Grosso e brutto, il capitolo finale di Halo detta comunque legge. a pag. 012
BABEL
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2 gennaio 2008
n. COPERTINA jade raymond e i ragazzi di ubisoft GRAFICA E IMPAGINAZIONE federico res EDITING DEI TESTI federico res SITO WEB http://bab3l.splinder.it FILE OSPITATI DA www.paolofranchini.com
MASS EFFECT 004 galassie imperfette, ma galassie
REDAZIONE tommaso “gatsu” de benetti federico res vincenzo “vitoiuvara” aversa giovanni “giocattolamer” donda cristiano “amano76” ghigi alvise “kintor” salice michele “macca” iurlaro francesco “xibal” sili michele “guren no kishi” zanetti
COPYRIGHT 2007/2008 Babel Edizioni
Babel va assunto per via oculare in dosi più o meno massicce, in rapporto al peso specifico della vostra passione. La stampa è caldamente consigliata, tenendo presenti questi semplici accorgimenti: stampare prima le pagine dispari, voltare i fogli e reinserirli nella stampante, stampare le pagine pari. Una rilegatura in pelle di camoscio tibetano è l’ideale, ma vanno bene anche un paio di punti metallici.
BABEL 002
Ignition Il Valore del Videogioco 003 underRated The Mark of Kri 014
OST - Music in the gaming Blue Dragon 007
Review Call of Duty 4 008 Assassin’s Creed 009 Mass Effect 010 Halo 3 012 FFXII Revenant Wings 011
ESCO DI RADO:
se il sole muore 010
Dal Vangelo Secondo Tommaso Elogio Videogioco Asincrono 004 Odio di Gomito Comparse Videoludiche 005
Esco di Rado (ma gioco pure troppo) Sol Morente 006 Giochi Di Merda Billy Hatcher & Shadow 016 La TV che Videogioca Dungeons and Wagons 015
NOSTRADAMUS
resident evil 5 004
Nostradamus! Resident Evil 5 017
jade’s empire cover story
Jade Raymond posa insieme ai ragazzi di Ubisoft Montreal, sviluppatori di Assassin’s Creed. La donna più bella del mondo dei videogiochi, dopo aver scaldato cuori e fantasie erotiche dei giocatori ad ogni fiera e/o dimostrazione in cui faceva capolino per presentare il suo pupillo, ha dimostrato che pure il gentil sesso può sentirsi a suo agio con un joypad in mano. Lo dimostra il verdetto positivo raccolto da Assassin’s Creed nella recensione che trovate a pagina 009: pur con i suoi difetti, la creazione di Jade e dei suoi ragazzi sembra destinata ad aprire una nuova via al videogioco, e sinceramente da Ubisoft non ce lo aspettavamo. Che si tratti del tocco femminile? I ragazzi di Super Console, gloriosa rivista scomparsa nel gennaio 2003, hanno recentemente regalato ai vecchi fan l’ultimo numero della loro creatura, il 100, per 5 anni rimasto inedito. Potete scaricarlo seguendo il link (offerto da un generoso Natalino) che trovate sul TFP Forum all’indirizzo http://www.tfpforum.it/viewtopic.php?t=214&postdays=0&postorder=asc&start=165, a pag. 12.
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I G N I T I O N Il valore del videogioco
Q
ualche giorno fa, sbocconcellando Super Console 100, un paio di righe dello speciale sui cento numeri mi hanno particolarmente colpito. Niente di che, si rilevava l’ardore dei lettori innanzi al voto assegnato a Final Fantasy VIII, un tiepido – per l’epoca – 82%. Il voto in realtà era frutto di un refuso editoriale, ma prima che l’equivoco fosse chiarito la redazione deve aver ricevuto numerose lettere di protesta. Facile notare l’analogia dell’episodio con quanto successo di recente su Game Pro, dove le votazioni errate apparse in calce alle recensioni di Mass Effect e Call of Duty 4 hanno ancora una volta innescato polemiche su votazioni e giudizi: chi banalmente contesta la validità o giustezza di questo o quel voto, chi ne approfitta per chiedere l’implementazione dei mezzi voti, chi all’opposto auspica una loro definitiva sparizione. Niente di nuovo, insomma. Niente di nuovo, ed è questo il punto: il fervore e la puntualità con cui gli appassionati sanno discutere di voti e giudizi è sconcertante, significativo. A me pare di scorgervi il riflesso costretto di un sentimento molto più profondo, più forte. Un sentimento che ha a che fare col valore, in senso assoluto, di un’esperienza. Per la precisione, con la gelosa difesa di un’esperienza fondante, impossibile da oggettivare ma altrettanto impossibile da lasciare alla mercé della pubblicità, del pensiero comune. Qualunque vero appassionato di videogiochi sa quanto essi abbiano influito sulla sua vita, sulle sue scelte, lungo tutto il corso della sua esistenza. Al pari di qualunque altra passione, del resto: solo in modo differente, perché a quella passione si deve anche la diversità che ci ha cucito addosso, per tanto tempo, e che ancora oggi fatica a svanire. Insomma, quel valore è doppiamente caro a qualunque amante del videogioco, la sua difesa doppiamente urgente. Non passa giorno in cui non ci sia un videogiocatore, in chissà quale 3D su chissà quale forum, che sbraita e s’arrabatta nel tentativo di difendere il suo gioco preferito dalle accuse di chi, per un motivo o per l’altro, da quel prodotto non è rimasto conquistato. Difendiamo un valore, spesso, difficile da condividere. Ma lo difendiamo, sempre e comunque, imperterriti. Allora mi domando, spero senza retorica: il videogioco ha un suo valore oggettivo? Dando per scontato che la risposta sia affermativa, segue a ruota: in che modo è possibile cogliere, se esiste, questo valore assoluto e tangibile? Sinceramente dubito che l’odierna diffusione del medium possa costituire una valida risposta. Il VG è sdoganato ed emancipato quanto volete, ma resta sempre un gioco, un divertimento come un altro, agli occhi della maggior parte della gente. Non ha granché valore neanche
come feticcio tecnologico, laddove 400 euro per una console appaiono un’assurdità per il 90% dei non giocatori, mentre la stessa cifra per un cellulare alla moda resta comunque un investimento. Allora, dove sta la risposta? Mi viene in mente la musica, in primo luogo. Mi vengono in mente le sonorità oscure ed affascinanti, talvolta lancinanti, dei dischi di un genio come Akira Yamaoka. Brani nati e cresciuti non autonomamente, ma in simbiosi con il tessuto ludico e narrativo di un pugno di videogiochi. Brani che ritraggono in musica sentimenti e significati che appartengono ad un’esperienza videoludica, ad un videogioco. Brani che chiunque goda di un minimo di sensibilità artistica non può non apprezzare, sappia egli o meno da dove provengono. O anche, in egual modo, penso a The Best is Yet to Come. Penso alla sua potenza e bellezza, a come nasca sul terreno di malinconia e ineluttabilità e forza e serenità che distinguono il finale di Metal Gear Solid. Quante persone si stupirebbero, dopo aver ascoltato un brano simile, sapendo che è parte di un videogioco? Recentemente, mi ha colpito una scena particolare del bellissimo I’m a Cyborg but that’s Ok, di Park Chan-wook: la protagonista Younggoon, in pieno delirio, sogna di avere dei mitragliatori al posto delle mani e uccide chiunque le capiti a tiro nella casa di cura in cui è ricoverata. È significativa una precisa sequenza, ambientata nel giardino della clinica: un piano sequenza a camera fissa, con inquadratura a volo d’uccello e Young-goon che deambula come l’omino di uno shooter vecchio stampo, abbattendo i bersagli che le si parano davanti. E tutto intorno quei colori pastello e quel mondo irreale da platform game Nintendo: non un semplice omaggio al videogioco, ma qualcosa che ha a che fare con la più pura espressione di stile. Forse ho trovato la mia risposta. In quelle pieghe della cultura, intesa in senso antropologico, dove usi e costumi confinano con la sensibilità umana, il VG sa manifestarsi – anche se indirettamente – e valere di per sé in modo legittimo. Forse accade più spesso di quanto non crediamo: nella musica (penso a tutti quei gruppi che basano il loro stile sulle sonorità spartane dei vecchi videogiochi); negli audiovisivi, forse persino nella letteratura. Dove la sensibilità umana reagisce al videogioco, più o meno disincarnato, il videogioco manifesta il suo incontestabile valore. E così abbiamo dimostrato quanto dato per scontato all’inizio: il videogioco ha valore oggettivo. E, aggiungerei, vale la pena lottare per esso. Federico Res
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Tommaso De Benetti
L’unico videogiocatore anche bello? Tommaso De Benetti è stato membro fondatore e colonna portante di Ring, la rivista più amata dai videogiocatori meno rincoglioniti. Qualche tempo fa, esasperato dall’ignavia invincibile degli ormai depressi ringhici, ha lanciato da solo il progetto RingCast (reperibile su iTunes), primo podcast
italiano a tema videoludico, a cui comunque la vecchia guardia partecipa a corrente alternata. Gatsu, secondo il nick con cui è solito firmarsi su Internet, attualmente vive e tromba ad Helsinki, tra frotte di bionde ninfomani e sferzate di gelo più o meno devastanti.
Dal Vangelo secondo Tommaso
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Facebook è il social network lanciato da Mark Zuckenberg ad Harvard, nel 2004. Pensato inizialmente per connettere persone all'interno dello stesso network accademico, Facebook ha iniziato a diffondersi come strumento per rimanere in contatto con i propri amici. A causa delle particolari modalità di iscrizione, è particolarmente diffuso in ambito universitario, potendo contare su una base d'utenza di livello culturale medio-alto. Gli iscritti possono compilare il proprio profilo, segnalare eventi di particolare interesse, aggiungere immagini o video e vedere cosa stanno facendo gli amici in un determinato momento. Recentemente Facebook ha aperto lo sviluppo di applicazioni alle terze parti, consentendo agli utenti di aggiungerle liberamente alle proprie pagine. Molte di queste applicazioni esterne sono pensate per funzionare come sub community o piccoli minigiochi. Alcuni esperti vedono in Facebook il primo embrionale esponente di "sistema operativo online".
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i sono 3 cose che so su Facebook: a) sta uccidendo gli SMS e le email, b) è il nemico numero uno del vostro capo e degli studenti che preparano esami ma fammi-vedere-se-qualcuno-hascritto-sul-wall c) rincoglionisce grandi e piccini con applicazioni a metà strada fra il causal gaming e il nulla assoluto. Quando ero alle superiori, nei laboratori di informatica impazzava Puzzle Bubble o, se il professore si assentava per più di dieci minuti, scattava la LAN a Quake 3. Adesso i teenagers si ammazzano a colpi di Booze Mail su Facebook, e anche il perdere tempo a scuola non è più quello di una volta. Ma questa puntata del Vangelo non è dedicata al fatto che Nintendo c'ha visto giusto e la gente preferisce i non-giochi, quanto piuttosto ad elogiare l'asincronicità ludica. Mi spiego. Ho iniziato ad usare Facebook in estate, tanto per, al lavoro mi annoiavo. Dall'esterno non si capisce nemmeno bene a cosa serva, poi all'inizio dell'anno accademico ho iniziato a comprenderne l'utilità organizzativa e ultimamente lo controllo più frequentemente della mia casella email. Negli ultimi tre mesi, nell'area geografica dove vivo, il numero di utenti del social network bianco-blu è triplicato, tanto che ci sono stati diversi giorni di semi-collasso strutturale. Al di là del successo - meritato o meno - dell'idea, è interessante quello che si inizia a percepire: l'incrementata necessità di comunicazione asincrona fra gli utenti. Cosa voglio dire? Non comunichiamo asincronicamente la maggior parte del tempo? Sì, ma abbiate un attimo di pazienza. Prendiamo come esempio un'altra applicazione web molto diffusa, MSN. Ora, loggatevi su MSN e contate quanti dei vostri contatti hanno come status "non disponibile", "away" o sono invisibili (anche quando sapete benissimo che in realtà sono al PC). La verità, ad osservare trend consolidati dopo anni che alcune applicazioni sono sul mercato ed hanno modificato le nostre abitudini, si può riassumere in due punti principali: 1) la gente vuole stare in contatto principalmente con un gruppo limitato di conoscenti 2) la gente non vuole rotture di coglioni
Elogio del Videogioco Asincrono
ad ogni momento. L'incremento esponenziale delle possibilità di interazione ha portato, forse un po' inaspettatamente, ad una sorta di "ritiro nella sfera privata", a cui solo gli individui più fidati possono accedere. Per lo stesso motivo per cui non è bello discutere in un forum dove non si conosce nessuno, o chattare con uno sconosciuto, la maggior parte dei giocatori non gioca con o contro perfetti sconosciuti, non parla con loro, né via chat, né tramite headset. Nei videogiochi multiplayer spesso uccidiamo in perfetto silenzio, castiamo incantesimi parlando a noi stessi, perdiamo una gara bestemmiando fra i denti. O con in sottofondo un CD di Vasco, al massimo. Le cose cambiano fra amici, ove parte della sfida risiede anche nell'offendere nel modo più blasfemo possibile il proprio avversario, che nella vita magari è anche uno dei vostri migliori amici. Direste dell'avatar di uno che non conoscete che è "brutto come lo sputo di un mulo sulla ghiaia"? E invece, osereste con un amico? La risposta la sapete. Ma sto divagando. Per tornare in carreggiata, vengo al punto della mia riflessione: il successo di Facebook, e delle sue applicazioni quasiludiche, sta tutto nell'asincornicità dell'interazione. Ciccio torna a casa del lavoro, stanco come se avesse trainato un carrarmato con i denti per dieci ore di fila, e cliccando il link alla pagina dei feed si accorge che Tizio gli ha offerto un White Russian con Booze Mail, Caio gli ha tirato una cuscinata con Pillow Fight, Sempronio l'ha sfidato ad un combattimento con Pirates VS Ninjas. E la cosa bella - o terribile, a seconda dei punti di vista - è che Ciccio si sente in dovere di rispondere, dopo una doccia corroborante e un piatto di tagliatelle o il giorno successivo dall'ufficio, mentre il capo è impegnato in qualche riunione aziendale. Il momento preciso della risposta non è più una discriminante, gli amici di Ciccio non devono essere online nello stesso momento in cui Ciccio decide di dichiarare guerra, ma nondimeno riceveranno il guanto di sfida e risponderanno in una spirale ludica che si potrebbe riassumere nel termine generale Poke
War. Ora, siamo tutti d'accordo che Facebook non rappresenta la frontiera finale del videogioco. Dio - o chi per lui - ce ne scampi. Ma sebbene il gioco asincrono esista da un pezzo (i giocatori di ruolo probabilmente conosceranno le famose tecniche play by mail o play by forum, che cercano di unire disponibilità geografiche e di tempo diverse alle risorse che internet ci offre), le potenzialità di questa modalità sono quasi del tutto inesplorate, e le stupide applicazioni del social network dalla crescita più vertiginosa che la storia ricordi hanno appena scalfito la punta dell'iceberg. Ho per le mani il numero 183 di EDGE. Il personaggio delle vignette che chiudono il numero (Crashlander) ad un certo punto dice: "Next I need to play Halo 3 online before it's too late. Got to catch that freakin' magic window". Nella sua stupidità, è una battuta illuminante. Pensateci: il problema del multiplayer online è che devi essere lì, in un momento preciso e ad un'ora precisa. Inoltre, se vuoi giocare con qualcuno che conosci, devi pure organizzare un meeting sperando che tutti i tuoi amici siano liberi nelle stesse ore in cui lo sei tu. È un casino, ammettiamolo, e non funziona granché bene. Ed è anche uno dei motivi per cui un certo gioco, dopo qualche mese dall'uscita, perde metà della sua attrattiva se la community è migrata da qualche altra parte, perché, si sa, they have to catch that freakin' magic window. Forse gli sviluppatori di videogiochi dovrebbero iniziare ad utilizzare Facebook (son tutti lì in ogni caso, lo dice Christofer Sundberg di Avalanche Studios nello speciale di EDGE The Nordic Game Industry) non solo per molestare virtualmente le amiche incontrate la sera prima in discoteca, ma anche per comprendere meglio le dinamiche ludiche di cui un pubblico con sempre meno tempo a disposizione ha bisogno. Questo articolo non è un invito ad addarmi come vostro amico su Facebook. Non sono vostro amico, fino a prova contraria. E soprattutto non aspettatevi che vi prenda a cuscinate.
Giovanni Donda
Un uomo per due stagioni Giovanni Donda, in arte Giocattolamer, è italiano di nascita e inglese d’adozione. “Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È entrato a far parte dell'industria dei videogiochi dalla porta di servizio, e lì è rimasto. Oggi è a capo di una piccola azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o prodotti qui non verranno mai menzionati.
Questo ci ha costretti a scriverlo lui. Va da sé che le sue opinioni siano appunto tali. Pure questo. La moglie, invece, gradirebbe che simili premure le riservasse a lei, e alla figlia, non a quella ditta del... Ma lo ama tanto. Fortuna che non capisce l'italiano e crede ancora che “Odio di Gomito” sia solo il romanzo che gli pagherà il mutuo.
Odio di Gomito
Delle comparse videoludiche e delle due piramidi che sembravano una sola
A
ncor prima che un QA manager, sono un sadico bastardo. Ma capitemi, con tutti i nuovi candidati che mi tocca intervistare, qualche soddisfazione uno se la deve pure togliere, no? No, ovviamente no, sarebbe poco professionale. Non a caso al corso ti sconsigliano categoricamente di mettere a disagio il colloquiante almeno per i primi dieci minuti. Io al secondo minuto ho già chiuso il manuale del perfetto manager e gli sparo a bruciapelo un “Qual è la differenza fra un extra e un tester?”. Al che, fossimo in Italia, riceverei solo sguardi di circostanza perché il candidato si starebbe ancora chiedendo cosa intenda io per 'extra'. Lo scozzese di questa mattina, invece, ha chiesto solo conferma, giusto per vedere se c'ero o ci facevo. Esatto, le comparse cinematografiche, gli 'extras' appunto. E tutto questo con buona pace di quelli che pensavano fosse impossibile resuscitare il tormentone cinema uguale videogioco. Nessuna, per rispondere alla domanda. A prima vista, se non altro, rappresentano entrambi la casta più bassa di due industrie che non si capisce cosa aspettino ancora a convolare definitivamente a nozze, tanto gli piace convivere assieme. Da una parte la giovane comparsa crede di aver sfondato nel mondo del grande schermo, portare caffè dopo caffè all'ultima bambina prodigio di Hollywood è solo un'occupazione temporanea. Dall'altra il giovane tester crede che correre per delle ore contro un muro, e poi quello accanto, sia un po' l'equivalente del metti-togli la cera per diventare l'indomani un perfetto game designer. Perché è a questo che aspirava il candidato questa mattina, inutile che si fosse preparato le cinque ragioni per cui io dovrei dargli una busta paga da tester a fine mese. Adori i videogiochi, non sei un artista, non sai scrivere due righe di codice, che vorresti mai fare? Il game de-
signer, ovviamente, ed eccoti qui a far finta di voler testare giochi, con un piede già fuori dalla porta. Ho detto che sono un sadico bastardo, non ho detto che sono scemo. Se sfondare nell'industria dei videogiochi è tutto quello che brami, ma nel frattempo è da due ore che stai cercando di riprodurre un memory leak trovato da un qualche tuo collega analfabeta, o troppo scansafatiche per scrivere due righe due di descrizione... beh, lasciatelo dire, hai fatto una bella cazzata. Sveglia, per te il controllo della qualità non è neanche una porta di servizio, è un vicolo cieco. Se vuoi proprio fallire, almeno fallo con stile. Tanto vale, allora, che ti iscrivi a un qualche corso universitario ad hoc – per il massimo effetto provare in Italia – che spendi quattrini anziché guadagnarne, ma almeno torni a casa dalla mamma ogni giorno per pranzo e puoi dire che stai studiando per diventare game designer. Ora che non avete più la leva obbligatoria da voi in Italia, davvero ben poche cose suonano così poco stilose come 'fare il tester'. Ce ne sarebbe una, fare il beta tester, ma questa è un'altra storia. Si stava meglio quando si stava peggio, direbbe un giornalista a corto di idee. Avrebbe ragione, però, perché un tempo il controllo della qualità era davvero messo meglio. Non esisteva. Il testing era svolto internamente dalle stesse software house che producevano il gioco, dove però il termine ‘software house’ è qui usato in mancanza di un termine migliore. Erano, invero, quattro gatti che creavano un gioco e invitavano altri quattro gatti per vedere in quanti modi lo riuscissero a rompere. Perché avevano a cuore la customer satisfaction? No, volevano solo che funzionasse. Essere tester allora significava essere in stretto, strettissimo contatto con il team
Avvicinati e guarda attentamente. Quante piramidi vedi? di sviluppo, significava testare con mano – scusate il gioco di parole – cosa volesse dire creare un videogioco. Da lì a fare parte del team stesso, il passo non era né breve, né scontato, ma era un passo, non un curriculum con salto carpiato oltreoceano. Grazie, outsourcing. Oggi molte cose sono cambiate, al sottoscritto gliene serve solo una, però, per concludere. Perché la gente guarda all'industria del videogioco e al controllo della qualità, e tutto quello che vede è una sola, unica piramide da scalare. Se solo guardassero più da vicino, vedrebbero che di piramidi ce ne sono ben due. Solo, sono così vicine che si sono confuse per tutti questi anni, e senza dubbio sarà così per altri anni a venire. Voi però smettetela di cercare nuovi ponti, o cunicoli che le colleghino, non ce ne saranno più e quelli che ancora resistono saranno presto insabbiati. Piuttosto, apprezzate questa seconda e così poco stilosa piramide per quello che è, una realistica alternativa al portare caffè dopo caffè all'ultima bambina prodigio di Hollywood.
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Vincenzo Aversa Professore Nerd
Ritenendosi da sempre uno dei cinque migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr. Vitoiuvara ha deciso di condividere con il mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per Videogiocatori Professionisti” che oltre a renderlo famoso, lo ha definitivamente consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive
solo e abbandonato in compagnia del suo fidato quaranta pollici ma, come ama ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi tutto il suo tempo libero a videogiocare, è fermamente convinto che, nell’arco di massimo cinque anni, sarà fuori da questo ambiente di sfigati.
Esco di Rado (ma gioco pure troppo)
D
Da una parte i bachi, le patch correttive e una rincorsa al fotorealismo che spesso mette da parte lo stile. Dall’altra meccaniche di gioco anacronistiche, giochi dalla durata improponibile, un sistema di salvataggi che non tiene conto delle esigenze dei “nuovi” videogiocatori. Occidente e Oriente hanno i loro problemi, ma se l’attaccamento al passato di quest’ultimo è ormai patologico, la spinta all’evoluzione del videogioco occidentale sempre più encomiabile.
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ue scuole di pensiero, due modi di fare videogiochi distinti che da sempre vivono l’uno di fianco all’altro, in eterna contrapposizione, dividendo gli appassionati. Il Giappone, con le sue musiche deliranti o commoventi, i mankaga che curano il character design e Dragon Quest sempre in vetta alle classifiche. L’occidente, tra Europa e Usa, con le hit del momento, qualche schiavo cinese alla modellazione e una bomba atomica da strappare dalle mani dei terroristi. Due vie tra le quali scegliere, due vie quasi mai sovrapposte l’una all’altra. Fino a qualche anno fa… I tempi cambiano, la Canalis ha preso il posto della Fenech tra le fantasie erotiche degli italiani e le due scuole hanno preso a muoversi con ritmi diversi, diversificandosi ancor più di prima. E’ indubbio, per esempio, che in terra d’oriente si stia assistendo ad una agguerrita resistenza al progresso, con la riproposizione continua di meccaniche di gioco fin troppo ancorate al passato. Sono cambiati i bambini e sono cambiate le destinazioni, ma in 10/15 anni la più grande novità che ha fatto capolino in qualche JRPG è la sparizione dei combattimenti casuali. In Tales of Symphonia, per esempio, che pure presenta i combattimenti in tempo reale tipici della serie, i nemici sono visibili sulla mappa come enormi gelatine nere, quasi sempre evitabili. Ma tutto il resto è un fossile dedicato agli appassionati, con pochissime possibilità di attrarre nuovo pubblico. A dispetto di bilance, Wii e DS, i riusciti esperimenti di Nintendo per attirare un pubblico diverso fatto di non giocatori, è proprio nel target di riferimento dei suoi prodotti che il Giappone sembra un passo indietro all’occidente. Cento e più ore di gioco per completare una singola avventura faranno felice qualche nerd appollaiato sulla sua scrivania, ma sono del tutto improponibili per un mercato che cerca di aprire le sue porte al pubblico di massa: casalinghe, padri di famiglia e bambini compresi. Il vecchio
Sol Morente
e il nuovo continente hanno puntato decisamente su giochi più corti e intensi, anche se con risultati a volte imbarazzanti (Heavenly Sword e Ghost Recon AW2 sono invero ridicolmente corti). Anche Oblivion e Mass Effect, l’equivalente della nostra parte di oceano di Final Fantasy e compagnia, possono essere finiti in una manciata di ore (15/20) se si decide di trascurare il surplus di missioni secondarie e l’esplorazione fine a se stessa. La scelta sulla condotta di gioco da tenere sta al giocatore, sempre e comunque, laddove i giapponesi si sforzano ancora di dettare le regole. Ed ecco allora che dalle nostre parti i checkpoint sono diventati una realtà acquisita, inevitabile e a volte persino invasiva, mentre giochi di ottimo spessore e grande richiamo come il recente Metroid Prime Corruption – gioco americano ma ferocemente ancorato al suo passato dagli occhi a mandorla – non riescono ad andare oltre qualche timido, e apparentemente casuale, checkpoint sparso per tutta l’esperienza di gioco. Non si tratta solo di pigrizia o voglia di giochi facili. Se si da per scontato che l’età media dei videogiocatori si sia alzata, si dovrebbe pure rispettare le limitate disponibilità di tempo dei trentenni in carriera con la passione per i videogiochi. Tra mogli, fidanzate/i, figli, lavoro e qualche serata di Champion’s, non tutti hanno due ore filate da dedicare al proprio hobby ogni giorno, ed è indubbio che un pugno di save point lontanissimi tra loro non facciano che allontanare del tutto i giocatori con meno tempo a disposizione. Per carità, l’Occidente ha le sue magagne. Lo strepitoso design di Okami e Killer 7 o i tratti distintivi e unici di videogiochi come Shadow of The Colossus, dimostrano come noi occidentali si sia ben lontani da un certo tipo di raffinata sensibilità artistica, presi come siamo nella ricerca del realismo visivo. E, d’altronde, anche nella cura dei dettagli abbiamo ancora molta strada da fare. Del tutto im-
pensabile che prodotti di grande richiamo come Mass Effect o Assassin’s Creed (in versione PS3) vengano presentati al pubblico giapponese con motori di gioco tanto traballanti. Assolutamente fuori questione, che le secchiate di bug made in Ubisoft possano essere accolte dall’esigente pubblico nipponico con la nostra stessa indifferenza. Se è vero che l’Oriente è troppo innamorato del suo passato, insomma, è pure vero che non ha dimenticato cos’è un beta testing e non ha cominciato ad affidarsi completamente a patch frettolose ed incomplete. Discorso diverso va fatto in parte per i portatili. Laddove gli orientali mostrano di comprendere al meglio la differenza netta tra console casalinghe e da saccoccia, con prodotti portatili esclusivi, immediati, semplici e rapidi, case di sviluppo americane ed europee continuano a districarsi tra conversioni più o meno improbabili, spesso con poca fantasia e, ancora più spesso, con poca attenzione alla qualità del prodotto. Continuano a vedere PSP e DS come alternative a PS3 e 360, non come sistemi di intrattenimento da affiancare, per scopi diversi, alle console da salotto. Venti milioni di DS Lite venduti in Giappone dovrebbero quantomeno far ricredere le software house nostrane, nel breve periodo. Probabilmente è solo questione di gusti e possibilità, ma meglio Mass Effect con i suoi scatti, Oblivion con i suoi bug o il perfetto Zelda Twilight Princess che sembra la citazione di se stesso, per come ricalca fedelmente le avventure passate? Ai posteri l’inquinamento e la quarta guerra mondiale, io scelgo il videogioco moderno, buggato forse, ma che mi lascia la possibilità di giocare più cose, come e quando voglio. Un videogioco che sta cominciando a proporre cose nuove come la cattura di immagini e filmati, come la possibilità di guardare live le partite degli altri, come mondi pulsanti e storie complesse che valgono la pena di essere raccontate, anche senza un pad.
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I
m u s i c
i n
n che modo è possibile introdurre un autore tanto celebre come Nobuo Uematsu? Lo storico compositore di Square e della saga di Final Fantasy è forse il più amato tra i musicisti che lavorano nel campo dei videogiochi, i suoi lavori campeggiano senza dubbio tra le preferenze musicali di ogni appassionato di JRPG, anche al di là della celebre saga cui deve la sua fortuna. Con il suo recente abbandono da Square, che lo ho condotto insieme a Hironobu Sakaguchi tra le fila di Mistwalker, Uematsu ha lasciato Final Fantasy per dedicarsi ai nuovi progetti di Microsoft e Sakaguchi, al secolo Blue Dragon e Lost Odyssey. Ma il cambio di guardia non sembra aver nuociuto in alcun modo alla sua verve creativa, e l’OST di Blue Dragon è qui per dimostrarlo anche ai più scettici: due CD, un totale di cinquantasette brani e due ore di musica, in un’opera completa e poliedrica, dove trova spazio una certa attitudine alla novità e alla sperimentazione, seppur iscritta in una forma orchestrale decisamente canonica. Sono tanti gli stili e le influenze musicali che caratterizzano questo nuovo lavoro: dai classici brani al pianoforte – Waterside, Desolate Town, Zola’s Theme – a quelli più d’atmosfera (Mysterious Village, Everyday Tranquillity); dall’energia dei pezzi più rock, quali Earth Shark is Coming o High Speed Flight, alla leggerezza di quelli più pop, rappresentati dalle godibili Bad But Bat e My Tears and the Sky. Ognuno di questi brani sa ritagliarsi il suo posto d’onore accanto agli altri, in forza di una felicità compositiva certamente figlia della tradizione e non troppo fuori dagli schemi, ma in ogni caso di alto valore. Ma parlavamo di sperimentazione e nuove influenze musicali, ed è proprio su questo fronte che l’OST dà il suo meglio, aggiungendo nuove sfaccettature allo stile consolidato del grande compositore. Particolarmente riuscito è Omen, dal primo disco: sulla scia di un pianoforte che gronda drammaticità ma che presto s’inalbera in un concitato tecnicismo, si accendono gli archi e le percussioni elettroniche di un ambient che pare dover qualcosa addirittura ad
t h e
g a m i n g
Akira Yamaoka. La naturalezza con cui Uematsu coniuga il proprio verbo a simili nuove tendenze garantisce la buona riuscita del brano, tra i migliori fra quelli più atipici. La vena malinconica prosegue in altri brani, nell’essenzialità di Hanger and Sorrow e in Cave, fino a cedere il passo al più raffinato sax di Frozen Village. Ma visti i temi del gioco di cui si vuole sottolineare i momenti, c’è poco spazio per sentimenti cupi: e allora via verso attimi più leggeri e festosi, verso i ritmi trascinanti di Bad But Bat, City Lights, Trip! e la godibilissima ballata pop My Tears and the Sky, come Bad But Bat cantata in giapponese da voci bianche. Cambio di CD, nuovo cambio di fronte: qui Uematsu omaggia in un modo che rasenta il plagio gli Iron Maiden di Bruce Dickinson, arrangiando Eternity con chitarre elettriche esplosive, una voce maschile non altrettanto bella ma comunque adeguatissima al caso e aggiungendo perfino un testo in inglese. Ma è solo un istante, una breve fermata prima di ripartire verso lidi ancora diversi. E presso uno di questi troviamo brani che si nutrono (quasi) di sola elettronica, come In Search of the Ruins, Ruins e Giant Mecha. Quest’ultimo, in particolare, colpisce: trattasi di un brano di ambient elettronica velocissimo, che nella potenza dell’attacco mostra diverse analogie con lo stile di Shoji Meguro (vedi Babel001) ma sa presto conquistare un’identità propria, fregiandosi di un finale epico dove ancora una volta il classico si fonde al nuovo in maniera perfetta. Blue Dragon OST è un disco affascinante, ricco, stimolante per la novità e appagante per la tradizione. Nessun colpo di genio, nessun brano eccessivamente fuori dagli schemi, nulla che faccia pensare ad un’evoluzione radicale dello stile Uematsu. Eppure tantissima bella musica, tantissimo stile ormai assimilato ma che disegna nuovi arazzi sicuramente ispirati. Ora nel nuovo, con i brani appena analizzati, ora nella tradizione, con il piano e i flauti delicati di Peaceful Waterside, Blue Dragon OST fa ben sperare per il futuro di un autore che non smette mai di collezionare consensi.
Blue Dragon Producer: Microsoft Developer: Mystwalkers Uscita: 2007 Jap-Usa-Eu Consigliato: Se vi piace l’RPG dupalle
a cura di Federico Res
Disco Uno 01 - Waterside 02 - A Lamenting Bell Toll 03 - The Land Shark is Coming! 04 - Crisis 05 - Mysterious Village 06 - Dragon Fight! 07 - Thumbs Up! 08 - Everyday Tranquility 09 - Mystery of the Ancient Machine 10 - Challenge 11 - Omen 12 - In Search of the Ruins 13 - Ruins 14 - High Speed Flight 15 - Anger and Sorrow 16 - My Tears and the Sky 17 - Cave 18 - City Lights 19 - Desolate Town 20 - Advancing Ground 21 - BAD BUT BAT 22 - Trip! 23 - A Smiling Face 24 - Knock It Down 25 - Army of the Holy Sword Tempo Totale: 54'57"
Disco Due 01 - Gibral Castle 02 - Zola's Theme 03 - A Little Fight 04 - Frozen Village 05 - Nene's Paradise 06 - Giant Mechat 07 - Advance! Drill Machine 08 - The Dance-Loving Devi Tribe 09 - The Ancients 10 - An Ancient Fortress 11 - Machine Temple 12 - The Road to Gibral 13 - Mecha-Robo Army Charge! 14 - The Land of Happiness 15 - A Village of Murals 16 - Peaceful Waterside 17 - An Uneasy Night 18 - Eternity 19 - Mechat Takes Off! 20 - Take Back the Shadow! 21 - State of Emergency 22 - CAVERN 23 - Revival of the Ancients 24 - The Seal is Broken 25 - Happy Birthday 26 - Blue Dragon Main Theme 27 - Waterside - Piano and Orchestra Tempo Totale: 70'59"
Blue Dragon Original Soundtrack
Nobuo Uematsu
Gli altri lavori di Nobuo Uematsu
Nobuo Uematsu ha composto le colonne sonore dell’intera saga di Final Fantasy, ad eccezione del dodicesimo episodio – opera del meno incisivo Hitoshi Sakimoto, a causa della sua dipartita da Square. Oltre Final Fantasy, ha curato le musiche di un altro capolavoro come Chrono Trigger, con Yasunori Mitsuda e Noriko Matsueda, oltre che di titoli come Kingdom Hearts, Chocobo’s Dungeons e, recentemente, Tales of Symphonia e Lost Odyssey. Tra le altre cose, ha anche composto il main theme dell’inedito Super Smash Bros. Brawl di Nintendo. Tra i suoi lavori, consigliamo l’ascolto dei Piano Collection di Final Fantasy VII,VIII e IX.
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REVIEW
UNA GUERRA TROPPO FREDDA
A
call of duty 4
genere-fps softco-infinity ward publisher-actvision piattaforma-360/ps3/pcversione-pal multiplayer-1-4
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa nche le cose migliori prima o poi vengono a noia: le camice hawaiane, i buondì, la scoppiettante musica di Amedeo Minghi e persino la guerra. Sfamati per un mezzo decennio con abbuffate di trincee e crucchi bastardi, le simulazioni belliche, tra seguiti di seguiti e variazioni sul tema, hanno cominciato a stancare, a somigliarsi troppo, a fracassare i coglioni. Un pantano fatto di prodotti senza dubbio buoni, ma con meccaniche tanto collaudate da apparire obsolete. Un pantano dal quale si poteva uscire in un solo modo: dando la colpa ai nazisti. Call of Duty 4 compie un balzo avanti nel tempo di una cinquantina di anni e licenzia i tedeschi, ma lascia pressoché inalterato tutto quello che di buono e cattivo aveva seminato in passato. Imbottito di poligoni ed effetti, l’ultimo prodotto di Infinity Ward spacca qualche mascella, tra le polverose città orientali e un’incredibile e desolante Chernobyl; digrigna i denti sparando a video le fantastiche avventure scriptate di qualcun altro, bullandosi con gli amici di essere tecnicamente ineccepibile. Poi c’è ritmo, c’è tanta azione, ci sono attacchi aerei e assalti disperati. Nel minestrone di Call of Duty 4 ci sono tutte le verdure per farne un capolavoro, ma a seguire la ricetta spesso non si va in paradiso e, seppure inattaccabile, al piatto della guerra moderna manca il tocco in più del grande chef. Era la seconda chiamata alle armi. Sdraiato sulla neve russa, con un tizio ad esortare la resa dagli altoparlanti e con il fuoco nemico ad impedirmi persino di alzare la testa, aspettavo il momento giusto per guadagnare un centimetro. Al mio fianco gli amici morivano, al mio fianco continuavano a morirne degli altri ma io aspettavo. La guerra, pensavo, non si vince di fretta. Oggi al mio fianco ci sono compagni invincibili, immortali, gente che vedo colpita e che nemmeno ci prova a cadere a terra morta. Oggi falcio un nemico dopo l’altro, ma ne arrivano sempre di nuovi. A fiumi si frappongono davanti a me e io aspetto, con calma provo a liberarmi di loro. La guerra, penso, non si vince di fretta ma neppure annoiandosi a morte: dopo venti minuti e zero risultati capisco che è il tempo di correre, come Forrest Gump, correre avanti fino ad un punto sicuro e coperto, qualche metro più avanti, dove io e i miei amici non-morti sapremo guadagnarci il più deprimente dei checkpoint. Call of Duty sembra divenuto un circo, senza atmosfera, senza tensione, senza sentimento. E le parole che prima rammentavano gli orrori della guerra, ora sembrano piatte e vuote perché stavolta si sta solo giocando, nulla di più. E se è vero che il tempo passa per tutti, dopo tre seguiti non si ha più voglia di armi luminose e
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di icone giganti su schermo. Non puoi fare la guerra vera al banco delle tre palle, questa è la morale, perché quello che dovrebbe essere credibile rimane al massimo solo somigliante. E questo a prescindere da quanti frammenti di vetro ti cadono in testa durante una sparatoria o da quanti cani cerchino di morderti la faccia mentre sei accovacciato. Era ancora Call of Duty 2 e, con i proiettili a fischiarmi nelle orecchie, guardavo il mondo intorno a me e mi sentivo un numero. La guerra, pensavo, non è fatta per gli eroi. Oggi uno schiavo mi apre le porte, mi taglia le reti e si diverte a rubarmi la scena. La guerra, penso, la vogliono fare senza di me. Ci si sente inutili, a non piazzare nemmeno la più banale delle cariche C4. Eppure dovremmo essere qui per quello, per giocare, non per accollarci sulle spalle il peso di un’avventura già scritta nella quale si entra da leggenda e si finisce comparsa. A Call of Duty 4 manca il cuore, quello dei protagonisti insignificanti del passato, arrivati in guerra con l’unico scopo di tornarsene a casa il prima possibile. I soldati sono stati rimpiazzati dalle corazze resistenti di eroi perfetti per un Ghost Recon o un Rainbow Six, dove i buoni e i cattivi sono schierati in fazioni diverse, senza sfumature, laddove la guerra dovrebbe essere fatta di uomini, non figurine. Più storia e meno campo di battaglia, insomma, con un nemico che adesso ha un volto preciso e una vicenda alle spalle che non riesce ad emozionare. All’infuori del livello veterano funziona tutto meglio, grazie a una sfida più abbordabile che in qualche modo mitiga i difetti rilevati. Sparare è ancora divertente, l’online funziona a meraviglia (tranne quando non funziona per niente) e non è certo di un brutto gioco che stiamo parlando. Ma fuori dalla finestra c’è una fisica migliore, c’è un IA dei nemici che non respawna all’infinito e che non spara da dietro ai muri, ci sono avventure che non ci vengono soltanto raccontate. Quando si cade a terra, là fuori, c’è un dolore più grande di un game over. 7
Tra gli artisti della colonna sonora di COD4 spicca il nome di Harry Gregson-Williams, già autore delle OST degli episodi di Metal Gear Solid su Playstation 2.
PERK PER TUTTI
Il sistema di avanzamento online studiato per questo Call of Duty 4 è decisamente divertente e vario. Giocando e salendo di livello e grado, infatti, i giocatori possono sbloccare tutta una serie di “perk”, abilità speciali da utilizzare in battaglia. Alcuni perk sono inoltre sbloccabili solo utilizzando particolari armi, quindi il giocatore è sempre invogliato a sperimentare tutto il suo armamentario senza fossilizzarsi con il primo fucile che gli capita sottomano. Peccato per qualche problema di troppo nella ricerca delle partite.
REVIEW
BELLISSIMA MERDA
A
assassin’s creed
genere-azione softco-ubisoft montreal publisher-ubisoft piattaforma-360/ps3 versione-pal multiplayer-no
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa ssassin’s Creed è figlio di mille promesse, alte aspettative e sbalorditive presentazioni. Un assassino saltellante e una geniale ambientazione storica sanno come stuzzicare la folla, ma è un dato di fatto che, in questo ambiente saturo di minorenni e gente che scopa poco, si sia parlato più del sedere di Jade Raymond che non del gioco vero e proprio. Male, perché Assassin’s di promesse ne mantiene parecchie, ed è solo per ingenuità e pigrizia se non verrà ricordato negli annali. Accolti dal miglior tutorial tra quelli che non sono in grado di spiegarti nulla, il giocatore e/o assassino prende confidenza con un sistema di controllo solo a prima vista ostico, ma capace di regalare nel tempo grandi soddisfazioni. Poche ciance e in un battibaleno si è buttati nella mischia, senza saper saltare, senza capire esattamente dove andare, con troppi tasti da padroneggiare e una sensazione di totale smarrimento nel cuore. Parrebbe una Caporetto, se non fosse preciso volere di Ubisoft quello di farvi sentire abbandonati a voi stessi. Spaesati, sballottati e confusi, ci si trascina alle porte della prima grande città ed è lì che, in un attimo, tutto appare chiaro. Tutto il gioco è svelato durante il primo omicidio. Di lì in poi non ci saranno novità, se non marginali, a condurre il giocatore verso il compimento prevedibile delle sue azioni. Assassin’s Creed gioca a carte scoperte, mostrando il fianco alla ripetitività, con un gioco che appare spesso il deja vu di se stesso. Che sia Acri, Damasco o Gerusalemme, ci sarà una sola via comoda per entrare. Che sia Acri, Damasco o Gerusalemme, avremo sempre il medesimo rifugio in cui poter riposare. Con missioni tutte uguali e combattimenti sempre identici, Assassin’s Creed non è certo un capolavoro facile da raccontare. Ma se è vero che tutto si ripete, è pure innegabile che la noia non viaggia sullo stesso cavallo del protagonista. Pulsa la città, cantava Irene Grandi prima di darle fuoco, ed è nel sapore dolce della vitalità che il titolo Ubisoft colpisce ai reni, stordisce ed entusiasma. È con l’incredibile ricchezza di particolari che una stradina di Gerusalemme ti toglie il fiato. È con la credibilità di una chiacchiera al mercato che Damasco ti ammalia, ed è nel porto di Acri che vorresti un giorno poter morire. Dopo tante ore e tanti omicidi si ha ancora la forza di rimanere di stucco, di fronte alla piccola decorazione scovata a sessanta metri d’altezza sul più insignificante dei cornicioni. Tre città troppo grandi per essere conquistate. Troppo grandi, tanto che a partita conclusa si ha la netta sensazione di non averle spremute al massimo, perché ingabbiate da un impianto di gioco poco fantasioso. Quanti vicoli, piazze e nascondigli inesplorati, sprecati, spesso a malincuore.
Ma è pure grazie a tanta sconfinata esagerazione che il salto automatico di Assassin’s Creed assume valore e spessore. Con centinaia di tetti l’uno diverso dall’altro e con milioni di appigli sparpagliati ovunque, non si tratta più di saltare nel posto giusto al momento giusto ma di scegliere in fretta, inseguiti e braccati, il percorso migliore per raggiungere la propria destinazione. L’occhio che vince sulla mano, il level design che vince sui controlli, l’astuzia che sbaraglia la forza bruta. Con un orizzonte tanto lontano da rendere l’impresa un’azione sempre gratificante, svolazzare in aria diventa un’arte, farlo velocemente una necessità. Tutto con un solo tasto, tutto in automatico come fosse la cosa più facile del mondo, ma lo spettacolo vuole la sua parte e c’è sempre differenza tra una goffa fuga e il volare sicuro di un fantasma. E per chi crede che a scappare siano solo i conigli, arriva l‘arma bianca a ricordare gli eccessi di virilità di un protagonista vestito da suora. Dimenticato il tedioso sistema di combattimento di Prince of Persia, Ubisoft Montreal mette in scena qualcosa che si può apprezzare solo dopo averlo capito. Sempre con pochi tasti, sempre tutto molto semplice, combattere tra mosse e contromosse è divertente e spettacolare, tra scene cruente e sangue a fiumi. Il principiante cercherà di affondare i suoi colpi col nemico alle corde, l’esperto coglierà l’attimo dopo un attacco avventato del nemico e in pochi istanti porrà fine alla tenzone. E se le cose dovessero mettersi male, via di corsa verso un nascondiglio sicuro, purché scappare è da conigli e morire è da cadaveri. Perché non c’è mai un solo modo di agire. Ce n’è uno migliore, certo, silenzioso e rispettoso del credo degli assassini, ma non è mai l’unico. Se non si vuole programmare nei dettagli un omicidio, se non si ha voglia di agire nell’ombra, non si viene condannati a morte ma solo consegnati alle lame del nemico. Lame pronte a farvi la pelle, pur di difendere la vostra preda. La via di Rambo è sempre la più semplice, certo, ma la via dell’assassino regala le vere soddisfazioni al giocatore che ha saputo scorgere un punto debole nelle difese nemiche. Assassin’s Creed è una grossa avventura arcade, con regole semplici ed elementari a ricordare che si tratta pur sempre di un videogioco, anche se in un contesto tanto verosimile da permettere di dimenticarlo spesso. Per una volta, ed è strano dirlo di una Ubisoft abituata a spegnere bombe a tre secondi dalla detonazione, la trama c’è, e si sa far apprezzare. Pur con un finale insignificante e l’irrinunciabile rimando ad un seguito già annunciato, la storia di Altair è gradevole, interessante, a tratti prevedibile ma con qualche buon colpo di scena. Soffia aria fresca, finalmente, adesso entrino pure i seguiti e le scopiazzature. 8
In rete si comincia già a parlare della possibile ambientazione del secondo capitolo di Assassin’s Creed: Giappone medievale o Venezia?
GLI SCATTI DI SONY!
Se la versione 360 di Assassin’s Creed non ha da raccontare chissà quali problemi tecnici, lo stesso non si può dire della versione Playstation 3. Subito dopo il lancio, numerosi utenti hanno lamentato scatti abbastanza fastidiosi, ma soprattutto un clamoroso bug che freezava la console con frequenza sospetta. Ubisoft e Sony sono subito corse ai ripari ed un primo aggiornamento del firmware PS3 (rapidissimo) ha messo le cose a posto. Scatta la domanda di rito, però, ma provarlo prima no?
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REVIEW
GUERRE STELLARI CRESCONO
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mass effect
genere-rpg softco-bioware publisher-microsoft piattaforma-360 versione-pal multiplayer-no
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa uasi sicuramente, tra qualche anno, ripensando a Mass Effect e al suo mondo fantascientifico la prima cosa che mi verrà in mente saranno i quattro testicoli dei Krogan. Gente burbera, i Krogan. Gente perennemente incazzata, raramente simpatica ma sempre efficientissima, in battaglia. E, caspita, quattro testicoli! Oppure ricorderò quella moretta con la quale non mi è riuscito di fare del sesso ma che il mio amico ha conquistato, perché io e lui abbiamo fatto scelte diverse e le mie, come nella realtà, sono spesso ignifighe. Chissà se invece mi tornerà alla mente quel vigliacco di un ambasciatore, o il panorama della Cittadella. Sono certo, però, non potrò mai scordare una storia che, per una volta, era complice e non vittima dell’azione ludica. “Innamorato”, come direbbe un gigante azzurro con problemi ad emozionarsi. Vomitati di getto in una galassia straordinariamente grande, senza uno straccio di tutorial, si sbatte presto il muso contro un sistema di avanzamento del personaggio – e della squadra in generale – in apparenza troppo macchinoso e complesso. Incapaci di effettuare le giuste contromosse, sul campo di battaglia si finisce subito a gambe all’aria, bastonati anche dal più innocuo e insignificante dei nemici. Ma niente paura: dopo “appena” quindici ore di gioco tutto appare finalmente chiaro, tra gelatine e poteri speciali, ma resta l’amarezza per qualche ora sprecata nella confusione di una curva di apprendimento mal calibrata. A peggiorare il tutto, una squadra di compagni inizialmente dediti al suicidio di massa, incapaci di fare pace con i pochi e semplici ordini impartiti dal giocatore e troppo spesso vittime delle sue stesse azioni. Passerà, migliorerà, ma poteva andare meglio. Ma è mentre si scende a patti con il sistema di controllo e con l’”arguzia” dei propri compagni, che la valanga di Mass Effect ci travolge e costringe a dimenticare le perplessità. Ancora a passo incerto, si giunge nella Cittadella, dove una storia comincia a delinearsi, dove i protagonisti cominciano ad avere un nome e dove le parole cominciano ad avere un’importanza. Impreziosito dal miglior doppiaggio italiano di sempre, l’ultimo tesoro di Bioware mette in scena una carrellata maestosa di razze aliene e intrugli umani; dona loro un credibile bagaglio di storie passate e li presenta al giocatore lasciandogli la possibilità di scoprirli quanto più a fondo preferisca. Ma la valanga di sopra è soprattutto una trama emozionante, epica e appagante. Stavolta si fanno scelte importanti, incredibilmente importanti, ed è mentre si decreta la vita o la morte di qualche amico che si comprende quanto si sia rimasti coinvolti a fondo
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nelle vicende di Shepard. Stavolta non c’è Sephirot a pugnalare la dolce Aeris davanti ai vostri occhi, ma il peso delle responsabilità a costringerci a prendere decisioni difficili. Una storia divisa in modo netto tra quest principali e secondarie, dove le prime non smettono mai di brillare ma le seconde appaiono già dopo poche ore di gioco l’una la copia dell’altra. Solo qualche minerale da trovare, una montagnola da scalare in Lambretta o una base nemica da ripulire a suon di fuoco e poteri biotici. Sembrerebbe nulla, e probabilmente rimane poco, ma ci si può perdere a guardare la Terra dalla Luna, o a riscaldarsi con l’alba di chissà quale sole in chissà quale galassia. Senza poesia, restano solo un gruppo di nemici da accartocciare e qualche miliardo di oggetti da collezionare. Centocinquanta souvenir da conservare con fare sbarazzino nelle tasche dei propri jeans. La colonna portante dell’esperienza, però, è la gestione intelligente del proprio gruppo, capace di trasformare la monotonia di scontri troppo simili tra loro in divertenti palestre d’allenamento. Ognuno dei sei personaggi del proprio team, Sheppard escluso, gode di caratteristiche peculiari legate alla sua razza, e ne acquista di diverse in base al modo con il quale si sceglie di far progredire le sue abilità. Naturale, quindi, che si vengano a creare una infinità di possibilità tra le quali scegliere con accuratezza per sfruttare al massimo le capacità di ognuno. Mass Effect è più difetti che qualità, quando lo vuoi raccontare, ecco la verità. Un universo fatto di scatti, missioni troppo simili tra loro, dialoghi a volte guidati e compagni da prendere a pizze in faccia. Ma è un universo, vero, con tante vite e tante storie ad intrecciarsi l’una sull’altra. Ecco la verità, Mass Effect pugnala alle spalle il videogioco così come Silent Hill lo terrorizzava. Si è parte del gioco, non giocatori, si è asso di coppe e non il vecchietto con la birra. Sono un romantico, questo è vero, ma tra la galassia perfetta, quella da undici, e quella troppo scattosa e imperfetta di Mass Effect, preferisco sempre la seconda, perché mi riempie, perché dai videogiochi so di poter avere di meglio di quanto possa darmi un pallone di cuoio o il dolce forno: emozioni, non giocattoli. 9
I salvataggi automatici del gioco vanno dall’inutile al delirante. Salvate spesso. Io ve l’ho detto.
UN FUTURO DA PUTTANA? Mass Effect è solo il primo episodio di una trilogia (chi ha detto ammazza che palle?) che doveva, almeno inizialmente, vedere la luce esclusivamente su Xbox 360. Il recente accordo tra Electronic Arts e Bioware, però, getta più di qualche ombra sul futuro da esclusiva della serie, anche se gli sviluppatori giurano (e giurello) che il loro rapporto con Microsoft non subirà alcun cambiamento. Una cosa è certa: un futuro multipiattaforma non potrà che fare del male ad un motore di gioco già traballante di suo.
REVIEW
IL PROFUMO DEI SOLDI
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final fantasy xii revenant wings
genere-rts softco-think and feel publisher-square enix piattaforma-DS versione-usa multiplayer-no
a cura di Michele “Guren no Kishi” Zanetti ipica espressione della consueta pratica di “mungitura franchise” adottata da una quantità di publisher, che spesso produce giochi mediocri non all’altezza dell’illustre capostipite di cui sono seguiti o spin-off, FFXII Revenant Wings giunge “finalmente” in versione americana sul piccolo parallelepipedo Nintendo. In luogo del monolitico JRPG misto MMORPG apprezzato su PS2, ci ritroviamo per le mani un RTS comandato quasi totalmente via touch screen. A causa di ciò lo schermo superiore è sempre occupato dalla mappa del luogo dove ci troviamo, mentre quello inferiore ospita l’azione di gioco. In qualsiasi momento, tuttavia, le immagini sui due schermi possono essere scambiate tramite pressione dei dorsali: un’opzione molto utile per esplorare velocemente la mappa con l’uso del pennino, decisamente più reattivo rispetto ai tasti direzionali, e per farsi un’idea riguardo una quantità di altri fattori. La posizione delle unità avversarie, il layout generale, eventuali casse del tesoro, agglomerati di minerali estraibili o la presenza di Gate sono tutti elementi facilmente individuabili pennino alla mano. I Gate, soprattutto, risultano essenziali poiché da essi – dopo averli conquistati - è possibile richiamare orde di Esper da affiancare alle truppe già presenti in campo. Gli Esper più potenti possono infatti essere convocati soltanto tramite i Gate, al contrario di quelli più scarsi che appaiono subito nelle vicinanze di ciascuno dei leader di ogni squadra (dopo averglieli assegnati in una apposita schermata prima dell’inizio della battaglia). Gli Esper sono composti da mostri ben conosciuti, come Chocobo, Atomos, Ifrit, Shiva, Bahamut e moltissimi altri. Ogni mostro è stato fatto rientrare in una categoria particolare, che determina attacchi da corpo a corpo, volanti o dalla lunga distanza. Queste tre categorie funzionano con lo stesso rapporto che intercorre nel classico gioco sasso-carta-forbici, e aggiungono un pizzico di strategia a battaglie fin troppo semplici, la cui difficoltà dipende unicamente dai livelli di esperienza degli avversari superiori ai vostri (o dall’IA suicida di alcuni PG che è necessario proteggere, nonché da una velocità di evocazione da parte delle truppe gestite dalla CPU fin troppo elevata). Ogni singolo Esper dispone di una sola abilità speciale, mentre i leader ne vantano numerose; purtroppo è possibile assegnarne solo una per volta nel diagramma dei Gambit, un limite che costringe spesso a cambi di programma repentini. Nel caos dell’azione e nel marasma di rallentamenti su schermo, scegliere l’unità specifica a cui dare ordini si rivela un’impresa, come anche spesso selezionare un gruppo di unità racchiudendole all’interno di un “quadrato” tramite pennino. Davvero poco pratico, rispetto a quanto si sarebbe potuto fare cambiando la
forma della selezione in un semplice e veloce “cerchio”. Per il resto il gioco scorre via piuttosto velocemente, attraverso una serie di missioni poco fantasiose e affossato da una storia dai toni totalmente diversi rispetto agli eventi passati, rivolta palesemente ad un pubblico di giovanissimi: piena di buoni sentimenti, priva di mordente e incapace di suscitare emozioni più forti di un possente sbadiglio. A ciò si aggiunge una realizzazione tecnica che vanta una palette di colori molto buona, ma esibisce personaggi e Esper bidimensionali e dalle fattezze microscopiche. Da un lato, un piccolo plauso va ai grafici per aver reso facilmente riconoscibili sprite di pochi pixel, dall’altro è innegabile come il design di alcuni Esper risulti davvero antiestetico (anche se funzionale). La regia, inoltre, pur non essendo molto sofisticata è comunque in grado di combinare disastri: al minimo zoom gli sprite spixellano paurosamente, scalette compaiono quasi ovunque e la grafica si “impasta”. Per problemi di spazio, poi, i vari Full Motion Video hanno una compressione solo discreta, mentre la rappresentazione animata dei colpi speciali (Quickenings) esibisce dei quadrettoni di una bruttezza imbarazzante. Ancora, nei filmati i personaggi sembrano fatti di pongo e dimostrano tutti una decina di anni in meno (Bash in particolare) e non va certo meglio con gli artwork, ben poco ispirati, che accompagnano i dialoghi. Gli effetti speciali variano parecchio, passando da esplosioni realizzate con uno stile che più vecchio non si può a lampi di luce, fiamme e altro per fortuna di ottima fattura. Effetti sonori su cui chiudere entrambe le orecchie e una colonna sonora totalmente riciclata e riarrangiata in peggio dalla versione PS2 chiudono il cerchio. Il gioco è discretamente lungo, presentando una notevole quantità di missioni extra - alcune eseguibili solo in determinati momenti - alle quali si affianca la possibilità di rivisitare quasi tutti gli scenari per affrontare nuove e speciali battaglie (utili per racimolare materiali usati e forgiare armi sempre più forti, accumulare qualche soldino e migliorare le caratteristiche del proprio party). Vi è anche un finale segreto a cui si può accedere completando tutte le missioni, ma non dovreste impiegare più di una cinquantina di ore per vedere tutto. Sempre che, visto il suo status di seguito non proprio necessario e inevitabilmente irrispettoso del capostipite, Revenant Wings non vi costringa ad abbandonarlo in anticipo per noia. Ed è pure probabile che i fan, prima o poi, si troveranno ad ingoiare almeno un altro “dodicesimo” boccone… 7
Le singole unità attaccano automaticamente i nemici nelle vicinanze. Alle volte se ne vanno a zonzo da sole e finiscono per cadere in qualche imboscata, ma la cosa peggiore è che si intralciano le une con le altre, capendo solo dopo vari ed inutili tentativi che se che quel figlio di un Chocobo non ti lascia passare forse è il caso aggirarlo. Kupo!
NAVI E COMPARSE In RW la nave pirata serve a spostarsi tra i vari continenti volanti, sui quali sbarcare per poi dirigersi a piedi verso la prossima destinazione. Non vi sono città da esplorare, ma l’interno della nave è dotato di negozi utili per acquistare e vendere materiali, armi e armature. La nave ospita, inoltre, la forgia del Master Artificer Cu Sith, probabilmente il personaggio originale più interessante di Revenant Wings, anche più della new entry Llyud che combatte al vostro fianco. Sorprende che Filo e Kytes siano stati promossi da semplici comparse a comprimari di tutto rispetto, davvero utili nelle varie azzuffate (ma meno graditi come macchiette comiche); delude il ridimensionamento immeritato di personaggi come Ashe e Bash, con un Larsa buttato nel calderone tanto per fare.
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REVIEW
L’ANELLO MANCANTE
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halo 3
genere-fps softco-bungie publisher-microsoft piattaforma-360 versione-pal multiplayer-si
a cura di Alvise “Kintor” Salice orto. Banale. Tecnicamente mediocre. Ludicamente riciclato. Eppure, grandioso. E’ il capolavoro con cui Bungie conquista il mondo dei fragger, ancora una volta. E’ la più seria ipoteca che Microsoft getta sulla torta dell’online gaming. Halo 3 cala il sipario sulla saga di oramai maggior successo nella storia degli sparatutto, regalando al suo vasto ed eterogeneo pubblico forse non proprio tutto ciò che aveva sempre desiderato… ma andandoci paurosamente vicino. Il delirio di onnipotenza provocato dal frusciante “fuck” elettromagnetico che pronuncia la energy sword mentre affonda nelle carni aliene; la ferocia kamikaze del dual wielding che ti manda in berserk coniugando plasma e proiettili; la scossa adrenalinica del colpo di sniper rifle, dito divino con cui fingersi un Altair fornito di orgasmiche possibilità balistiche; le care, vecchie, bastarde granate al plasma; l’incommensurabile arroganza del cingolato Scorpio, e la sua disinvoltura nell’annientare interi plotoni da siderali distanze. Tutti gli strumenti che avevano permesso ai precedenti Halo di forgiare battaglie virtuali di rarissima intensità, tornano qui in una veste riveduta, corretta, e soprattutto amplificata a meraviglia. La scala d’azione s’ingigantisce a dismisura, le situazioni si diversificano apprezzabilmente, l’ambientazione cede stavolta poco spazio agli antichi vuoti d’ispirazione (pur ancora presenti), e sfiora invece, qua e là, picchi accademici di level design. Un ritmo di gioco a tratti pazzesco non v’impedirà quasi mai d’interpretare Halo 3 secondo svariate filosofie offensive: da quella più tattica del silente chirurgo, a quella più rambesca del quaker consumato, ambedue foriere di copiose soddisfazioni, al pari dei tanti altri approcci più o meno ibridi che saprete cogliere nel mezzo. In ogni caso, capiteranno di rado momenti in cui avrete un’unica soluzione per fare piazza pulita dell’aliename ostile, e spesso sarà soltanto perché qualche solerte tiratore scelto vi avrà già selezionato come bersaglio, senza darvi il tempo di respirare e pensare. Talvolta, invece, sarà lo stupore a bloccarvi qualche secondo, difronte ad autentiche orde armate fino ai denti, o ai ciclopici Scarab (o perché no, ambedue in contemporanea). E ai livelli di difficoltà più elevati, non c’è nulla di meglio della saliente gratificazione che accompagna il progredire del vostro successo, mentre tessete circo-
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spetti un’inesorabile scacco matto, o danzate con coraggio donchisciottesco sotto il ventre del mostro meccanico. Dall’excursus sociopolitico in cui si avventurava il secondo capitolo, e da ambizioni narrative che avrebbero richiesto i benefici di un talento registico e sceneggiaturiale evidentemente fuori dalla portata dei suoi autori, Halo 3 retrocede di un passo, verso un taglio sci-fi più tradizionale, che racconta in modo piatto, ma globalmente efficace, la nostra terza sortita contro i Covenant, accarezzando al contempo le classicheggianti forme di una love-story (con alterne fortune). Protagonista di una space opera dal respiro tanto ampio quanto semplicistico, è naturalmente ancora Master Chief, cavaliere senza macchia e senza paura del 26° secolo. Il suo volto, si sa, resta sempre nascosto. La sua voce, disgraziatamente, è invece udibile: fornendogli il meno azzeccato dei doppiatori possibili, la localizzazione italiana affossa in modo irreparabile un avatar che, altrove, incardina il suo notevole successo in un mix di arrogante banalità e carismatica fierezza; cocktail a nostro gusto vincente nell’odierno panorama videoludico, ormai saturo di quei pretenziosi antieroi tanto affascinanti ed originali negli anni ’90. Se il senso di nausea prodotto dal pessimo commento vocale nostrano è accompagnato dal rimpianto per l’assenza del parlato originale (caldamente suggerito a chiunque mastichi l’inglese e possa procurarsi la versione UK), tutto il resto del comparto sonoro funziona, viceversa, da poderoso generatore di coinvolgimento ed esaltazione: basta saggiare un campionario dei brani o degli effetti, nonché testare la misura in cui questi ultimi incrementano le possibilità ludiche mentre escono dai diffusori, per capacitarsi dello spessore di un lavoro che, nella fattispecie, teme davvero ben pochi confronti. Difficile entusiasmarsi, invece, per le doti grafiche di Halo 3. Se la cosmesi del capostipite, oltre a spegnere le altrui velleità tecnologiche nella scorsa console war, fu rivoluzionaria perché mostrò le incredibili potenzialità delle inedite GPU shader based, i due sequel non sono riusciti a ribadirne l’impatto. Ma laddove ciò era comprensibile con Halo 2, che faceva scricchiolare gli ingranaggi di una macchina non lontana dal tramonto, risulta invece un po’ deludente constatare come il nuovo episodio sfrutti
Impeccabile l’interfaccia di controllo, che modifica lievemente la mappatura conosciuta nei capitoli per Xbox, riplasmandola in modo esemplare attorno al pad del 360.
BEST SOUNDTRACK EVER?
Una grande esperienza videoludica può forse prescindere da una realizzazione tecnica all’avanguardia, ma non da un’epica colonna sonora. Tutta l’arte di Martin O’Donnell, già autore delle OST della saga di Myth, di Oni e dei precedenti Halo, ritorna viva e scalciante nell’ultimo lavoro Bungie. A tratti, il celebre main theme vi apparirà legittimamente un po’ abusato: ma nelle memorabili sensazioni che proverete ad ogni sua nota durante l’incedere della lotta, troverete la ragione del suo ripetuto sfruttamento.
Nella seconda metà della campagna, potrete scovare bizzarri terminali da cui ricavare frammenti di storia dell’universo di Halo
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in modo solo altalenante un hardware su cui girano molti fra i più spettacolari titoli attuali. E a causa dell’avanguardia visiva esibita da questi, diventa arduo chiudere gli occhi davanti ai pesanti compromessi (rozzo anti aliasing, inadeguato LOD, limitata modellazione poligonale, risoluzione non HD) cui Bungie è scesa pur di presentare enormi battaglie e magniloquenti ambientazioni, uno smisurato HDR ed un texture mapping talora mozzafiato. D’altro canto, è essenziale sottolineare la disinvoltura con cui la saga conserva il primato tecnico che più l’aveva resa celebre: l’Intelligenza Artificiale. Algoritmi raffinatissimi governano il comportamento di ogni singolo personaggio, donando soprattutto ai nemici un realismo ed un dinamismo di livello semplicemente magistrale. Vuoi per l’impressionante bontà di ciascuna IA presente su schermo, vuoi per la generosa quantità delle stesse, qualunque smaliziato giocatore troverà in Halo 3 molte fra le situazioni di combattimento più vive e rigogliose a memoria di FPS. Tantopiù se avrà l’accortezza di sostituire i commilitoni virtuali con compagni umani: nel generoso nettare ludico profuso dall’opera Bungie, il cooperative mode (fruibile addirittura in 4) costituisce la suprema primizia, che, grazie anche ad un folto carnet di variabili con cui personalizzare l’esperienza, è capace di trascendere sia l’intrinseco tetto di competizione del gioco in singolo, sia le altrettanto ovvie limitazioni di profondità del versus. Quest’ultimo, considerabile sulla lunga distanza come la vera portata principale del banchetto, nonché la sorgente della ragguardevole longevità di Halo 3, si articola secondo un nutrito set di modalità, congegnato in maniera egregia: è disarmante la rapidità con cui si riesce a creare o trovare il match desiderato, scegliendone i dettagli organici (come il tipo di partita, dal “massacro tutti contro tutti” al “cattura la bandiera a squadre”) ed ordinandone le priorità strutturali (ad esempio, privilegiando la qualità dell’host o ricercando il livellamento dell’abilità dei partecipanti). Il funzionamento ad orologeria dei server non fatica a garantire la messa al bando dei lag, clandestini assai rari perfino nei match più popolati. La qualità del contenitore consente dunque alla sua sostanza di esprimere tutta la propria virtù: e come per ogni gioco multiplayer degno di rispetto, l’ingresso nel regno dell’online presenta un Halo 3 ancor più adrenalinico e gratificante della sua con-
troparte single player. Fra l’impressionante bilanciamento di armi e veicoli, la certosina progettazione di mappe dalle planimetrie più disparate, e la discreta varietà di opzioni con cui assecondare lo stile personale, è impresa ardua non trovarvi una propria dimensione ideale. Eppure, è possibile che per qualcuno non sia ancora abbastanza. La risposta di Bungie, per voi incontentabili, si chiama Forge. Novità per eccellenza, la Fucina è una convocazione per la vostra inventiva. Un editor di mappe dalle possibilità interattive non straordinarie, ma comunque decisamente importanti in considerazione della sua assoluta inedicità nel campo console, e ancor più della sua fruibilità multiplayer: potrete essere 8 aspiranti ingegneri e provetti prestigiatori, che gestendo un apposito budget virtuale cooperano alla rinnovazione di una delle arene prefabbricate (modificando la disposizione di più elementi, introducendone di nuovi ed eliminandone altri), per poi utilizzarla in partite multiplayer dall’alto grado di customizzazione; ma è bello anche battagliare nel cantiere, dislocando trappole o dispensando bazooka e carriarmati, secondo quanto vi suggeriranno la fantasia e l’istinto casinista. Tutte, ma proprio tutte, le esperienze che vivrete in Halo 3, non dovranno necessariamente venire abbandonate nel limbo fitto dei ricordi. Mentre voi starete affrontando un qualsivoglia genere di partita, un angelo custode rannicchiato fra i transistor di Xbox 360 ne registrerà anche i più piccoli particolari. E cliccando sulla voce Cinema, potrete accedere al relativo filmato, così da rivederlo, editarlo, catturarne fotogrammi, salvarne una copia, condividerlo con qualcuno. Perché quella dannata volta che vi sarà finalmente riuscito di centrare due Moongoose carichi di strafottenti yankee con un sol colpo di Spartan Laser, diverrà bisogno primario mostrarne al mondo i culoni detonanti… Halo 3 è grosso, è cool, è potente. Assedia il giocatore nella sua area di rigore, lo attacca senza respiro, ora per vie centrali, ora dalle fasce, finché non ne trova inevitabilmente il punto debole. E allora sfonda ogni difesa, travolgendolo senza sosta con un concerto di modalità e situazioni ludiche, che per varietà e qualità complessiva si ritaglia di prepotenza un posto al sole sull’Olimpo delle produzioni next-gen. 9
Col pulsante blu non ricarico più Nei mesi precedenti l’uscita della Beta Multiplayer pubblica, si è rumoreggiato parecchio sulla nuova, fantomatica funzione assegnata al tasto X. Chi supponeva uno sprint, chi ipotizzava un jet-pack, chi sperava in una svestizione istantanea con conseguente fuga di tutti i cattivi alla vista del Capo senza mutande. Invero si tratta dell’equipment, un aggeggio di vario genere (sollevatore gravitazionale, rigeneratore, scudo a bolla…) ritrovabile perlopiù nei pressi dei cadaveri nemici. Di rado risulta significativamente utile, ma la sola idea di potersene servire è abbastanza suggestiva da incoraggiare a portarsene sempre uno appresso.
Flood e Covenant. Flood contro Covenant. Parassiti immondi da una parte, civiltà più evolute della nostra dall’altra. E’ stupendo appartarsi in qualche anfratto, ammirando le rispettive IA confrontarsi in combattimento.
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UNDERRATED review
SI PRONUNCIA CRI, IMBECILLE!
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the mark of kri
anno-2002 softco-san diego studios publisher-scea piattaforma-ps2 genere-stealth/browler
a cura di Giovanni “Giocattolamer” Donda differenza di quelle del Signore, le vie di un barbaro non sono infinite. Tutt'altro. Egli una sola ne conosce, quella delle cattive. E Rau, barbaro tutto di un pezzo ancor prima che protagonista indiscusso di The Mark of Kri, non fa eccezione. Ci aggiunge anzi del suo: con le cattive e silenziosamente. Esatto, MoK è uno stealth game, e come un ammasso di muscoli simile possa passare inosservato è solo il primo dei due paradossi in cui ci imbatteremo. Questo ha il particolare scopo di attirare l'attenzione verso il nostro voluminoso simulacro, e il suo uccello. Il nero rapace Kozu, annunciatore ben presto di sfortuna altrui, veste i panni del narratore e ci invita innanzitutto a metterci comodi. La solita storia di simboli inventati e lande in difficoltà verrà da lui narrata con delle godibili, seppur poche, illustrazioni da tipico animatore allontanato dagli studi della Disney. Ma il perché di The Mark of Kri risiede ben lontano dal suo stile grafico, qui mero specchio per le allodole nella sua seppur encomiabile ricerca di una specifica caratterizzazione del prodotto. Invece, il pargolo dei San Diego Studios la sua originalità finisce per trovarla in ben altri risvolti, e al giocatore non rimarrà che rendersene conto quando, fatto muovere i primi passi felpati a Rau, indulgerà con le cattive e silenziosamente. Per poi, invece, morire una morte disastrosa. Per quanto l'esigente Baumuso vi possa aver istruito alle vie della spada, al sicuro di un hub camuffato da tranquillo villaggio cimmerio, là fuori è tutto un altro paio di maniche. The Mark of Kri è difficile, forse difficile e giusto; ma anche fosse, un tutorial che si dimentica di accennare all'esistenza di altre combo oltre a quella base è il primo segno di quanto poco abbiano tirato a lucido un prodotto che del resto perde bug da tutto il codice. Così il primo livello scorre via senza che si riesca a capire come mai una macchina da guerra come Rau abbia bisogno di un loquace pennuto, che sembra buono solo a premere levette comodamente poste al di là di invisibili collisioni di scenario. Ma nel frattempo lo spadone fende l'aria, due colpi a destra, tre a manca, e ancora non si ferma, in un'unica fluida animazione che atterra tre avversari abilmente presi di mira, letteralmente, durante un epico studio delle pose avversarie. Presto la frustrazione di non aver capito nulla delle meccaniche stealth viene rimpiazzata dalla semplice gioia di essere al comando di un Conan di ancora meno parole. Ah, questo è bene. Spavaldo, Rau è ora pronto per mettere in pratica un'altra delle sue abilità. Riposa così lo spadone e libera le mani per rispedire al mittente il colpo, nonché tutta l'arma, del prossimo stolto sul suo cammino di guerra. Per poi, invece, morire una morte ridicola. Capire il sistema di combattimento implementato in The Mark of Kri è semplice quanto ruo-
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tare la levetta analogica destra. Sfruttarlo a dovere, però, è difficile quanto attingere ad un’abilità rimasta sopita dal vostro ultimo combattimento in Bushido Blade 2. La calma, il saper abbandonare un'incredibilmente generosa guardia al momento giusto. Perennemente circondato, tentare un prematuro contrattacco significa mostrare il fianco di Rau a una valanga di attacchi da ogni lato. Era il 2002, dopotutto, le frecce direzionali muovevano ancora i personaggi e Assassin's Creed non era neanche uno spermatozoo nel testicolo destro di Patrice Désilets. Qui nessuno chiede il permesso prima di aprirti in due sotto i vigili occhi di Kozu. E se si fosse dato retta al pennuto, nonché imbracciato l'arco al posto della spada, di fronte a noi si sarebbero finalmente aperte le limitate, ma efficaci possibilità offerte dalle meccaniche stealth di The Mark of Kri. Mandare in avanscoperta il nostro famiglio diventa una scorciatoia ludica aperta a chi vuole dare un’ulteriore possibilità alla feature più abusata della vecchia generazione di console. Per tutti gli altri c'è sempre la via del metallo, e poi, probabilmente, morire una morte combattuta fino all'ultimo. Ci vogliono sei livelli, tanti quanti ne offre, per capire cosa The Mark of Kri abbia di meglio da dare, e di peggio. L’ascia, l’ultimo strumento di distruzione a essere consegnato a Rau eppure quello in base al quale il sistema di combattimento è stato creato, viene introdotta soltanto nell’ultimo livello, dove tutto quello che ci è richiesto di fare è smembrare orde su orde di nemici. Un tedio che vi farà sembrare la modalità arena - sbloccabile durante il main quest, vedi box “Qual è il meglio della vita?” - il più ispirato fra gli espedienti videoludici di allungo minestra. Una sequela di stanze prive di alcun elemento strategico, dove Rau sarà prima o poi costretto a macchiarsi del peccato primordiale, la fuga. Neanche l'introduzione delle armi da fuoco in Manhunt aveva saputo mancare di rispetto alle proprie meccaniche di gioco in ugual misura. Ma con lo stare al gioco arriverà anche il riscatto finale, una volta al cospetto dell'ultima insidia (che una sola non è). Spalle al muro e con un'ultima mandria di nemici tra lui e gli unici avversari alla sua altezza, Rau dovrà finalmente fare a meno di fuggire e sfogare la propria delusione sfoderando per un'ultima volta l'amata ascia. Ci fossero più poligoni, un sorriso riaccenderebbe il volto di Rau, il buon Baumuso sarebbe orgoglioso di lui quando ci viene annunciato che abbiamo reciso il sessantesimo torso. Ma dinanzi all'ultimo dei baluardi del male, barcollanti ma sempre in piedi, saremo noi a sorridere, perché sappiamo cosa lo renderebbe davvero felice, quel vecchio bastardo. Spavaldi, metteremo via l'arma e lo attenderemo a braccia aperte. Per poi, ovviamente, morire una morte da vero barbaro. 6
Dimostrazione pratica del secondo paradosso offerto da The Mark of Kri. Con un poco di zucchero disneyiano la violenza va giù che è una bellezza. Ma al primo volteggio di spadone smetterete anche voi di pensare a Rau come a uno scarto della sceneggiatura di Mulan.
QUAL’E’ IL MEGLIO DELLA VITA? Schiacciare i nemici è cosa buona e giusta, ma non basterà a soddisfare Baumuso, il maestro d'armi del taciturno Rau. Bisogna farlo nel modo giusto. Ogni livello avrà delle sfide alternative, degli obiettivi prefissati dal vecchio ciccione per vedere come se la cava il proprio diletto sul campo di battaglia. Soddisfare i suoi vizi ci farà sbloccare qualche extra che nulla farà per mitigare il rimorso di aver appena fatto l'impossibile alle proprie vittime. Poter usare il livello appena completato nella modalità arena è fra questi. Peccato che detta modalità faccia a malapena rima con survival mode.
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Il r iuscito, c e distorta r a n o tito p stro, mal una visio entissim e s e o ic d mald ro se non me se ne lu lt o video ti. sce a inaria (c l mondo a g e o leg imma canza) d ni ad ess ile vision b a i la ma porti um consiglia prima d è ap ne o io lt t a s dei r al solito, l’ e in qu visto e c’è Com episodio articolo, ste righe. iore. pegg el’ l’ isodio e u e n r q o a i c TA ento n d ell’ep a superfisc I e d m r C ir i la o e S t u il e g o T lh il m D’U omen , tra tant appaprose uto di sp FIGH ilmente mpante c iù da qua VIA ue m ce n ia p la ab ben d glio di lu anti inacc conte Prob trazione ta scritta me o n I a lla m i Boss gig ieiir a a s a v p g o t e i s i s t d r p o n d è b s n n o Dim li r e a f o u f i f r il n i d e u to iat che à. D poi J vincib ide negg passiona cialit tavolo teve dec llo nte in a Steve e na via d’u e a p d m a e S e u t i nt olo im a d e che r e r u r ia f r r p a p v l ll i de id ore sem ve “ deli, a gioch chi. La s rroganza lo fa, su e cru he - “c’è chi” - do ale e terr a e io gio sto oc ssian i e n o b t u a p s deog battere l’ Agathor, q g e iù qu ffa do p crivere la co m (ma o di co ndo il su ce rosso con la go o scita in ” è il mo des d ec e s , ontr scita sibile per emico. E na di un c ’u uccid lio del pe problema a d r r u n s e o il m v p ig a a n e ola cons rebbe u Hiro Nak ida c terra i uccider a un bomb d sa n , infil rana um are una appou o à u c i it d il io non in b g bella licità oe al comp messa lì i, i che semp . Si iscriv e ad una ratello pr quind fantasy, Brivid a o r) il f embr uel Boss. ola: din d ena s la n n e io c y t a o r e s t t S a h a in abba el m plosiva c iggere q tanta des ona contr di mu più mess id ONE paio digitale e nome al nni di lev nf es che r ADR nomalia è e (il figlio a di a r sco cita in o a ia o z u s r z s t e t a in SI P p v il c a ta pe tuta rius l’amuleto o come a g s s u u te o i a c r d S Q a n i a . im i t ll r d ll o ia a a o e rit è, La p mparsa nunc ga”. Mort ione di d a) ne agnato d d ssi in una b Poi vabb r va inse uta di stil o migli il a o lle cla alla c della fa è accomp ntinua a ione. d Agath ribile cad ma il “rhot ualche m aggio de uello che z o lo a c , q s q e a ter picco l ragazzo i amici e i, come up e il pas si e tutto era un la vit pposta, ssimazion finito. t rd .I eciare i casa e più fida dini assu di quarna su ta appro episodio bilan W qualsia tare fort tica. Pat u r e r t i n , is O cotan suoi ire loro o qualsias a, consid ssato ero un W a per dive na enigm no. Mi o rebb rt - in ggio è pa a an impa n bullett a più str imostrat - serviv a settima e mi indig che caz e pot ausa di e h p c i a u r c d r o sd do :“ politic izione di n hai fosse cosa anc “sfigato” serie. L’a rebu guar ensa n sono he no a : riaep Io lo di Se ci n più cog ignifica c eons and tiere uard lio?” tura corso dell . Tutto il tico. g a n lo la e l to fig i, s ung r co o rata madr ioca mio zo ne svela agnato è parla ideogioch lavoro. D ersi gioc agaz ò presto guad del suo di v tuo ate g rend e, non dal r r è z e p il e t i p a s e è e a o ben sce fors cano che Stev esagerat nel gioco fatto s non rie ludico e, sfruttand o re bilità Agathor, uglio di gon o video si. e a spett s ’a id e ll r W t a s r isc le, to ond a fa egli dovu go virtua uesto m umano del m neppure telli ha d Q e idre Ru sce e alter n Scuffle. ed esse Nicole K h ie . r c o a o ar ione brutt Drag tra avat ile per un un video l’opin , brutto, e r utto poter ure credib a non pe e le r B p m er e. sarà ualsiasi, tingu u Youtub q a dis s man ore che s a quelle d t gioca e di GTA n putta
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! a d r e m i d i h c o i g B
illy Hatcher and the Giant Egg è la prova che c’è stato un tempo, dopo i primi disastrosi risultati della SEGA senza più i numeri per produrre hardware, in cui Sonic Team ha provato a fare qualcosa che non fosse direttamente riconducibile all’abusato universo del riccio blue. Per carità, lo stile di character ed enemy design e alcuni tratti di game design – quali i livelli “a tubo” e i tratti a percorrenza veloce – distinguono anche questo gioco, come tutti quelli dei Sonic 3D e anche il vecchio e caro Nights. Meccaniche di gioco semplicistiche e una certa schizofrenia del sistema di controllo costituiscono anche qui un marchio di fabbrica, così come i colori pastello e l’orgia di creature pelose e più o meno improbabili che fanno da contorno al protagonista vestito da pollo. Eppure Billy Hatcher non vuole abbandonarsi all’inconcludenza tipica del game play di gran parte della produzione 3D di Sonic Team. Vuole invece, con azzardo ma senza arroganza, tentare l’amplesso con una filosofia molto diversa, quella di Nintendo e del suo Mario. E non v’è dubbio che vi riesca, sotto vari fattori. 1) Per quel che riguarda la struttura di gioco: una manciata di livelli, divisi in missioni, aventi come fine la raccolta di particolari emblemi (funzionalmente analoghi alle stelle di un Mario 3D), che aumentando di numero aprono la via a i livelli successivi. 2) Per la varietà di gioco, qui
s di Federico Re
rappresentata da missioni spesso – non sempre – diverse tra loro, che tentano nel loro piccolo di sfruttare il semplice design dei livelli per offrire un divertimento costante. 3) Per la varietà del game design, fondato sulla manipolazione di uova giganti grazie alle quali Billy è in grado di prodursi in una varietà di azioni speciali – come salti e spanciate, attacchi “a boomerang” e quant’altro – e usufruire dei poteri di alcuni preziosi animaletti, che vomitano fuoco ghiaccio e scintille divenendo essenziali per la risoluzione di alcuni passaggi. Billy Hatcher è una specie di Mario in miniatura, dove le piccole dimensioni però non riguardano solo i livelli o la manciata di ore necessaria a completarli tutti, ma anche la caratura dell’esperienza tout court. Del resto, Sonic Team non ha mai dimostrato particolari doti nel creare i suoi giochi, e quel che funzionava nei vari titoli dedicati a Sonic si è dimostrato praticamente fine a se stesso. E comunque, non era nemmeno nelle loro intenzioni rivaleggiare con Mario (a meno che non fossero usciti di testa), e nel loro piccolo, per citare Videogiochi, hanno sfornato una bella pizza con qualche simpatica verdurina qua e là. Una pizza che avrete trovato sugli scaffali dei vari Game Stop a pochi euro, ma che per l’alone da GdM avete sempre evitato: dateci un morso la prossima volta. Una manciata di euro li vale eccome.
BILLY HATCHER AND THE GIANT EGG 2003 SEGA SEGA
next month! SHADOW THE HEDGEHOG 2005 SEGA SEGA
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hadow the Hedgehog è la prova che c’è stato un tempo, che in parte perdura tutt’ora, in cui a SEGA fregava meno di niente di rendere godibili i propri giochi e si dava invece da fare per cogliere i peggiori trend del momento e ad essi affidarsi come sul filo di un rasoio. Non altrimenti si spiega l’orrore videoludico che Sonic Team partorì con questo Shadow the Hedgehog, che dietro un protagonista e un brand (semi)nuovi avrebbe dovuto rilanciare l’universo del porcospino blu, non più in auge da tempo (ma, fino a Sonic Heroes, ancora divertente). Non si spiega altrimenti perché, all’impianto di gioco buggato e criticato di Sonic Heroes, non solo non furono apportate migliorie di alcun genere, ma al contrario si ebbe lo sfrontatezza di presentare un prodotto ancora peggio carrozzato, con un sistema di controllo più viscido e insidioso che mai e un circuito di telecamere sempre più sbilenco. Per non parlare poi dei drammatici cali di frame rate che affliggevano soprattutto la versione PS2, una delle tante novità negative del prodotto, o dell’abbozzata story line che tentava nel modo peggiore di aggiungere valore ad un’esperienza irritante. Ma la cosa peggiore, quello che dimostrò il marciume della SEGA dell’epoca in modo lampante, fu la scelta di dotare il protagonista di tutta una serie di armi da fuoco, che avrebbero dovuto variegare in qualche modo un gameplay di suo vecchio e fallato. In ciò c’era la strizzata d’occhio al successo delle meccaniche action dei fortunati
Ratchet&Clank, da una parte, e quella più malefica alla fama planetaria delle volgarità di Grand Theft Auto, dall’altra. Fu ovviamente sulla facciata di quest’ultimo prodotto, che si concentrarono gli sforzi della SEGA assatanata dell’epoca. La campagna pubblicitaria insisté nel mostrare l’istrice rossonero in sella ad una motocicletta dal design realistico, con in mano fucili e pistole dall’apparenza estremamente realistica. Shadow era il lato oscuro, del resto: un design più cupo e deprimente (in tutti i sensi) caratterizzò ogni aspetto del gioco, dall’estetica alla struttura dei livelli. Le meccaniche subirono la sudditanza del nutrito armamentario a disposizione del riccio, fondandosi spesso su scontri a fuoco di una banalità e piattezza disgustose. I problemi tecnici fecero il resto. Non solo un gioco mediocre, ma proprio un gioco di merda. Sebbene pure il successivo tentativo di dar nuova vita all’universo di Sonic (Sonic the Hedgehog per PS3 e 360) sia da dimenticare, è probabilmente Shadow il fondo del barile in cui Sonic Team ha grattato per un bel pezzo. Totale mancanza di idee, attenzione nulla per la qualità del prodotto, priorità ad una campagna promozionale stomachevole. Vi sarà capitato, sugli scaffali di un qualche Game Stop, di trovare qualche copia di Shadow the Hedgehog a pochi euro. Non ci pensate neanche. Compratevi un trancio di pizza alle verdure e fate finta che Shadow the Hedgehog non sia mai esistito.
NOSTRADAMUS! - previsioni videoludiche di Michele “Macca” Iurlaro
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iamine se non era atteso. Con i pochi video e le sporadiche immagini parsimoniosamente diffuse da Capcom nei mesi scorsi, Resident Evil 5 sbarca finalmente su Playstation 3 portandosi dietro un nutrito bagaglio di polemiche. Durante lo sviluppo del gioco, infatti, la storica saga della casa di Osaka ha dovuto subire attacchi e accuse da chi, sicuramente in buona fede, vedeva nel futuro best seller contenuti fortemente razzisti, tanto da indurre i programmatori ad operare precise ma pesanti modifiche alla trama. Come vedremo, però, alcune scelte hanno avuto ripercussioni notevoli anche sul gameplay. Quello che maggiormente stupisce di Resident Evil 5 è, manco a dirlo, il comparto grafico. Pur non raggiungendo le vette toccate da Gears of War 3, vero paradigma del genere su console, la casa giapponese ha messo a punto un engine sicuramente di forte impatto, con un numero di poligoni impressionante, animazioni sempre convincenti e texture definite. Se ciò non bastasse, c’è da rilevare come la prestanza tecnica del motore di gioco abbia saputo prestarsi ad un lavoro artistico e coreografico di primo livello, con le tante e varie location realizzate in maniera coerente e appagante. La giocabilità del titolo si mantiene su livelli alti, ripercorrendo le orme di Resindt Evil 4, con telecamera posizionata alle spalle del protagonista e un sistema di puntamento tanto infantile quanto stupido. Assolutamente soddisfacente, quindi, l’arsenale a disposizione: si passa dai classici fucili a pompa ai revolver, passando per arcaici strumenti di difesa quali vibratori anali, supposte Tachipirina, Libero di Vittorio Feltri ed elettrodomestici di vario genere. Le perplessità sull’effettivo valore dell’offerta Capcom, purtroppo, derivano dalla complessa struttura di gioco, evidentemente figlia delle proteste giunte dalle associazioni di qualsiasi tipo arrivate da ogni parte del mondo. Infatti, se al momento dell’annuncio l’ambientazione africana, con zombie di colore e alberi di banane assassine, pareva essere l’unico panorama possibile, nel corso dei mesi si è voluto ampliare il bagaglio di creature e zone per ricacciare con forza al mittente qualsiasi
genere-action softco-capcom publisher- capcom piattaforma-360/ps3 versione-jap multiplayer-seee
tipo di sospetto sul presunto razzismo degli sviluppatori nipponici. Ecco quindi, un po’ a sorpresa, spuntare nuovi tipi di nemici, tutti da affrontare nel proprio habitat naturale. Il protagonista Chris, quindi, sarà costretto ad un vero e proprio giro del mondo per dare la caccia ai terribili Cinesi Assassini (ghiotti di carne di pollo vivo precedentemente fritto), i temibili Arabi Licantropi (armati di tappeti rigorosamente provvisti di garanzia), i Vampiri Francesi (sempre in possesso di lunghe baguette con formaggio) e i Napoletani Odorosi (pronti a scaraventarvi addosso rifiuti di ogni genere). Per quanto la varietà visiva portata in dote dalle nuove creature sia innegabile, c’è da dire che il doppiaggio delle voci, appesantito dalla pronuncia fortemente africana, rende tutto poco credibile. La trama, invece, è in linea con i precedenti episodi e svela numerosi punti oscuri sulle vicende dei personaggi cardine lasciati irrisolti nei precedenti capitoli. Chris Redfield, in viaggio di piacere a Zanzibar in compagnia della bella Alessia Mertz, viene contattato al suo arrivo in aeroporto da un misterioso uomo, col tesserino Alitalia in bella mostra sul petto, che rivelerà all’ex agente Alpha il coinvolgimento della compagnia aerea italiana nei loschi traffici dell’Umbrella sul territorio Africano. In più, il suo bagaglio è stato smarrito durante lo scalo a Linate. Incazzato con una belva, Redfield si getterà alla caccia dei vertici di entrambe le compagnie, facendosi largo tra i mostruosi abitanti di un piccolo villaggio della zona, Barletta, alla ricerca della verità e del suo trolley. La durata della campagna è sicuramente buona. La trama principale richiede almeno 10 ore di gioco che vanno a raddoppiare nel caso si decida di collezionare tutte le stelle. Delude l’assenza di una qualsivoglia modalità multiplayer, allo scopo di evitare guerriglie razziali tra giocatori di nazioni diverse che avrebbero dato adito a nuovi girotondi in piazza. Violento nelle immagini ma arguto nella sua sottile e personale critica sociale, a conti fatti Resident Evil 5 si rivela un gioco divertente e dinamico, in possesso di tutte le qualità proprie dei prequel e, più in generale, uno dei migliori titoli di questo 2012. 9
La vera storia degli zombie
Legato alla religione Voodoo ma reso famoso da George Romero con i suoi film, lo zombie è, per definizione, “un uomo morto, risvegliatosi all’improvviso, e quindi nervoso e incazzato”. È noto, poi, che gli zombie vadano ghiotti per il cervello umano, cosa che li rende completamente diversi dai vampiri (amanti delle belle donne). Lo zombie è stupido. Incontrandolo per strada, difficilmente saluterà e, ancor meno probabile, sarà in grado di rispettare una fila alla posta. Gelosi e possessivi per natura ma barcollanti per vocazione, gli zombie sono alle volte in grado di farsi strada nella società. Tra gli zombie più famosi vogliamo ricordare Gianni Agnelli, Bush senior, Susanna Agnelli, Marlon Brando e Lapo Elkan.
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