numero 1 dicembre 2007 â‚Ź 0.00 babel edizioni
parliamo di videogiochi
Ridefinire lo stile e non essere calcolati: Odin Sphere a pag. 015
BABEL
http://bab3l.splinder.com
contents
n.001 dicembre2007 COPERTINA space invaders GRAFICA E IMPAGINAZIONE federico res EDITING DEI TESTI federico res SITO WEB http://bab3l.splinder.it FILE OSPITATI DA www.paolofranchini.com
SUPER PAPER MARIO
mario s’incarta su Wii 004
REDAZIONE tommaso “gatsu” de benetti federico res vincenzo “vitoiuvara” aversa giovanni “giocattolamer” donda cristiano “amano76” ghigi alvise “kintor” salice michele “macca” iurlaro francesco “xibal” sili michele “guren no kishi” zanetti
Review Super Paper Mario 011 Fifa 08 012 Tomb Raider Anniversary 013 Scramble Commander 014
SYNTHESPIAN:
BABEL 002
underRated Odin Sphere 015 OST - Music in the gaming Digital Devil Saga 2 009
HANNO COLLABORATO valentina “bluvalentine” paggiarin emanuele “emalord” bresciani
Babel va assunto per via oculare in dosi più o meno massicce, in rapporto al peso specifico della vostra passione. La stampa è caldamente consigliata, tenendo presenti questi semplici accorgimenti: stampare prima le pagine dispari, voltare i fogli e reinserirli nella stampante, stampare le pagine pari. Una rilegatura in pelle di camoscio tibetano è l’ideale, ma vanno bene anche un paio di punti metallici.
Ignition Welcome to the Tower 003
gnocche di bit 010
Frames Synthespian in Vendita 007 Dal Vangelo Secondo Tommaso Media Distribution 004 Odio di Gomito Wii e la fatica di videogiocare 005 Esco di Rado (ma gioco pure troppo) Chi ha bisogno dell’Online 006 Giochi Di Merda Shinobi & The Red Star 016
LOST ODYSSEY
profezie videoludiche 004
La TV che Videogioca Make Love not Warcraft 017 Nostradamus! Lost Odyssey 018
I G N I T I O N
001
Welcome to the Tower
W
elcome to Babel. Benvenuti sulla Torre. Benvenuti.
Mi chiamo Babel e parlo di videogiochi. Ne parlo in tante lingue diverse, come si può immaginare dal mio nome. Ma il mio cuore, quello che batte il ritmo dell’hardcore gamer, è sempre lo stesso. Anche quando rallenta e se la intende con il gioco più fugace, anche quando civetta con quello portatile. E’ sempre lo stesso ed ha sempre fame. Di giochi, di bei videogiochi, prima di tutto. Ma anche di belle parole, di parole che esprimono concetti, che aderiscono il più possibile alle grinze del mondo videoludico passando per quel diaframma che è la mia lingua, o meglio, le mie molte lingue intrecciate. Parole che sanno fluire e arrestarsi, lambire gli argini o contro di essi premere con forza; parole che vogliono parlare del videogioco come poche altre bocche fanno o hanno fatto in passato: con coscienza, entusiasmo, partecipazione. Il mio è un cuore che ha fame di parole che hanno fame. L’intera Torre ha fame, una fame gigantesca: Ring, la prima rivista indipendente di Cultura e Critica del videogioco, è definitivamente passata a miglior vita, regalando in un rantolo finale il suo celebrativo numero 100. Videogiochi, erede di quel Super Console che da solo, per un lustro, ha costituito la storia dell’editoria italiana di videogiochi, è anch’essa trapassata. Game Pro, l’attuale “figlio molto illegittimo” di Videogiochi, preferisce adagiarsi sui contenuti anglofoni della “rivista più autorevole (ehm) del mondo”, ovvero Edge. Resta poco, per chi si nutre di passione e informazione. Resta solo una grande fame. Ecco che abbiamo risposto alla prima delle domande che le convenzioni del caso ci obbligano a soddisfare: perché Babel. Babel perché il cuore e con lui l’intera Torre hanno fame. Di parole, di parlare la lingua e le lingue del videogioco e di farlo senza porsi alcun limite. La seconda domanda, è cosa è Babel. Babel è una rivista mensile totalmente gratuita, scaricabile in formato PDF dal sito http://bab3l.splinder.com. Una parte dei suoi contenuti, secondo le esigenze di lettori ed autori, verrà rilasciata sottoforma di singoli PDF nelle settimane precedenti all’uscita di ogni numero. Su http://bab3l.splinder.com sarà inoltre presente un database che permetterà il download di ogni numero completo e ogni singolo articolo, sempre in formato PDF, grazie ad un comodo navigatore. Inoltre, un utile tasto feed permetterà a chiunque di essere sempre aggiornato sugli ultimi contenuti pubblicati. I numeri mensili sono i piani della Torre, gli articoli singoli sono i suoi mattoni. Gli uni e gli altri sono ugualmente fondamentali, gli uni e gli altri costituiranno insieme la bipolare essenza del progetto. Un’ essenza ottenuta, non sintetizzata, dalla fermentazione naturale di svariati fattori. Permetteteci di riassumerli. Fame. La fame di cui già si è parlato. La fame
di una cerchia di personalità, per il momento ancora ristretta ma che si espanderà - si spera presto, di personalità diverse, opposte, complementari, sempre e comunque invischiate nel mondo del videogioco in tutti i modi possibili. Qualcuno riconoscerà alcuni ex membri di Ring, qualcun’altro ritroverà parte della ciurma del blog TheZeroPlace e alcune presenze fisse sul forum di The First Place. Giocatori incalliti, giocatori riflessivi, giocatori per necessità ma mai per caso. Pluralità. Pluralità di vedute, di punti di vista, di visioni del mondo videoludico. Idee differenti, modi di intendere e fruire del videogioco distinti e precipui, finestre diverse aperte in modo diverso su un unico mondo di riferimento. Tenendo fede al suo nome, Babel raccoglie in sé le parole e le opinioni di persone distinte che tali vogliono restare. Nessun conformismo, nessuna volontà di appiattire gli stili o ricercare chissà quale utopica organicità. Con una differenza: nonostante le diversità, ogni lingua comprende le altre e con le altre partecipa in concerto. Questa è la nostra forza, la forza della Torre dove il tutto vale le parti e le parti valgono il tutto. Agilità. In un mondo editoriale dove le alternative sono soltanto due, puntare sulla velocità a scapito dei contenuti o sui contenuti a scapito della puntualità, Babel erge fiera la sua altezza, forte di una struttura concepita per costituire la terza via. Via che passa, come già detto, per delle regolari uscite mensili integrate da aggiornamenti settimanali. In pratica, Babel cresce in tempo reale ed ogni mattone è subito disponibile per chiunque. Un processo agile ma al tempo stesso genuino, programmato e sistematico. Nessuno corre dietro alla Torre, ma lei sta al passo di chiunque. Estetica. Come Ring prima di lei, Babel vuole offrirsi gratuitamente a tutti in una veste sfavillante. Ecco dunque la sua orgia di colori e la sua altissima risoluzione, originariamente creati tenendo ben presenti le esigenze di tutti coloro che, preferendo l’insostituibile carta stampata allo schermo di un PC, armeranno le proprie stampanti per dare piena giustizia alla Torre. Infine, qualcosa di difficilmente descrivibile se non come un miscuglio ribollente di entusiasmo, volontà espressiva e comunicativa, irriverenza e sarcasmo e ironia e preveggenza. Qualcosa che passa per le pionieristiche analisi critiche di Ring attraversando il muro delle inestricabili meccaniche del business, qualcosa che continua a vedere nel videogioco quella esclusiva natura di medium mutante soffocata da onnipresenti logiche commerciali, qualcosa che vuole riprendersi il puro e semplice quid del videogiocare ma non disdegna l’emozione innanzi alle venature d’arte che incrostano le articolazioni multisnodate dei giochi elettronici. Forse, il nome giusto per tutto ciò è passione. Buona lettura. Federico Res 003
Tommaso De Benetti
Tommaso De Benetti è stato membro fondatore e colonna portante di Ring, la rivista più amata dai videogiocatori meno rincoglioniti. Qualche tempo fa, esasperato dall’ignavia invincibile degli ormai depressi ringhici, ha lanciato da solo il progetto RingCast (reperibile su iTunes), primo podcast italiano a tema
videoludico, a cui comunque la vecchia guardia partecipa a corrente alternata. Gatsu, secondo il nick con cui è solito firmarsi su Internet, attualmente vive e tromba a Helsinki, tra frotte di bionde ninfomani e sferzate di gelo più o meno devastanti.
Dal Vangelo secondo Tommaso Media Distribution: videogame al giro di boa
M
La Legendary Edition di Halo 3 è probabilmente l’edizione speciale più sfacciatamente trash che la storia ricordi, per via del plasticoso caschetto di Master Chief riprodotto in scala. Simili “special edition” costituiranno l’unica fonte di guadagno per gli sviluppatori, che rilasceranno i giochi gratuitamente su Internet. Un’utopia?
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distributive. In una prospettiva diversa, innanzitutto. Il software demo, shareware e freeware esiste da lustri e senza dubbio ha contribuito notevolmente allo sviluppo del panorama informatico così come lo conosciamo. Diversa, dicevamo, ma allo stesso tempo anche familiare: se siamo ancora moderatamente lontani dal parlare di giochi nuovi completamente gratuiti (almeno per quanto riguarda il panorama console, su questo fronte il PC fa storia a sè, anche per il fatto di essere stato il primo a potersi connettere alla rete), siamo decisamente meno lontani dal full digital delivering su cui i più vecchi di noi fantasticavano solo qualche anno fa. Ed è in questo punto che i due mercati, quello videoludico e quello musicale, tornano a correre paralleli: quello che si profila all'orizzonte è uno scenario in cui a sparire progressivamente sarà l'edizione 'standard'. Da un lato avremo la possibilità di downloadare direttamente il gioco sulla nostra piattaforma, con tanto di libretto elettronico. Dall'altro, edizioni limitate extralusso, che includeranno ogni genere di extra possibile e immaginabile, per un prezzo ovviamente
ettiamo il caso che domani, preso da frenesia pre-natalizia, decidessi di fiondarmi al Mac Store a due minuti da casa mia per mettere le mani su un iPod Classic da 160 Giga. Mettiamo anche che, tornato a casa, mi senta investito da un refolo di onestà e rettitudine e decida di iniziare a riempirlo partendo dall'Apple Store Online, come tutti gli scaricatori diligenti dovrebbero fare (nei sogni bagnati di Steve Jobs). Riuscirebbe il mio buon cuore a sopportare lo stress dovuto al fatto che ogni canzone costa 0,99 €, pesa approssimativamente 3,5 Mega e che la cifra per riempire il mio nuovo lettore di musica si attesti quindi intorno ai 45,237 €? Volendo fare proprio il poveraccio, chessò, riempiendolo per metà di musica rippata dai vecchi cd della mia collezione, podcast gratuiti e video di YouTube, mi ritroverei a dover salutare grossomodo 22,500 €, una cifra che anche Piersilvio Berlusconi potrebbe avere qualche remora a sganciare solo per sfruttare al massimo il suo nuovo acquisto. L'industria musicale, ferma ancora ad un concetto di distribuzione e remunerazione le cui radici affondano nel 18° secolo (vedere: Statute of Anne, prima vera legge sul copyright nel Regno Unito, base di tutte quelle che seguirono) è anni luce indietro rispetto ai protagonisti stessi delmaggiorato. Inoltre, alcuni grossi publisher hanno iniziato a pensare di utilizzare i loro prodotti vecchi e ormai invendibili come ulteriore spinta pubblicitaria per quelli più recenti, con modalità del tutto analoghe a quelle che il famoso esamble Wu Ming utilizza per la promozione dei suoi libri. Ubisoft rilascia Far Cry, Prince of Persia: Le Sabbie del Tempo, Rayman Raving Rabbids e Ghost Recon, scaricabili liberamente dalla rete. Majesco rende gratuito il download di Psychonauts. Telltale Games mette a disposizione un intero episodio delle nuove avventure di Sam & Max (Abe Lincoln Must Die, per la precisione). Se prima i giochi gratuiti erano quelli arcade, sviluppati da appassionati e limitati al solo ambito PC, quello a cui stiamo assistendo è un cambio di trend che, per quanto limitato, non può essere ignorato. Esistono peraltro vie alternative, come quelle percorse da alcuni MMORPG, che fanno pagare il gioco ma non l'abbonamento, o, viceversa, regalano il gioco ma richiedono un'obolo mensile per poter essere giocati decentemente. Non esiste ancora un think tank definito per il mercato videoludico, una
l'industria, i musicisti. Che con formule più o meno fortunate, stanno cercando da anni di sganciarsi dall'idea che l'album, o il cd fisico, sia l'unica e possibile fonte di reddito di un artista. Le strategie più affascinanti, quelle che più assomigliano ad una release candidate, per utilizzare un termine conosciuto in ambito videoludico, sono quelle presentate recentemente da band il cui peso è tutt'altro che trascurabile: Radiohead, Nine Inch Nails, Oasis, solo per citare i più grossi. L'idea di fondo è, in sostanza, quella di bypassare il distributore (le major) per raggiungere direttamente l'utenza, spesso senza nemmeno chiedere un prezzo prestabilito in cambio del prodotto musicale. Se Tom Yorke deve decidere quante date fissare per il tour, può farlo sapendo che almeno due milioni di persone (and counting) hanno scaricato l'ultimo lavoro della band per vie ufficiali, e che quindi lì fuori ci sono altrettante persone potenzialmente ben disposte a pagare per vedere la band dal vivo o per supportarla tramite il merchandising (sono disponibili ulteriori dettagli nelle pagine ufficiali delle band citate). Ora, per tornare in topic con le tematiche che Babel si propone di trattare, credo sia opportuno verificare a che punto si trovi l'industria del videogioco in questo cambio epocale di politiche pratica mercantile standard; anzi, siamo nel bel mezzo di una tempesta di marketing creativo. Sicuramente i tempi sono ancora immaturi per iniziative come quelle di far pagare il gioco appena uscito (esempio, un fantomatico Gears Of War 2) una cifra qualsiasi definita dall'utente. Ma se una delle band più rilevanti della scena musicale rischia in proprio proponendo lo spendido In Rainbow ad un prezzo random, rientrando comunque ampiamente nei costi sostentuti - alla faccia delle major impaurite che gridano al fallimento per evitare il fuggi fuggi generale degli artisti -, non c'è motivo per non credere che il resto dell'industria dell'entertainment non possa, e non deva, muoversi in quella direzione. I soldi che un IP importante come Halo può muovere, se vogliamo citare l'esempio più scintillante, non sono praticamente più collegati al gioco vero e proprio, ma a quell'universo composto da miriadi di gadgets, vestiti, accessori, servizi extra, film, serie machinima e cibi sponsorizzati da Master Chief in persona. Vogliamo scommettere che da qui a cinque anni il modello economico del mercato sarà irriconoscibile?
Giovanni Donda
Un uomo per due stagioni Giovanni Donda, in arte Giocattolamer, è italiano di nascita e inglese d’adozione. “Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È entrato a far parte dell'industria dei videogiochi dalla porta di servizio, e lì è rimasto. Oggi è a capo di una piccola azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o prodotti qui non verranno mai menzionati.
Questo ci ha costretti a scriverlo lui. Va da sé che le sue opinioni siano appunto tali. Pure questo. La moglie, invece, gradirebbe che simili premure le riservasse a lei, e alla figlia, non a quella ditta del... Ma lo ama tanto. Fortuna che non capisce l'italiano e crede ancora che “Odio di Gomito” sia solo il romanzo che gli pagherà il mutuo.
Odio di Gomito
Del Nintendo Wii e di questa gran fatica che è il videogiocare
O
ggi ho ordinato altri dieci devkit del Nintendo Wii per la mia ditta. E fin qui tutto bene. Tranne i tempi di attesa, ma quella è un’altra storia. Tutto bene, dicevamo, perché la ditta inizia a farsi conoscere, la grana inizia a entrare regolare, e i partner internazionali iniziano a fidarsi di un italiano fra i dirigenti di una società scozzese. Non è facile, per una compagnia indipendente di controllo della qualità come la mia, rimanere a galla al giorno d’oggi. Io, con grossa grattata di coglioni, pare ci stia riuscendo, ma il Wii ce la sta mettendo proprio tutta per rovinarmi la giornata. La console Nintendo ha funzionato, e sta funzionando, su diversi livelli. Se ascoltassi solo il mio lato da videogiocatore incallito non avrei di che lamentarmi, dopotutto l’abbiamo gridato noi agli otto venti che ci serviva questa rivoluzione. L’altro lato, però, quello professionale, cinico e perennemente disconnesso, guarda il telecomando Wii, afferra il Nunchuk, indossa - mi raccomando - il laccetto, e non può non pensare ai mesi di Anche qui, l'inventore del bidet può fare sogni tranquilli. Non a caso, infatti, era la stessa cosa che volevo fare io dopo due intense settimane a sventolare braccia per Sony. Ma se l’EyeToy non decollerà mai, se non per una nostra distrazione, il Wii tira come un certo qualcosa che, se troppo lungo, dovrebbe essere bandito. Se non di più. E dove tira il mercato, la mia ditta deve pure andare, più povera di dieci dev-kit Wii, e con una nuova campagna acquisti personale a gravare sul bilancio di fine mese. Ci vogliono settimane, quando non mesi, per preparare come si deve un nuovo arrivato. E giusto quando lo hai finalmente convinto che “testare” e “giocare” sono proprio su due vocabolari diversi, ecco che viene pagato per gesticolare peggio di un turista italiano alla fermata del double decker. Proprio come uno scherzo, un gioco è bello quando dura poco. L'euforia iniziale si tramuta ben presto in altri sin-
gavetta spesi su titoli EyeToy. Gli stessi finiti direttamente nel bargain bin. Non sto neanche scoprendo il bidet, che il Wii sia spesso smascherato come l'ennesimo gimmick al servizio dell'industria, di quelle trovate che dovrebbero attirare quell’inesauribile massa di non-videogiocatori là fuori, è una realtà che rimbalza da parecchio tempo da un opinionista all’altro. Ma il Wii sa essere ben più bastardo della telecamera Sony. È qui per restare. Aprendo una nota squisitamente personale, io al Wii non riesco più a giocarci. Mi fanno male le braccia al solo pensiero. Chiudo subito la parentesi personale, però, poco importa che stia prendendo polvere nel mio ufficio, ben più grave è che lo faccia sulle scrivanie dei miei tester. Oggi a casa - tra virgolette - malati, domani davanti al sottoscritto per minacciarmi di levare le tende e, quasi peggio, di denunciare la ditta ai medici dell’NHS (National Health Service, ovvero l'equivalente della vostra usl... asl... ausl, o qualsiasi cosa abbiate adesso). tomi, il più vistoso fra questi è l'ascella pezzata. Il meno vistoso è una scaltra occhiata alle procedure per richiedere un sick day il giorno dopo, e lo sgancio del proprio curriculum su qualche sito di accalappia cani aziendali. Neanche ricordarli quanto sia deprimente testare giochi per i settantadue modelli della Nokia li riporta sulla retta via. Ingrati. Basterebbe giusto un po’ di olio di gomito in più, il pane di ogni buon tester, ma spiegatelo voi a questi studenti universitari che vengono a lavorare qui part-time, che mi si presentano alla porta con gli occhi di chi non ha capito nulla di cosa lo aspetti. Spiegaglielo te, Nintendo, piuttosto, perché io la penso esattamente come loro. Seppur in criminale ritardo, giusto oggi mi immergevo in Okami e mi stupivo di quanto fosse comodo dipingere con la levetta analogica destra del controller di Sony. Un collega mi passa a trovare, sbircia, e si chiede come
“Se a una console non ci puoi giocare con quaranta di febbre, non è una console” [Antico proverbio scozzese]
ci possa anche solo essere voluto così tanto per decidere di far finire sul Wii questo signor gioco della defunta Clover. “Mah...” è quanto di più cortese ho da rispondere.
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Vincenzo Aversa Professore Nerd
Ritenendosi da sempre uno dei cinque migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr. Vitoiuvara ha deciso di condividere con il mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per Videogiocatori Professionisti” che oltre a renderlo famoso, lo ha definitivamente consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive
solo e abbandonato in compagnia del suo fidato quaranta pollici ma, come ama ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi tutto il suo tempo libero a videogiocare, è fermamente convinto che, nell’arco di massimo cinque anni, sarà fuori da questo ambiente di sfigati.
Esco di Rado (ma gioco pure troppo)
E
Il franchise di Halo, da sempre simbolo di gioco online viste le ottime funzionalità multiplayer, ha provato col suo terzo episodio a rivoluzionare la cooperativa, permettendo a una squadra di ben quattro giocatori di affrontare il resto del mondo. L’obiettivo è stato raggiunto?
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Chi ha bisogno dell’online?
ra il Natale di 5 anni fa quando sotto l’albero mi feci trovare la scatola vuota del Network Adaptor per Playstation 2 (e mica potevo aspettare) insieme ad una scatola vuota del primo SOCOM. Spinto dai commenti divertiti di altre persone, mi ero fatto convincere del fenomenale potenziale del gioco a banda larga, e, cazzarola, duecento ore dopo, ne ero convinto anche io. Non tanto per il gioco in sé (ho cominciato ad apprezzare appieno le potenzialità di Socom dopo almeno 4 buggatissimi codici online made in Ubisoft), ma per la gente, per gli insulti tra amici, per le quattro risate che sono meglio di niente dopo una giornata di merda. Cinque anni dopo, sono ancora alla ricerca di un gioco, seguito dello stesso escluso, che sia in grado di macinare compagnia stabile come il titolo Sony. SOCOM era l’unica minestra, era questa la sua forza, possibilità che i ricchi menu delle console di questa generazione sembrano non poter più permettersi di offrire. Per una volta, sembra quasi assurdo a dirsi, la varietà non ha arricchito l’offerta ma si è resa promotrice di una frammentazione che, di fatto, rende impossibile la
creazione di gruppi altrettanto affiatati. In un mercato che si sente in obbligo di realizzare modalità online, infatti, i giocatori vengono quasi costretti a repentine e affrettate migrazioni da un gioco all’altro nel naturale tentativo di provare a fondo tutto quello che comprano. Nell’ottica di chi in questo Natale dovrà confrontarsi con la più malsana serie di uscite in contemporanea di titoli importanti, tutto questo è persino logico e giustificato. Resta il fatto che alternando Halo 3 a COD4, PGR4 e FIFA si finisce con l’addentare bocconi che non si è in grado di masticare del tutto. Tutto è rimandabile, per carità, ma saltare l’appuntamento con il lancio significa anche perdere l’onda lunga delle presenze, col rischio di finire appiedati anche solo dopo qualche settimana dal day one. È in questo quadro di abbondanza ed esperienze mozzicate che è perfettamente inquadrabile la differenza di trattamento riservato ad Halo 3 rispetto al suo predecessore. Seppure Halo 3 starà macinando numeri di ben altro spessore (dovuti ad un Live meglio avviato anche),
infatti, chi bazzica i caldi lidi del Live avrà notato come l’entusiasmo sia andato scemando in fretta e come, a differenza di Halo 2, l’esperienza online sia stata per molti rimandata a campagna finita. Difficile racimolare un bel gruppo di amici da rinchiudere in uno stanzone privato, laddove nel secondo episodio era difficile non lasciare qualcuno fuori dalla porta. E ad aiutare non sono arrivati certo gli achievement, di cui il sottoscritto è pure profondamente innamorato, chiariamo. La smania di Gamerscore ha trasformato l’online in un campo minato di “stanzine inciucio” create su misura per sbloccare obiettivi tra amici (nonostante siano in teoria obiettivi limitati alle partite competitive) e giocatori mestruati troppo interessati alla vittoria da poter rendere divertente qualsiasi match. E se non si ha un achievement da inseguire, giocare non ha più senso per molti . Quindi, con Halo 3, si finisce a cooperare, cercare teschi e al massimo ad organizzare gruppi da quattro, limite massimo per partite classificate (quindi ufficiali). Tutto subito e tutto in fretta, questa è la parola d’ordine e a
farne le spese sono belle idee come la modalità online di Splinter Cell Double Agent, persino alleggerita e snellita rispetto ai predecessori della saga, ma ancora troppo articolata per essere compresa, giocata e padroneggiata in poco più di due mesi. Meglio invogliare il giocatore con premi (gradi, equipaggiamento, armi nuove) che lo spingano a ritornare, che gli diano un motivo per giocare più di quanto possa fare la presenza di un paio di “amici” con i quali non si è condiviso poi molto. E i dati parlano chiaro in questo senso. Il videogiocatore resta mediamente un asociale cronico, più interessato al fuoco del proprio fucile che non alla compagnia delle lobby. Niente cuffie se non in presenza di qualcuno che si conosce bene, poco chiacchierare e tanto giocare se lo scopo è lontano dalle grasse risate. Difficile spiegare quali siano le vere qualità dell’online a chi reputa buono il servizio online Nintendo, che la comunicazione vocale non la prevede nemmeno. Niente crisi di pianto per un suicidio ridicolo, quindi, ma solo la versione con IA
migliorata dell’offline. C’è pure da dire che le frequentazioni di stanze online non sono certo quelle di nobili inglesi. Per qualche strana ragione, il gioco interrazziale riesce a trasformarsi velocemente nella più becera guerra di insulti. Tra inglesi che reclamano la propria lingua d’origine, francesi che non vogliono italiani e italiani che non fanno altro che cantare popporoppò non appena sentono la puzza di un francese, c’è ben poco da salvare in quanto a rapporti umani. Il lag, la sensazione di sentirsi menomato rispetto all’host (questo sul Live) e qualche decina di imbecilli pronti a sfruttare glitch e bug, fanno il resto. La situazione sarebbe pure migliore su PC, dove l’online sembra aver raggiunto maggior maturità e dove server, gioco gratuito ed età media più alta, facilitano la formazione di gruppi affiatati e clan da combattimento veri e propri. Vero, però, che l’utente medio è parecchio scoraggiato dalla poca praticità di combo cuffia/programmi di chat per innamorarsene, ma soprattutto è
spaventato da quella triste sensazione di sentirsi in qualche modo privato del diritto all’uguaglianza, con tutte le varianti, tra periferiche ed hardware, che un pc comporta. Quello che sembra irraggiungibile, su console, è la rapidità delle patch e i contenuti aggiuntivi gratuiti che, magicamente, cessano di essere tali lontano da mouse e tastiera. Cinque anni dopo, insomma, ho perso parecchie delle mie certezze. L’online gaming, forse, non è il vero futuro e, forse, si tornerà ad un mercato che non ne richiede l’uso forzato ed indiscriminato. In quel mercato, dove COD6 può fare a meno di migliorare l’online di COD5 e Halo 4 non fagociterà Halo 3, forse avremmo giochi con uno scopo e una missione precisa: chi quella di divertire tra le quattro mura di casa, chi quello di simulare una pizza tra amici. Forse, non sarebbe un male.
POLYWOOD
benvenuti a
synthespian in vendita - venduti! a cura di Giovanni “Giocattolamer” Donda
F R A M E
L
a notizia iniziò a trapelare alla fine del secolo scorso. In quel di Hollywood era in cantiere un film in cui gli attori in carne ed ossa sarebbero stati irriconoscibili dalle loro rispettive controparti poligonali. Ma per quanto sarebbe bello poterlo fare, non stiamo parlando del futuro come fosse oggi, perché per quanto uno si sforzi di immaginarselo, sarà sempre il quotidiano a stupirci di più. I synthespian di Project 880, infatti, non sono fantascienza, sono un sogno che il regista James Cameron tiene chiuso in un cassetto dal 1996. Avatar, questo l’altro titolo associato al medesimo progetto, non ha ancora visto la luce a causa di una certa arretratezza tecnologica, ma se il testardo regista di Titanic assicura che si farà, si farà. E quando accadrà, il mondo dei videogiochi non sarà più lo stesso. Per pura coincidenza, sempre nel 1996, un’archeologa faceva salto carpiato nel panorama videoludico. La locandina di Tomb Raider spavoneggiava un “featuring Lara Croft” che solo un domani potrebbe assumere il giusto significato precursore. Il concetto che un’icona virtuale si prestasse al titolo, e non viceversa, era rivoluzionario ieri quanto oggi, volendo lo era ben più dell’esperienza ludica stessa. Storpiando questo concetto quanto basta, possiamo re-inventarci la scena: la signorina Croft, annoiata celebrità britannica, una mattina riceve una chiamata dal suo agente, due settimane dopo si trova a vestire i panni di un’archeologa e a partecipare alle riprese del colossal Tomb Raider. Tutto questo non è mai accaduto, è impossibile oggi, figurarsi nel ‘96. Ma è forse impensabile?
S1mone, protagonista del film di Andrew Niccol del 2006 con Al Pacino, Winona Ryder e Evan Rachel Wood
Sopra, Lara Croft nella sua nuova “veste” digitale, in posa per il remake Tomb Raider Anniversary. Qui a lato, Aki Ross in tutto il suo sintetico splendore.
Per un’altra utile coincidenza, sempre nel 1996, veniva pubblicato il romanzo Idoru, di William Gibson, erede di quel Neuromante che tanto fece per la scena cyberpunk: questa volta usciamo dallo sprawl e troviamo una storia d’amore fra il dio della chitarra Rez e Rei Toei, massima esponente della scena musicale giapponese. Ma lei non esiste, è un synthespian, un simulacro digitale creato solo per fare musica. Un intreccio di codici binari che rimpiazza la carne e le ossa, ma di fattura tanto pregevole da risultare da esse indistinguibile, arrivando a fare innamorare di sé un umano. Sebbene seminato nell’orto della pura fantascienza (ma pur ispirato alla contemporanea Kyoto Date), il seme rivoluzionario germoglia, e l’utopica invasione degli attori virtuali (vactor) accenna ad abbandonare la carta. Negli anni, precedenti e a venire, troviamo altri esempi nel campo dell’animazione, con la Sharon Apple di Macross Plus, e in quello videoludico, con la Reiko Nagase della serie Ridge Racer, fino ad arrivare, nel nostro secolo, al cinema. Facciamo entrare Aki Ross, prima donna di Polywood. Il colpo decisivo alla Hollywood dei capricci sarebbe potuto andare a segno nel 2001. Con l’imminente arrivo delle sale di Final Fantasy: The Spirits Within, iniziano a trapelare i primi rumour che vedrebbero il character model della protagonista, Aki Ross, impegnato in altre produzioni analoghe, o addirittura in
mezzo ad attori in carne ed ossa. Non a caso, lo stesso cast di Spirits Within viene visto interagire con il vero staff del film in uno degli spezzoni allegati alla versione DVD. Polywood muove i suoi primi passi, i synthespian sono pronti a rivoluzionare l’industria cinematografica. La bella Aki, inoltre, viene votata al numero 87 fra le “Hot 100” della rivista Maxim, prima e per ora unica persona ‘inesistente’ ad entrare in classifica. Ma ormoni a parte, The Spirits Within floppa ai botteghini, troppo americano per i giapponesi e troppo giapponese per gli americani. Gli europei, come sempre, non contano. Polywood si prepara allora ad un lungo letargo, rialzando il sopracciglio per il passaggio di una certa Simone. Dal genio creativo di Gattaca e The Truman Show, Andrew Niccol, arriva una commedia satirica sul panorama hollywoodiano, dove a seguito dell’ennesimo capriccio della protagonista femminile, il regista Viktor Taransky le preferisce un’attrice virtuale. Nonostante la pellicola verrà probabilmente riscoperta con il senno di poi, nel 2002 è ancora troppo presto e gli attori “veri” preferiscono riderci sopra, anziché preoccuparsi. Con l’insuccesso ai botteghini di S1m0ne, Hollywood può aggiungere un’ulteriore tacca sulla sua lancia, ignara che la nemica Polywood stia ultimando il suo cavallo di Troia, ovvero Avatar. Sulle migliori spiagge d’Egeo, a Natale, di qualche anno più in là. 007
F R A M E
benvenuti a La parentesi cinematografica termina in un vicolo chiuso per lavori in corso. Come tornare allora in ambito videoludico? Non in modo particolarmente elegante, né indolore: con Jet Lee Rise to Honor, nel 2003. Qui abbiamo un protagonista che ha le sembianze fisiche dell’attore stesso, la sua voce, ma ha un nome diverso ed è chiamato a recitare una parte differente. Come in un film, con tanto di titoli di coda finali che gli attribuiscono il ruolo: cosa già tentata nel 1998 con Apocalypse, dove il ruolo di protagonista andò al sinthespian di Bruce Willis. I risultati di tali esperimenti non sembrano aver fatto venire voglia a nessuna software house di ripercorrere la medesima via. Tranne Capcom, che nel 2004 inserisce Jean Reno e Takeshi Kaneshiro insieme nel suo Onimusha 3. Difficile dire se la software house di Osaka faccia però testo, si sa, sono matti da legare. Ma la storia si ripete sempre, e spesso rivede i suoi errori. Via allora le controparti digitali di attori reali, che a canalizzare le vendite siano direttamente le meteore di Polywood, o le più costose IP sul mercato videoludico. Abbiamo appena trovato l’anello mancante. Quanto è credibile che un character model originale, o synthespian, possa assumere ruoli diversi da un gioco all’altro? Un personaggio interscambiabile, perché no, esistono già diverse cameo videoludiche: ad esempio, Dante in Shin Megami Tensei: Lucifer’s Call e in Viewtiful Joe. Dipende, piuttosto, da che strada prenderanno i videogiochi nei prossimi decenni. Stando alla tendenza odierna, ‘fotorealismo’ sarà un bel bullet point ripassato a penna nei briefing di
fin troppe software house. Ci sarà bisogno di così tanti investimenti che difficilmente, una volta creato, l’attore virtuale potrà permettersi di essere usa e getta. Se oggi abbiamo un Mario per ogni disciplina sportiva che non sia il cricket, perché stupirsi tanto se un domani avremo Gordon Freeman come inaspettato nemico di fine livello, con buona pace di chiunque lo vedesse bene solo in ruoli “da buono”? Certo dovrà parlare, in futuro, starà allora al suo agente trovare l’attore giusto, magari non abbastanza foto-igienico da ottenere quanti script vorrebbe, ma dalla voce inconfondibile. Proprio così, seppur virtuale, attore rimane, e come tale avrà bisogno di qualcuno che gli scelga i ‘copioni’ e ne curi le relazioni. Se siete convinti che sia pura follia, vi risparmio il prossimo paragrafo sull’estetista personale. Storpiando questo concetto quanto basta, possiamo immaginarci la scena: La signorina Ross, annoiata celebrità americana, riceve una mattina una chiamata dal suo agente, una settimana dopo si trova a vestire i panni di un’investigatrice privata e a partecipare alle riprese dell’ultimo colossal di David Cage. Se allora per una serie di fortuite coincidenze, nel 1996, il concetto di Polywood iniziava molto metaforicamente a pagare il suo bel mutuo sugli immobili, è ragionevole ipotizzare che un domani avrà saldato il suo debito. E quello stesso giorno, ad anni ed anni di distanza dalla premiere di Avatar o dall’uscita di Xbox 1080, saremo tutti invitati al suo esplosivo house warming party. Ricordatevi solo di portare il Martini, ed il pacemaker.
A destra, Aki Ross posa per Maxim (è stata inserita al numero 87 fra le “Hot 100” dalla nota rivista). In basso, la mimica facciale dei volti dei protagonisti di Mass Effect (Bioware, 2007) segna nuovi standard e gioca senza dubbio il suo ruolo nella progressiva affermazione degli attori virtuali, perlomeno nell’ambito del videogioco.
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POLYWOOD
Original Soundtrack music in the gaming
Digital Devil Saga 2 Producer: Atlus Developer: R&D Development Uscita: 2005 Jap / 2006 Usa-Eu Consigliato: Cazzo si!
Tracklist: 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30
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Battle for Survival Om Mani Padme Hm Epic Battle Occupied Sector Underground City Coercion Heroic Battle Backtracking Internment Facility Prison Break Karma City Karma Society Tower Heat's Theme Madness EGG Facility Infilitration Power Plant Karma Inherent Will EGG Facility Revisited Hunting - Betrayal The Bell Tolls Regret Airport The Sun Enemies Reborn Divine Identity One Word The Rising Sun Om Mani Padme Hm - Rearrangement
Shoji Meguro
multicodicale con cui o per cui è concepito. Il secondo, riguarda la capacità delle musiche di fungere da colonna portante di un’esperienza, in origine, fondata su altre priorità come quella videoludica. Su entrambi i fronti DDS2 OST è un completo successo. I brani più rock - Battle for Survival, Epic Battle, Heroic Battle, Madness - sottolineano a dovere le fasi di combattimento; quelli più ambient (Underground Sector, Occupied City, Egg Facility, Power Plant e tanti altri) scandiscono, rapendo in mondo altro, le numerose fasi di esplorazione. Pezzi più lenti, viscerali, modulano le atmosfere suscitando girandole di emozioni diverse: è il caso della sanguigna Infiltration, che per certi versi ricorda il commento audio di uematsiana memoria nei reattori della Midgar di Final Fantasy VII. Vi è poi una serie di episodi volti a sottolineare i momenti più delicati della complessa - e magnifica trama di DDS2, dove la melodia e l’essenzialità trovano nel pianoforte tutto ciò di cui hanno bisogno: Om Mani Padme Hm, Karma, Inherent Will, The Bell Tolls, Regret. Infine l’OST propone brani pop rock di respiro più ampio, Divine Identity, The Rising Sun e Om Mani Padme Hm - Rearrangement; ma soprattutto gli episodi techno ambient più riusciti in assoluto, quali Airport e The Sun, piccoli gioielli assolutamente inscindibili dalla psichedelica orgia visiva degli ultimi momenti di gioco, quelli in cui il coinvolgimento raggiunge il suo apice. E tutto questo, come già detto, funziona altrettanto bene anche come disco stand alone, nonostante come da Meguro ammesso molte delle sue musiche nascano in simbiosi con le sequenze di gioco più rappresentative. Tra le punte più alte della sua produzione, DDS2 OST soffre del “difetto” che in generale si può impuntare a Meguro, cioé quello di lavorare con suoni e campionamenti tecnicamente datati. Ma trattandosi di una precisa scelta stilistica, è in fondo solo una questione di gusti: difficile criticare un lavoro così carico di ritmi e sonorità trascinanti.
Digital Devil Saga 2 Original Soundtrack
V
orrei suonare come Shoji Meguro. Vorrei suonare come questo techno menestrello anni ‘80 e ambient, questo rullo compressore di stampo rock variegato al cacao magro e al pop soul. Compositore storico della prolifica saga di Shin Megami Tensei ( per la quale ha realizzato le OST di Persona, Devil Summoner Soul Hackers, Maken X, Lucifer’s Call, Devil Summoner, Digital Devil Saga 1&2 e Persona 3) Meguro è ormai il motore pulsante del tessuto digitale demoniaco della serie di punta di Atlus. Difficile immaginare quelle atmosfere, quei personaggi, quello stile cel shaded così caratteristico senza la colonna sonora pulsante e retrò di Meguro. Senza i brani più rock, forti di strutture semplici ma solidissime che sottolineano le fasi più concitate di gioco, pompando a dovere l’adrenalina; o senza i brevi stacchi al pianoforte, pennellati con un gusto e una sensibilità melodici di classe, ben lontani da qualsiasi eccesso mieloso. O ancora gli arrangiamenti orchestrali - realizzati pur sempre tramite suoni sintetici come l’efficacissimo commento alla Concezione in Lucifer’s Call. Ma ciò che davvero non è possibile pensare di perdere, per Shin Megami Tensei, è quella commistione originale e assolutamente organica di sonorità dance e techno tipicamente anni ‘80, quei suoni tecnicamente anacronistici eppure cosi carichi e pulsanti, così pronti a trascinare l’ascoltatore in atmosfere tirate ma sempre inesorabilmente proiettate nell’ambient music elettronica. La OST di Digital Devil Saga 2, prodotta da Meguro dopo la collaborazione con Kenichi Tsuchiya per la colonna sonora del primo DDS, è un po’ la summa del pensiero musicale di questo particolare autore. seppur priva delle incursioni nell’R’n’B, nel soul e nell’hip pop che punteggiano l’ultima fatica del nostro (Persona 3 OST), DDS2 è un lavoro eccezionale e soddisfa ampiamente due requisiti chiave che rendono una OST un’ottima OST. Il primo, naturalmente, riguarda la validità delle composizioni e la forza dell’opera come puro e semplice disco “stand alone”, considerato indipendentemente dall’opera
a cura di Federico Res
Tempo Totale: 77'54"
Gli altri lavori di Shoji Meguro Come già accennato, Meguro ha lavorato su tutti i principali episodi della serie Shin Megami Tensei. Il primo e il terzo Persona, il primo e il secondo Devil Summoner, Maken X e Maken Shao, Lucifer’s Call e i due Digital Devil Saga, nonché l’edizione Maniacs di LC e l’espansione FES di Persona 3. Per buona parte di questi lavori si è avvalso della collaborazione di altri musicisti quali Kenichi Tsuchiya, Toshiko Tasaki e Tsukasa Masuko. Da ricordare, inoltre, la realizzazione al di fuori della saga dei Megaten delle OST di Trauma Center Under The Knife e Second Opinion. 009
SMS Review
La rubrica che vi svela se un gioco fa schifo (in 200 caratteri!)
Bioshock Tutto molto bello, ma con il mouse sbaglio sempre a selezionare l'arma o il plasmide giusto e comunque avrei voluto fare il Big Daddy.
Super Mario Galaxy E' Dio. Dio esiste. E' Dio. Giuro. Mi è quasi venuto da piangere. E sono solo a due ore di gioco.
Call of Duty 4 La dimostrazione che non era colpa dei nazisti se i giochi di guerra avevano cominciato a stancare!
Orcs & Elves Porting da cellulare con qualche aggiunta per 16 mega zeppi di magia, mistero e avventura come non se ne vedeva da tempo.
Metal Gear Solid 3 Subsistence Bello il teatrino coi filmati ma la camera non era l’unico problema.
Assassin's Creed Chi pensava bastassero un paio di belle tette per creare un capolavoro è stato smentito.
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Orange Box Uno degli FPS più seminali Uno dei puzzle game più geniali Un FPS online realmente 'multiplayer' Per la cassetta di arance più vitaminica ever Consigliato anche in assenza di raffreddori
REVIEW
CARTA SPRECATA!
super paper mario
genere-platform softco-intelligent systems publisher-nintendo piattaforma-wii versione-usa multiplayer-no
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
A
due mesi luce dalla galassia, troppo per un Wii che mal digeriva l’ingrato mestiere dello scaldar pizzette, toccava ad un Mario di carta (in colpevole ritardo in suolo europeo) l’ardua impresa di rendere giustizia alla console con il miglior rapporto “inutilità/console vendute” della storia dei videogiochi. E se neppure la fredda accoglienza del popolo americano e giapponese potevano scoraggiare il più impavido dei cuori nintendari, la prospettiva di un seguito con lo sguardo troppo proteso verso le novità, lasciava quantomeno insinuare qualche velenoso dubbio. Orfano dell’anziana meccanica dei vetusti jrpg e svestito degli abiti frizzanti della commedia autoironica, Super Paper Mario insaporisce il brodo con un discreto, e a tratti ottimo, platform d’annata e lo incarta all’ignaro giocatore con un aspetto fumettoso, colorato, pacioccoso e decisamente riuscito. Solo in parte, però, perché se è vero che il mondo delle due dimensioni riesce quasi sempre a farsi quantomeno accettare, quello in 3d mortifica con ferocia un design comunque brutta fotocopia del maestoso portale millenario. Sciapa come una galletta di riso e grezza come un Fabriano ruvido, la più grande novità di Super Paper Mario, il portale dimensionale, non si fa certo notare per cura dei dettagli ma, al contrario, si dimentica il buon senso e mostra solo sconsolanti vallate desertiche, ad occhi fino a quel punto graziati dalle raffinate pennellate di un mondo piatto (quello 2D) ma carismatico, sottile ma di classe. Fin qui quasi un disastro. Ma la bella notizia, è che ancora non si è cominciato a giocare sul serio. C’è un effervescente remote alla porta che reclama la sua fetta di gloria nella storia. Scoperto con un pizzico di angoscia che la rivoluzione di Nintendo passa per il ritorno ad una pur comoda croce direzionale, si assiste alla più delirante tech demo di uno switch mode che sia mai passata per mani umane. Ogni personaggio del proprio party (fino al massimo dei quattro storici: Mario, Peach, Bowser e Luigi) possiede una propria abilità necessaria per superare determinati ostacoli, da cui la necessità di un costante switch tra l’uno e l’altro; ogni personaggio può interagire con i plx (degli insignificanti tesserini) necessari per superare altrettante tipologie di ostacoli (e ancora si passa dall’uno all’altro); ogni momento del gioco richiede, infine, l’attenta esplorazione del paesaggio nelle sue due dimensioni (quella piatta e quella solida), al fine di risolvere enigmi, superare agilmente nemici, rinvenire oggetti segreti. Anche qui, switch selvaggio dall’una all’altra dimensione. Ripetuto per troppe volte si ha la netta sensazione che uno dei propri testicoli stia cominciando a sanguinare. E se il tutto è pure più rapido di quanto
sembri, per carità, è pure più noioso di quanto dovrebbe essere. A impreziosire il lavoro di adattamento sul Wii, però, ci pensa un remote in stato di grazia che passa il suo tempo a fare nulla se non a ricordare quanto sia facile realizzare una croce direzionale migliore di quella del pad 360. Il telecomando dei miracoli, infatti, si limita a qualche inefficace consiglio descrittivo una volta puntato su schermo. Esatto, con la sola imposizione di una mano, il geniale wii remote saprà dirci se quella davanti a noi è proprio una porta, nel caso avessimo qualche dubbio. Di fatto, già a metà del gioco avremo smesso di puntare su qualcosa ignorando gli astuti consigli della rivoluzione Nintendo e limitandoci al nostro solo istinto di cacciatori di porte. Passato il disagio iniziale e la scoperta dell’insignificante trasloco da Gamecube a Wii, però, ci si trova davanti ad un platform gradevole e condito da più di qualche buona idea, come la feature che muta i personaggi in dei veri e propri giganti, o quella che ci mette a disposizione gruppi di piccoli aiutanti decisi a difendere la nostra causa. Certo, il ‘salta salta’ in testa al nemico, in questo episodio, sembra la versione povera del gratificante sistema – tattico e ragionato – del precedente capitolo per Gamecube. Ma il tempo passa, i videogiocatori si rincoglioniscono, e dopo mesi di Wii Sports, con mille milioni di bilance in prenotazione, non è lecito aspettarsi molto di più da una sfida ludica. Il Portale Millenario era un jrpg con un divertente sistema di combattimento, basato sulla tattica e sulla capacità di gestione del proprio party. Era graficamente maestoso in tutti i suoi livelli (tranne uno) e narrativamente divertente e interessante, dall’inizio alla fine. Super Paper Mario è una repubblica basata sui salti, dal level design insipido per buona parte della sua durata; è inoltre un prodotto narrativamente sciocco, fatta eccezione per l’esilarante terzo capitolo di Nerdlandia, l’unico condito da un sano umorismo e arricchito dalla solita autoironia. Piange il cuore, quello vero, ma il seguito di uno dei capolavori per Gamecube è senza dubbio un figlio illegittimo, un prodotto che perde la strada e diventa un gioco nuovo, ma fiacco, noioso e deludente. Si divertirà chi non ha più il tempo e la voglia di battere sul serio un avversario, a tutti gli altri si appesantirà la punta del pene. 5
Lo stile grafico adottato è piacevolissimo, peccato che passando ai mondi 3D non si noti la stessa cura per i dettagli dimostrata dal level design bidimensionale.
LE ORIGINI RINNEGATE! La serie nasce su Super Nintendo con Super Mario Rpg, con l’ambizione di legare il mondo dei personaggi della casa di Kyoto ad un genere da sempre popolarissimo in Giappone. Infarcita di autocitazionismo ed ironia, si è poi trasferita con successo prima su Nintendo 64 e poi su Gamecube, mantenendo inalterate le sue caratteristiche principali. Da segnalare anche i due episodi usciti per GBA (il primo) e DS (il secondo) di “Mario e Luigi: Superstar Saga”, che condividono con la stessa sia la comicità di fondo che un sistema di combattimento a metà strada tra il platform e un jrpg classico.
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REVIEW
UNA RIVINCITA DA MEDIANO
fifa 08
genere-sportivo softco-ea publisher-ea piattaforma-360 versione-pal multiplayer-2-10
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
S
e hai sposato una cicciona, è quasi un dato di fatto che, dopo dieci anni di matrimonio, comincerai ad apprezzarne la spensierata simpatia. Se hai sposato una bella gnocca, invece, è più che matematico che, dopo dieci anni, tu non la sappia più distinguere dalla cicciona di sopra. Cellulite a parte, Pro Evolution Soccer ha rotto il cazzo, un po’ per colpa sua, un po’ per colpa della cicciona, un po’ perché, ogni tanto, fa pure bene cambiare aria. FIFA 08 arriva al momento giusto, tra un Seabass impazzito e una grafica mediocre, e ossigena le nostre console con un passo avanti, finalmente, un passo deciso verso una direzione diversa, forse, ma una direzione che guarda in faccia il calcio vero e che, stavolta, non si limita a fare il verso alla simulazione perfetta, quella con i difetti storici, con gli scatti, con le inzagate in area e con le punizioni che hanno fatto riscrivere interi calendari. A prescindere dal sistema di controllo scelto, da manuale ad assistito, FIFA propone comunque un’esperienza di gioco basata sull’azione corale e non sui singoli fuoriclasse, mai come ora solo pedine di un modulo più o meno vincente. L’uno contro uno diventa quindi l’ultima delle possibilità tra le quali scegliere, se si ha un compagno libero al proprio fianco. I difensori avversari, siano questi controllati da un amico o dal gioco stesso, ringhiano sul pallone come manco il peggior Gattuso e non concedono niente al vostro narcisismo da finta sotto porta. Mozzicano, calciano, gridano, e nove volte su dieci vi toglieranno la palla prima ancora che abbiate il tempo di sgomitare sulla loro faccia. Sembra frustrante, e lo è, ma neppure troppo. Dopo essersi liberati dall’imprinting più che decennale di ciccione e belle gnocche, si riesce però ad apprezzare quello che FIFA sa regalare oggi: soddisfazioni. Come sotterrare un boss, come tagliuzzare un nemico, come battere un record del mondo; un goal, ma anche la più banale delle azioni, diventa un momento epocale per il quale bullarsi con gli amici e costringerli a guardare i replay. Quando si vince l’imbarazzo iniziale e si comincia a giocare d’anticipo, a costruire azioni sui movimenti dell’IA e non solo sui propri, allora si intuisce il potenziale vero di una serie cresciuta tra i fischi dei giocatori seri ma che, proprio per questo, ha continuato a migliorarsi e a mostrare cose nuove, magari non sempre all’altezza. Graficamente impeccabile in campo lungo ma mediocre dalle brevi distanze, FIFA non si impegna sui volti e sui capelli ma lavora di fino sulle animazioni. Se ne fotte degli occhi azzurri ma col cazzo che costringe a passare intere settimane in un triste e buio scantinato ad editar magliette e nomi di persona. Perché, e
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questo è innegabile, FIFA è un gioco moderno, di quelli del 2008, e tra l’online perfetto, milioni di modalità di gioco, milioni di campionati e coppe, tornei online, rose aggiornate costantemente, news in tempo reale e negozi a secchiate, sembra di essere finiti nel paradiso digitale dei pallonari. Sputando in faccia agli arcade di tutto il mondo, FIFA sa essere pure insopportabile per la sua rigidità, per il suo essere troppo legato alle sue regole e per lasciare così poco spazio alla fantasia. Ma è di calcio che vuole trattare e riesce a farlo bene, nonostante le indecisioni dei portieri e nonostante qualche opzione tattica ancora latitante. FIFA non perdona il niubbo e non diverte il giocatore occasionale, perché ci crede, ci crede troppo; ma sa regalare sorrisi ai fanatici del manuale, magari solo con un bel cross. E se in solitario ci si stufa di rifilar triplette alla Juventus (ma chi si stuferebbe mai…), viene in soccorso un online a puntino che ricorda ai giapponesi di questo mondo che c’è pallone senza lag su questo universo. Anche cinque contro cinque, il gioco scorre fluido e difficilmente distinguibile dall’offline. Tranne quando si perde, in quel caso, lo sanno tutti, è sempre colpa del mulo altrui. Tra dieci anni, anche la tua amante ti sembrerà una cicciona, fidati. Cogli la carpa, vivi l’attimo che scappa, scopati quella bella e, quando arriverà il momento, fattene un’altra, di amante. Ma ora smettila di guardare tua moglie, non migliorerà e ha cominciato a dirlo anche lei stessa, e seppure è ancora la regina del coniglio ai peperoni, è giusto cominciare a chiederle qualcosa di nuovo. 8
Tra le varie modalità di gioco, spiccano senza dubbio quella in prima persona e una modalità online 5 vs 5 priva di lag.
UN CALCIO REALE! Una delle caratteristiche più interessanti del nuovo FIFA (comunque già presente nel precedente episodio, ma tanto non lo avete giocato neppure voi) è la presenza di notizie in tempo reale sul calcio vero, quello delle partite sospese e dei risultati acchittati, insomma. Le news scorrono a fondo pagina nei menu del gioco ed è inoltre possibile accedere a classifiche e risultati di ogni campionato presente nel titolo. Le notizie sono di pochi caratteri ma la velocità con la quale vengono aggiornate la rende una feature fantastica per ogni appassionato di calcio.
REVIEW
LARA CORRE
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tomb raider anniversary
genere-adventure softco-crystal dinamics publisher-eidos piattaforma-ps2/wii/360 versione-pal multiplayer-no
a cura di Federico Res opo la prima avventura, alla tombarola le cose non sono andate per il meglio. Sei seguiti fan service, uno peggiore dell’altro, uno più ingiocabile dell’altro, il tonfo che sembrava definitivo con quell’Angel of Darkness di cui fortunatamente nessuno si ricorda più. Poi la luce: reduce dal fallimentare – ma tutt’altro che ignobile – Galleon, Toby Gard riprende le redini della sua creatura più famosa e la fa risorgere dalle ceneri, sebbene col fiato di publisher e softco sul collo. Tomb Raider Legend svincola Lara dall’incubo del character relative e le concede l’agilità del Principino di Persia, la getta in un mondo pennellato da sapienti level designer e fa sue con intelligenza alcune feature simbolo della generazione a 128 bit, come i Quick Time Event o il “visore scan” di Metroid Prime. Manca qualcosa, però. Manca Tomb Raider. L’insoddisfazione degli estimatori storici e il disinteresse degli altri giocatori lo dimostrano inequivocabilmente. Dunque, che Tomb Raider sia: Eidos ci riprova tenendo da parte quanto di buono funziona nel presente, sistema di controllo e feature summenzionate, e va a ripescare quanto di buono funzionava dieci anni fa. Ha l’accortezza di non usare lo shaker ma di impastare a mano, senza fretta, e far riposare il tutto a dovere. Il risultato, è come un paio di scarponi scomodi che hai rinunciato ad usare, ma che dopo anni qualcuno ti fa la cortesia di portare dal calzolaio. Te li ritrovi lì, fiammanti, li provi con diffidenza presagendo il vecchio dolore ai piedi. Ma il dolore ha lasciato il posto a un inaspettato e benvenuto comfort: batti i piedi a terra, ti alzi in piedi, inizi a correre e non ti fermi più. Attraversi meravigliosi spaccati peruviani, le viscere delle montagne greche, le piramidi egizie e perfino i budelli di ciò che resta di Atlantide. Infine ti fermi, respiri, e sorridi. Tomb Raider Anniversary, più che puntare sull’estrema complessità strutturale dell’originale, preferisce “comprimere” in spazi meno estesi tutti gli elementi storici del suo game design, integrandoli con quanto di nuovo (e buono) l’esperienza Legend ha portato alla serie. Quel che ne deriva è un equilibrio perfetto, brillante, segnato soltanto sporadicamente da vecchie piaghe chiamate backtracking e trial&error. L’esperienza scivola su binari tutt’altro che scontati, nutrendosi del piacere dell’esplorazione e di quel vivido senso di avventura da sempre connesso al nome Tomb Raider. Lara mantiene il rampino e l’agilità miracolosa dimostrata in Legend, ma perde l’ingombrante ausilio del suo binocolo, per immergersi come un tempo nei meccanismi di giganteschi puzzle ambientali. Il potente motore grafico e l’abilità dei designer ricostruiscono magnificamente le quattro ambientazioni del-
l’originale, il commento sonoro privo di intrusioni strumentali recupera quel contatto con l’avventura che i fan di lunga data ricercavano disperatamente. Ma è più un piacere di chi, come chi scrive, non riuscì a godersi l’originale per insofferenza ai pesanti limiti di controllo. Il videogioco è nulla senza controllo, è frustrazione se in più avanza pretese di precisione millimetrica. Anche un punto nodale nell’evoluzione del level design come Tomb Raider, a causa di tali limiti, è rimasto precluso a fiotti di persone. Ecco perché Anniversary è più un piacere per chi Tomb Raider non l’ha mai digerito. È il piacere di scoprire un classico ricondotto, sul fronte controllo, ai principi di immediatezza insiti nel concetto di buon videogioco. È il piacere di sperimentare le finezze di un level design eccellente tanto strutturalmente quanto esteticamente, il piacere di riguadagnare un quid ludico - quello del puro adventure - che negli ultimi anni raramente ha ricoperto ruoli di primo piano. In ultimo, è il piacere di ammirare la signorina Croft nel suo “vero” splendore, prima d’ora percepibile unicamente per vie metaforiche (e a patto di digerire la malizia dei programmatori, scolpita nella volontà di esagerare volgarmente le grazie di Lara). In definitiva, Anniversary è un concept di valore non trapiantato, ma reinterpretato in maniera vincente nel contemporaneo. E nel contemporaneo, da una prospettiva tecnica, Anniversary guadagna una posizione di tutto rilievo. L’engine poligonale è una versione migliorata – grazie ad un più largo e sapiente uso dei particellari – del motore di Legend, capace di inscenare impeccabilmente le ammirevoli visioni dei designer, peraltro senza cedere quasi mai a problemi di frame rate. Le architetture naturali del Perù e quelle artificiali dell’Egitto bucano più volte lo schermo, seppur eguagliate in bellezza da prodotti precedenti (Metroid Prime Echoes e Shadow of the Colossus su tutti). L’aggiunta dei nuovi filmati sorretti dai QTE può sembrare marginale, così come gli incontri importanti sceneggiati da boss fight (tra i quali il T-Rex) non esaltano mai fino in fondo. Ma è l’insieme che funziona a meraviglia, è quel gusto per l’avventura veicolato da meccaniche irresistibili, da enigmi ambientali brillanti e stimolanti. È il vecchio Tomb Raider, ma che finalmente ha imparato a correre. 8
Come ogni Tomb Raider che si rispetti, anche Anniversary propone un vero e proprio livello aggiuntivo ambientato all’interno della gigantesca residenza di Lara. Un’occasione per ammirare il pessimo gusto della tombarola in fatto di arredamento...
SALTELLI D’EGITTO
Fino alla sua terza ambientazione, L’Egitto, la progressione di Anniversary raramente è intaccata dalla bestia nera del trial&error (seppure si muoia, comunque, un numero di volte superiore alla media). Ma una volta guadagnate le viscere delle antiche piramidi pare che i programmatori abbiano ceduto all’ignavia e preferito infierire sui giocatori, costringendoli a sequenze di salti millimetrici invero anacronistici. Un’impressione che si ha, qualche ora dopo, anche all’interno della Grande Piramide di Atlantide, dove una telecamera ben lontana dalla perfezione (ma perfettamente digeribile fino a quel punto) occulta maliziosamente le visuali, scatenando una serie di incolpevoli cadute nel vuoto. Si tratta tuttavia di pecche trascurabili, laddove all’esperienza nel suo complesso va riconosciuto il merito di saper cogliere le aspettative presenti dei videogiocatori, risvegliandone al contempo vecchie e sopite lussurie.
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REVIEW
ROBOCRAFT
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scramble commander 2nd
genere-rts softco-ben publisher-banpresto piattaforma-ps2 versione-jap multiplayer-no
a cura di Cristiano “Amano76” Ghigi cramble Commander 2 è l’ennesimo tentativo di Bec di rivendere la formula di Rainbow Six e tanti altri fps strategici, applicandola al genere robotico. Il valore tecnico non è dei migliori: oltre ad essere un titolo di vecchia generazione, Bec non è una softco con le palle e i muscoli di SquareEnix o Capcom, quindi chi preferisce lo stupore grafico a quello ludico non troverà alcun appiglio d’interesse. L’approccio strategico è semplificato, per venire incontro alla demenza dei videogiocatori giapponesi nei confronti dei generi di stampo occidentale, sia dal punto di vista delle possibilità di pianificazione sia per quel che concerne le difficoltà imposte dal terreno di combattimento. Se nei lavori precedenti di questa softco, specializzatasi nel genere di Rainbow Six con Zeonic Front e il precedente Scramble Commander, era necessario leggere i rapporti di spionaggio per informarsi sulle condizioni della zona operativa e sugli avversari da affrontare nella missione, in questo nuovo titolo gli operatori comunicano direttamente al giocatore quale tipo di strategia adottare, durante gli scontri. Spetta poi al giocatore stesso decidere se complicarsi la vita per risolvere uno stage più rapidamente, o se accumulare punti esperienza eliminando anche gli obiettivi secondari. Niente minuziosa selezione dell’equipaggiamento e niente pianificazione di punti di ingresso. Un’altra semplificazione interessa i vari comandi, assegnabili in real time ma dipendenti da un blocco dell’azione successivo all’apertura dei menu del caso. Ciò rende tutto meno confusionario e frenetico per l’utenza nipponica, ma i puristi del genere senza dubbio storceranno il naso. Avendo snellito l’approccio alla pianificazione strategica, gli autori hanno potuto concentrare i loro sforzi sugli elementi che in primo luogo interessano un appassionato del genere robotico: la spettacolarizzazione degli attacchi, la differenza nelle prestazioni dei vari modelli, e una trama sensata che non faccia stonare le atmosfere delle serie originali l’una con l’altra. Grazie all’accento sulle dimensioni dei robot e il dettaglio con cui sono stati ricostruiti, l’impatto visivo è subito eccellente. La vista di un minuscolo Mazinga accanto ad un gigantesco Getter Robot è una delizia che viene raramente offerta ai fan del genere robotico, così come assistere ai valky-
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rie di Macross che coprono distanze enormi in pochi secondi, mentre Combattler arranca lentamente (e inesorabilmente) un passo alla volta dietro di loro. Il sistema di gioco, inoltre, pur essendo elementare offre un numero piuttosto consistente di diverse tipologie di attacco. Si può ad esempio ordinare ai robot più grandi di bloccare fisicamente un avversario in fuga, trattenendolo mentre le altre unità gli fanno piovere addosso una grandinata di missili e raggi laser. Oppure è possibile mandare le unità più veloci e manovrabili a fare da esca, seminando il caos tra le fila nemiche e attirando gli avversari su terreni a loro sfavorevoli, al fine di demolirli in imboscate pirotechiche (dove, in pochi secondi, un boss da 50.000 HP viene annientato a suon di raggi gamma sparati da ogni direzione). I problemi maggiori del gioco sono localizzati, sfortunatamente, in alcuni dettagli strutturali che un utente medio dà ormai per scontati. Si può salvare solo prima o al termine di ogni missione, nonostante la loro durata sia in genere di dieci intensi minuti: c’è infatti da tenere conto di tutto il tempo in cui il gioco si “blocca” mentre vengono assegnati i comandi, e il decorso effettivo di uno stage può quindi estendersi significativamente. Manca inoltre la possibilità di saltare i dialoghi (uno strazio, se c’è da ripetere una missione); i caricamenti sono piuttosto lenti e le musiche non possono essere selezionate a piacimento. Se il tema di uno stage non piace, si è costretti ad ascoltarlo ripetutamente e a lungo. Decisamente frustrante. Scramble Commander 2nd è un prodotto che tiene fede in primo luogo alle aspettative dei fan, grazie al nutrito cast che propone. Ma al tempo stesso è un prodotto accessibile a chiunque, in forza di una pianificazione versatile e immediata, che rende possibile un approccio sempre diverso alle quaranta missioni del gioco, garantendo così una longevità sorprendente. 7
E’ possibile selezionare quattro livelli di difficoltà. A Terror, quello definitivo di nome e di fatto, il gioco rivelerà il meglio (e il peggio) di quanto ha da offrire.
MECH COME SE PIOVESSE Scramble Commander 2nd dispone di una sola modalità alternativa a quella principale: il Free Battle. In essa è possibile selezionare una squadra di personaggi per accumulare punti esperienza da usare nello story mode, o semplicemente sbizzarrirsi a mettere uno contro l’altro i propri robot preferiti. Si potrà far combattere una squadra di gundam contro una squadra di valkyrie, sfidare Mazinga con il Grande Mazinga e quant’altro ancora: non c’è limite alle possibilità offerte da un cast di più di cento mech, tra alleati e nemici. Un vero peccato che questo gioiellino abbia finito col passare in sordina persino nel mercato giapponese….
UNDERRATED review
LE DUE SFERE DI JOJI KAMITANI
odin sphere
anno-2007 softco-vanilla ware publisheratlus piattaforma-ps2 genere-action jrpg
a cura di Cristiano “Amano76” Ghigi
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’è qualcosa di estremamente erotico nella grafica bidimensionale. Le granitiche erezioni che mi si inalberano quando vedo schermate di giochi come Odin Sphere si possono spiegare solo così. E non perché sono un retrogamer di merda: sono semplicemente uno che considera i videogiochi un’emanazione della (superiore) cultura giapponese, e niente è più caratteristicamente giapponese dei cartoni animati. Il nuovo prodotto di Vanillaware è infatti uno di quei titoli che tengono gli occhi incollati allo schermo anche quando si cede il pad ad un’altra persona e si assiste in disparte. E’ a quel punto che i particolari a cui non si presta attenzione quando ci si deve concentrare a scansare frecce infuocate, si rivelano nella loro innumerevole moltitudine. Fondali che scorrono su più assi, panorami da graphic novel di Charles Vess, colori accesi e accostati con un gusto impeccabile, animazioni dettagliate per ogni movimento, tanto del drago di fine livello quanto del più insignificante dei troll. Questo è esattamente ciò che mi aspettavo da Valkyrie Profile 2. La differenza è che mentre il seguito del titolo Tri-Ace non è visivamente degno del suo precedessore, Vanillaware ha dimostrato di averne imparato la lezione, mettendo a frutto i punti forti di quel gioco tanto settario e cercando lo stesso tipo di pubblico, laddove Square-Enix ha tentato un approccio più vicino ai gusti della “plebe” (con un 3D orribile), fallendo miseramente. L’interpretazione dei miti nordici, comunque, è ancora più libera di quella di Valkyrie Profile: Odin è diventato Ordyne e le valchirie non vanno in cerca di anime di guerrieri. I personaggi respirano vita propria, in un intreccio che per complessità supera persino l’rpg di Tri-Ace. Unico neo: il tono della storia, più rilassato rispetto a Valkyrie Profile, privo di quella cappa di malinconia e pessimismo che avvolgeva le vicende di Lenneth, tanto da concedersi diversi momenti comici ed esagerare con quelli romantici. Tipicamente nipponica è la cura delle espressioni linguistiche, con personaggi che assumono toni shakespeariani e si producono in metafore forbite, mentre altri usano parlate sgrammaticate e termini più rozzi. Le loro peculiarità sono poi enfatizzate dalla fenomenale prestazione dei doppiatori giapponesi, che a differenza di quelli americani non si somigliano mai uno con l’altro e non si lasciano intimidire da copioni dove c’è da gridare a squarciagola o recitare con la voce spezzata dal pianto. Quando un drago di Odin Sphere parla, le vibrazioni dell’impianto stereo arrivano fino al pavimento. Sorprendentemente, a differenza di molti titoli di questo tipo, il gioco non seduce solo i sensi. Molti prodotti bidimensionali odierni di
Nippon Ichi, di Gust, di Flight Plan, tendono ad offrire sistemi di combattimento o strategici che sono tutt’altro che immediati: si deve sostanzialmente imparare da zero un intero glossario, perché è sempre tutto uguale ma chiamato in modo diverso, dopodichè si deve imparare come alzare il livello di esperienza dei personaggi, come equipaggiarli, quali abilità possono usare. Fatto questo ci si trova di fronte mappe interminabili e spesso sempre uguali (difetto che ha anche Odin Sphere), una lista enorme di oggetti da collezionare, e una quantità terrorizzante di subquest. Non ci si sente mai di progredire, come se si ripartisse continuamente da zero. Odin Sphere offre un sistema di combattimento immediato (si usano DUE tasti); un sistema di equipaggiamento semplicissimo (si può indossare un SOLO oggetto); e un sistema di creazione di pozioni per ripristinare i punti ferita e la potenza (gli unici DUE punteggi della scheda del personaggio), basato sulle possibili combinazioni tra cinque soli tipi di frutta. Fine. Questo è tutto quello che serve per completare il gioco. Il resto è questione di affinare le tecniche di combattimento dei cinque personaggi (ognuno si usa in modo leggermente diverso) e imparare a gestire con efficienza l’inventario, per produrre pozioni sempre più potenti. Il compito del giocatore non è quindi imparare mille terminologie e completare inutili collezioni, ma capire in che modo utilizzare un personaggio per fargli raggiungere il pieno delle sue capacità: in sostanza non è il personaggio che cresce di esperienza, ma il giocatore. Tant’è che al massimo livello di difficoltà (Thriller) i punti ferita non possono essere aumentati: una volta che si sa qual è il metodo più rapido per battere ogni tipo di avversario e come combinare le pozioni per potenziare l’arma di cui si dispone, la vittoria non è più questione di HP o EXP ma di capacità, coordinazione e tempismo. Il che può rivelarsi un problema insormontabile, per colpa di un motore di gioco che se anche è sorpassato dal punto di vista grafico, è decisamente attuale dal punto di vista dei rallentamenti. In un titolo come questo, dove la precisione nel momento in cui si colpisce e la rapidità di risposta dei comandi sono assolutamente fondamentali, un motore grafico che scatta, pur se in modo sporadico, è un difetto inammissibile. Il perché l’autore abbia lasciato correre un fattore tanto letale, per il battle system da lui stesso creato, resta imprescrutabile. Esatto, l’Autore. Odin Sphere è il prodotto degli sforzi di molte persone, ma una su tutte merita il plauso di chi apprezza e apprezzerà il gioco: Joji Kamitani. E’ suo il gusto nel design dei fondali, dei personaggi e dei caratteristici mostri, come è suo il concept di gioco immediato e accessibile a chiunque.
L’esistenza del radar (in alto a destra) è resa necessaria dalla presenza di nemici che lanciano attacchi a distanza (coltelli, incantesimi) fuori dall’inquadratura. Anche in questo caso, il gioco paradossalmente si porta appresso un problema tipico della grafica tridimensionale.
5 GIOCHI IN UNO Il ritmo dell’avventura è spezzato in cinque capitoli, uno per personaggio. Attraverso un semplice diagramma è possibile selezionare filmati di intermezzo da rivedere singolarmente o uno dopo l’altro, come un cartone animato a tutti gli effetti. Dato che le vicende accadono in contemporanea, questo è l’unico modo per carpire alcuni segreti dell’ambientazione e comprendere le sfumature dell’intreccio. Una frammentazione che inoltre contribuisce a rendere sempre nuova l’esperienza di gioco, dando l’impressione di aver acquistato cinque titoli al prezzo di uno.
Questo suo lavoro testimonia la superiorità dei giapponesi sotto ogni aspetto: i loro giochi sono migliori, i loro cartoni animati sono migliori, i loro doppiatori sono miglori. Difficile credere che si tratti delle stesse persone che comprano le mutande sporche delle liceali, che dormono in camere-capsula e che hanno dedicato a Tom Cruise una festa nazionale... 8
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! a d r e m i d i h c o i g S
hinobi più che un gioco SEGA sembra un gioco Banpresto. Nel senso che si, tiene davvero fede al titolo di questa rubrica, ponendosi come paradigma - seppur non la punta più bassa - della produzione software di una SEGA allo sbando, che nel dopo Dreamcast decise di intraprendere la via del suicidio sistematico invece di tentare un qualche riscatto. Prima parte di un dittico davvero poco memorabile (la seconda si chiama Kunoichi in Giappone e NightShade in Occidente, e presenta come unica novità un protagonista donna), Shinobi vorrebbe ripescare i fasti della grande serie bidimensionale alla quale s’ispira, e vorrebbe farlo sputando in faccia a tutti i buoni precetti del videogioco. E allora via con un comparto grafico tecnicamente ridicolo e scenograficamente piatto come una focaccia di pane azimo. Via con un sistema di telecamere impacciato e sbilenco - comunque il danno minore; via con un intero campionario di nemici dal design risibile/amatoriale e dai pattern d’attacco riconducibili alla complessità di un interruttore ON/OFF. Via, infine, con una trama indisposta e una recitazione (nel caso della versione italiana) degna di Flavia Vento. Se volessimo paragonarlo a un’altra grande porcata moderna, potremmo dire che Shinobi è molto peggio di quel Devil
s di Federico Re
May Cry 2 che riscrisse i canoni dell’orrido con doppio salto e sciabolata farlocca. Dunque perché parlarne, perché infierire sulle tragedie del passato? Fondamentalmente, per la sciarpa. Vedo altissima risoluzione e capelli renderizzati uno ad uno, miliardi di particelle e orizzonti sconfinati, texture maniacali e animazioni ultrarealistiche. In sostanza, vedo ogni giorno un sacco di roba next gen ma per me la cosa più next gen di tutte è ancora la sciarpa di Shinobi. Quella che sventola e si arrotola e si srotola sinuosamente, fluidamente, inesorabilmente davanti ai nostri occhi ebeti allenati a calcolare i bordi di una soft shadow ma incapaci di decidersi se quella sciarpa, quella lunghissima e ipnotica sciarpa sventolante, sia frutto di un eleborato sistema particellare o più semplicemente sia ottenuta con una complessa texture animata. Perlomeno io non ci riesco. Posso restare ore a fissare le evoluzioni astratte - peraltro sempre identiche, in loop - della sciarpa rossa di Shinobi. La vedo come un metaforico presagio della SEGA che verrà, momentaneamente chiusa in un bozzolo imperscrutabile ma decisa a risorgere e riportare al videogioco la sua legge arcade. Chiamatemi pazzo (o anche deficiente), ma quella sciarpa non me la levo più dalla mente...
SHINOBI 2003 SEGA SCEE
next month! T
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THE RED STAR 2007 Acclaim Take Two Interactive
he Red Star è tutt’altro che un gioco di merda, diciamolo subito onde evitare equivoci. Uno sguardo agli screenshot evocherà sentore di Dynamite Deka ma, più che un gioco SEGA, Red Star sembra un gioco Treasure. The Red Star sembra Treasure perché fondato su un recupero di sensazioni di gioco arcade & old style; sembra Treasure perché costruito su un sistema di controllo duttile e immediato ma al tempo stesso profondo; sembra un gioco Treasure per il character design sopra le righe e coloratissimo. Ma la ragione principale per cui The Red Star potrebbe essere scambiato per un figlio illeggittimo di Gunstar Heroes, sta nella geniale semplicità del concept dove questo si prodiga in una riuscitissima fusione di meccaniche, unendo l’action in terza persona da un lato e lo shmup ikarughico dall’altro. E’ il trionfo del game desing d’autore, quello che, lungi dall’assemblare gli scarti altrui, plasma una visione nuova e coerente, inattacabile ed esaltante. Così i due protagonisti del gioco (un terzo personaggio si rende disponibile dopo aver completato una priva volta l’avventura) scorrazzano per una ventina di livelli menando fendenti di falce e affondi di martello, e al contempo vomitando fuoco con fucili e pistole di vario calibro; a tratti - in prevalenza in occasione dei boss fight - l’impostazione da action in terza
persona trasmigra in uno shooter verticale fiondandosi tra i precetti del bullet dodging, coi punti sensibili dei personaggi ridotti al limite come da manuale. La cosa affascinante è che il tutto avviene senza la minima incertezza, senza il minimo sentore di forzatura. Da applausi. Si parlava di un “sembra Treasure”, però, che da un lato rileva la caratura del titolo e dall’altro i limiti entro cui suo malgrado Red Star è confinato. La ripetitività è endemica del genere, quel “sembra” vuol dire che un po’ Red Star la scongiura, grazie alla commistione di generi, un po’ ne soffre, a causa della mancanza degli sprazzi di genio che punteggiano i prodotti migliori di Treasure. Red Star è divertente e adrenalinico, solo divertente e adrenalinico. Non è affatto poco, in realtà, e le differenze tra i personaggi giocabili (giocate sul binomio velocità/potenza di fuoco), la possibilità di giocare in due e il design asciutto e variopinto sono punti a favore non da poco. Ci sono poi la trama fantascientifica e l’Unione Sovietica tecnologica e alternativa a chiudere in bellezza un quadro decisamente riuscito. Un quadro che varrebbe la pena ammirare almeno una volta, anche solo per solidarietà nei confronti degli sfortunati sviluppatori (è già un miracolo che The Red Star, dopo rinvii e cancellazioni quasi certe, sia infine stato pubblicato...).
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I a gio non suno mo sul cu d?”. lano an e Ken è dopo p t isogn catore lo mondo “Nes r o a b a e c u t z l’ io n z , li g ”, gio e il me Cartm , confuso video ondo di e tente uol dire B video abilment probabil ultato di y ri. Il r do, il ris qualche Prob osa v realit liato fuo l volo il m ti. Ment n c ia lo b o a nis ag cam odio è s he un . Ma già t riconosce protago mo?”, il cora UP epis ppo c eogiocare oi , ve sia si doesto ora di tro EVEL vece h ed i su o u id L la q v D “ o e e ot he ato a ti valgon gi Azer o si chied to i baffi ?” Allo qualc ha pass da o g rit lì t il di isc bilmente ore t i il prim o ride so ci fanno di tutto u n a io oa e nd i mil roba a cos casalingh oscere l’ir seco se se serata, p a “m n a iller im . mand modo, le nno rico r k a p z il n e nra o pera stess non sap ggio com iccione a c’è s c o na mond un perso o quanto hiunque c c i nia d te nel gio laddove n mondo i n a) in u qualsias e (pote nella vit d o pie te o uno noiat mai mess narlo ad iorna o o le g abbia sa parag e passan . h e diche cilli c ui vite lu onlin r imbe degli are le alt del in i. rarsi a rov ENTI r libe ti come lu e D p A o V d or N a o f I ic e m I t r n a è pra ITOR olo u ivent GEN C’è s s killer, d rando che e o solo r r e a ie y id in s la rm p princ on ile te ile, c uest Diffic impossib ciare le q artman è e C si ment e di comin piano di nder o asco r d l tenta l’apice. 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NOSTRADAMUS! - previsioni videoludiche di Michele “Macca” Iurlaro
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innegabile come Xbox 360 sia vista, in terra nipponica, come una console dall’appeal praticamente nullo. Certo, pensavamo tutti fosse colpa di Peter Moore e delle sue stravaganti idee di marketing applicate alle religione cattolica, ma il suo passaggio in EA non sembra aver migliorato la posizione di Microsoft in Giappone. La realtà, tristemente nota a tutti, è che ai giapponesi Bill Gates sta sulle scatole. E il poco software creato ad hoc per i musi gialli non è bastato ad incrementare in maniera decisa le pessime vendite dell’hardware. Fino ad ora. Preceduto da una pomposa campagna pubblicitaria e dalle prepotenti aspettative dei disoccupati che hanno tempo da perdere con un jrpg, Lost Odissey è il gioco che il Giappone attendeva. Un titolo che, più di Blue Dragon, è in grado di far vendere la bianca console americana: si tratta di un classico e noioso gioco di ruolo, strabordante nei testi, nei personaggi, con una grafica accattivante e uno spessore ludico degno di una Kraft. La sottiletta, mica il Philadelfia. I nipponici per queste cose vanno matti, e hanno letteralmente preso d’assalto i negozi già dal giorno del lancio. Così, mentre Gates si gode il successo, Moore aggiorna i rosters dei giochi sportivi EA e Fils-Aime sublima in pratiche autoerotiche per quanto vende Wii, andiamo ad analizzare gli aspetti fondamentali di Lost Odissey. Lo spunto da cui parte la trama di Lost Odissey è di una tristezza allucinante. Nei panni di un uomo condannato a vivere per mille anni, andrete in giro per il mondo per ritrovare la memoria persa. Non è Vanzina, chiariamoci, ma qualcosa di più frizzante non avrebbe guastato. Ad ogni modo, nei panni di Keim, questo il nome del protagonista, il giocatore dovrà muoversi all’interno di un universo tech-fantasy-truzzo-medieval-orientale, guarnito da una grafica di tutto rispetto. Lo stile dei personaggi, innanzitutto, abbandona il pacioccoso tratto visto in Blue Dragon e ci restituisce un Sakaguchi sicuramente più cazzuto, in grado di donare ai personaggi una maturità troppe poche volte ammirata in titoli di questo genere. Tecnicamente, poi, il gioco non delude: facendo sfoggio dell’Unreal Engine 3, scippato per l’occasione ad Epic, Lost Odissey mette in mostra texture ben definite, giochi di luce convincenti ed effetti particellari di tutto rispetto. Purtroppo, una struttura di gioco saldamente ispirata a un qualsiasi Final Fantasy non permette un adeguato sfruttamento della fisica, che il potente motore avrebbe garantito senza troppi problemi. Per quanto il gioco fili liscio (tra combattimenti a turni, incontri casuali e nemici invisibili sulla mappa), l’ot-
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timo aspetto visivo cozza, quindi, con dettami videoludici che fanno tanto XX secolo. Cosa non si farebbe per vendere qualche console in più ai giappi. Sul fronte sonoro, bisogna rimarcare come la qualità di doppiaggio e recitazione sia perfettamente in grado di surclassare qualsiasi telenovela brasiliana. L’epicità restituita ai personaggi, infatti, è miscelata alla perfezione con la sapiente scelta delle musiche, eccellenti nel sollecitare in maniera ottimale le orecchie esigenti dello spettatore medio di Sanremo. La trama, come anticipato, è ampiamente fallata, con buchi di sceneggiatura degni di XFiles: gli appassionati di vaccate come il Signore degli Anelli la adoreranno. Spesso noioso, a volte intricato, poche volte emozionante, Lost Odissey si inserisce alla perfezione in quel filone di titoli soporiferi che da decenni appesta gli scaffali dei negozi specializzati, rubando spazio prezioso alle simulazioni calcistiche e agli FPS. Se fin qui il quadro delineato appare sicuramente soddisfacente, sarebbe scorretto non rilevare l’aspetto peggiore del gioco, su cui troppo spesso gli sviluppatori sembrano non prestare la dovuta attenzione. Il titolo Mistwalker promette, purtroppo, qualcosa come centinaia di ore tra esplorazioni, filmati, dialoghi, combattimenti e rotture di palle che, sinceramente, appaiono troppe anche per il campione mondiale di fancazzismo. Ignorando bellamente il fatto che i videogiocatori siano cresciuti e che abbiano una vita sociale anche loro, il giovane team ci propone un gioco dalla durata ‘ridicola’, chiaramente inadatto a sposarsi con le esigenze di persone che qualche notte di sesso, ogni tanto, vorrebbero pure passarla. Lamentarsi con i giornalisti del fatto che le recensioni dei giochi di ruolo siano completamente inventate e con voti messi a casaccio risulta essere, a questo punto, maledettamente fuori luogo. Chi si aspettava un gioco in grado di risollevare le sorti di Xbox 360 in Nippolandia è stato sicuramente accontentato. La nostra accurata prova sul campo, infatti, ha evidenziato lacune strettamente ludiche in grado di competere con quelle dei best seller per Wii che infestano le classifiche di vendita. Sembra proprio che Microsoft, finalmente, abbia approntato una strategia accurata per andare incontro ai gusti sempre più discutibili dei giocatori orientali. Per i presunti videogiocatori non in grado di apprezzare la qualità, innegabile, dei blasonati titoli che Europa e America stanno sfornando in questi mesi, Lost Odissey appare una punizione fin troppo leggera. 9
Dando un’occhiata alle classifiche di vendita dei videogiochi in Giappone, nell’ultimo periodo, si è un po’ restii a ritenere ancora la terra del Sol Levante come il mercato principale del settore. Laddove titoli validi, solitamente di matrice europea o statunitense, vengono sistematicamente snobbati, tra i best seller è impossibile non trovare qualche RPG, un simulatore di cuoco, uno stimolatore per cervelli affaticati, un tappetino per fare fitness, un gioco per raccogliere la spazzatura, un altro per buttarla, un tamagochi touch screen e una variante di E.R. Forse, e sottolineo forse, l’esasperata ricerca dell’originalità ha fatto sì che alcuni aspetti in termini di ludogodimento abbiano ceduto il passo ai guadagni e alle periferiche strambe e costose che ultimamente stanno invadendo il mercato.
Dal mese prossimo (e dai prossimi giorni!)
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