. Magia, esoterismo, ma anche ben più materiali interessi economici: sono questi i motivi per cui i giudici hanno deciso di arrestare Choi Soon-sil, e per cui i cittadini sudcoreani hanno chiesto al Parlamento di votare per l’impeachment di Park Geun-hye. Le elezioni per la presidenza si terranno il 9 maggio prossimo, e chiunque vincerà, tra i democratici o ancora i conservatori, saprà di dover guidare una nuova Corea del sud, che è riuscita a sconfiggere i suoi fantasmi con la sola forza dei cittadini.

AFP

Giulia Pompili


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Politica e Economia

Più forti sulla via della Brexit

Strategie politiche In un inatteso discorso alla nazione, la premier Theresa May ha annunciato elezioni anticipate

per l’8 giugno. Secondo gli osservatori ha bisogno di contare su un netto vantaggio del suo partito conservatore rispetto all’opposizione laburista, in grado di rafforzarla nel cammino verso la fuoriuscita dall’Unione europea

Cristina Marconi Ha deciso di «rivolgersi al paese», di chiedere agli elettori un mandato più forte per affrontare le turbolenze della Brexit e liberarsi dei ricatti di chi pensa che dall’Unione europea si possa uscire con un taglio netto, senza compromessi. Theresa May, la premier britannica, al ritorno dalla pausa di Pasqua, dopo una lunga camminata con il marito Philip sui monti del Galles, ha indetto a sorpresa nuove elezioni a meno di un anno dal referendum del 23 giugno 2016 sulla Brexit, subito approvate con maggioranza schiacciante dal Parlamento. Nella speranza di raggiungere una maggioranza che le permetta di fare piazza pulita delle debolezze che potrebbero ostacolarla nei prossimi mesi, la May è venuta meno alla promessa, fatta ben cinque volte da quando è stata nominata premier, che avrebbe aspettato la scadenza naturale della legislatura, nel 2020. Ma la tentazione di andare al voto era troppo forte, con condizioni irripetibili come quelle che la premier ha davanti: uno stacco di venti punti rispetto ad un Labour sempre più esangue, un negoziato con l’Unione europea in fase di stallo in attesa delle elezioni francesi e di quelle tedesche e un sostegno da parte del suo partito che ancora non ha dato segni di cedimento, nonostante un anno politicamente difficilissimo. Si dice che Sir Lynton Crosby, lo stratega politico che aveva assicurato la vittoria dei Tories nel 2015, visitando l’ufficio della May le abbia suggerito di cogliere l’attimo e di andare alle urne. Ora sarà lui, l’infallibile, a guidare la sua campagna. Alcune delle ragioni che hanno spinto la premier a uscire nel sole freddo di Downing Street ad annunciare che «l’unico modo per garantire certezza e stabilità per i prossimi anni» è andare a votare sono chiare, mentre altre vanno lette nel contesto di uno scenario politico che il referendum del 23 giugno scorso ha reso ancora più complesso. Il

L’annuncio alla Nazione è giunto quasi a un anno di distanza dal referendum sulla Brexit. (AFP)

manifesto con cui i conservatori hanno vinto le elezioni del 2015 è superato e prima o poi le promesse fatte in quell’occasione ormai lontana dal predecessore David Cameron sarebbero state usate contro il governo. Inoltre il Parlamento ha una maggioranza notoriamente contraria all’uscita dalla Ue e sebbene sia apparso molto docile nel dare mandato al governo di negoziare la Brexit, non è detto che nei prossimi due anni questa vulnerabilità non avrebbe finito col fare il gioco di Bruxelles e degli altri Stati membri della Ue. Nelle poche settimane che la separano dalla giornata elettorale, l’inquilina di Downing Street non ha veri avversari: i Lib Dem andranno probabilmente molto bene rispetto al passato – pare che nella giornata dell’annuncio abbiano registrato 2500 nuovi tesserati in poche ore – ma è difficile che superino i venticinque seggi, mentre il Labour potrebbe essere ancora più debole del previsto, anche perché se l’ipotesi di dover trattare con i nazionalisti scozzesi dell’Snp aveva già danneggiato le prospettive di un leader più solido come Ed Miliband,

sicuramente sarebbe letale per Corbyn, che oltretutto avrebbe come interlocutore Nicola Sturgeon, ancora più scaltra e aggressiva del suo predecessore Alex Salmond, in un contesto di crescenti timori per l’unità del Paese. Le debolezze di Corbyn, le sue passate simpatie per Hamas e per l’Ira, solo per citarne alcune, non sono ancora passate alla prova di una campagna elettorale, ma certo non saranno facili da gestire. Il Labour ha annunciato di volere una campagna impostata sui temi sociali e sull’incapacità dei Tories di amministrare il Paese tenendo conto delle esigenze dei più deboli, anche perché in materia di Brexit il partito è troppo spaccato per poter cavalcare il tema in serenità. Molti deputati hanno dichiarato che non si ricandideranno e anche se queste elezioni colgono il partito in una fase di debolezza assoluta, c’è chi in fondo è contento che la resa dei conti sia stata anticipata. Se bisogna tornare al 1983, quando ci si chiedeva se il Labour fosse ancora il secondo partito, è meglio farlo subito. Per il politologo John Curtice, pre-

sidente del British Polling Council, la May non intende fare una campagna sull’uscita dalla Ue, «bensì su quelli che lei ritiene essere i meriti del suo approccio alla Brexit», contando sul fatto che molti Tories che hanno votato a favore della Ue lo hanno fatto seguendo le indicazioni di David Cameron e non perché seriamente affezionati al progetto comunitario. Ma la Brexit resterà uno dei temi cruciali e chi pensa che i britannici si siano pentiti della loro decisione sbagliano secondo Curtice. «È sempre un Paese spaccato a metà e da che parte propenda realmente è difficile dirlo», osserva il professore: «Ogni sondaggio però parla di una maggioranza del 4-5% che sostiene che la Brexit sia stata la decisione giusta». A suo avviso la May ha in tasca la vittoria, ma forse non la vittoria travolgente che si aspetta: «Non è affatto certo che riesca a realizzare il suo obiettivo, ossia una maggioranza sostanziosa, il controllo della Camera e nessuna fazione ribelle di cui preoccuparsi», per via dei cambiamenti alla geografia elettorale, dello strapotere degli indipendentisti dell’Snp in Scozia e del rafforza-

mento dei Lib Dem nelle zone di Londra e del Sud del Paese dove la Brexit non è stata mai digerita. «I tredici seggi di ora, che non le bastano, corrispondono ad un vantaggio del 7%. Se ottiene una maggioranza di 16 punti e un centinaio di seggi sarà felice, anche se non si tratta della maggioranza più ampia del Dopoguerra. Ma se il margine si riduce e il vantaggio è solo di 10 punti, la sua situazione non migliora molto rispetto ad ora. E può succedere», osserva Curtice. La frangia più dura da convincere rimangono i conservatori oltranzisti, quelli che prima potevano essere tentati da Ukip ma che ora, davanti ad un partito al collasso, hanno bisogno solo di qualche rassicurazione in più sul fatto che la Brexit si farà davvero per giurare la loro fedeltà alla May. Rassicurazioni che probabilmente la premier non esiterà a dare per andare al negoziato con Bruxelles con un mandato forte, che le permetta di raggiungere un accordo e non, come vorrebbero alcuni, con una rottura netta, micidiale per il futuro del Paese. Subito dopo l’annuncio del voto Deutsche Bank ha osservato come le elezioni anticipate non diano mandato al governo per una «hard Brexit» ma al contrario riducano il rischio che le trattative si concludano con un fallimento. E infatti la sterlina, dopo un primo momento di calo, ha iniziato a salire. Gli unici ad astenersi dal votare sulle elezioni sono stati i 54 deputati dello Scottish national party, che hanno scelto la linea più aggressiva contro i Tories. La scozzese Nicola Sturgeon ha parlato di «virata a destra» e di «grave errore di calcolo» da parte della premier, visto che la campagna in Scozia verrà dominata dal tema dell’indipendenza, su cui l’Snp vuole un secondo referendum subito dopo la fine dei negoziati con Bruxelles. Evento che i conservatori vogliono rinviare il più possibile: col rischio che l’appuntamento referendario arrivi troppo a ridosso delle prossime elezioni, che saranno nel giugno del 2022.

Renzi prepara il riscatto politico Alfredo Venturi «Ma di che parlano questi?» Se lo chiedono in molti, nel locale affollato, prima che qualcuno cambi canale. Stavano trasmettendo un dibattito sui casi della politica, trattando temi quali la legge elettorale, la prova di forza all’interno del Partito democratico, il parallelo travaglio del centrodestra, le vicende al vertice del comune di Roma. Palpabili il fastidio e l’insofferenza, il contrasto fra una politica per addetti ai lavori che parla il suo gergo esoterico e un’opinione pubblica che vorrebbe la classe dirigente impegnata con la dovuta chiarezza sui problemi reali che affliggono il Paese: la ripresa economica che non decolla, la disoccupazione, l’insicurezza, il debito pubblico a livelli stratosferici, la fiscalità alle stelle. In questo clima d’indifferenza, solo in apparenza contraddetta dagli insulti che i militanti di opposte tendenze si scambiano in rete, Matteo Renzi (foto) prepara il riscatto politico dopo la dura lezione del referendum dello scorso dicembre, quando fu bocciata la sua proposta di riforma costituzionale. Il presidente aveva promesso: se perdo lascio la politica. Si è limitato a lasciare la guida del governo, cedendola a Paolo Gentiloni, ma il partito se lo è tenuto ben stretto.

Si è dimesso da segretario, ma solo per ricandidarsi. In un Pd che dopo l’acceso confronto seguito alla sconfitta referendaria ha subìto una scissione a sinistra, provano a contrastarlo due sfidanti, il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il presidente della Puglia Michele Emiliano. Secondo le regole statutarie la scelta del segretario avviene in due fasi. Prima votano i circoli, articolazioni territoriali del partito, poi si fanno le primarie aperte a tutti. La prima fase ha decretato il successo di Renzi con oltre i due terzi dei voti, mentre Orlando si è dovuto accontentare di un quarto e Emiliano di un sei-otto per cento. La seconda fase il prossimo 30 aprile. Per nulla intimiditi dai fiaschi recenti e incuranti della difficoltà di individuare un campione statistico per un elettorato composto di tesserati Pd e di esterni in proporzione incerta, i sondaggisti assegnano a Renzi fra il 50 e il 75 per cento, a Orlando una forbice 19-31, a Emiliano dal 6 per cento in su. Quattro giorni prima del voto i tre candidati si affronteranno in tv: sarà interessante, alla luce del grande rifiuto popolare della politica, misurare il richiamo sul pubblico della sfida televisiva. Con il consueto spirito guascone, Renzi considera la riconferma cosa fatta, e confida in una messe abbondante di

voti. Ma fra i suoi fedeli c’è nervosismo, perché la partita non è poi così scontata e un successo di stretta misura sarebbe paralizzante. Il risultato nei circoli deve molto al fatto che molti militanti, sulle orme di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, hanno lasciato il partito, e un 40 per cento degli iscritti non ha votato. Ma il 30 aprile molti transfughi andranno a sostenere gli avversari di Renzi. Gianni Cuperlo, uno dei dirigenti che appoggiano Orlando, ha fatto appello proprio agli scissionisti. È quello che i renziani chiamano «soccorso rosso», sottolineando così una delle cause delle tensioni che scuotono il Pd, la sterzata verso destra. È singolare che proprio l’outsider Renzi affidi le sue sorti al partito, mentre gli eredi della tradizione cercano la salvezza all’esterno. Il voto dei non iscritti è la variabile decisiva. La dilagante disaffezione non lascia prevedere una folta partecipazione. I traguardi delle primarie che nel 2009 incoronarono Bersani con l’afflusso di più di tre milioni di votanti, o anche il dato del 2013, quando andarono a votare due milioni e 800 mila persone e Renzi ne uscì vincitore, sembrano inattingibili. Davanti a una platea prevedibilmente scarsa e lontana dagli entusiasmi del passato, Renzi mette in gioco una popolarità declinante, che cerca di rafforzare attaccando l’Europa, cioè get-

tandosi a capofitto sulla scarsa simpatia di cui godono al momento le istituzioni di Bruxelles. Ha bisogno di una buona affermazione e ci conta: se confermasse i dati emersi dai circoli, ottenendo due terzi dei voti, potrebbe perseguire il suo chiodo fisso, elezioni anticipate e ricandidatura a Palazzo Chigi. Per arrivarci è disposto a negoziare sulla legge elettorale, per esempio cedendo sul punto controverso dei capilista bloccati. Ma la prospettiva del voto anticipato rispetto alla scadenza naturale d’inizio 2018 apre scenari non proprio improntati alla chiarezza e alla stabilità. Le tre principali forze in campo, Pd, Movimento 5 Stelle, centrodestra, si equivalgono. Il 40 per cento che il Pd conquistò alle ultime elezioni europee non è che un miraggio al quale il solo Renzi s’illude di poter credere. Se il voto dovesse confermare le previsioni nessuno sarebbe in grado di governare, e così sarebbe necessaria la coalizione fra due delle tre forze in campo, il che presuppone un governo condizionato dalle diverse visioni politiche e dunque programmi di corto respiro. La coalizione più probabile sembra quella del Pd formato Renzi con il centrodestra. Una prospettiva non estranea al malessere che ha indotto ampie frange del partito a ribellarsi contro l’uomo che proclamò la volontà di «rottamare» i

AFP

Primarie Pd Dopo la dura lezione del referendum dello scorso dicembre

vecchi dirigenti, esasperando la frizione fra i militanti di provenienza cattolica e quelli che hanno alle spalle il Pci. Intanto Silvio Berlusconi assiste sornione alle convulsioni del Pd, attende una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che gli consenta una nuova discesa in campo, e s’immagina nel ruolo del padre della patria che blocca la deriva populista alleandosi con il «delfino» che ha saputo impadronirsi del Pd estromettendone i comunisti. Ma anche lui è alle prese con ardui problemi di coesistenza, come il rapporto con la Lega, che ormai si colloca al livello consensuale di Forza Italia, e con il suo capo Matteo Salvini, che prova a scuotere l’apatia dei cittadini elettori tuonando contro l’euro, l’Europa, gli immigrati, e una sinistra accusata di esserne succube.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Politica e Economia

Il Venezuela sprofonda nel caos

Caracas Il presidente Maduro aveva esautorato il Parlamento (che non controlla) con una decisione

del Tribunale supremo (che controlla). Un golpe giudiziario fatto rientrare quasi immediatamente ma con due fazioni di militari sullo sfondo che si contendono il governo Angela Nocioni C’è una guerra in corso tra fazioni delle forze armate in Venezuela. È una guerra sotterranea, almeno per ora, in cui nessuno dei due principali gruppi di potere in lotta prende il sopravvento sull’altro. Questo spiega, in parte, l’apparentemente incomprensibile capacità del governo del presidente Nicolás Maduro di sopravvivere sull’orlo dell’abisso economico e sociale del Paese. Con una inflazione del 720% nel 2017, prevista oltre il 2000% per il 2018 secondo gli ultimi dati del Fondo monetario internazionale. Il Venezuela è completamente in mano ai militari. Controllano quel che rimane dell’apparato produttivo, a cominciare dall’industria pubblica del petrolio, Pdvsa, e si occupano della distribuzione dei prodotti di consumo. Sono quasi tutti occupati da militari i posti di comando politico, compresi i vertici dei governi degli Stati più importanti (il Venezuela ha una struttura statale federale). La crepa nell’apparente compattezza che le forze armate hanno sempre presentato all’esterno si è intravista per la prima volta la notte delle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento, il 6 dicembre del 2015, che hanno dato vita a un permanente braccio di ferro tra il parlamento e il capo dello Stato. Passavano le ore e non uscivano i risultati del voto. Correvano voci di golpe in corso. La tensione era altissima. Fu rotta dall’inusuale apparizione televisiva del

ministro della Difesa, il generale Vladimir Padrino López, circondato dagli alti vertici militari. Pronunciò parole vaghe il generale, con faccia tetra. Disse, in sostanza, che le forze armate avrebbero protetto il risultato elettorale. Tutti sospettarono che i risultati non stavano uscendo perché il governo non sapeva come gestire la sconfitta che, a ragione, si pensava si stesse profilando. Qualcuno, nell’appartato di potere, era forse determinato a manipolare l’esito delle votazioni? Una versione mai confermata dei fatti oscuri di quella notte sostiene che il numero due del regime, Diosdado Cabello – molto legato alla parte più corrotta dell’esercito e referente politico della «boliborghesia», la borghesia bolivariana, ossia la classe sociale arricchitasi all’ombra del chavismo attraverso mille traffici sui quali indaga da anni anche la Dea statunitense (l’antidroga) – stesse tentando di imporre una frode elettorale quella sera e che i militari non lo permisero. Fatto sta che alla fine i risultati uscirono: vittoria dell’opposizione con una maggioranza schiacciante. Il Parlamento era ormai fuori dal controllo del chavismo. La guerra tra Cabello e il ministro Padrino López è tornata in superficie il 31 marzo scorso, quando il presidente del Tribunal Supremo de Justicia (Tsj), Maikel Moreno, a capo di un organo interamente controllato dal governo, ha annunciato di aver esautorato il Parlamento (in mano all’opposizione anti-

Il Paese è attraversato da ondate di proteste contro Maduro. (AFP)

chavista) dalle sue funzioni togliendo ai deputati l’immunità e ampliando ulteriormente i poteri eccezionali del capo dello Stato Nicolás Maduro. Si è trattato di un golpe giudiziario, anche se nella sostanza era un golpe vero e proprio, per il momento senza carri armati nelle strade. È successo però che a sorpresa, il giorno dopo, Luisa Ortega, la «Fiscal general» della Repubblica (dipendente dal Ministero Pubblico, ma nominata dal Parlamento, figura di garanzia istituzionale con, in realtà, grandi poteri effettivi) chavista di ferro, tanto di ferro da aver spedito in galera il capo dell’opposizione Leopoldo Lopez con accuse debolissi-

me, ha denunciato pubblicamente di considerare la decisione del Tribunale Supremo una «rottura dell’ordine costituzionale». Ventiquattro ore dopo il Tribunale ha fatto un passo indietro e ha ritirato la sentenza che esautorava il Parlamento. Golpe fallito nel giro di un fine settimana ma niente in realtà è davvero risolto. I due grandi gruppi che si contendono la guida del governo sono capeggiati uno da Maduro, sua moglie Cilia Flores, con Diosdado Cabello che garantisce l’appoggio di un’ala militare e l’altro dal generale Porfirio Lopez, sempre più vicino a Luisa Ortega, che ha fatto il suo outing politico con la scon-

fessione del tentato golpe del Tribunale supremo. Se Luisa Ortega avesse fatto quella dichiarazione frontale contro il Tsj senza avere il ministro della Difesa e il suo gruppo di generali alle spalle sarebbe finita dritta in carcere con qualsiasi accusa senza bisogno di prove, come accade ormai in Venezuela da molti anni. Luisa Ortega era inizialmente una fedelissima di Cabello. Fu lui a garantire la sua ascesa politica fino alla nomina al delicato ruolo di Fiscal general. Ora invece punta ad essere la costola del chavismo pronta a staccarsi dal corpo della Rivoluzione fallita, non appena la Rivoluzione sarà sepolta. L’obiettivo, ovviamente, è sopravvivere alla fine dell’era chavista e riciclarsi nel Venezuela del futuro. Tutto ciò avviene mentre l’economia sprofonda. Più del 78 per cento dei venezuelani non vuole più saperne di questo governo, ma l’esercito appoggia il presidente e le grandi istituzioni come la Corte suprema sono nelle mani degli uomini fedeli al presidente. Il salario minimo supera di poco i 40’000 bolivares, l’equivalente di dieci dollari. Non è possibile vivere in moneta nazionale, i bolivares, la moneta in cui vengono pagati gli stipendi, perché la maggior parte dei beni anche di prima necessità si può comprare solo al mercato nero, dove la divisa di riferimento sono sempre e solo i dollari. Gli amatissimi dollari statunitensi, la «moneda del enemigo». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Politica e Economia

Dal bio al vegano: fattibile?

Agricoltura Gli Svizzeri sono i maggiori consumatori di prodotti bio. Ma il passaggio a un’agricoltura vegana

comporterebbe un totale cambiamento nei modi di produrre e di consumare

Ignazio Bonoli Una recente statistica dice che gli Svizzeri sono i primi al mondo nell’acquisto di prodotti biologici. La spesa media, in questo campo, è di 299 franchi a testa. Si tratta, infatti, di un mercato in constante crescita. Molte aziende agricole si sono adattate alle regole del «bio» e il numero di consumatori è significativamente in aumento. Presso Bio Suisse si sono registrate lo scorso anno 386 aziende, cifra che non era più stata raggiunta dagli anni Novanta. In totale, le aziende «Gemma» (il cui logo è appunto una gemma stilizzata) in Svizzera sono 6144. Il fatturato del settore ha già superato i 2,505 miliardi di franchi. Ma, fra i consumatori, oltre ai prodotti bio, vanno prendendo piede forme nuove di consumo, ispirate al vegetarianismo o al veganismo. La tendenza è tale per cui l’obiettivo diventa quello di escludere dal consumo – diretto o indiretto – i prodotti animali: dall’esclusione totale della carne nell’alimentazione umana, ma anche nell’alimentazione animale e perfino nell’uso del concime di origine animale per le produzioni vegetali. La «NZZ» ha dedicato il supplemento mensile «Folio» a questo tema. Citando l’esempio di una fattoria dell’Entlebuch, che ha completamente eliminato gli animali, compreso il loro concime, l’autore dell’articolo conclusivo si chiede se ciò possa essere possibile a livello mondiale. Il convegno

vegetariano del 2004 ha risposto che la coltura bio-vegana è il futuro, meglio ancora se è al cento per cento. Se dovessimo abbandonare in Svizzera l’allevamento di animali, vedremmo lasciare il paese una processione di 1,6 milioni di bovini, altrettanti maiali, 340’000 pecore, 75’000 capre, 11 milioni di polli, 100’000 conigli, un migliaio di struzzi e mezzo migliaio di Yaks. In pratica, due animali da reddito per abitante. E questo senza contare gli animali da compagnia, e quelli selvatici, costituiti da 120’000 caprioli, 94’000 camosci, 35’000 cervi e le migliaia di cinghiali, volpi, tassi, martore, lepri e marmotte, senza contare gli innumerevoli pesci. La completa rinuncia in Svizzera al consumo di carne significherebbe la scomparsa di 53 kg di carne, di 174 uova e di oltre 400 litri di latte per ogni abitante e la loro sostituzione con prodotti vegetali. Esperti agronomici hanno calcolato che il passaggio a un consumo unicamente vegano provocherebbe una riduzione della superficie coltivata dagli attuali 2353 mq (per consumatore all’anno) a 732 mq. Non è un paradosso, perché l’allevamento di animali da reddito ha bisogno di una superficie coltivata tre volte superiore a quella necessaria per la produzione dei sostituti vegetali della carne. Il grosso divario è dato dal fatto che gli animali trasformano in energia soltanto un terzo delle calorie che consumano. In altri termini, per una caloria fornita dalla carne di un manzo,

sono necessarie 10 calorie vegetali, per un maiale 5 calorie e per una gallina 3 calorie. Accanto ad altre riflessioni di tipo non economico, questo è certamente l’argomento principe dei vegani: per ottenere lo stesso contenuto di energia nei consumi, basta una superficie coltivata molto inferiore. Per esempio, per una caloria dal pane la superficie necessaria è di 15 volte inferiore a quella di una caloria dalla carne. Ma quello che succede oggi e non solo in Svizzera è che si coltivano sempre più superfici di terreno per ottenere mangimi per animali (o altro). Di conseguenza, il passaggio ad una agricoltura vegana ridurrebbe di molto la superficie necessaria. In Svizzera si calcola che ne basterebbe un terzo. Il problema si complica però per il fatto che in Svizzera un decimo della superficie è occupata da pascoli alpini. Qui gli animali hanno una funzione importante: quella di fermare l’avanzata del bosco. Il fenomeno è del resto già in atto: negli ultimi 150 anni in Svizzera, il bosco è avanzato nelle Alpi tra il 30 e il 50%. Senza animali sarebbe impossibile fermare questa evoluzione. Che comunque sarebbe favorevole all’ambiente. Ultimamente si è, infatti, scoperto che il gas emesso dal bestiame bovino produce un effetto serra almeno pari a quello delle automobili. È difficile calcolare quale effetto avrebbe il passaggio a un mondo senza carne, ma in questo caso almeno ci sarebbe una diminuzione di gas metano del 14,5 per

Rinunciare a ogni tipo di allevamento, anche bio, ridurrebbe di due terzi la superficie coltivata, ma i pascoli lascerebbero spazio al bosco. (Keystone)

cento. Riducendo il problema all’osso possiamo constatare che ogni prodotto consuma una porzione di terreno, che deve essere rigenerata. Gli animali forniscono una gran parte di concime rigeneratore, che dovrebbe essere sostituito da terreno coltivato per questo scopo soltanto. Qui l’aspetto biologico si distanzia da quello vegano, che spesso è una somma di etica animale, di ecologia, ma anche di garanzia del nutrimento della specie umana. Questi scopi possono talvolta contraddirsi. C’è anche chi ritiene che per sopperire al

concime animale, grosso apportatore di ossigeno al terreno, si debba tornare anche a riutilizzare concime umano. Si sa già però che si può produrre ossigeno da laboratorio, trasformandolo in concime. Ma ci vorrebbero quantitativi enormi di energia. La bio-coltura fa oggi grandi progressi ed è senz’altro meritevole. Del resto in molti casi significa un ritorno al passato. Andare oltre col rischio di perdere di vista lo scopo principale – quello di nutrire l’uomo – potrebbe creare molto scompiglio. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi L’occupazione che non dovrebbe crescere Di solito i media parlano sempre in positivo dell’aumento degli occupati o dei posti di lavoro di un’azienda, di un ramo o di un settore. Diventano però scettici quando si tratta di aumenti del personale occupato nelle amministrazioni pubbliche o in rami – come l’educazione, il sociale o la sanità – dove l’intervento pubblico è dominante. Due titoli scelti tra quelli di una dozzina di articoli apparsi negli ultimi mesi, possono servire per meglio descrivere questa situazione. «Questo mercato del lavoro bisognerebbe poterselo permettere» scriveva, all’inizio di gennaio di quest’anno, il «Tages Anzeiger» parlando delle tendenze di aumento dell’occupazione nelle attività del parastato. Neanche un mese dopo la «NZZ» gli faceva eco con il titolo «L’amministrazione (intendendo quella federale) continua a crescere». Le amministrazioni statali (non solo quella della Confederazione ma anche quelle di Cantoni e Comuni) e le attività del parastato sono oggi

molto attrattive per chi cerca impiego. È facile capire il perché. Nel corso degli ultimi tre decenni il mercato del lavoro svizzero si è molto flessibilizzato. È aumentato il tasso di disoccupazione ed è fortemente aumentata anche la quota delle persone che vi lavorano a tempo parziale. Quella che era un’esperienza comune per molti lavoratori, ancora pochi decenni fa, ossia di entrare, una volta terminato il tirocinio, in un’azienda e di passarvi tutto il periodo della vita lavorativa è diventata oggi una grande eccezione. Come eccezionale sta diventando il fatto di ottenere un posto di lavoro a tempo pieno. Salvo naturalmente nelle attività statali e parastatali. Pur avendo soppresso, o quasi, lo statuto del funzionario che assicurava praticamente, a chi lo deteneva, un impiego per la vita e uno stipendio che aumentava in parallelo con la durata del rapporto di lavoro, le amministrazioni pubbliche e le aziende del parastato continuano a garantire un’elevata

sicurezza del posto di lavoro. In un mercato del lavoro dove il precariato è una condizione che si espande sempre di più è quindi normale che chi cerca lavoro si orienti, di preferenza, verso le attività statali e parastatali. Ma anche la domanda di lavoratori da parte del settore pubblico è in continuo aumento. I due esempi sempre citati sono quelli della sanità e dell’educazione. Mentre nel settore sanitario, nel corso degli ultimi 25 anni, il personale è aumentato del 66%, ossia a un tasso del 2% annuale, nel settore dell’educazione gli effettivi sono aumentati del 54%, ossia a un tasso pari all’1,7%. Per il confronto si tenga presente che il tasso di aumento annuale medio dell’occupazione in Svizzera, nel corso del periodo 1991-2016, è stato pari allo 0,9%. Le ragioni di questo forte aumento sono diverse. Per quel che riguarda l’educazione si osserva che a fronte di una stagnazione degli scolari nei livelli di scuola inferiori si è avuta una sorta di esplosione nel livello

terziario in seguito allo sviluppo delle scuole universitarie professionali. Anche i servizi specializzati che sostengono gli educatori hanno visto il numero dei posti di lavoro aumentare. C’è chi sostiene che questo aumento sia eccessivo e, soprattutto, che, in questo settore, non siano i bisogni, ma piuttosto la disponibilità di insegnanti a far aumentare il numero dei posti di lavoro. Sono ipotesi che restano tuttavia da dimostrare. L’occupazione nel sanitario sembrerebbe aumentare perché da un lato, in seguito al continuo invecchiamento della popolazione, la richiesta di prestazioni aumenta e, dall’altro, perché è difficile far aumentare la produttività delle cure, siano esse prestate a domicilio o in ospedale. Aumentano naturalmente anche gli effettivi degli impiegati delle amministrazioni pubbliche, sebbene a un tasso molto più contenuto (intorno all’1% annuale). In questo caso sono quasi sempre nuovi bisogni nel campo della sicurezza, della

politica di controllo delle migrazioni, o del controllo amministrativo a far crescere il numero dei posti di lavoro. L’aumento dell’impiego nelle attività del settore pubblico e in quelle dei settori parapubblici preoccupa le autorità di tutti i livelli perché i costi del personale nei conti pubblici rappresentano sempre la fonte di spesa più importante. Le misure di freno alle assunzioni sembrano avere effetto solo per periodi di tempo limitato. A differenza del settore privato, nel pubblico le chiusure e le fusioni non portano immediatamente a una riduzione del personale. Qualche grado di libertà in più lo si può ottenere privatizzando quelle attività che possono concorrere sul mercato. Tuttavia l’evoluzione dell’impiego pubblico e parapubblico di quest’ultimo quarto di secolo dimostra che anche le privatizzazioni delle aziende pubbliche non hanno portato a una flessione della tendenza all’aumento più che proporzionale dell’occupazione.

della cosiddetta «svolta interventista» americana è molto alto tra gli esperti, che anzi sottolineano come sia soltanto la politica interna a guidare le scelte del presidente, America first appunto: c’era bisogno di dissipare un pochino la nube dell’ingerenza russa sulla campagna di Trump e sul suo staff, e le parole dure utilizzate nei confronti di Assad e del suo padrino russo, Vladimir Putin, a questo sono servite. Ma c’è dell’altro. Il documento che è stato pubblicato dal Consiglio per la sicurezza guidato dal generale McMaster qualche giorno dopo il blitz contiene due punti importanti: il primo è fissare dei paletti alla propaganda putinian-assadista sui fatti siriani; il secondo è fare un appello internazionale agli alleati su una strategia comune contro chi ricorre ad attacchi chimici per domare l’opposizione interna, come ha fatto Assad – è la fine dell’impunità. Da anni la propaganda russa investe sul dubbio:

non è Assad che usa il gas, sono i ribelli a lui avversi a farlo. Questa operazione di controinformazione è stata così potente che ancora oggi è molto diffusa la convinzione che gli assadisti «non hanno convenienza» a perpetrare certi attacchi, e per questo non possono essere loro gli autori di tali crimini. McMaster e il suo Consiglio ribaltano questo paradigma, dimostrando con fonti di intelligence che soltanto il regime di Assad ha la possibilità – e l’intenzione – di reprimere l’opposizione utilizzando armi chimiche. E ne aggiungono un altro, di paradigma: un richiamo internazionale, per niente isolazionista, a evitare che si ripetano attacchi di questo genere. È la prima volta – Obama non l’aveva mai fatto – che l’Amministrazione americana esercita una pressione sul regime di Damasco che non riguarda esclusivamente la possibilità di una rappresaglia di una notte, ma uno sforzo di prevenzione più ampio.

Trump esclude che ci sia un’operazione militare di ampia portata, ma quando definisce Assad «un animale» e «un male» dà un nuovo slancio a un processo di transizione del potere in Siria fino a ora impantanato. Ancora una volta non si sa se questa linea dura sia destinata a resistere. Ma quando la settimana scorsa l’ambasciatrice Haley si è presentata all’Onu con una delle dichiarazioni umanitarie più potenti degli ultimi anni, il sussulto interventista si è rianimato: per la prima volta, ha twittato la Haley alla fine della sessione, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha guardato alle «connessioni tra guerre e diritti umani su richiesta degli Stati Uniti»: «Le violazioni dei diritti umani e gli abusi non sono una conseguenza incidentale dei conflitti – ha detto la Haley – Spesso sono la causa dei conflitti». Se una nuova dottrina c’è, l’ambasciatrice all’Onu di Trump ne è la portavoce, il volto più noto, con lo sguardo fiero.

altro io faccio da spalla, contento di godere la sua arguzia e il suo amore per il Ticino. Difficile, a questo punto, stabilire il perché le intercettazioni siano approdate nel sogno. Ho due deboli indizi. Il primo fa riferimento a un libro, scritto vent’anni fa da due colonnelli analisti dell’esercito cinese. È uno di quei libri strani che compero senza sapere bene se li leggerò e se mi serviranno. Quanto al piacermi, l’ho appena iniziato per poterlo dire. Per ora mi accontento di sapere che è in mio possesso, visto che Amazon avvertiva che era l’unica copia (e forse è stato quello a convincermi) presente nel suo sterminato magazzino che comprende anche e-book e copie di seconda mano. L’ho cercato quando ho saputo che viene usato, dopo l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, per istruire gli apparati d’intelligence Usa e oggi viene studiato da coloro che vogliono scoprire il ruolo che la Cina mira a ricoprire nel mondo. Il generale Fabio

Mini, noto ai telespettatori ticinesi per le sue presenze alla Rsi come esperto di strategia militare, nel primo capitolo lo definisce uno dei testi fondamentali per capire quanto indica il sottotitolo: l’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione (il titolo invece è Guerra senza limiti di Qiao Liang e Wang Xiangsui). Forse è stato quel parallelo fra violenza rivoluzionaria e globalizzazione, in un momento in cui terrorismi e attentati continuano a tormentare la pavida Europa, a mettere in circolo nella mia mente quel trattato militare cinese anche durante il sonno. Il secondo indizio, potenzialmente mischiato al primo, è una lettera inviata a «Repubblica» il giorno prima da un magistrato che, citando i conflitti fra quattro ordini di interessi (diritto della giustizia di svolgere le indagini su reati e indiziati; diritto della difesa alla conoscenza degli atti; diritto all’informazione e alla libertà d’espressione; diritto alla privacy), trattava il tema delle

intercettazioni e dell’uso politico e mediatico che se ne fa in Italia, spesso in violazione del segreto istruttorio. Quella lettera deve aver riacceso nella mia mente l’incendio della sterminata letteratura sul «tracking telefonico», cioè le intercettazioni riguardanti smartphone e social media, spintesi anche alle applicazioni (Skype, WhatsApp e altri) dei tablet e dei pc. Certo è sorprendente che un pensionato arrivi ad avvertire anche durante il sonno preoccupazioni per queste problematiche che spaziano dalla sicurezza nazionale sino allo «sputtanamento», ovvero al pettegolezzo intriso nel fango. Comunque non credo che esistano gli estremi che spingano ad analizzare, interpretare e magari... elaborare un simile sogno. Meglio seguire il monito di un certo Sigmund Freud, un esperto, che diceva: «I sogni apparentemente innocenti si rivelano maliziosi, quando ci si sforza di interpretarli». In altre parole, conviene riderci sopra.

Affari Esteri di Paola Peduzzi La dottrina umanitaria di Nikki Haley È difficile stabilire se Donald Trump abbia davvero cambiato il suo approccio in politica estera, ma all’Onu la sua ambasciatrice Nikki Haley sembra esserne certa. Dopo l’attacco chimico di Bashar al-Assad, rais siriano, contro il proprio popolo, a Idlib, l’America ha deciso di reagire, con un blitz all’alba del 4 aprile, 59 missili su una base aerea del regime di Damasco. Qualche ora prima, alle Nazioni Unite, la Haley aveva mostrato le foto dei bambini colpiti dal gas, corpicini morti o mezzi vivi, con gli occhi fissi, perché uno dei sintomi del sarin sono le pupille ferme, appunto, e la schiuma dalla bocca. Non è la prima volta che un ambasciatore americano si presenta all’assemblea del Consiglio di sicurezza con delle prove, ci furono le famigerate fialette di Colin Powell che portarono alla campagna d’Iraq; ci sono stati, negli ultimi anni, scambi infuocati tra l’ambasciatrice obamiana Samantha Power e i diplomatici russi, ma la

Haley con le sue pause di commozione e lo sguardo fiero ha avuto un risalto quasi unico: è pur sempre l’ambasciatrice di un presidente che fin dalla campagna elettorale ha ripetuto che del mondo – e di Assad in particolare – non gli importava granché, America first. I commentatori si dividono: c’è chi pensa che l’improvvisazione sia l’unica cifra del trumpismo, e che in questo caso il blitz sia stato determinato da due fattori rilevanti nel processo decisionale di Trump: la figlia Ivanka, che di fronte alle immagini dei bambini uccisi pare sia andata dal padre a dire che no, non si poteva lasciare impunito un atto criminale di quella portata; le immagini appunto, che sono quelle che colpiscono di più il presidente, al punto che il commentatore antitrumpiano Max Boot sostiene che la dottrina Trump non sia altro che «quello che mi ha sconvolto ieri sera guardando la tele». Lo scetticismo nei confronti

Zig-Zag di Ovidio Biffi Occhio alle orecchie Dovendo parlare di un sogno, preferisco ricostruirlo subito. Tutto inizia dalla domanda di un amico che tocca il tema delle registrazioni telefoniche e dell’uso che ne possono fare i media o chi gestisce un potere: – Ta pénsat che quii dala Cia i scúltan e i registran anche i ball che cüntum sü mi e ti al telefun? – E sì, l’è mej fà atenziún... – Ma tra da nüm parlum dumà dialètt, quii là i capissan nagott... – T’al dísat ti! Propi iér un articul sü Repüblica al diseva che l’archeologo scvizar Burkhardt, quant’al parlava cunt i arabi, al prövava a fass capì doprando ul schwizertüütsch... – Sì, ma gh’è na bèla diferenza fra ul dialètt da Gurtnellen e quii che gh’em da Airöö in giò... – A saress mia inscí tranquill. Pröva a imaginà che ul mè gatt al sa ciama Tor, dal nom dal diu Thor dala mitologia tudesca. E al telefun mi ta disi: «G’ho dai una scatuleta da ton al Thor».

Quii che sculta i telefunaat, cusè che i capissan? Che mi g’ho una scatula da detonatór!!!! Cinq minütt e pö in via al Ponte a Massagn e alla Mugerenstrasse a Cham a vola i droni... – Ma va là... L’è un caas che t’è inventaa ti... – Vörat un altru esempiu? Se ta disi: «Duman a ta porti ul can dal Otto», l’è natüral che a 7000 km da distanza ul cervelún eletronic dal Maryland al pizza la spia rossa: l’ha sentü e capii che mi ta porti un candelotto!!! – Al gh’eva propi resún quel che diseva: «Occhio alle orecchie». Ecco ricostruito (e abbellito, per mitigare un po’ la fatica) il mio strano sogno. Potrà forse risultare anche poco verosimile, ma il colloquio era più o meno quello. L’ho scambiato con l’amico che ogni giorno mi telefona da Cham, dorata cittadina zughese, per una sana e critica rilettura, rigorosamente in dialetto, dei fatti del giorno, anzi: della stampa cantonale. Più che


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Cultura e Spettacoli Ricognizione galiziana Alla scoperta di una terra, la Galizia, che non esiste più, ma ancora vive grazie alla letteratura pagina 33

Il valore del fotogiornalismo Ad Amsterdam sono recentemente stati assegnati i World Press Photo Awards: fra i vincitori anche il fotografo turco Burhan Ozbilici

Francesco Hoch in Russia Un’orchestra sinfonica di San Pietroburgo eseguirà due opere del compositore ticinese

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Pablo Picasso, Guernica, 1937. (Sucesiòn Pablo Picasso. VEGAP. Madrid, 2012)

Guernica, 80 anni fa Mostre Un’analisi sul capolavoro di Picasso a Madrid Gianluigi Bellei Spagna. Paesi Baschi; Guernica, 26 aprile 1937. Lunedì: giorno di mercato. Gli abitanti del paese sono tutti per le strade e queste sono affollate di donne e bambini. Sono da sempre gente orgogliosa, libertaria; in quel periodo quasi tutti gli uomini sono al fronte per combattere contro il generalissimo Franco. Fa caldo, è un giorno particolarmente soleggiato. Pomeriggio. Improvvisamente arrivano echi di strani rumori, prima deboli e lontani, poi via via sempre più forti. Un rombo di motori fastidioso, inquietante. Ore 16 e 30, il cielo si fa scuro. Sopra la testa volano dei bombardieri Junkers ed Heinkel e aerei da combattimento, sempre Heinkel, della Luftwaffe germanica. Iniziano a cadere bombe da 1000 libbre. Per tre ore e un quarto gli aerei bombardano la cittadina, mentre quelli da combattimento mitragliano le persone che cercano di scappare verso i campi. La città è rasa al suolo. Come in tutte le storie, naturalmente, la realtà fatica a risultare univoca. Alcuni sostengono che il bombardamento non ci sia stato; altri che i dati, e soprattutto il numero dei morti, siano da ridimensionare drasticamente. Il mercato non c’era, e via discorrendo. Quello che qui interessa però è che allora questo avvenimento ebbe un’eco internazionale suscitando sdegno e terrore per quello che il fascismo e il nazismo erano in grado di fare. Ma facciamo un passo indietro. Nel gennaio dello stesso anno il governo spagnolo in esilio commissiona a Pablo Picasso un dipinto che rappre-

senti la Spagna all’Esposizione internazionale di Parigi che si inaugura il 25 maggio. Picasso ha 54 anni e vive proprio a Parigi. I bombardamenti di Guernica hanno su di lui un effetto dirompente. Decide di dedicare il dipinto alle sue vittime innocenti. Picasso è un artista impegnato politicamente. In una conversazione del 1945 con Simone Téry, apparsa poi su Lettres Françaises, alla domanda su cosa crede che sia un artista, risponde: «Credete che sia un imbecille che ha solo gli occhi, se è un pittore, le orecchie se è un musicista, e una lira a tutti i piani del cuore se è un poeta, oppure se è un pugile solamente i muscoli? No, egli è anche un uomo politico, costantemente sveglio davanti ai laceranti, ardenti o dolci avvenimenti del mondo, e che si modella totalmente a loro immagine. Come sarebbe possibile disinteressarsi degli altri uomini e, in virtù di quale eburnea indifferenza, staccarsi da una vita che essi vi apportano così copiosamente? No, la pittura non è fatta per decorare appartamenti. È lo strumento di una guerra offensiva e difensiva contro il nemico». Il 1. maggio 1937 realizza lo schizzo iniziale per il dipinto che termina dopo neanche un mese di incessante lavoro. Il Museo Reina Sofia di Madrid, che possiede l’opera, organizza in occasione di questo anniversario una mostra studio che presenta tutti i disegni preparatori unitamente a diversi lavori degli anni precedenti e seguenti la sua realizzazione. 180 opere provenienti da 30 musei internazionali come il Musée Picasso e il Centre

Pompidou di Parigi, la Tate Modern di Londra, il MoMA e il Metropolitan Museum di New York, la Fondazione Beyeler di Basilea o la collezione privata di Claude Ruiz-Picasso. Gli innumerevoli disegni preparatori dimostrano che Picasso ha sin dall’inizio una visione completa del lavoro che con il passare dei giorni si modifica e si adatta in ogni particolare ai singoli cambiamenti. Appare subito chiaro che non può mettere in scena il dramma di tutti i diecimila abitanti. Ha quindi condensato gli avvenimenti in poche figure. Nove, al termine dei lavori. Quattro donne, un bambino, la statua di un guerriero, un toro, un cavallo, un uccello. Non sono presenti né il nemico, né gli aerei. Il primo veloce schizzo mostra l’impostazione generale: un toro a destra, un cavallo in centro, un figura distesa in primo piano e una donna a sinistra che illumina la scena. All’inizio le figure non si sovrappongono. Nel terzo disegno il toro scompare. Nel quinto il cavallo girato verso destra si contorce piegando le zampe. Dopo una settimana i gruppi di figure sono tre, separati fra loro. Seguono singoli disegni che si concentrano su un solo soggetto: il toro, il volto della donna, il guerriero caduto. Picasso è un uomo meticoloso. Ogni disegno è numerato e datato. Del lavoro complessivo si hanno 28 fotografie, scattate da Dora Maar, che raccontano l’intricato sviluppo della gestazione. Nel primo stadio il toro copre circa metà del dipinto. Il guerriero morente ha la testa rivolta all’insù con un braccio sollevato in

alto e il pugno chiuso. Nel secondo stadio il pugno del guerriero viene staccato dal corpo. Nel terzo il corpo del guerriero è girato dall’altra parte con la testa rivolta verso il basso. Il braccio viene tolto. Poi il cavallo che aveva la testa piegata verso il basso la sposta in alto in segno di dolore. Si delineano tutte le altre figure e alla fine il corpo del guerriero viene girato verso l’alto e la sua testa staccata dal corpo. Non raccontiamo tutti i cambiamenti delle singole figure che alla fine si incastrano fra loro in maniera non totalmente distinguibile. Resta l’impianto generale che vede il dipinto svilupparsi in un movimento da destra verso sinistra: l’esatto opposto dell’occhio dell’osservatore che, di solito, va da sinistra verso destra. La composizione è a forma di triangolo con in basso il guerriero, la donna, il cavallo, con per apice la lampada. Speculari il toro e il volto della donna con la lampada che illumina la scena. Un dipinto terribile che ancor oggi rappresenta un manifesto contro tutte le guerre. Ma anche di difficile lettura; per alcuni simbolico, per altri no. Il cavallo, con il suo grido lancinante, sicuramente è la vittima innocente e passiva delle corride e il toro per alcuni la figura che stupra l’Europa, per altri il popolo e per altri ancora «l’immagine imperturbabile della Spagna». Guernica non rappresenta la morte, il dolore, lo strazio, ma è nella morte, nel dolore, nello strazio. Il pittore, scrive Giulio Carlo Argan, non assiste al fatto, «ma è dentro il fatto». Un dipinto classico con simmetria e prospettiva, all’interno di un ribalta-

mento delle forme che rivoluziona il concetto stesso di estetica. Se pensate, però, che le figure siano irrealistiche dovete guardare le immagini fotografiche di Peter Zimmermann sui mutilati della guerra civile spagnola – provenienti dall’archivio personale di Picasso, piene di mani deformate, braccia tagliate e corpi mutilati o quelle delle Ediciones 5° Regimiento, altrettanto esplicite – per ricredervi. La mostra, che ha come epicentro Guernica, si snoda attraverso una serie di sale tematiche concentrate sul concetto di bellezza, mostruosità e terrore come nelle Trois danseuses del 1925; sino alle ultime che illustrano le opere degli anni Quaranta sulla sofferenza e la morte, come nella Femme se coiffant del 1940, quando le truppe di Hitler entrano a Parigi. Per chi non avesse mai visto Guernica questa è l’occasione buona; per gli altri la possibilità di entrare nella genesi del processo creativo grazie a un’imperdibile esposizione molto visitata soprattutto dai giovani. Ottimi l’allestimento e le luci. Durante il viaggio verso Madrid potete documentarvi con il volume di Rudolf Arnehim Guernica. Forse un po’ datato, ma utilissimo. Dove e quando

Piedad y terror en Picasso. El camino a Guernica. Museo Reina Sofia, Edificio Sabatini, Madrid. A cura di Timothy James Clark e Anne M. Wagner. Fino al 4 settembre. Chiuso martedì. Catalogo 35 euro. www.museoreinasofia.es.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Cultura e Spettacoli

Galizia, cancellata dalla storia

Pubblicazioni Gli scritti di Martin Pollack e di Joseph Roth (proposti ora da Keller e Passigli editori)

offrono al lettore più curioso un viaggio di ricognizione in Galizia, terra che non esiste più

Luigi Forte Bastava salire a Cracovia sulla ferrovia Carl Ludwig per raggiungere la stazione di Pidvoločys’k alla frontiera russa, evitando magari di fermarsi a Przemyśl per mangiare una cotoletta di vitello ripiena, come fece il poeta e giornalista Karl Emil Franzos. Dentro ci trovò – ricorda in uno dei suoi racconti – un chiodo arrugginito, una molla d’acciaio e un ciuffo di capelli. Perché stupirsi? «Le ho forse detto – ribattè l’imperturbabile ristoratore – che deve magiare quelle vecchie ferraglie?». Meglio allora ripiegare sui treni della linea ungarogaliziana diretti verso Budapest o in direzione opposta, a est, sulla ferrovia del Dnestr che seguiva le pendici dei Carpazi, e magari nella città di Kolomyja prendere l’espresso per il ducato di Bucovina.

Una terra spesso contrappuntata da miseria e squallore, ma capace di guizzi geniali e surreali Nei decenni fra l’Otto e il Novecento si può attraversare un intero paese anche senza muovere un passo: basta immergersi nello splendido libro di Martin Pollack, Galizia. Viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa, pubblicato da Keller editore nell’ottima versione di Fabio Cremonesi. Un’opera, come ha ricordato Claudio Magris, che ha la precisione da orario ferroviario e il respiro vagabondo della grande prosa di Joseph Roth, di cui Passigli propone ora Viaggio ai confini dell’impero, una scelta di gustosi articoli scritti negli anni Venti per il quotidiano tedesco «Frankfurter Zeitung» e curati egregiamente da Vittoria Schweizer. Proprio grazie a Roth, a Bruno Schulz, a Manes Sperber e a molti altri scrittori rievocati da Pollack possiamo rivivere l’atmosfera policroma e poliglotta, l’isolamento trasognato di quell’estrema provincia orientale dell’impero asburgico, che nella Grande Guerra si trasformò in un terribile campo di battaglia, e un paio di decenni dopo conobbe il genocidio nazista e le follie dello stalinismo. Là, diceva

Roth, solo le cose essenziali come aria, anima e Dio, non mutano. Cercare la Galizia sulla carta geografica è impresa inutile: è scomparsa da tempo, frantumata e suddivisa dopo due guerre mondiali fra i paesi confinanti. Per questo il viaggio proposto dall’affascinante baedeker di Pollack è una sorta di iniziazione all’immaginario, quasi un itinerario onirico in attesa di un miracolo che solo l’autore taumaturgo è in grado di evocare. Dal suo magico alambicco fuoriescono figure di un mondo travolto dalle tragedie del secolo scorso: artigiani e venditori ambulanti ebrei negli shtetl, contadini ruteni, piccoli agricoltori polacchi, zingari, romeni, e poi sui Carpazi Boscosi, la popolazione dei boyko, allevatori di bovini, e più ad oriente quella degli huzuli, abitanti di una terra odorosa di menta dove i pastori suonavano la trembita, il flauto di abete rosso lungo fino a tre metri. Grande era ovunque la presenza degli ebrei che parlavano jiddish, ortodossi e seguaci del chassidismo e discepoli dell’haskalah, l’illuminismo ebraico. Erano, per lo più calzolai, sarti, tessitori di tallit, lo scialle di preghiera, ma talvolta anche ricchi proprietari nella zona di Boryslav e di Drohobyč, città natale di Schulz, detta la Pensilvania della Galizia per i giacimenti di petrolio e di ozocerite scoperti verso la fine dell’Ottocento. In quel paesaggio infernale, dove l’aria era irrespirabile, lavoravano uomini, ragazze, bambini e gli operai erano trattati alla stregua di schiavi. Del resto quei paesi sperduti e soffocati dalla miseria erano non di rado riserve copiose per i trafficanti di ragazze avviate alla prostituzione anche nella lontana America. Mentre sui Carpazi s’aggiravano banditi – spesso giovani sfuggiti al servizio militare – al punto che nel piccolo centro di Khyriv – si racconta – di notte gli abitanti chiudevano il municipio in cantina per proteggerlo dai ladri. Il libro abbonda di simili fantasiose storielle, a cui, per altro, ci aveva già abituato lo stesso Roth convinto che la sua Galizia (era nativo di Brody) favorisse lo sviluppo alla stranezza. E di quel paese Pollack ha colto con gusto aspetti surreali e personaggi bizzarri. A cominciare dalla figura dell’avido ebreo Selman, che per sfuggire a una condanna abbracciò la fede cristiana e da morto si trasformò in vampiro. E

La città di Leopoli (o Lemberg o Lwow), odierna Ucraina, in un’immagine risalente circa al 1916. (Keystone)

che dire di Anna Csillag, di cui parla Bruno Schulz, autore dello splendido libro di racconti autobiografici Le botteghe color cannella, alla quale venne rivelato per grazia divina un miracoloso farmaco che ridava vitalità ai suoi capelli. Non è da meno lo stesso Roth che nel reportage su un famoso invalido polacco di Leopoli che si votò al suicidio dopo aver parlato a un’assemblea di storpi, ciechi, paralitici e scrofolosi, inscena una sorta di fantasmagoria dell’orrore. Quella miseria umana che accompagna il corteo funebre sembra uscire da un grottesco dipinto di George Grosz e avviarsi disperatamente verso il grande, annichilente Nulla. Eppure dal sortilegio di quella provincia l’ebreo Schulz, un tempo studente all’Accademia di belle arti di Vienna, non riuscì mai a liberarsi; anzì la rievocò con struggente intensità come immersa in una dimensione di sogno. E lo stesso Roth rivela dietro il suo ironico distacco, una devozione e un legame illimitati per quella patria ormai sepolta dalle rovine della storia,

di cui riesce ancora a cogliere colori, profumi, voci, insomma, l’atmosfera di un’intera epoca. È una delle molte prospettive che Pollack recupera con grande fedeltà storica nel suo viaggio, attento anche ai luoghi della bellezza, soffermandosi in località di villeggiatura come Stryj e visitando il suo pittoresco mercato, per poi scendere a Cernici, città dalle mille immagini che sembrano ruotare nel mantello magico di Faust producendo sensazioni infinite. Forse siamo già in una vallata della Foresta Nera, ma fra le abitazioni del centro si respira l’aria di provincia austriaca, e poco più in là, ecco un angolo di campagna russa, mentre di fronte alla residenza episcopale vien da pensare all’antica Bisanzio. Di lì provengono poeti come Rose Ausländer e il grande Paul Celan, il maggior lirico di lingua tedesca del dopoguerra. Non è possibile poi sottrarsi all’incanto architettonico della capitale Leopoli con le sue chiese polacche, rutene e armene accanto alle sinagoghe e agli oratori chassidici. In quel centro con

funzionari imperialregi e caffè viennesi, dove nel 1900 più della metà degli abitanti era polacca, persino i suoni – diceva il poeta Jozéf Wittlin – avevano un profumo e i nomi un odore esotico. Martin Pollack ha delineato con profondo affetto i mille volti di quella provincia attraversata da contrasti e contraddizioni profonde, simbolo tuttavia di una creativa convivenza multietnica. Seguendo le suggestioni dei suoi scrittori è penetrato nell’anima di un paese che noi oggi riscopriamo attraverso un originale itinerario in cui sogno e realtà, fantasia e storia si alleano contro i silenzi del tempo. Bibliografia

Martin Pollack, Galizia. Viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa. Con un testo di Claudio Magris, traduzione di Fabio Cremonesi, Keller editore, p. 247, Є 18. Joseph Roth, Viaggio ai confini dell’impero, a cura di Vittoria Schweizer, Passigli editore, p. 130, Є 10.

La lingua di tutti

Linguistica Il dibattito sull’italiano lingua comune degli Italiani nell’ultimo, intenso, libro di Pietro Trifone Stefano Vassere «L’uso della lingua italiana, è cosa detta e ridetta, non esiste. Ne consegue che quel siciliano e quel piemontese non del tutto illetterati, messi insieme a parlare, dovranno accontentarsi di arrotondare alla meglio i loro dialetti». Una polemica, sorda ma insistente, si aggira per la linguistica italiana. Ha origine da quella che fino a poco fa era considerata una certezza: la radicale distribuzione reciproca di ruoli e situazioni tra italiano e dialetti sul territorio nazionale, che risale ad asserzione storica di Tullio De Mauro, studioso e simbolica istituzione della disciplina, pilastro portante dai cui preavvisi passano gran parte delle conquiste della sociolinguistica del Paese, di ieri e di oggi. Per farla breve, per secoli e ancora per qualche decennio dopo l’Unità, il panorama linguistico avrebbe visto due sistemi, il dialettale e l’italiano, ben separati e specializzati: i dialetti sarebbero stati esclusivamente parlati (come oggi)

e l’italiano quasi solo scritto; i primi appannaggio della quasi totalità dei parlanti, non alfabetizzati in lingua, il secondo a disposizione di classi, usi e abitudini comunicative alti. Da qui, tutta una serie di ricadute, di panorama linguistico e anche di struttura: il nascere e il crescere, una volta fatta l’Italia e gli italiani, di una serie di varietà di lingua contaminate, come gli italiani regionali, le varietà popolari, una generosa tastiera di registri e lingue speciali, ma anche una grafia per ragioni storiche non troppo lontana dalla pronuncia, che rende l’italiano di più facile scrittura. Fin qui, appunto, il Verbo demauriano. Poi, però, da poco tempo invero, uno spettro si aggira per la disciplina: l’idea che le cose non stiano proprio così, che non è vero che parlare italiano sia abitudine recente. Alcuni storici della lingua, tra i più documentati e diffusi Enrico Testa, ma, nel nostro piccolo, anche il ticinese Sandro Bianconi, hanno creduto di individuare in una serie di documen-

tazioni di vario tipo (verbali di processi, carte per i commerci, lettere e corrispondenze ma forse anche opere teatrali che riproducono il parlare del

popolino) delle supertestimonianze che invece no, l’italiano lo si parlava eccome, anche nelle classi meno privilegiate, anche negli usi più quotidiani. Il settore diventa ora un vero e proprio filone, a metà tra la sociolinguistica e la storia della lingua, che ha anche tra le ricadute più piacevoli le stesse campionature: liste di inventario delle botteghe di mugnai toscani, lettere a morose, strazianti dichiarazioni di streghe e stregoni, fino ai biglietti di ricatto dei briganti dell’Ottocento. La genesi di questo filone ha ora una nuova e più matura puntata nel molto ricco e intenso Pocoinchiostro. Storia dell’italiano comune, di Pietro Trifone. L’interpretazione di questa faticosa conquista della lingua nazionale si arricchisce, nella consueta vivacità di documentazione originale, soprattutto di una dimensione tutta sociolinguistica, che tiene conto delle difficoltà spesso frustrate dei parlanti delle varie regioni italiane di condividere una lingua che superasse il con-

testo municipale e trovasse un modo di comunicare autenticamente nazionale. Ci sono sì brandelli di lingua italiana, che è però fortemente piegata e marcata dal dialetto sottostante. Se si alza la prospettiva sopra le torri e le mura delle città e delle piccole patrie, «bisogna ammettere che fino all’Ottocento la lingua italiana non è che scritta». Ma soprattutto che «la lingua scritta d’Italia è anche lingua parlata a Firenze e a Roma, ma in tutte le altre parti d’Italia ci si serve sempre dell’antico dialetto locale, e parlare toscano nella conversazione risulta ridicolo». Lingua per tutti ma non di tutti, insomma; per avere la vera lingua nazionale che altri hanno avuto molto presto si aspetterà il pieno Novecento, l’unità politica, la scuola, e secondo acquisizione nota, la televisione. Bibliografia

Pietro Trifone, Pocoinchiostro. Storia dell’italiano comune, Bologna, il Mulino, 2017.


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Cultura e Spettacoli

Non solo i clic sono da premiare Fotogiornalismo Fra le numerose e impressionanti immagini valutate e premiate,

molte vedono protagoniste donne e bambine Ovidio Biffi Sommerso da premi che vantano una maggiore presa mediatica, in febbraio da oltre mezzo secolo viene reso noto l’esito del concorso per le migliori fotografie dell’anno, organizzato dalla World Press (WP). Sede in Olanda, ente no-profit, la WP deve la sua fama non tanto all’ammontare dei premi del suo Photo Contest, ma piuttosto al prestigio che gli autori delle fotografie premiate gli regalano, ricevendone in cambio popolarità. Un po’ quello che capita con gli Oscar cinematografici: non è la statuetta, forse dorata, a renderli ambiti, bensì il fatto di averla ricevuta e, solitamente, anche meritata.

In una era, come la nostra, in cui l’immagine è la quintessenza dei messaggi mediatici, il fotogiornalismo riveste un ruolo di primissimo piano che spesso supera, in tempismo e in qualità, anche il giornalismo d’inchiesta televisivo e della stampa scritta. Non a caso telegiornali e servizi speciali in tv o sui giornali online sono spesso costretti a ricorrere a fotografie o brevi filmati digitali quando l’emergenza sconvolge palinsesti e tempi redazionali. I dati rilasciati dagli organizzatori del concorso WP parlano chiaro: oltre 5000 fotografi di 125 paesi partecipanti e oltre 80’000 fotografie esaminate nelle otto categorie previste dal concorso della fondazione olandese. Le migliori

fotografie delle varie sezioni in aprile saranno esposte ad Amsterdam in una mostra che poi compirà un tour mondiale che toccherà 45 paesi. Quest’anno il premio più ambito l’ha vinto Burhan Ozbilici, il coraggioso fotografo turco che il 14 dicembre scorso ad Ankara ha documentato, a pochi metri di distanza e durante un lungo lasso di tempo, l’assassinio dell’ambasciatore russo in Turchia da parte di un terrorista. Tutti i lettori avranno ancora nella loro memoria visiva la coraggiosa testimonianza di fotogiornalismo che dalla cronaca quasi rosa (l’inaugurazione di una mostra d’arte) passa alla tragedia, con l’obiettivo a seguire l’assassino che di colpo avrebbe potuto

La sede del World Press Photo Festival, ad Amsterdam. (www.worldpressphoto.org)

decidere di cancellare la vita anche del fotografo. Dato che il concorso suddivide i lavori in varie sezioni e i premi sono numerosi, elencare e descrivere le fotografie premiate nelle varie categorie (anche se spesso rasentano la perfezione artistica) risulterebbe piuttosto stucchevole, visto che entrando nel sito www. worldpressphoto.org è possibile vederle tutte e avere anche dati sui soggetti ritratti, nonché sugli autori dei reportages. Inoltre molti lettori avranno già visto le migliori sul web o nei resoconti della premiazione su giornali, riviste o televisioni. Proprio passando in rassegna una «compilation» dei lavori premiati mi sono accorto di un «fil rouge» che, oltre a non risultare secondario, è meritevole di essere commentato. Inevitabile che le fotografie di un simile concorso ripresentino il drammatico rosario che durante l’anno la cronaca quotidiana propone, e spesso impone a chi segue, commenta o diffonde l’informazione. In prevalenza rievocano infatti guerre, attentati terroristici, violenze, miserie, delitti, malavita ecc. e non è un caso che giornali e siti web mostrino le foto premiate avvisando che alcune immagini possono essere «molto impressionanti». I clic fotografici quest’anno hanno però un contenuto preponderante che merita di essere posto in risalto: la presenza femminile. Nella «galleria» delle immagini del 2016, sono le donne in prevalenza a tessere un lungo filo conduttore che parla della loro forza interiore, del loro coraggio, della loro resistenza, e purtroppo anche dei loro drammi. Sono le desolate madri che reggono neonati vittime del virus Zika in America latina. Sono donne come la giovane che cammina decisa contro un muro di poliziotti schierati contro chi protesta per l’uccisione di un gio-

Il mondo visto come per la prima volta Fotografia Alla ConsArc di Chiasso fino al 13 maggio sono esposte

le topografie 2016 di Fabio Tasca Gian Franco Ragno Alla sua prima personale alla Galleria ConsArc troviamo a Chiasso in questi giorni Fabio Tasca, autore qualche anno addietro, per le edizioni Artphilein Foundation, di un originale facsimile della celebre rivista «Life» con intensi notturni dei luoghi della cronaca noir milanese del passato. Laureatosi in filologia slava, traduttore di professione, Tasca traspone, questa volta, in forma fotografica una vasta cultura non solo visuale ma anche letteraria. Prevalentemente interessato alla rappresentazione del paesaggio contemporaneo, ha rafforzato le sue posizioni attraverso workshop organizzati dalla stessa galleria chiassese con Pino Musi e Vincenzo Castella, e naturalmente personali e approfondite letture (penso segnatamente a Lewis Baltz). Come nel caso dei progetti Litoranee Sparse e Visoni Parallele del 2014, proposti dalla Fondazione Rolla, spesso egli opera in comunione artistica con il locarnese Giuseppe Chietera, con il quale condivide non pochi aspetti della seria e misurata tendenza alla ricerca territoriale. Entrambi partono da precisi luoghi geografici e, all’interno di questi, si danno una forma e un linguaggio interpretativo. Un fare arte partendo da una cartina geografica ovvero operando attraverso un approccio concettuale richiama le modalità avanguardistiche della Land Art.

Il progetto presentato in esposizione, del 2016, riguarda una determinata ma anonima porzione della provincia brianzola. Territori senza una reale configurazione, senza un centro, superfici semplicemente occupate e sfruttate, più che vissute. Conoscendo personalmente la continuità del lavoro del fotografo, mi sembra di poter considerare le topografie 2016 come l’episodio conclusivo di una stagione creativa. In esso si riassume, ci si richiama e, se vogliamo, si omaggia la grande fotografia documentaria americana: dalle tonalità chiare (chiamate high-key) memori di un giovane Robert Adams della generazione dei New Topographics alla serialità applicata agli aspetti banali della realtà così debitrice a Walker Evans – visibili nel richiamo interno tra le immagini, anche rispetto ai lavori precedenti, nella presenza di cartelli e scritte e, soprattutto, nel sottile senso dell’ironia visiva. Tuttavia, nel lavoro di Tasca c’è anche altro, ed è un risultato del tutto personale. Metodico e coerente, approda, immagine dopo immagine, a una riflessione profonda sulla forma, costituita in questo caso da muri di cinta e pareti cieche, da architetture banali e perentorie sagome industriali, dalle linee dei campi e delle strade, e, infine, dal grande vuoto soffocante che è il vero protagonista del lavoro. Un prodotto complessivo che lo porta a fare riferimento ad autori più distanti nel tempo: penso a Giovanni Cavalli

vane nero da parte di due agenti a Baton Rouge (Lousiana). Oppure come due giovani nigeriane in lacrime in un centro libico per migranti dove, in attesa di riprendere la loro fuga, vengono picchiate e aggredite sessualmente. O, ancora, come l’incredibile donna canadese priva di gambe e di braccia che, con l’ausilio di catene, compie esercizi di sollevamento pesi e dichiara «io non voglio essere “brava” per essere qualcuno senza braccia e gambe, voglio essere brava e basta».

In un mondo governato dalle immagini, il fotogiornalismo riveste un ruolo di primo piano Sono tante, molte rievocano drammi indicibili o storie lancinanti, e nella mente di chi le guarda lasciano ricordi indelebili: dalla paura dei visi di innocenti bambine intrappolate da bombardamenti o da barbare occupazioni negli abitati in Iraq o in Siria alle lacrime di una bambina messicana davanti alla bara del papà torturato e ucciso dai trafficanti di droga. Certo, tra le premiate dal WP Photo Contest ci sono anche immagini «quiete» che riguardano sport, paesaggi e natura, il mondo animale. C’è persino quella di Usain Bolt che sorride mentre vince i 100 m alle Olimpiadi di Rio. Ma sono rare e non riescono a far dimenticare le altre, quelle che, oltre a «gridare», fanno anche nascere la speranza che, almeno in parte, certi conflitti e le troppe vicende dolorose abbiano finalmente a cessare, soprattutto quando protagonisti e vittime sono donne e bambini.

Una grande festa per la danza Concorso Dal 29

Fabio Tasca, Topografie (CO), 2016. (www.consarc.ch)

o a Paolo Monti ovvero coloro che furono dei precoci e isolati sperimentatori della fotografia italiana degli anni Sessanta e Settanta, di cui si stanno recuperando le tracce. A conferma dell’inclinazione sperimentale del comasco è anche presente in mostra un’altra serie, risalente al 2013. Si tratta di piccole immagini sorprendentemente definite, di piccolo formato (poco più di una vecchia cartolina) in forma di instant film, pellicole autosviluppanti tipo polaroid e quindi pezzi unici. Ritroviamo qui la parte moderna di una cittadina di Sud Italia indefinito, ma finalmente ritratto senza traccia di retorica e di pittoresco. Nella luce bruciante del mezzogiorno questi sottili fogli lucidi confinano, non senza lirismo, con la pura monocromia – alla quale si ag-

giunge un gioco di volumi rientranti e aggettanti. Pur inserendosi – Tasca ma altri fotografi locali, quali il già citato Giuseppe Chietera, Domenico Scarano e altri – nel profondo solco della tradizione della fotografia di paesaggio italiana, essi si ritrovano nella condizione di proporne una sorta di rispettoso superamento. Non essendo più necessaria l’affermazione dell’artisticità della fotografia, essi sono liberi di tornare sul terreno della sperimentazione per interrogarsi sulle altre possibilità del linguaggio fotografico, opzionando al contempo scelte stilistiche multiple. Ma a differenza della generazione dei Ghirri e dei Basilico, e non potrebbe essere altrimenti, i topografi di oggi si trovano a operare in un contesto di estremo affollamento mediatico dell’immagine – prolissità prodotta sostanzialmente dalle nuove tecnologie. Un panorama confuso di proposte all’insegna dell’artisticità, anche in fotografia, ma non sempre sostenute da qualità e ricerca linguistica sufficienti per definirsi tali. Fattori che purtroppo sembrano precludere, invece che favorire, l’interesse e il sostegno verso una produzione maggiormente degna di nota. Dove e quando

Fabio Tasca. Topografie. Galleria ConsArc, Chiasso. Fino al 13 maggio 2015.

aprile al 7 maggio in vari luoghi della Svizzera italiana Festa Danzante è un progetto nazionale legato alla promozione della danza e anche nel nostro cantone offrirà molte occasioni per attirare l’interesse su questa disciplina, alternando spettacoli artistici e momenti di animazione popolare. L’evento è sostenuto dal percento Culturale di Migros Ticino che per l’occasione mette in palio alcuni pass per due persone che permettono l’ingresso a tutte le manifestazioni nazionali. Per partecipare invia un’email all’indirizzo giochi@azione.ch mercoledì 26 aprile. Buona fortuna!

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Cultura e Spettacoli

Gatti loquaci e gatti che non parlano

La grande bugia della famiglia Teatro A Zurigo L’Anitra selvatica di Ibsen:

Libri Un’antologia di racconti dedicati al più amato dei felini

meglio vivere nella «Lebenslüge» o in una verità che uccide?

Giovanni Fattorini

Marinella Polli

Non dispongo di dati certi, ma mi piace credere che l’animale di cui si registra la più numerosa e significativa presenza in ambito letterario sia il non assoggettabile gatto domestico. E penso che le opere narrative – romanzi e racconti, in prosa o in versi – nelle quali il gatto domestico ha il ruolo di protagonista o coprotagonista si possano schematicamente dividere in due gruppi: quelle in cui l’elegante felino comunica attraverso un linguaggio propriamente gattesco (mente e linguaggio non sono prerogative esclusive della specie homo sapiens: in buona parte gli animali dispongono infatti di strutture cognitive e sistemi di comunicazione specie-specifici complessi), e quelle in cui lo fa servendosi principalmente del linguaggio verbale degli umani. Gli autori delle opere che appartengono al primo gruppo descrivono il gatto come dotato di un sistema cognitivo capace di cogliere soltanto alcuni aspetti dell’ambiente in cui vive, e quindi in grado di comunicare (con modalità proprie non solo della specie ma del singolo animale) attraverso un linguaggio tarato – come dicono gli etologi – sulle caratteristiche di tale ambiente. I gatti presenti nelle opere del secondo gruppo sono in realtà degli esseri umani camuffati da gatti, che elaborano pensieri e formulano giudizi sul mondo non di rado consonanti con quelli dell’autore, il quale, dotando il nobile felino di un ricco vocabolario e dell’attitudine a costruire periodi sintatticamente complessi, lungi dall’esaltarlo come forse vorrebbe, lo snatura e lo oltraggia, a fini talvolta spudoratamente didascalici, che fanno pensare a ciò che afferma William S. Burroughs in un incantevole libretto intitolato Il gatto in noi: «Un gatto non offre servigi, un gatto offre solo se stesso». Del gruppo di cui ho appena parlato fanno parte diverse opere – che godono di grande considerazione «presso il severo tribunale della critica», come direbbe il gatto Murr – nelle quali pensano e parlano, con maggiore o minore

È uno dei testi ibseniani più rappresentati al mondo, L’Anitra selvatica, e assume un significato molto particolare, forse in quanto la trama non è concentrata su un vero e proprio protagonista accompagnato lungo un difficile e tormentato percorso psicologico, ma offre molte e appassionanti possibilità di lettura della vita famigliare, anche contemporanea, con tutti i suoi pesanti fardelli, i conflitti repressi e gli impensabili rovesci della medaglia che non possono che condurre alla sventura. Di questa pièce allucinante e di alta caratura letteraria del grande drammaturgo norvegese, è in cartellone fino a giugno alla Schauspielhaus di Zurigo un nuovo allestimento non stravolto e neppure rivisitato, ma analizzato nelle sue pieghe profonde dalla regista olandese Alize Zandwijk (traduzione in tedesco di Hinrich Schmid-Henkel, scenografia e costumi di Thomas Rupert, musiche di Maartje Teussnik, luci di Markus Keusch) e con un buon cast, nel quale giganteggia Marie Rosa Tietjen nei panni di Hedwig. Un allestimento, inoltre, forte di un’ambientazione orchestrata tra fiaba e naturalismo, tra malinconie fitte e profonde come le nebbie nordiche e la piatta realtà del trascorrere quotidiano; e con un’anitra selvatica invalida come filo conduttore e che assurge a simbolo di una foresta di falsi miraggi e di un’impalcatura di vita ormai crollata. Sono, queste, preziose intuizioni per un pubblico coinvolto che viene passo passo condotto verso

A bon chat, bon rat, incisione di Jean Ignace Isidore Gérard, detto Grandville. (Pinterest)

dovizia verbale e perizia stilistica, gatti diventati più o meno famosi nel corso del tempo. Ad esempio la vanitosa e fiera Kiki-la-Doucette, interlocutrice di Toby-chien nei Dialoghi di bestie di Colette; il già menzionato e letteratissimo gatto Murr di E.T. Hoffmann, che inizia la sua biografia citando una frase di Goethe; lo scettico e ironico Senzanome del romanzo di Natsume Sōseki Io sono un gatto; l’infelice Beauty, protagonista del racconto di Balzac – ispirato ai disegni di Grandville e posto all’inizio del volume recentemente edito da Elliot, Pene d’amore di una gatta inglese e altri racconti felini (traduzione di Massimo De Pascale) – che in forma epistolare ci rende partecipi dell’educazione e delle vicende mondane e sentimentali di una gatta di modeste origini, ma di pelo immacolato, andata sposa al gottoso e compassato lord Puff, gatto d’angora di un pari d’Inghilterra, e poi amante del giovane Brisquet, vivace e gagliardo attaché dell’Ambasciata di Francia, fatto uccidere dal capitano Puck, nipote di Puff e innamorato gelosissimo di Beauty. Benché s’incontri con Brisquet sulle grondaie, Beauty è una gatta umanizzata che Balzac strumentalizza per satireggiare il moralismo vittoriano e più in generale les hommes civilisés che ipocritamente disconoscono i moti istintuali, le pulsioni profonde, le necessità fisiologiche dei viventi. Ugualmente

dimostrativo, a conti fatti, è il racconto di Saki (pseudonimo di H.H. Munro, 1870-1916), di cui è protagonista eponimo Tobermory, un gatto che in soli sette giorni ha imparato a servirsi in modo impeccabile della lingua inglese, e che svelando atti e parole di cui è stato testimone suscita lo sgomento e il panico tra i partecipanti a un tea party. Saki è crudele e divertente, ma personalmente preferisco quei racconti nei quali i gatti non elaborano concetti, non scodellano opinioni, non fanno pettegolezzi. Per esempio quello di G.H. Powell (1856-1924), in cui viene descritto nei dettagli il combattimento ingaggiato da una gatta persiana, abitualmente egocentrica e indolente, contro un velenosissimo serpente sudamericano che minaccia la padrona di casa; o quello di William Livingston Alden (1837-1908), che indaga il forte legame che si stabilisce tra un gatto randagio e un cercatore d’oro che vive in una misera baracca, e che troverà la morte nel tentativo di salvare il felino dalle fiamme; o quello inquietante e quasi orrorifico di H.P. Lovecraft (1890-1937), ambientato a Ulthar, «città immaginaria» dove è vietato per legge uccidere i gatti.

il tragico finale. E il tema cruciale della pièce è proprio la demolizione sistematica di quel paradossalmente sicuro castello di illusioni da parte dell’esaltato di turno alla ricerca della verità ad ogni costo: la demolizione di quella «Lebenslüge» (bugia di una vita intera) su cui poggia saldamente la realtà famigliare dei protagonisti, per far posto a una verità che invece uccide. Tutta all’insegna della fedeltà al testo, la lettura proposta dalla Zandwijk viene purtroppo inutilmente enfatizzata da commenti musicali dal vivo, in scena, che non aggiungono nulla se non inutile pathos (per non dire kitsch) alla rappresentazione. Notevole, la prestazione di tutti gli attori: da Milian Zerzawy nei panni dell’inflessibile Gregers, il giustiziere per amore di rettitudine e verità, a Hans Kremer in quelli di Werle, suo padre; da Siggi Schwientek nel ruolo del vecchio, nostalgico, tragicomico Ekdal a Christian Baumbach in quelli di suo figlio, il malinconico, debole e sballato Hjalmar, alla come detto straordinaria Marie Rosa Tietjen nella parte di Hedwig, la figlia di quest’ultimo, che lo adora e che per lui si immolerà, a tutti gli altri. Scroscianti e interminabili gli applausi da parte degli spettatori della première. Dove e quando

Die Wildente, Zurigo, Schauspielhaus. Fino a giugno 2017. Per date rappresentazioni vedi www.schauspielhaus.ch

Bibliografia

Pene d’amore di una gatta inglese e altri racconti felini, Elliot edizioni, pp. 125, euro 13,50.

Marie Rosa Tietjen in Die Wildente. (schauspielhaus.ch) Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

La trappola di James Blunt

Musica Intrappolato tra due mondi: il nuovo lavoro del redivivo cantautore lo mostra come un artista

in bilico, diviso tra il pop più commerciale e l’intimismo romantico che lo ha reso una star Benedicta Froelich Sebbene sia ormai trascorso più di un decennio dai suoi esordi discografici, le teenager di un tempo non potranno non rammentare la piccola «invasione mediatica» che accompagnò il successo mondiale dell’iper-romantico James Blunt, ex militare britannico divenuto d’un tratto popstar di punta grazie a struggenti brani in bilico tra la lovesong più sdolcinata – esemplificata dal celeberrimo You’re Beautiful, tormentone radiofonico che dodici anni fa conquistò le classifiche di tutto il mondo – e il malinconico intimismo esistenzialista di pezzi come Same Mistake e Carry You Home. Purtroppo, con il passare degli anni, Blunt non è più riuscito a replicare il successo riscosso con questo genere di canzoni, e la sua carriera ha finito per entrare in una fase, per così dire, di stasi – al punto che, com’è norma nel mondo della musica pop, il divo di un tempo funge oggi da opening act per l’assai più giovane connazionale Ed Sheeran, più che mai sulla cresta dell’onda grazie al recente lavoro Divide. Non si tratta quindi di un caso se questo nuovo The Afterlove, ultima fatica discografica di Blunt, vede l’artista avvalersi proprio della collaborazione di Sheeran, con il quale, in effetti, condivide più di una predilezione stilistica; e l’influenza del popolare collega appare evidente fin dal primo ascolto del CD, sebbene l’impostazione musicale dell’album non faccia che sottolineare quanto sia difficile, per un cantante pop odierno, riuscire davvero a reinventarsi in modo convincente – specie quando si hanno già alle spalle diversi anni di carriera e molteplici pubblicazioni. Ciò si fa evidente soprattutto nel singolo di lancio Love Me Better, esempio di scialbo ibrido pop in bilico tra l’elettronica da discomusic e l’easy listening più radiofonico e commerciale; del resto, The Afterlove vede James tentare con una

certa insistenza la strada dell’elettropop più sfacciatamente mainstream, come dimostrato da pezzi quali l’insipido e banale Lose My Number e il più intrigante (ma comunque piuttosto risaputo) California. Va decisamente meglio con il secondo singolo estratto dall’album – Bartender, un pezzo non certo memorabile ma irresistibilmente orecchiabile, un po’ come il discreto riempitivo Paradise.

Nel nuovo lavoro di Blunt si riconosce anche la firma della star del momento, Ed Sheeran Tuttavia, il disco riserva più di una sorpresa, in quanto, ancora una volta, Blunt dimostra come il suo reale talento risieda nella composizione di ballate intimiste e dolenti: uno dei brani migliori della tracklist è infatti l’intenso interludio romantico Time of Our Lives, frutto di una collaborazione tra James, il già citato Ed Sheeran e Ryan Tedder, frontman degli statunitensi One Republic e coproduttore di The Afterlove. Forse per questo, il CD contiene diverse composizioni di genere romantico e suadente – come la lievemente melensa Make Me Better, composta con l’aiuto di Sheeran, e l’agrodolce Don’t Give Me Those Eyes – le quali confermano una volta di più il talento di James per le melodie di matrice soft rock. Nonostante ciò, però, i brani di maggiore impatto all’interno dell’album risultano piuttosto essere quelli di carattere autobiografico: si veda la «bonus track» 2005, lacerante lento acustico in cui Blunt lamenta, con parecchio spirito di autocommiserazione, l’ostilità popolare a cui l’immenso successo del già citato You’re Beautiful (assurto al rango di hit mondiale appunto nel 2005) lo ha esposto, nonché la natura

Ex-militare di carriera, si è imposto con You’re Beautiful, uscito nel 2004.

effimera di tale fama. E non è tutto: James dona ai suoi fan un ulteriore esempio di esplicita e dolente confessione privata con un’altra traccia che, nonostante l’innegabile valore artistico, è reperibile soltanto nella versione deluxe del CD, ovvero Courtney’s Song – la quale, a dispetto del titolo, costituisce una dolorosa lettera di addio all’amica Carrie Fisher (la compianta interprete della Principessa Leila di Guerre Stellari), presso la quale Blunt aveva trovato ospitalità a Los Angeles nel 2003, durante l’incisione di Back to Bedlam, il

suo acclamato album d’esordio. E come spesso accade con gli album di matrice pop-rock, dispiace che un pezzo di tale forza espressiva sia stato relegato all’edizione più rara e costosa dell’album al fine di privilegiare brani francamente meno indimenticabili. Il che ci porta a quello che è, in definitiva, il problema principale da cui The Afterlove è affetto: l’impossibilità, per James, di coniugare generi tra loro stridenti quali le ambiziose tendenze cantautorali evidenti nelle ballate più soft e l’irritante sound esageratamen-

te commerciale dei brani di lancio del CD. E poiché tale dicotomia è enfatizzata dalla collaborazione con Sheeran e Tedder – i quali, seppur coautori di alcune delle tracce più gradevoli del disco, vivono a loro volta un simile conflitto stilistico nelle rispettive carriere – ci si può solo augurare che Blunt riesca a ignorare la tentazione di inseguire il famigerato «successo a tutti i costi» per mantenere la propria onestà artistica e continuare a concentrarsi su quella che è, da sempre, la vena compositiva a lui più congeniale.

La musica contemporanea fin nel profondo del corpo

Incontri Prima sinfonica a San Pietroburgo per Triàdia di Francesco Hoch Zeno Gabaglio «Il mio rapporto con la Russia è iniziato nel 1986, quando la cortina di ferro era ben lungi dal dissolversi. Mi trovavo a Mosca in visita privata e capitò l’occasione d’incontrare Edison Denisov – grande compositore e inarrestabile agitatore culturale – che mi fece conoscere una scena musicale moderna e

contemporanea estesa ben oltre le maglie dello stereotipo di cultura sovietica (censoria, retrograda, liberticida) che l’Occidente aveva adottato per decenni». A parlare è il compositore ticinese Francesco Hoch, e tale premessa è di dovere perché – di fronte a un’occasione importante come la prima esecuzione assoluta di un suo brano da parte di un’orchestra sinfonica pietroburghese

Il compositore ticinese Francesco Hoch. (B. Hoch-Filli)

– l’inevitabile domanda è «com’è nato tutto questo?». L’appuntamento fisso sul calendario è quello del prossimo 5 maggio, quando al Teatro Music Hall di San Pietroburgo – una struttura storica e celebre per la programmazione trasversale ai generi – il brano Triàdia per orchestra verrà proposto nel contesto di un programma dedicato alla musica svizzera per orchestra comprendente (sotto la direzione di Fabio Mastrangelo) anche pagine di Frank Martin, Arthur Honegger ed Ernest Bloch, oltre al Doppio concerto dello stesso Hoch. Un programma articolato e dalla forte importanza culturale – svizzera e svizzero-italiana – che non dispiacerebbe poter ascoltare anche dalle nostre parti. Sarebbe anzi un dovere, ben oltre le soggettive diatribe di gusto, e ineludibile è perciò la domanda: forse ai russi interessa la cultura musicale svizzera più che ai ticinesi? «In Russia – malgrado una recente tendenza al disimpegno sociale e culturale, che sorprendentemente tocca anche lo sconfinato e proverbiale amore per la letteratura – c’è sempre stata un’attenzione verso le forme d’espressione artistiche ad ampio raggio. Oltre all’azione di Denisov mi piace ricordare come ogni grande ente musicale

avesse, e in parte ancora possiede, una parte di attività dedicata alla produzione contemporanea». E il pensiero va in particolare all’attività del direttore Alexander Lazarev nel contesto del Teatro Bol’šoj, con un «ensemble stabile dedicato all’esecuzione di musica nuova. Ve lo sareste mai immaginato un Herbert von Karajan – o ancora oggi un Riccardo Muti – a dirigere regolarmente opere nuove, della nostra cultura attuale?». L’avvocato del diavolo a questo punto obietterebbe: e perché non prendete l’iniziativa voi compositori, cominciando a scrivere musiche più semplici, più leggibili, magari più orecchiabili, in modo da andare incontro ai gusti del pubblico sinfonico, e quindi anche alle scelte dei programmatori e dei direttori? «Il punto non è tanto quello di assecondare i gusti del pubblico, quanto la sua disponibilità ad aprirsi verso linguaggi e attitudini che non gli sono familiari, ma che in un’idea di trasformazione musicale hanno precise ragioni d’essere. Ed è paradossale osservare come questo avvenga senza nessun problema nel rapporto con le arti visive contemporanee, dove opere anche molto complesse vengono esposte, avvicinate e apprezzate nei più celebri contesti istituzionali».

Il tentativo di comprendere la questione giunge qui a un bivio: o da un lato il pubblico è schizofrenico (offre cioè alle arti visive delle disponibilità che invece nega alla musica) oppure c’è una flagrante mancanza di par condicio da parte delle istituzioni culturali. E puntualmente la spiegazione prende una terza via: «è una questione estetica, di come l’oggetto artistico raggiunge il nostro corpo. Malgrado il linguaggio musicale non sia più radicale di quelli pittorici, è il suono a essere più pervasivo, quasi invadente per come coinvolge l’ascoltatore nel profondo. Davanti a un quadro disturbante si può distogliere lo sguardo, affievolire l’attenzione o cambiare sala; in un auditorio l’esperienza sonora è totalizzante per tutta la durata di un brano». Potrebbe sembrare un’apologia della tortura sonora – sta’ fermo, zitto e ascolta fino alla fine! – ma in realtà è l’affermazione dell’incontenibile forza della musica, che si schiude con un semplice cambio di approccio: «se si cercano nella musica contemporanea i riferimenti della classica (melodia, armonia) è chiaro che si resta spaesati, magari anche irritati. Se invece la si avvicina nella sua essenza materico-sonora – senza cioè decodificare con la ragione, ma esperendo con i sensi – la soddisfazione è garantita».


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Le settimane del gusto Attualità Dal 28 aprile al 14 maggio alcuni noti ristoranti del cantone

prendono parte alla rassegna gastronomica dedicata alla carne svizzera della Migros. Uno dei partecipanti è il Buffet della Stazione di Lugano Che si tratti di colazione, pranzo o cena, il Buffet della Stazione di Lugano sa davvero soddisfare qualsiasi necessità. Da sempre punto di riferimento imprescindibile di avventori locali, turisti, viaggiatori e pendolari che si recano ogni giorno a Lugano per lavoro, il ristorante è diretto da Simone Beffa, mentre a capo della cucina troviamo lo chef Giuseppe Cautiero, entrambi coadiuvati da una ventina di collaboratori ben preparati. Fiore all’occhiello del ristorante sono senz’altro le rassegne gastronomiche a cadenza mensile, molto gettonate dalla clientela della regione e non solo: le proposte spaziano dalla cucina nostrana a quella indiana, passando per le specialità valtellinesi, il pesce di mare, la selvaggina, i risotti, la pasta, fino a quella dedicata ad una delle specialità svizzere per eccellenza, i rösti. Ovviamente tra le proposte giornaliere alla carta non mancano i piatti più classici della tradizione ticinese e internazionale, come pure le pizze ad un prezzo particolarmente contenuto. Anche la carta dei vini non lascia nessuno insoddisfatto, grazie ad un’ottima scelta di merlot ticinesi e pregiate etichette della vicina Penisola. Il Buffet della Stazione è aperto dalle 6 del mattino fino alle 23.30: la cucina offre il suo servizio dalle 11 alle 15 e dalle 18 alle 22, mentre la pizza può essere gustata ininterrottamente dalle 11 alle 22.30. www.carnemigros.ch

Alcuni caratteristici scorci interni (sotto) ed esterni del Buffet della Stazione di Lugano. (Flavia Leuenberger)

Il direttore del Buffet della Stazione, Simone Beffa (a sinistra) e lo chef Giuseppe Cautiero.

Il piatto proposto in occasione della rassegna della carne Migros: Tagliata di Rib Eye con burro al lime, sale dell’Himalaya e patate alla messicana.


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Idee e acquisti per la settimana

Funghi bio coltivati in grotta

Novità Migros Ticino ha introdotto nel suo assortimento tre varietà di funghi coltivati nelle grotte del Rotzloch

Le varietà Nelle grotte del Rotzloch vengono coltivati i funghi delle varietà Shiitake, Cardoncello e Pleurotus. Queste prelibatezze crescono su un substrato vegetale naturale di paglia o segatura secondo le direttive di Bio Suisse. I funghi sono in vendita nelle maggiori filiali Migros nella vaschetta da 150 grammi.

Il canton Nidvaldo è noto non solo per essere stato – insieme ad Uri, Svitto ed Untervaldo – la culla della Confederazione, ma anche per la sua natura incontaminata, le incantevoli montagne che si affacciano sul lago dei Quattro Cantoni e per le molte e variegate possibilità escursionistiche. In questo cantone della Svizzera centrale ha trovato la sede ideale la Gotthard Bio Pilze SA, azienda che si è specializzata nella produzione di funghi biologici a Stansstad. La coltivazione di queste pregiate prelibatezze avviene nelle grotte del Rotzloch, tra la cima del Rotzberg e il lago di Alpnach. Questa area era sfruttata industrialmente già dal 1597 con l’insediamento di alcune attività, tra cui un mulino, uno stabilimento balneare, un cementificio, una segheria, una fonderia e una conceria. Dall’inizio degli anni Trenta del secolo scorso i giacimenti minerari del Rotzberg vengono sfruttati per l’estrazione di materie prime per diversi settori. Di questa cava sono rimaste in disuso alcune grotte di ampie dimensioni, le quali, inizialmente, vennero utilizzate per la prima stagionatura di formaggio in Svizzera e, dal 2016 per la coltivazione di funghi. Qui, infatti, il particolare e costante microclima – 12-14 gradi di temperatura con un’umidità del 90% – favorisce la crescita di queste bontà.

Shiitake Originario del Sudest asiatico, questo fungo si caratterizza per il suo sapore molto aromatico che ricorda l’aglio. Il nome esotico significa «fungo profumato». Possiede una polpa compatta e succosa. Non lavare il fungo prima dell’utilizzo, ma pulirlo solamente con carta da cucina. È ideale per la preparazione di piatti asiatici, ma sa farsi apprezzare anche in salse e risotti.

Cardoncello Il suo aroma robusto ricorda quello del porcino spontaneo. La sua carne rimane soda e croccante anche dopo la cottura. Sostituisce egregiamente tutte le ricette che richiedono l’utilizzo del porcino, sia in risotti, paste o salse. Questo fungo è ottimo anche tagliato a fette e leggermente grigliato e si sposa molto bene con il timo. È una bontà anche crudo, per esempio in insalata oppure affettato a mo’ di carpaccio.

Pleurotus Conosciuto anche con il nome di fungo ostrica o orecchione in virtù della sua forma, è ricoperto di una patina bianca commestibile che non deve essere eliminata. Grazie alla sua carne bianca e compatta risulta particolarmente apprezzato impanato, grigliato o gratinato in forno. È pure ottimo nelle ricette orientali, nei piatti a base di funghi misti e negli spezzatini.


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Idee e acquisti per la settimana

Profumo di grill nell’aria

Attualità Date il via alla stagione delle grigliate grazie alle molte specialità

di carne già disponibili alla vostra Migros. Perché non iniziare con delle gustosissime costine carré?

Azione 20% Costine carré di maiale, Svizzera, marinate o al natuale, 100 g Fr. 1.80 invece di 2.30

Le costine di maiale sono sicuramente tra gli alimenti più gettonati dai fan delle grigliate. Se le costine intere risultano apprezzate da chi preferisce i tagli più carnosi, le più piccole costine carré – o puntine – spiccano invece per il loro aroma intenso, il contenuto di grasso ridotto e i tempi di cottura relativamente brevi. Altro aspetto sfizioso delle costine è il fatto che si possono preparare con l’impiego di molte marinate differenti, in modo da accontentare i gusti più disparati. Una ricetta particolarmente saporita è per esempio quella delle «Costine carré con marinata al curry e alla birra». Per quattro persone servono 1,2 kg di costine carré di maiale, 2 rametti di timo e 2 di rosmarino, 1 peperoncino, 2 dl di birra, 1 cucchiaio di senape, 1 cucchiaio di curry madras, 2 cucchiai di ketchup e 1 cucchiaio di zucchero greggio. Tritate il timo e il rosmarino. A piacimento, estraete i semini dal peperoncino e poi affettatelo finemente. Emulsionate il tutto con la birra, la senape, il curry, il ketchup e lo zucchero. Spalmate la salsa sulle costine e lasciate marinare per 15 minuti. Riscaldate il grill a 180 °C. Grigliate le costine coperte a fuoco basso da ambo i lati per ca. 45 minuti. Accompagnate con un’insalata di patate e verdure grigliate.

Manicure professionale in un solo gesto

Ricette classiche senza glutine

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subito pronti semplicemente immergendoli in acqua bollente e salata per qualche minuto. Gustosi e alternativi, i due primi piatti sono una delizia gustati anche solo con un filo di olio e del formaggio grattugiato, ma ovviamente non disdegnano i condimenti più corposi della tradizione mediterranea.


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Idee e acquisti per la settimana

Vegetariano e vegano

Ghiottonerie pronte in un attimo

Torta di mandorle e rabarbaro Per 4 persone

Pizza agli asparagi con tofu affumicato

Ingredienti 1 pasta per crostate nello stampo di 140 g 3 cucchiai crema di mandorle bianca 1 dl di panna di soia 250 g di rabarbaro 2 cucchiai di zucchero di canna Un po’ di menta per guarnire

Per 4 persone Ingredienti 100 g di tofu affumicato 3 cucchiai d’acqua 3 cucchiai d’olio d’oliva 1/2 mazzetto d’aglio orsino sale e pepe 1 pasta per pizza rotonda già spianata di 260 g 250 g di asparagi verdi 1 cipolla rossa

Preparazione Scaldate il forno e una placca da forno a 200 °C. Bucherellate il fondo della torta con una forchetta. Mescolate la crema di mandorle con la panna di soia e distribuite sul fondo della torta. Tagliate il rabarbaro a pezzetti grossolani e spargeteli sulla crema. Cospargete di zucchero e cuocete la torta al centro del forno accomodandola sulla placca calda per ca. 35 minuti. Lasciate raffreddare. Tagliate a fette e guarnite con la menta fresca.

Preparazione Scaldate il forno a 230 °C. Frullate il tofu con l’acqua, l’olio e 3/4 dell’aglio orsino. Condite la massa con sale e pepe, poi distribuitela sulla pasta. Dimezzate gli asparagi per il lungo, tagliate la cipolla a fettine e distribuite i due ingredienti sulla pizza. Cuocetela nella metà inferiore del forno per ca. 15 minuti. Sfornate e guarnite la pizza con l’aglio orsino rimasto.

Questa torta di rabarbaro fa venire l’acquolina in bocca, con la sua mousse di mandorle bianca e menta fresca.

Girelle ai piselli e alle erbe Per ca. 25 pezzi Una pizza vegana con le nostre amate verdure primaverili e un saluto dal bosco: sotto pasta per pizza, sopra asparagi insieme a tofu affumicato e aglio orsino.

Ingredienti 250 g di piselli surgelati, scongelati prima dell’uso 3 cucchiai d’acqua 1/2 mazzetto di menta 1/2 mazzetto di basilico 1 cucchiaino di sale un po’ di pepe 1 pasta sfoglia rettangolare già spianata di 320 g Preparazione Scaldate il forno a 200 °C. Frullate i piselli con l’acqua e le erbe aromatiche. Condite con sale e pepe. Spalmate la purea sulla pasta, lasciando libero su uno dei due lati più lunghi un bordo di 4 cm. Arrotolate la pasta partendo dal lato lungo con la purea. Tagliate il rotolo a fette di 0,5 cm di spessore. Accomodate le girelle su una teglia foderata con carta da forno e cuocetele al centro del forno per ca. 25 minuti.

Conoscenze Già da oltre 30 anni la Migros offre linee di prodotti vegetariani e dal 1998 anche prodotti vegani sotto il marchio Cornatur. Nel 2014 la gamma di alimenti è stata completata con i prodotti bio Alnatura.

Un aperitivo veloce direttamente dal forno, che richiama alla freschezza primaverile: lumachine di sfoglia ripiene con piselli, menta e basilico.

*Nelle maggiori filiali

Irresistibili torte, pizze o stuzzichini per l’aperitivo si preparano in un baleno grazie alle paste pronte vegane e ad ingredienti di stagione freschissimi. Migros offre un vastissimo assortimento di paste per crostate, pizza e sfoglie – anche in qualità biologica. Così facendo Migros è sulla buona strada relativamente alla sua promessa di ampliare del 30 per cento l’assortimento di prodotti vegetariani e vegani certificati entro il 2017. Su ogni confezione è stampato un appetitoso suggerimento per la preparazione.

Il marchio V dell’Unione Vegetariana Europea (EVU) contrassegna i prodotti per vegetariani e vegani. Ingredienti, additivi e coadiuvanti sono tutti vegetariani o vegani.

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Anna’s Best Pasta per pizza spianata, rotonda, 260 g* Fr. 2.40

Migros Bio Pasta sfoglia spianata, 320 g* Fr. 2.15

Parte di


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Vegetariano e vegano

Ghiottonerie pronte in un attimo

Torta di mandorle e rabarbaro Per 4 persone

Pizza agli asparagi con tofu affumicato

Ingredienti 1 pasta per crostate nello stampo di 140 g 3 cucchiai crema di mandorle bianca 1 dl di panna di soia 250 g di rabarbaro 2 cucchiai di zucchero di canna Un po’ di menta per guarnire

Per 4 persone Ingredienti 100 g di tofu affumicato 3 cucchiai d’acqua 3 cucchiai d’olio d’oliva 1/2 mazzetto d’aglio orsino sale e pepe 1 pasta per pizza rotonda già spianata di 260 g 250 g di asparagi verdi 1 cipolla rossa

Preparazione Scaldate il forno e una placca da forno a 200 °C. Bucherellate il fondo della torta con una forchetta. Mescolate la crema di mandorle con la panna di soia e distribuite sul fondo della torta. Tagliate il rabarbaro a pezzetti grossolani e spargeteli sulla crema. Cospargete di zucchero e cuocete la torta al centro del forno accomodandola sulla placca calda per ca. 35 minuti. Lasciate raffreddare. Tagliate a fette e guarnite con la menta fresca.

Preparazione Scaldate il forno a 230 °C. Frullate il tofu con l’acqua, l’olio e 3/4 dell’aglio orsino. Condite la massa con sale e pepe, poi distribuitela sulla pasta. Dimezzate gli asparagi per il lungo, tagliate la cipolla a fettine e distribuite i due ingredienti sulla pizza. Cuocetela nella metà inferiore del forno per ca. 15 minuti. Sfornate e guarnite la pizza con l’aglio orsino rimasto.

Questa torta di rabarbaro fa venire l’acquolina in bocca, con la sua mousse di mandorle bianca e menta fresca.

Girelle ai piselli e alle erbe Per ca. 25 pezzi Una pizza vegana con le nostre amate verdure primaverili e un saluto dal bosco: sotto pasta per pizza, sopra asparagi insieme a tofu affumicato e aglio orsino.

Ingredienti 250 g di piselli surgelati, scongelati prima dell’uso 3 cucchiai d’acqua 1/2 mazzetto di menta 1/2 mazzetto di basilico 1 cucchiaino di sale un po’ di pepe 1 pasta sfoglia rettangolare già spianata di 320 g Preparazione Scaldate il forno a 200 °C. Frullate i piselli con l’acqua e le erbe aromatiche. Condite con sale e pepe. Spalmate la purea sulla pasta, lasciando libero su uno dei due lati più lunghi un bordo di 4 cm. Arrotolate la pasta partendo dal lato lungo con la purea. Tagliate il rotolo a fette di 0,5 cm di spessore. Accomodate le girelle su una teglia foderata con carta da forno e cuocetele al centro del forno per ca. 25 minuti.

Conoscenze Già da oltre 30 anni la Migros offre linee di prodotti vegetariani e dal 1998 anche prodotti vegani sotto il marchio Cornatur. Nel 2014 la gamma di alimenti è stata completata con i prodotti bio Alnatura.

Un aperitivo veloce direttamente dal forno, che richiama alla freschezza primaverile: lumachine di sfoglia ripiene con piselli, menta e basilico.

*Nelle maggiori filiali

Irresistibili torte, pizze o stuzzichini per l’aperitivo si preparano in un baleno grazie alle paste pronte vegane e ad ingredienti di stagione freschissimi. Migros offre un vastissimo assortimento di paste per crostate, pizza e sfoglie – anche in qualità biologica. Così facendo Migros è sulla buona strada relativamente alla sua promessa di ampliare del 30 per cento l’assortimento di prodotti vegetariani e vegani certificati entro il 2017. Su ogni confezione è stampato un appetitoso suggerimento per la preparazione.

Il marchio V dell’Unione Vegetariana Europea (EVU) contrassegna i prodotti per vegetariani e vegani. Ingredienti, additivi e coadiuvanti sono tutti vegetariani o vegani.

Anna’s Best Pasta per pizza spianata, rettangolare, 580 g* Fr. 3.90

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

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Un contributo per il mantenimento delle foreste: la carta igienica Soft proviene da fonti sostenibili.

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Caffè, caffè in capsule, frutta secca, spezie, noci.

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Prodotti trattanti, sostanze cosmetiche attive, detersivi e detergenti, margarine, grassi commestibili.

Diverse varietà di riso, riso al latte, varietà speciali di riso.

Cioccolato, gomma da masticare.


Altre offerte. Frutta e verdura

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Tutto l’assortimento Le Petit Marseillais (confezioni multiple escluse), a partire da 2 pezzi 20% **

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Da giovedì 27.4 fino a sabato 29.4.2017

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4.50 Mezzelune pesto e Grana Padano Anna’s Best 250 g

Doppia bontà con pomodori e formaggio.

4.50 Mezzelune pomodoro e formaggio Anna’s Best 250 g

Con due gustose varietà.

4.50 Mezzelune prosciutto e formaggio Anna’s Best 250 g

Doppia bontà.

4.50 Mezzelune funghi e spinaci-ricotta Anna’s Best 250 g

Con cioccolato bianco e pezzetti di caramello.

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Con il 70% di frutt svizzera.

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7.50 Mini cornetti al lampone e alla limetta Crème d’or* surgelati, 12 x 26 ml

Con croccanti pezzetti di caramello.

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4.95 Hygo WC Fresh Triple Action Gel Lemon o Ocean, per es. Lemon, il pezzo


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Cartoleria

La primavera entra in ufficio

Solo per un breve periodo: design marmorizzato e rosa-oro

Il nero e il grigio fanno ormai parte del passato. Oggi la vita d’ufficio – a casa o sul posto di lavoro – è rallegrata da articoli di cancelleria che risaltano sulla scrivania con la freschezza dei loro toni color pastello, il design marmorizzato o con sfumature rosa-oro. E così la perforatrice, l’aggraffatrice, il bloc-notes, le penne a sfera e il resto del materiale assumono un’aura particolarmente elegante.

Blocco per appunti rilegato A5 Fr. 6.50

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Lista «To Do» con penna a sfera Fr. 4.90

Penna a sfera Fr. 3.90

Blocco per appunti rilegato A6 Fr. 4.90

Aggraffatrice Fr. 6.90


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Noi firmiamo. Noi garantiamo.

Intervista

I prodotti Sun Look sono parte integrante dell’assortimento Migros e fedeli compagni di viaggio. Nina Wanek, che si occupa dello sviluppo dei prodotti presso Mibelle Group, impresa di produzione Migros, ci spiega il modo in cui agisce la protezione solare e come ciò ha a che fare con la star della settimana

«Una parte delle radiazioni solari raggiunge sempre la pelle»

Efficace nel mondo intero Testo Thomas Tobler, Foto Paolo Dutto

Désirée Morton-Stuhler, Los Angeles USA Da due anni la coppia svizzera composta da Désirée e da suo marito Simon abita a Los Angeles. «Ci piace molto vivere qui. Ma abbiamo avuto bisogno di tempo per ambientarci e prendere confidenza con tutte le novità». Originaria di Davos e cresciuta con i prodotti Migros, Désirée sente la mancanza di alcuni di questi, malgrado negli USA ci sia un’enorme offerta di merci. «Per esempio, a casa abbiamo sempre una scorta di lozione solare Sun Look, di cui non devo mai restare senza perché è l’unica che la mia pelle tollera. Sono allergica a quelle di tutte le marche che trovo qui», racconta Désirée. Quando qualcuno annuncia una visita dalla Svizzera, Désirée e Simon gli inviano indicazioni affinché prima della partenza possa fare scorta alla Migros. «Mandiamo una lunga lista dei prodotti Migros che desideriamo». Oltre a quelli della linea Sun Look, figurano per esempio anche il dentifricio Candida, tè e tanta cioccolata. «Questi prodotti della Migros non sono solo ottimi o, come nel caso Sun Look, importanti per la salute. Per noi sono anche un ricordo della Svizzera.»

Christoph Kehl, Kradolf TG Christoph Kehl non è mai stato amico delle creme solari. Piuttosto che passare del tempo a spalmare la crema per poi ritrovarsi con la pelle appiccicosa, ha sempre preferito rinunciare, mettendo quindi in conto la possibilità di ritrovarsi con delle leggere scottature. Fino alla luna di miele, tre anni fa. Prima le Mauritius, poi Dubai con i suoi 45 gradi all’ombra. «Mia moglie mi diede lo spray Sun Look e mi ordinò, per così dire, di spalmarmi la crema», ricorda Christoph Kehl. Con sua grande sorpresa questa protezione solare gli andava a genio. Inoltre, grazie al pratico sistema spray, applicava regolarmente il prodotto, che non gli causava alcun fastidio. «Da allora utilizzo regolarmente la protezione solare spray e le scottature sono un ricordo del passato».

Star della settimana

Un protettore capace Da decenni alla Migros si trovano i prodotti per la protezione solare Sun Look. La vasta gamma va ora a completarsi con la star della settimana: Sun Look Sport Protect Sun Spray. Il nuovo arrivato sugli scaffali Migros è il compagno perfetto per le attività sportive e all’aria aperta durante le calde giornate estive.

Ursula Zumbühl-Bischof, Aarburg AG A Bali una buona protezione solare come quella offerta da Sun Look è parte dell’equipaggiamento base di ogni turista europeo. Nel corso del viaggio attraverso l’isola dell’Oceano Indiano, Ursula Zumbühl-Bischof ha notato che anche chi vive lì utilizza le protezioni solari della Migros. «Nel bel mezzo della pampa, circondata dalla giungla, abbiamo fatto una sosta in un piccolo bar. Sono andata al bancone per ordinare e ho scoperto un frigorifero pieno di confezioni Sun Look», ci racconta Ursula Zumbühl-Bischof. Ha poi appurato che il bar è di proprietà di una donna svizzera, che nel frigorifero conserva scorte di creme solari Sun Look sufficienti per un anno. Quando rientra in Svizzera porta a Bali una valigia ricolma di confezioni Sun Look, poiché sul posto non trova buone protezioni solari. «Ancora oggi, ogni volta che vedo una crema Sun Look mi ritorna alla mente il frigorifero di Bali. Per me è un bellissimo ricordo delle vacanze», conclude Ursula Zumbühl-Bischof.

Concorso

Nina Wanek si occupa dello sviluppo dei prodotti solari, che usa nel suo tempo libero.

Nina Wanek, come funziona il meccanismo di protezione dai raggi del sole di uno spray protettivo?

I più importanti principi attivi contenuti in una protezione solare in crema o spray sono i filtri UV. Ci sono i cosiddetti filtri chimici e quelli fisici. Una molecola di filtro chimico è costituita in modo tale da diminuire l’energia dei raggi solari rilasciando nel contempo una radiazione di calore innocua per la pelle. E i filtri fisici?

Sono come microscopici specchi posti sulla pelle, da cui riflettono gran parte delle radiazioni solari. Entrambi i gruppi di filtri hanno lo scopo di bloccare le radiazioni del sole forti e dannose per la pelle e convertirle in un tipo innocuo, in alternativa di rifletterle nell’ambiente. Quali sono i criteri con cui vengono scelti i filtri solari per i prodotti?

Per ottenere una protezione ottimale della pelle dagli effetti dannosi dei raggi solari è determinante una combinazio-

ne fotostabile. Ciò significa una composizione che non deperisce al sole che contiene filtri solari UVA e UVB. Le combinazioni ideali dei filtri UV vengono adattate sulla base delle esigenze del prodotto, così da proteggere la pelle nel miglior modo possibile.

prodotto ogni due ore circa poiché l’effetto protettivo per la pelle diminuisce costantemente, per esempio per essiccamento dopo il nuovo o l’attività fisica.

Cosa significa «nel miglior modo possibile»?

Si tratta di un prodotto appositamente sviluppato per gli sportivi. Durante le attività all’aria aperta il sistema di filtri protegge immediatamente e in modo affidabile dalle scottature e dall’invecchiamento cutaneo precoce determinato dall’esposizione prolungata alla luce solare. Grazie al sistema spray, questo latte particolarmente resistente all’acqua risulta facile da applicare. Viene immediatamente assorbito dalla pelle, che risulta quindi morbida e vellutata. La dimensione della confezione è ottimale per trovare spazio in ogni borsa sportiva. È facile da maneggiare e rende più semplice raggiungere le parti meno accessibili del corpo, come per esempio la schiena.

È importante sapere che un prodotto solare non protegge mai al cento per cento dalle radiazioni del sole. Indipendentemente da quanto bene e quanto spesso ci si spalma o si nebulizza il prodotto, una parte delle radiazioni solari raggiunge sempre la pelle. Ma aiuta se si utilizza un fattore di protezione 30 anziché 10?

Sì, più il fattore è alto e maggiore è la protezione. I prodotti con il fattore di protezione più basso, il sei, assorbono circa l’83 per centro delle radiazioni solari, il fattore 30 ne assorbe il 97 per cento. È inoltre importante spalmare il

Quattro le differenze tra le immagini del concorso Sun Look pubblicate su www. noifirmiamonoigarantiamo.ch/ sunlooksportsunspray Trova le differenze e vinci una carta regalo Migros. In palio carte regalo Migros del valore di 150 franchi.

In cosa si distingue il nuovo Sun Look Sport Protect Sun Spray rispetto agli altri prodotti della linea?

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche il Sun Look Sport Protect Sun Spray.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Noi firmiamo. Noi garantiamo.

Intervista

I prodotti Sun Look sono parte integrante dell’assortimento Migros e fedeli compagni di viaggio. Nina Wanek, che si occupa dello sviluppo dei prodotti presso Mibelle Group, impresa di produzione Migros, ci spiega il modo in cui agisce la protezione solare e come ciò ha a che fare con la star della settimana

«Una parte delle radiazioni solari raggiunge sempre la pelle»

Efficace nel mondo intero Testo Thomas Tobler, Foto Paolo Dutto

Désirée Morton-Stuhler, Los Angeles USA Da due anni la coppia svizzera composta da Désirée e da suo marito Simon abita a Los Angeles. «Ci piace molto vivere qui. Ma abbiamo avuto bisogno di tempo per ambientarci e prendere confidenza con tutte le novità». Originaria di Davos e cresciuta con i prodotti Migros, Désirée sente la mancanza di alcuni di questi, malgrado negli USA ci sia un’enorme offerta di merci. «Per esempio, a casa abbiamo sempre una scorta di lozione solare Sun Look, di cui non devo mai restare senza perché è l’unica che la mia pelle tollera. Sono allergica a quelle di tutte le marche che trovo qui», racconta Désirée. Quando qualcuno annuncia una visita dalla Svizzera, Désirée e Simon gli inviano indicazioni affinché prima della partenza possa fare scorta alla Migros. «Mandiamo una lunga lista dei prodotti Migros che desideriamo». Oltre a quelli della linea Sun Look, figurano per esempio anche il dentifricio Candida, tè e tanta cioccolata. «Questi prodotti della Migros non sono solo ottimi o, come nel caso Sun Look, importanti per la salute. Per noi sono anche un ricordo della Svizzera.»

Christoph Kehl, Kradolf TG Christoph Kehl non è mai stato amico delle creme solari. Piuttosto che passare del tempo a spalmare la crema per poi ritrovarsi con la pelle appiccicosa, ha sempre preferito rinunciare, mettendo quindi in conto la possibilità di ritrovarsi con delle leggere scottature. Fino alla luna di miele, tre anni fa. Prima le Mauritius, poi Dubai con i suoi 45 gradi all’ombra. «Mia moglie mi diede lo spray Sun Look e mi ordinò, per così dire, di spalmarmi la crema», ricorda Christoph Kehl. Con sua grande sorpresa questa protezione solare gli andava a genio. Inoltre, grazie al pratico sistema spray, applicava regolarmente il prodotto, che non gli causava alcun fastidio. «Da allora utilizzo regolarmente la protezione solare spray e le scottature sono un ricordo del passato».

Star della settimana

Un protettore capace Da decenni alla Migros si trovano i prodotti per la protezione solare Sun Look. La vasta gamma va ora a completarsi con la star della settimana: Sun Look Sport Protect Sun Spray. Il nuovo arrivato sugli scaffali Migros è il compagno perfetto per le attività sportive e all’aria aperta durante le calde giornate estive.

Ursula Zumbühl-Bischof, Aarburg AG A Bali una buona protezione solare come quella offerta da Sun Look è parte dell’equipaggiamento base di ogni turista europeo. Nel corso del viaggio attraverso l’isola dell’Oceano Indiano, Ursula Zumbühl-Bischof ha notato che anche chi vive lì utilizza le protezioni solari della Migros. «Nel bel mezzo della pampa, circondata dalla giungla, abbiamo fatto una sosta in un piccolo bar. Sono andata al bancone per ordinare e ho scoperto un frigorifero pieno di confezioni Sun Look», ci racconta Ursula Zumbühl-Bischof. Ha poi appurato che il bar è di proprietà di una donna svizzera, che nel frigorifero conserva scorte di creme solari Sun Look sufficienti per un anno. Quando rientra in Svizzera porta a Bali una valigia ricolma di confezioni Sun Look, poiché sul posto non trova buone protezioni solari. «Ancora oggi, ogni volta che vedo una crema Sun Look mi ritorna alla mente il frigorifero di Bali. Per me è un bellissimo ricordo delle vacanze», conclude Ursula Zumbühl-Bischof.

Concorso

Nina Wanek si occupa dello sviluppo dei prodotti solari, che usa nel suo tempo libero.

Nina Wanek, come funziona il meccanismo di protezione dai raggi del sole di uno spray protettivo?

I più importanti principi attivi contenuti in una protezione solare in crema o spray sono i filtri UV. Ci sono i cosiddetti filtri chimici e quelli fisici. Una molecola di filtro chimico è costituita in modo tale da diminuire l’energia dei raggi solari rilasciando nel contempo una radiazione di calore innocua per la pelle. E i filtri fisici?

Sono come microscopici specchi posti sulla pelle, da cui riflettono gran parte delle radiazioni solari. Entrambi i gruppi di filtri hanno lo scopo di bloccare le radiazioni del sole forti e dannose per la pelle e convertirle in un tipo innocuo, in alternativa di rifletterle nell’ambiente. Quali sono i criteri con cui vengono scelti i filtri solari per i prodotti?

Per ottenere una protezione ottimale della pelle dagli effetti dannosi dei raggi solari è determinante una combinazio-

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prodotto ogni due ore circa poiché l’effetto protettivo per la pelle diminuisce costantemente, per esempio per essiccamento dopo il nuovo o l’attività fisica.

Cosa significa «nel miglior modo possibile»?

Si tratta di un prodotto appositamente sviluppato per gli sportivi. Durante le attività all’aria aperta il sistema di filtri protegge immediatamente e in modo affidabile dalle scottature e dall’invecchiamento cutaneo precoce determinato dall’esposizione prolungata alla luce solare. Grazie al sistema spray, questo latte particolarmente resistente all’acqua risulta facile da applicare. Viene immediatamente assorbito dalla pelle, che risulta quindi morbida e vellutata. La dimensione della confezione è ottimale per trovare spazio in ogni borsa sportiva. È facile da maneggiare e rende più semplice raggiungere le parti meno accessibili del corpo, come per esempio la schiena.

È importante sapere che un prodotto solare non protegge mai al cento per cento dalle radiazioni del sole. Indipendentemente da quanto bene e quanto spesso ci si spalma o si nebulizza il prodotto, una parte delle radiazioni solari raggiunge sempre la pelle. Ma aiuta se si utilizza un fattore di protezione 30 anziché 10?

Sì, più il fattore è alto e maggiore è la protezione. I prodotti con il fattore di protezione più basso, il sei, assorbono circa l’83 per centro delle radiazioni solari, il fattore 30 ne assorbe il 97 per cento. È inoltre importante spalmare il

Quattro le differenze tra le immagini del concorso Sun Look pubblicate su www. noifirmiamonoigarantiamo.ch/ sunlooksportsunspray Trova le differenze e vinci una carta regalo Migros. In palio carte regalo Migros del valore di 150 franchi.

In cosa si distingue il nuovo Sun Look Sport Protect Sun Spray rispetto agli altri prodotti della linea?

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche il Sun Look Sport Protect Sun Spray.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Noi Firmiamo. Noi Garantiamo

Le star prodotte in Svizzera

Sun Look è questa settimana sotto le luci dei riflettori. Risplende assieme a molti altri apprezzati prodotti creati dalle industrie Migros

Azione 33% di sconto sulle confezioni multiple Potz, per es. Potz Calc nella confezione da 3 3 x 1l Fr. 9.80* invece di 14.70 Azione 20% di sconto su tutti gli yogurt Bifidus per es. Bifidus Fragola 150 g Fr. –.65* invece di –.85

Azione 15% di sconto sui detersivi per stoviglie Handy in confezione da 3, per es. Handy Power 3 x 1l Fr. 6.10* invece di 7.20

Azione 40% di sconto su tutte le confezioni di Ice Tea Brik in confezione da 10, 10 x 1l, UTZ, per es. Kult Ice Tea limone Fr. 4.50* invece di 7.50

Azione 20% di sconto sull’intero l’assortimento Sun Look (confezioni multiple escluse), per es. Sun Look Sport Protect Sun Spray SPF 30, 200 ml Fr. 11.20 invece di 14.– Azione valida dal 25.04 all’08.05 fino a esaurimento scorte

Azione 40% di sconto su tutte le tavolette di cioccolata Frey da 100 g nella confezione da 12, Latte Nocciola e Latte Finissimo, per es. Frey Latte Nocciola 12 x 100 g Fr. 13.30* invece di 22.20

Azione 50% di sconto sugli Hamburger M-Classic nella confezione speciale, congelato, 12 x 90 g Fr. 7.80* invece di 15.60 Azione 30% di sconto sul prosciutto cotto TerraSuisse in duo-pack, per 100 g, Fr. 2.20* invece di 3.15

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 aprile 2017 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Garnier & L’Oréal Paris

Giochi in maschera

Le maschere per il viso abbelliscono velocemente. Purificano, calmano, levigano o idratano. Le maschere di argilla si applicano su pelli dalle più svariate esigenze. Particolarmente pratiche sono le maschere di tessuto già pronte

Bomba idratante La maschera di tessuto Hydra Bomb di Garnier è costituita da un panno sottilissimo che si appoggia semplicemente sulla pelle del viso ben pulito. È imbevuto di sostanze ad alta efficacia come l’acido ialuronico. Gli strati superficiali della pelle secca vengono riforniti di umidità, che si mantiene per 24 ore. Questa maschera tonificante ricompatta, rinfresca e fa risplendere la pelle stanca.

Garnier Skin Activ Hydra Bomb Maschera di tessuto 1 pezzo* Fr. 2.80

Pulizia profonda dei pori

L’Oréal Paris Maschera di argilla Alga Rossa peeling 50 ml* Fr. 13.80

L’argilla naturale è ricca di minerali e oligoelementi, particolarmente raccomandati per la cura della pelle del viso. L’argilla pura costituisce la base delle tre nuove maschere facciali di L’Orèal Paris: la maschera verde con estratto di eucalipto combatte le impurità, ripulisce i pori ed elimina la lucidità dovuta al grasso. La maschera nera, invece, contiene carbone vegetale, che sostiene l’effetto detox. La maschera rossa arricchita con l’estratto di alghe rosse provoca una delicata esfoliazione, purifica i pori, dà impulso al rinnovamento cellulare e regala una carnagione fresca.

Combinabili secondo le esigenze

L’Oréal Paris Maschera di argilla Eucalipto rinfrescante 50 ml* Fr. 13.80

La particolarità delle tre maschere d’argilla è che si possono combinare a seconda dei propri bisogni. Infatti, le varie zone del viso hanno spesso esigenze differenti. Ad esempio, l’area del naso e del mento è spesso più grassa e lucida della fronte e delle guance. Per apparire particolarmente fresche quando si esce, si consiglia di applicare prima una maschera all’eucalipto. Dopo una lunga serata di festa, invece, la maschera al carbone vegetale pulisce e disintossica la pelle.

L’Oréal Paris Maschera di argilla Carbone vegetale effetto detox 50 ml* Fr. 13.80

*Nelle maggiori filiali


SABATO 29 APRILE

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Orari di gioco dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 18.00


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