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Buddista, 2D e intrippante: Mario Galaxy ri-conquista il videogioco a pag.010

http://bab3l.splinder.com

BABEL

contents

3 febbraio 2008

n. COPERTINA bioshock - the adam family GRAFICA E IMPAGINAZIONE federico res EDITING DEI TESTI federico res & giovanni donda SITO WEB http://bab3l.splinder.it FILE OSPITATI DA www.paolofranchini.com

RATCHET&CLANK SU PS3 012 fuoco a volontà nella bistecchiera

REDAZIONE tommaso “gatsu” de benetti federico res vincenzo “vitoiuvara” aversa giovanni “giocattolamer” donda cristiano “amano76” ghigi alvise “kintor” salice michele “macca” iurlaro francesco “xibal” sili michele “guren no kishi” zanetti marco “il pupazzo gnawd” barbero

DEVIL MAY CRY 4

possa piangere il Ninja 008

002

Review Devil May Cry 4 008 Super Mario Galaxy 010 Bioshock 015 R&C Armi di Distruzione 012 Luminous Arc 014 Warriors of the Lost Empire 016 Crysis 013 Dal Vangelo Secondo Tommaso

Un uomo sceglie, un videogiocatore ubbidisce 004

Odio di Gomito

Babel va assunto per via oculare in dosi più o meno massicce, in rapporto al peso specifico della vostra passione. La stampa è caldamente consigliata, tetenendo presenti questi semplici accorgiaccorgimenti: stampare prima le pagine dispari, voltare i fogli e reinserirli nella stamstampante, stampare le pagine pari. Una rilerilegatura in pelle di camoscio tibetano è l’ideale, ma vanno bene anche un paio di punti metallici.

BABEL

underRated The Darkness 017

OST - Music in the gaming Silent Hill Origins 007

HA COLLABORATO cristiano “cryu” bonora

COPYRIGHT 2007/2008 Babel Edizioni

Ignition La dignità dell’uomo 003

Dell’erba del vicino e dell’eterna lotta tra localizzatori e traduttori 005

Esco di Rado (ma gioco pure troppo) Te lo do io il gamerscore! 006 La TV che Videogioca Game - Law and Order 018

THE DARKNESS

Bravi ragazzi ma niente glam 017


the adam family cover story

Ognuno ha la famiglia che si merita. Prendete gli Adam. Erano una scapestrata famiglia di persone con la marcia in più, un tempo a chilometri e mari di distanza, poi riuniti da uno scopo chiamato Rapture, a ventimila leghe sotto i mari. Facciamo la loro conoscenza quando ormai è troppo tardi, il nucleo familiare si è spezzato, lui l'ha tradita, il figliol prodigo è partito, e quella che diceva di poter smettere quando voleva non ha smesso. La famiglia Adam è ora una polaroid ingiallita, un ritratto deforme della maestosità del tempo che fu. Eppure abbiamo già finito due rullini. Questo mese Babel rende omaggio a Bioshock, a pagina 004 e 015. Perché ognuno ha la famiglia che si merita, e a Rapture ne abbiamo incontrata una straordinaria.

I G N I T I O N

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La dignità dell’uomo

Ciò a cui l’uomo presta attenzione, il tipo di attenzione che egli dedica all’oggetto dell’attenzione, l’originarietà e la costanza del suo essere attento sono ciò che decide della dignità che viene assegnata all’uomo in base alla storia. Martin Heidegger

Se frequentate i siti di videogiochi, o avete fatto di recente un salto sul sito di Babel (bab3l.splinder.com) o su quello di TheFirstPlace, avrete notato un simpatico bannerino connesso ad una raccolta firme dal titolo No al proibizionismo nei videogiochi. La petizione, voluta dai ragazzi di Multiplayer.it, nasce come protesta al disegno di legge 3014 per la tutela dei minori, teso alla creazione di un organo di controllo e censura dei prodotti videoludici circolanti in Italia. Tradotto in soldoni: il nostro “governo” “crede” che il mercato italiano dei videogiochi si basi sulle paghette dei quindicenni, e visti i contenuti non proprio teen oriented di tante produzioni, ritiene opportuno rimboccarsi le maniche per salvare i nostri ragazzi dai malefici influssi di GTA e compagnia cantante. Tiriamo fuori la versione “ufficiale” di questa interessante vicenda: i politici sono profondamente ignoranti riguardo target e utenze dei videogiochi in Italia (e ci mancherebbe); sono terribilmente disinteressati a farsi un’idea almeno in parte coincidente con la realtà fattuale (e anche qui); infine, tentano però sinceramente di guadagnarsi lo stipendio, preoccupandosi per le nuove leve che presto diverranno nuovi contribuenti. Tutto come al solito, in fondo. Proviamo con la versione ufficiosa: i politici che avanzano un disegno di legge simile sono più che mai interessati a conquistare il favore di potenziali elettori che, come loro, credono nell’essenza maligna del videogioco (ma anche della TV, del Rock’n Roll e simili), non sono in grado di badare ai propri figli e hanno bisogno di capri espiatori consolidati cui attribuire i fallimenti conseguenti alle loro mancanze. I politici di cui sopra tutto questo lo sanno bene, il PEGI sanno probabilmente cos’è – perlomeno sanno che c’è qualcosa chiamato così – e si rallegrano di far finta che non esista, se questo permette di spalmare saliva su posteriori rincoglioniti che, zitti zitti, non sono poi così pochi. Ma non è nostra intenzione cedere a sterili polemiche di questo tipo: la tangente per cui siamo partiti vuole avere perlomeno un senso, un’utilità, a differenza di qualsiasi fantomatico disegno di legge per la tutela dei minori. Vor-

remmo proporre invece, di passata e in poche parole, un “disegno di legge” per la tutela degli adulti. Lo proponiamo a voi, che siete videogiocatori e dunque quindicenni con pochi soldi in tasca. L’originarietà e la costanza dell’essere attento sono ciò che decide della nostra dignità, ci dice il filosofo di Essere e Tempo. La mancanza di attenzione, specie se nei confronti della vita e delle abitudini dei nostri figli, è ciò che ci diminuisce al rango di bestie, né peggiori né migliori di cani e gatti randagi. È ciò che costringe un individuo a formarsi praticamente da sé, accogliendo o respingendo ciò che gli usi e i costumi del gruppo sociale in cui vive gli propongono, sulla base di criteri immaturi e improvvisati. Lasciare un figlio in balia della – tristemente diffusa – degenerazione dei costumi della società italiana, vederlo crescere diversamente da come avremmo voluto e dare la colpa a qualcos’altro è nient’altro che una delle tante espressioni di quella attitudine alla comodità che distingue l’uomo, sempre preda di congenita indolenza. Noi non vogliamo biasimare l’uomo e la sua pigrizia, solo invitare voi quindicenni a dargli uno spintone. Tuteliamo gli adulti: tuteliamo fratelli, sorelle, amici, parenti e chi altro abbia figli, si trovi a dover educare bambini e ragazzi, senza essere del tutto in grado di farlo. Non parliamo in generale, per carità: parliamo di videogiochi. Parliamo di videogiochi che possono far male, se male interpretati. Parliamo di videogiochi che, al pari di film, libri e ogni altra opera d’ingegno, hanno il loro naturale target di riferimento. Parliamo dei videogiochi che di per sé non possono nulla, in quanto pezzi di plastica dentro custodie di plastica. Parliamo di videogiochi classificati da vistosissime etichette marchiate PEGI, che solo a buttarci l’occhio - solo a buttarci l’occhio! sanno dirti con un numero e qualche simbolo se quel gioco va bene per tuo figlio. Parliamo di videogiochi che, come le fiabe, vanno vissuti insieme. Parliamo di un’attenzione faticosa ma che decide della nostra dignità, del futuro dei nostri figli, della nostra intera società. Parliamo di tutte queste cose, che pure noi quindicenni siamo in grado di far notare e comprendere agli adulti. Ecco il nostro “disegno di legge”, che crediamo riguardi la legge dell’Uomo più di quella dello Stato Italiano: non biasimate l’indolenza ma impegnatevi a scongiurarla, ne va della nostra dignità e della nostra storia. Federico Res

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Tommaso De Benetti

Uno che i VG preferisce discuterli Tommaso De Benetti è stato membro fondatore e colonna portante di Ring, la rivista più amata dai videogiocatori meno rincoglioniti. Qualche tempo fa, esasperato dall’ignavia invincibile degli ormai depressi ringhici, ha lanciato da solo il progetto RingCast (reperibile su iTunes), primo podcast

B

ioshock è certamente un bel gioco. Ah, fermi tutti: questo articolo contiene, fra le altre cose, pesanti spoiler sull’ultimo lavoro 2K, finale compreso. Se aspettate tempi migliori per giocarlo e non volete rovinarvi alcune sorprese, passate pure alla rubrica di uno dei miei colleghi, con la promessa di ritornare da queste parti al momento opportuno. Ricomincio. Bioshock è certamente un bel gioco, ma ha le sue rogne e no, non sto parlando delle Camere della Vita. Vorrei dilungarmi sull’argomento ma in questo numero di Babel troverete un parere ludico piuttosto approfondito su Rapture e dintorni, quindi passiamo oltre. Quello che mi preme discutere in questo episodio del Vangelo è se e come Bioshock sposti in avanti di qualche millimetro il medium videogioco. L’aspetto che ritengo fondamentale nel caso in oggetto è il particolare approccio narrativo che il titolo offre, e che si presta senza dubbio a qualche considerazione sparsa. Liquidiamo in poche

http://tale-of-tales.com/ThePath/ Dicono in Tale of Tales: “Anche quello che Nintendo ha fatto di recente è principalmente agire in maniera reazionaria, quasi nostalgica. Dicono “Rimetteremo il divertimento al suo posto. Nei giochi”, e credo, per certi versi, che quello che stiamo facendo noi è l’esatto contrario: togliere il divertimento dai giochi. O almeno, introdurne un tipo completamente nuovo”.

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italiano a tema videoludico, a cui comunque la vecchia guardia partecipa a corrente alternata. Gatsu, secondo il nick con cui è solito firmarsi su Internet, attualmente vive e tromba ad Helsinki, tra frotte di bionde ninfomani e sferzate di gelo più o meno devastanti.

Dal Vangelo secondo Tommaso Un uomo sceglie, un videogiocatore ubbidisce

battute l’acqua calda: l’art design di Bioshock è sopraffino, su questo ci sono pochi dubbi. Molto raramente capita di vedere tanta cura nel ricreare in maniera così minuziosa un ambiente con coerenza stilistica, dotandolo peraltro anche di una certa credibilità architettonica. Sarà piegata al gioco finchè si vuole, ma Rapture sembra davvero una città e il giocatore può senza fatica immaginarla brulicante di vita: una splendente utopia fra i flutti. Se come pare il sequel sarà in realtà un prequel dedicato al periodo pre-caduta, sono quasi certo che le virtù progettuali di Rapture si mostreranno nuovamente in tutta la loro bontà. L’altro aspetto che a me appare ovvio e che ho invece visto ingiustamente mortificato (la classifica di fine anno di EDGE non lo nomina nemmeno fra i candidati) è lo strabiliante sound design, inteso come l’insieme costituito dagli avvolgenti effetti sonori e dalla appassionante soundtrack, che coerentemente rimbomba più forte nei pressi di quel Port Frolic trasformato ad immagine e somiglianza di Sander Cohen. Tutto questo è però solo il contorno di cui certo non mi sognerei di negare l’importanza - di quel che ci interessa di più: il racconto. Badate, non sto parlando della trama, che è sfortunatamente abbastanza banale e soprattutto manca di coerenza, pur vantando “ispirazioni filosofiche”, vale a dire l’Oggettivismo di Alisa “Ayn Rand” Zinov’yevna Resenbaum. Prendiamo i due finali possibili: prosciugare le Little Sisters non preclude la loro collaborazione contro Fontaine e porta il protagonista a diventare, d’improvviso, il nuovo padrone di Rapture. Così, nei suoi nuovi panni di Big Daddy, cosa decide di fare il nostro eroe? Attaccare il mondo esterno. Sembra il programma di Berlusconi al day after della caduta del governo Prodi. Il finale “buono” invece, per certi versi anche commovente, sembra dimenticare come le Sorelline siano a tutti gli effetti dei mostri, e che no, non possono studiare o sposarsi dopo essersene andate in giro per anni a piantare siringhe in faccia ai ricombinanti. Senza parlare dell’inutilmente complessa cospirazione di Fontaine ai danni di Ryan: che senso ha mandare un superbamboccio riprogrammato in superficie per farlo tornare anni dopo a svolgere il lavoro sporco quando Rapture non è certo avara di tane in cui nascondersi? Ci sarebbe altro da dire sul fatto che Andrew Ryan non si attenga, nella pratica, ai dettami dell’Oggettivismo,

ma non vorrei trascinarvi nella mia Fossa delle Marianne mentale, quindi per il momento soprassediamo sul’analisi dettagliata del plot in attesa di spazi più ampi. Il racconto di cui parlo è qualcosa di più profondo, è il cuore pulsante del videogioco attraverso il quale il medium trova la sua identità: l’interazione, intesa non solamente come puro gameplay, ma anche - o soprattutto - come il modo in cui i vari elementi interagiscono fra di loro e con il giocatore nel tentativo di creare una storia non replicabile dagli altri media. Ha ragione N’Gai Croal quando dice: “Non incolpiamo i dipinti di non raccontare storie altrettanto bene degli albi a fumetti, la danza per non raccontare storie bene come il teatro, la fotografia per non raccontare storie bene come la televisione. Giudichiamo ogni medium per i suoi meriti”, ma sembra dimenticare che il videogioco alcune di queste arti le può incorporare con successo e declinare a modo suo. Il problema è: come? Randy Smith (System Shock 2, trilogia di Thief) evidenzia uno dei problemi principali: “Una delle ragioni [per cui ricorriamo alle cutscene] è che non sappiamo come fare nel caso ci sia un dialogo, quindi lo rappresentiamo in maniera non interattiva”. Bioshock trova una soluzione eccellente per questo aspetto critico dell’interazione. Forse poco verosimile (c’era la mania di lasciare diari audio a Rapture o cosa?), forse non replicabile (non possiamo pensare che d’ora in poi in tutti i giochi ci sia della gente che ci racconti per filo e per segno i retroscena tramite un interfono), ma che in questo specifico contesto funziona bene e soprattutto garantisce lo svolgimento della narrazione senza interrompere l’azione di gioco, ma anzi accompagnandola. Eppure in un altro - importantissimo - ambito Bioshock si piega rovinosamente come nemmeno la Grande Catena di Ryan: mi riferisco alla sbandierata questione delle scelte morali. Lo dico chiaramente: scegliere se prosciugare o meno la Sorelline non è una scelta morale, è appena un tentativo codardo di giocare con le percezioni. Il fallimento non sta tanto nella rappresentazione della bambine, ben riuscita ed effettivamente in grado di dare inizialmente qualche turbamento, quanto nel fatto che fino al raggiungimento dell’asilo della Tenebaum, quando ormai l’avventura si appresta a finire, non c’è un singolo motivo per risparmiare i piccoli mostriciattoli che non sia il già citato a-

spetto fisico (o la volontà di ottenere il finale “buono”). Le Sorelline sono dei non-umani, mostri ributtanti alla stregua della Linda Blair dell’Esorcista, e come tali devono morire. Solo al succitato asilo uno inizia a sentirsi vagamente colpevole, vedendo le bambine impegnate a giocare o a riposare sui letti a castello, ma è davvero troppo tardi. Non c’è empatia, e non può esserci, se le Sorelline per tutto il tempo ci gridano adosso “Uccidilo, Mister Bolla!”. Un’altro punto dove la pochezza a cui si riducono le “scelte morali” viene violentemente evidenziata è il confronto con Ryan. Mentre il nostro dittatore subacqueo grida: “Un uomo sceglie, uno schiavo ubbidisce” non possiamo far altro che assistere passivi ad una cutscene dove Fontaine ci chiede “per cortesia” di spaccargli una mazza sulla testa. É il punto di svolta del gioco, “la scelta suprema” per far trionfare il libero arbitrio, e a livello di gameplay se la sarebbero potuta giocare molto bene. Hanno scelto di risolverla senza complicazioni, ed il risultato è una grandissima occasione sprecata. Concludo facendo due passi di lato. Tale of Tales sta lavorando su questo gioco, The Path, una versione gothburtoniana della favola di Cappuccetto Rosso. Ci sono cinque artisti coinvolti nel progetto, quattro di questi sono donne. Suona come una minaccia, ma potrebbe essere invece un punto di partenza. La descrizione del gioco dice:”The Path è un breve gioco horror caratterizzato da un gameplay unico, progettato per immergerti profondamente nei temi cupi della storia. Ogni interazione nel gioco esprime un aspetto della sua narrativa. C’è una sola regola nel gioco. E la devi rompere. C‘è solo una meta. E se la raggiungi, muori”. Uno degli sviluppatori ha dichiarato recentemente a Gamasutra: “...per me, la parte più interessante è quello che la vita di ogni personaggio rappresenta e per estensione quello che la loro morte ultima significherà per il giocatore [...] Non dovremmo accucciarci tutte le volte come dei cani bastonati ispirandoci all’old-school. Dovremmo uscire allo scoperto, per mostrare a tutti i Bioshock e agli Assassin’s Creed lì fuori come certe cose dovrebbero essere fatte”. Io credo che abbia ragione: nel mondo dei videogiochi c’è un terribile bisogno di rompere gli schemi e di approcciare lo sviluppo con il coraggio di fare qualcosa che fa male.


Giovanni Donda

Un uomo per due stagioni Giovanni Donda, in arte Giocattolamer, è italiano di nascita e inglese d’adozione. “Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È entrato a far parte dell'industria dei videogiochi dalla porta di servizio, e lì è rimasto. Oggi è a capo di una piccola azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o prodotti qui non verranno mai menzionati.

Questo ci ha costretti a scriverlo lui. Va da sé che le sue opinioni siano appunto tali. Pure questo. La moglie, invece, gradirebbe che simili premure le riservasse a lei, e alla figlia, non a quella ditta del... Ma lo ama tanto. Fortuna che non capisce l'italiano e crede ancora che “Odio di Gomito” sia solo il romanzo che gli pagherà il mutuo.

Odio di Gomito

Dell’erba del vicino e dell’eterna lotta tra localizzatori e traduttori

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n italiano, uno spagnolo, un francese e un tedesco entrano nel mio ufficio. Ma non è l’inizio di una barzelletta. I quattro localizzatori non hanno nessuna voglia di buttarla sul ridere. Sono venuti a importunare proprio me perché il loro manager oggi ha visto bene di starsene a casa, e – che ci volete fare – sono pur sempre quello più europeo da queste parti. Una volta fatti accomodare in piedi, mi espongono un problema molto familiare. Tanto familiare, infatti, che se fossimo in un film della Pixar mi catapulterebbe con i ricordi alla mia infanzia di localizzatore. Meglio farli sedere, allora. C’è un motivo per cui, al momento di essere promosso a manager, rifiutai gentilmente di seguire il reparto del testing della localizzazione: la coordinazione della forza lavoro. Più precisamente, la sua assenza. Che il controllo qualità vada perfettamente a braccetto con la localizzazione è uno dei luoghi comuni a cui si crede solo da fuori. Perché il testing di un videogioco può essere tranquillamente svolto internamente alla software house, esternamente presso terze parti come la mia ditta, o da entrambi. Con la lingua le cose erano ben più complicate. Salvo le solite eccezioni, la traduzione veniva svolta esternamente e la localizzazione internamente, o anch’essa esternamente, ma – e qui sta la goccia del famigerato vaso - da un’altra ditta ancora. E se avete sempre pensato che tradurre e localizzare fossero la stessa cosa, c’è da essere pazienti e fare subito un passo indietro. Il traduttore è colui che, senza vedere il gioco, traduce una quantità impossibile di parole al giorno. Il localizzatore è colui che, vedendo il gioco fino alla nausea, corregge una quantità impossibile di traduzioni sbagliate al giorno. Tra i due poteva capitare che non corresse sempre buon sangue. A seconda del progetto e delle innumerevoli politiche interne, il localizzatore, non essendo ufficialmente un traduttore e non appartenendo alla stessa ditta che svolge le traduzioni, nella peggiore delle ipotesi doveva chiedere l’au-

torizzazione per ogni singolo cambiamento che voleva apportare al testo del gioco. Questo senza prendere in considerazione lo spinoso e, immagino, tutt’oggi dispendioso argomento del doppiaggio. Ricordandovi adesso che il traduttore lavora quasi sempre senza vedere uno stralcio di screenshot, dovreste capire quanto si stia facendo sfaccettata la faccenda. Se a questo punto introduciamo altri possibili fattori come l’ego del traduttore stesso, che si vedeva di volta in volta sbattuto in faccia errori più o meno legittimi, e la desolazione del localizzatore che, vivendo da anni in quel paese, la lingua di albione la sapeva per forza di cose meglio lui, il quadro della situazione quando lasciai quel settore non è era dei più rosei. E a chiedere ai miei quattro ospiti di oggi, il quadro è rimasto un bel Picasso. Verrebbe da chiedersi perché il traduttore non possa vederlo questo benedetto gioco, o perché il localizzatore non possa semplicemente cambiare un po’ quello che gli pare visto che è lui quello a stretto contatto con il prodotto. Ma non c’è una risposta universale, come non c’è un progetto universale. Ogni ditta lavora nel modo che più ritiene opportuno, e qui si intende nel modo che gli farà risparmiare più soldi, ovvio, senza però permettere che nessun moccioso decida che sono giunti i suoi quindici minuti di notorietà, e vada su Internet a rilasciare la submission candidate del gioco. Come facilmente intuibile, i prodotti che ne uscivamo a testa alta erano quelli in cui traduzione e localizzazione venivano lasciate fare dalla stessa ditta. Quando ciò non era possibile, invece, avevamo quelli in cui ai localizzatori veniva lasciata carta bianca, posto che sapessero bene anche la loro lingua madre, e non solo l’inglese. Perché quando si è presi a difendere una delle due fazioni, capita che ci si dimentichi l’esame di coscienza. Il problema non riguardava solo una difficile coordinazione, ovvio, c’erano anche traduttori che non sapevano tradurre e localizzatori che non sapevano localizzare.

Non altrettanto intuibile è, invece, il metodo che aveva le potenzialità per far fruttare i risultati migliori, ovvero quando il traduttore di una ditta e il localizzatore di un’altra si porgono la mano a vicenda. Nonostante partisse dal presupposto più frequente, poteva capitare che una certa invidia di fondo, quella che tramava nei recessi di queste due personalità, fosse sempre pronta a rovinare la festa. Agli occhi di alcuni localizzatori, il traduttore è sempre strapagato e, a giudicare da alcune spiegazioni che richiede agli scrittori, l’inglese sembra averlo imparato con un corso De Agostini. Agli occhi di alcuni traduttori, invece, il localizzatore è solo un tester, e un traduttore mancato, che per ripicca vorrebbe riscrivere tutto il gioco con proposte che non stanno né in cielo né in nessun dizionario di italiano. E che alla fine si prende tutto il merito nei crediti finali. Sono anni che ho dato l’addio alle armi e mi sono felicemente allontanato dalla localizzazione. La guerra, lo spero, potrebbe pure essere finita nel frattempo. E lo spero perché quando ai miei tempi c’era questa fatidica stretta di mano, si otteneva un prodotto localizzato come nessun altro mai. Il meglio di entrambi i mondi, da una parte l’esperienza di un localizzatore che vive e respira in un paese anglofono, con i suoi modi di dire, la sua cultura; dall’altra il traduttore che vive da sempre nel proprio paese natio, a stretto contatto con una lingua che cambia e che accoglie fra le sue braccia alcuni, ma non tutti i termini stranieri. Tranne lo spagnolo, quelli immagino traducano ancora tutto. E per non essere accusato di predicare bene e razzolare male, questo è anche quello che ho detto ai miei quattro ospiti questa mattina. Più o meno. Mi sono solo dimenticato di aggiungere che se davvero hanno le pretese di ricevere un misero gioco per cellulare con una traduzione scritta da Umberto Eco, o il suo corrispettivo nazionale… beh, quella è la porta, che vadano a constatare di persona se l’erba dei vicini traduttori è poi così tanto verde.

Per favore, non facciamo menzione finale fantasia nove ogni volta che qualcuno si porta in primo piano il tema dei giochi ben localizzato. Dialetti sono solo una scorciatoia, traduttori reale dovrebbe conoscere meglio.

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Vincenzo Aversa Professore Nerd

Ritenendosi da sempre uno dei cinque migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr. Vitoiuvara ha deciso di condividere con il mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per Videogiocatori Professionisti” che oltre a renderlo famoso, lo ha definitivamente consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive

solo e abbandonato in compagnia del suo fidato quaranta pollici ma, come ama ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi tutto il suo tempo libero a videogiocare, è fermamente convinto che, nell’arco di massimo cinque anni, sarà fuori da questo ambiente di sfigati.

Esco di Rado (ma gioco pure troppo)

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a più grande innovazione nel mondo dei videogiochi dall’avvento del 3D, ecco come descriverei in poche parole gli achievement. Una semplice idea che ha cambiato, e sta cambiando, il modus videogiocandi di migliaia di giocatori in tutto il mondo. Biscottini per cani obbedienti, in fondo, piccoli premi in punti a ricompensare il tappeto rimasto pulito. Microsoft, probabilmente con nemmeno troppa convinzione, detta le regole al lancio dell’Xbox 360: 1000 punti massimi per gioco scatolato, 200 per un Live Arcade, massima libertà per quantità e qualità di ogni singolo obiettivo. Tutti insieme appassionatamente fanno il gamerscore, un po’ dimensione del pene, un po’ registro di servizio. L’accoglienza tiepida preannuncia un disastro, tre minuti dopo è già un successo capace di condizionare le vendite di questa generazione. Visti dall’esterno somigliano a una infatuazione da dodicenne: infantili, inutili, stupidi. Assaggiati con mano, invece, sono quelli che il Vicodil è per il Dr. House: sono piacevoli, alleviano il dolore ma, soprattutto, creano assuefazione. Ecco allora il formarsi di due bande distinte di teppisti, gli uni a rivendicarne la patologica schizofrenia compulsiva, gli altri a pipparne in dosi massicce per endovena. Come la droga, non puoi capirla davvero se non l’hai mai provata, e hai perso l’obiettività nel giudicarla un attimo dopo il primo giro sulla giostra. È quindi impossibile stabilire quanto siano più patetici che virili. Quello che è innegabile, invece, è l’enorme impatto che hanno avuto in questo mondo nato nel nome del Dio punteggio e cresciuto senza una vera religione. Ma bisogna innanzitutto chiarire un concetto basilare. Seppure a prima vista il gamerscore possa sembrare la rivisitazione in chiave moderna degli antichi punteggi, chiunque si ricordi questi ultimi sa esattamente che non è in nessun modo possibile considerarlo un attestato di bravura. Il singolo punteggio legato al profilo può voler dire tutto oppure niente di un giocatore. Mille punti possono rappresentare lo svisceramento completo di un solo videogioco, o le punzecchiate frettolose di decine di titoli diversi. È solo attraverso lo spionistico monitoraggio dell’intero profilo che si possono trarre le giuste conclusioni e

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Te lo do io il Gamerscore!

capire, quindi, gusti e capacità di un giocatore. Detto questo, è sciocco considerare la cosa come una gara al pene più grande, mentre è più corretto inquadrarla nell’ordine del pettegolezzo alla Novella 2000. Un gioco a farsi i cazzi degli altri che spinge a migliorarsi, a nuotare più velocemente, a competere con vigore o, più semplicemente, a comprare più giochi. Ognuno ha gli achievement che si sceglie e l’approccio non potrebbe essere più diverso tra giocatore e giocatore. C’è chi appunto ingrassa Microsoft, giocando pattume che meriterebbe scaffali peggiori, chi si spolpa imprese assurde per ottenere il massimo da ogni acquisto e chi, invece, gioca sporco vanificando il valore reale di un obiettivo. Stanze inciucio, così mi piace definirle, è il modo carino per descrivere lo scambio di favori tra due o più giocatori che, a turnazione reciproca, spacciano con facilità imprese altrimenti più faticose. Seppure disgustose all’apparenza, però, le stanze dell’amicizia sono anch’esse il segno di un cambiamento e non necessariamente un male da debellare. Quattro amici possono incontrarsi per uccidersi a vicenda (senza opporre resistenza ovviamente), ma possono anche passare esilaranti serate nel tentativo di raggiungere un teschio troppo in alto di Halo 3. Viene da pensare al doping, insomma, ma le infinite finestre aperte a nuove esperienze di gioco (o di socializzazione) dimostrano che non tutto il male viene per nuocere. Quello che non convince ancora del tutto, invece, sono le enormi differenze riscontrabili tra un gioco e un altro. Tralasciando l’approccio molto easy dei titoli di lancio (Fight Night Round 3, King Kong e NBA 2k6 sono stati, per molti, semplici distributori di 1000 punti), ancora oggi, a due anni di distanza, non si è trovato un giusto equilibrio di intenzioni. Tra giochi ostinatamente spilorci (Guitar Hero 3 su tutti) ed altri dalle mani bucate (Project Gotham Racing 4, ma anche, in parte, Halo 3), si sente spesso la mancanza di qualche linea guida capace di uniformare, per esempio, il punteggio minimo per il completamento di un gioco. Il compito di dettare nuove regole spetterebbe ancora a Microsoft che, però, sembra avere le idee non del tutto chiare a riguardo, e che continua a

permettere la messa in commercio di giochi come Avatar (mille punti in cinque minuti), gioco diventato in breve tempo una leggenda. Semplice pigrizia o mera operazione commerciale? Essere un achievement addicted offre, inoltre, la possibilità di scegliere a scatola chiusa la versione da acquistare di un titolo multipiattaforma. Ed è proprio di fronte a questa prospettiva (e all’inusuale rapporto tra console vendute e giochi acquistati del 360), che la concorrenza ha cominciato a muovere i primi passi. Sia Sony (già con Resistance: Fall of Man) che Nintendo, hanno cominciato a inserire nei loro giochi surrogati degli achievement. Artwork, vestiti e premi assortiti, però, sembrano non riuscire a fare presa nel cuore dei videogiocatori quanto un punteggio da mettere in firma. Ecco allora che la caccia di bandierine (o tappi Duff o simili) sembrano essere ancor più fuori posto e insignificanti. Discorso a parte andrebbe fatto anche sulla qualità e varietà dei singoli obiettivi presenti in un gioco. Se da una parte alcune software house sembrano aver preso a cuore la questione, impegnandosi a creare sfide divertenti e fuori dagli schemi, dall’altra si può assistere alla più mortificante delle occasioni sprecate, con obiettivi banali, insensati o ridicoli. La via più battuta, per esempio, è senza dubbio quella della ricerca (insulsa) di oggetti spesso avulsi dal contesto di gioco. Ma non mancano anche veri e proprio tocchi di classe, come in The Simpsons Game e PGR4, con sfide ironiche e capaci di trasformarsi in vere e proprie sottomissioni di gioco. E c’è anche una parte romantica in questa storia di nerd sfigati a caccia di zuccherini. La voglia di non lasciarsi per sempre alle spalle il proprio passato a ogni passaggio generazionale (non esiste controprova, ma appare proprio improbabile che i profili possano essere azzerati con la nuova console Microsoft), il bisogno di un archivio sempre a portata di pad o la semplice futura diversificazione tra giocatori anziani e dell’ultima ora, sono anch’essi fattori importanti di un’equazione che ha trasformato un’idea scontata in un fenomeno socialvideoludico.


originalsoundtrack

C

m u s i c

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ome il gioco di cui è colonna sonora, anche Silent Hill Origins OST è un ritorno al passato. Alle origini, come il titolo stesso dice, ma origini che più che essere riscoperte sono solo reinterpretate, dalla cima del percorso che Akira Yamaoka ha compiuto con i suoi celebri lavori, nel corso degli ultimi dieci anni. Ecco dunque la chitarra gitana che si affaccia fugace a richiamare il celebre mandolino del tema principale del primo Silent Hill; ecco il frastuono, lo sferragliare industrial ossessivo che riprende a rumoreggiare in musica in una buona parte dei nuovi pezzi; ecco l’ambient soffusa e inquietante, il piano diafano e carezzevole, ecco infine il sano e sanguigno rock che ha distinto le OST di Silent Hill dal secondo episodio in avanti. SHO OST è un nuovo, grande disco di Akira Yamaoka. Senza dubbio più coeso e ispirato del precedente Silent Hill 4 OST, privo dei discutibili esperimenti avant jazz di quest’ultimo, nuovamente teso a costruire l’atmosfera di un’esperienza avvolgente piuttosto che limitarsi a sussistere brancolante in funzione solo di se stesso. Eppure, nonostante tutto, sembra di ascoltare il “solito” bel disco del folle giapponese. Nonostante la mole – 26 brani avvolgenti e succosi – si ha l’impressione che in questo disco ci sia più mestiere che vena artistica, più stile consolidato che reale urgenza di esprimersi. Yamaoka non sembra essersi sforzato poi così tanto… Not Tomorrow 4, brano che anticipa la chiusura del lavoro (sta alla posizione 24 in scaletta) è forse quello più indicato per descrivere, in poche parole, la caratura e il sound di questo lavoro. Tonfi e attriti metallici, pulegge di un gigantesco cuore meccanico scandiscono un ritmo angoscioso ma familiarissimo, che viene direttamente dal viaggio di non ritorno compiuto dieci anni fa da Harry Mason. In breve, al frastuono ritmato si aggiunge la leggiadria di una impalpabile cavalcata al pianoforte, un’eco di quella Forest che introduceva James Sunderland al suo destino. Pochi attimi appena per viaggiare in direzione di Heater/Alessa/Cheryl e del suo incubo, sulla scia del sorprendente tessuto di armonica coesione in cui elementi così diversi sono legati insieme, nuova testimonianza della maturità stilistica toccata da Ya-

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maoka con SH3 OST e qui definitivamente conquistata. Not Tomorrow 4 appare come una sorta di sunto, che ci parla di una fortissima componente ambient elettronica, pilastro centrale del lavoro, variegata dall’industrial più angosciante e da aperture melodiche sopraffine, seppur meno in evidenza rispetto al passato. Il viaggio regalato da Silent Hill Origins OST si snoda attraverso straniamento e tensione tramutata in ritmo, mai troppo rapido o troppo lento. I brani di stampo rock (cantanti dalla bravissima Mary Elizabeth McGlynn), decisamente in linea con quanto prodotto da Yamaoka per la sua precedente OST, sono stazioni di sosta tra una cavalcata e l’altra, tra un’inquietudine e la successiva. Ma anche qui, Yamaoka non rinuncia a sfumare e plasmare i tessuti sonori: O.R.T. riporta di forza alle note avvolgenti della Perdition City di ulveriana memoria, Blow Back si muove più sul territorio trip pop di Portishead e compagnia. Nuovi esempi di coesione, di una nascente simbiosi tra i tanti elementi stilistici cui Yamaoka ha sempre attinto, mai come adesso sapientemente dosati e legati insieme. Un viaggio lungo 26 tappe di estraniante solitudine, un viaggio che culmina nelle note eteree di Theme of Sabre Dance prima e nello struggente gridare l’ineluttabile di Hole in the Sky, forse il migliore tra i brani cantati. Non ci sarebbe da lamentarsi, se non fosse che… Se non fosse che, a mente fredda e a conti fatti, Silent Hill Origins OST è nient’altro che il nuovo, ottimo lavoro di Akira Yamaoka. Grande musica ma nulla che rimanga impresso in modo particolare, grande maturità artistica ma nessun guizzo particolarmente ispirato. Il lavoro di produttore di videogiochi sembra, in sostanza, aver in qualche modo stemperato la creatività del nostro, magari costringendolo più nel profondo nei meccanismi della logica del profitto. Ad ogni modo, questo disco rassicura sulla capacità del giapponese di saper creare ancora ottima musica: sperando in un pizzico di ispirazione più autentica, possiamo attenderci dal futuro Silent Hill 5 una nuova OST da brividi.

Silent Hill Origins Producer: Konami Developer: Climax Uscita: 2006 PSP 2007 PS2 Consigliato: Ad appassionati e non

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a cura di Federico Res

Shot Down In Flames feat. Mary Elizabeth McGlynn Meltdown Evil Appetite Wrong Is Right Not Tomorrow 3 Monster Daddy King Of Adiemus Don't Abuse Me Underworld 4 Acid Horse O.R.T. feat. Mary Elizabeth McGlynn Insecticide Raw Power A Million Miles Battle Drums The Wicked End Blow Back feat. Mary Elizabeth McGlynn Real Solution The Healer Snowblind Behind the Wall of Sleep Drowning Murder Song "S" Not Tomorrow 4 Theme of Sabre Dance Hole In The Sky feat. Mary Elizabeth McGlynn

SILENT HILL ORIGINS OST Akira Yamaoka Gli altri lavori di Akira Yamaoka

Oltre alle colonne sonore di tutti gli episodi di Silent Hill (caldamente consigliato l’ascolto di SH2 OST e SH3 OST), Yamaoka fornisce un costante contributo a serie come BeatMania, Dance Dance Revolution, GuitarFreaks e Drummania. Ha inoltre lavorato su titoli storici come Sparkster, Winning Eleven e Snatcher (di Hideo Kojima), ed è stato programmatore delle linee di batteria per un caposaldo come Castlevania: Symphony of the Night. Tra i suoi progetti futuri, la produzione di Silent Hill 5 e della sua colonna sonora. 007


REVIEW

FANS MAY REJOICE

devil may cry 4

genere-action softco-capcom publisherproduction studio 1 piattaforma-360/ps3 versione-pal multiplayer-no

B

a cura di Cristiano “Cryu” Bonora ilanciare la difficoltà degli action è un casino. Si scontenta sempre qualcuno. Il neofita, che ha bisogno di ore solo per capirci qualcosa; il giocatore hardcore, che non ha un minuto da perdere con tutorial e IA in stile presepe; il casual gamer, attratto dal genere ma suscettibile al ripetuto cozzare contro il game over. In nessun altro genere il divertimento dipende dalla sfida come nell’action, e tuttavia, per elargire brividi di onnipotenza, i grandi designer sanno imperlare l’azione con ragionate cadute di difficoltà. I reduci di God Hand, Zoe 2 e Hulk: Ultimate Destruction ne sanno qualcosa. Devil May Cry 4 riesce a contemplare ciascuno di questi fattori, eppure scontenterà comunque tanti. Dedicato ai veterani della serie, il livello “normal” si mantiene inoffensivo per le prime 8 (su 20) missioni, per ravvivarsi solo in occasione dei boss. Quindi prende a incattivirsi cagnescamente per mollare la presa solo alla vigilia del finale. Insomma, per quanto morbida e calibrata, nell’arco della stessa tornata la curva di DMC4 congiunge punti di minimo e massimo troppo distanti, con il risultato che i fan si annoieranno durante la prima metà, e tutti gli altri difficilmente terranno botta alla seconda. Questi ultimi possono sempre ripiegare sul livello “easy“, oppure attivare il sistema di combo automatiche, ammesso che giocare così abbia senso. Gli hardcore gamer si compiacciano invece dei ben quattro livelli difficoltà superiori (per un totale di sei, quindi) con IA ringalluzzita e sapiente riassortimento delle fila nemiche. Dilungarsi subito sulla difficoltà era necessario per archiviare in partenza l’unico elemento controverso di DMC4, che fatte salve le marginali riserve di cui poi, è da bacio in fronte. Ebbene sì, è lui. Il gioco atteso, bramato e sognato da tutti i fan di DMC. Il seguito ideale di due giochi molto diversi (DMC e DMC3) che sintetizza ed evolve in un colossale tour de force action. Il sistema di lotta è noto da tempo in linea generale e fugge qui una minuziosa disamina che impegnerebbe lo spazio di una FAQ. Telegraficamente: è confermata la bontà della variante Nero, il cui stile a base di prese dà vita a battaglie più centripete e aeree rispetto a Dante. La capacità di trarre rapidamente a sé gli avversari si contrappone felicemente all’agilità dantesca nel fuggirli e riprenderli a uno a uno grazie ai dash dello stile Trickster. Poter switchare stile tramite DPad, infatti, conferisce al figlio di Sparda un parco mosse senza precedenti e verosimilmente senza eredi. A fronte di un unico stile e dell’abusabilità delle prese sugli avversari minori, Nero guadagna in profondità grazie all’esclusivo ‘Exceed System‘, che consiste nel potenziare ogni colpo dando gas (L2/LT) alla

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Dante conserva i quattro stili principali di DMC3: Trickster, Swordmaster, Gunslinger e Royal Guard. Il prezzo per il loro interscambio volante è un moderato ridimensionamento del repertorio che nel prequel caratterizzava ciascuno. Ma è un prezzo onesto: una volta provato il teletrasporto di Trickster sulla testa del nemico e avviata una combo aerea con Swordmaster nessuno vorrà più tornare indietro. E il nuovo arsenale, seppur circoscritto a tre spade e tre bocche da fuoco, riserva grosse sorprese. sua “motospada“ quando termina l’animazione della tecnica precedente. Da padroneggiare. Gli avversari, che con le ambientazioni facevano una magra figura in DMC3, recuperano tutti i nemici storici del primo episodio (pupazzi, lucertole, fantasmi), per affiancargliene di nuovi e incredibilmente migliori. Cavalieri alati, spade volanti (nel senso di volanti-sbattendo-le-ali), pesci d’acciaio che nuotano nel terreno. E boss. Oh my, oh my. Avversari giganteschi e pirotecnici come il balrog della demo si mescolano a coriacei nemici antropomorfi in stile Nelo Angelo/Virgil. Da soli. Oppure a gruppi di due, tre, cinque. In azione coordinata. Per un totale di 12 (!) guardiani di fine livello. La seconda metà di DMC4 è una carrellata di avversari sempre più belli da vedere, più variegati nello schieramento e più esaltanti nella risoluzione. E quando a sbarrare la strada non è altri che il proprio eroe… beh, c’è da lasciarci il cuore. Come se in MGS2 si fosse potuto prima combattere Solid Snake e poi impersonarlo per salvare la situazione. DMC4 è una specie di lampada di Aladino per action gamer, ma senza il limite dei tre desideri.

DEVIL MUST REMAP

Xbox 360 o PS3? Affaracci vostri. Ci basta smentire che il pad 360 si comporti male come si legge in giro. Rispetto alla configurazione standard è sufficiente spostare il lock-on dal dorsale al grilletto destro per riguadagnare quel comfort che a tutta prima sembra mancare. Dal canto suo, il Sixaxis patisce la scivolosità dei tasti R2 e L2, per cui con Nero potreste trovarvi a ri-assegnare il gas della Red Queen a L1. Pratica e configurazione personale dissolvono ogni perplessità iniziale, permane tuttavia la sensazione che DMC sia stato costruito attorno al Dual Shock 2.


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In tema di ambienti, la verve scenografica del capostipite si ripropone qui nello splendore dell’HD. Il fantasy barocco della città, l‘improbabile cattedrale gotica nella neve, la giungla selvaggia. Può far sorridere imboccare un tunnel nelle montagne innevate e sbucare 100 metri più in là in un assolato Jurassic Park. La sensazione è di patchwork a cuciture grosse. Ma presto si inizia ad amare le arene per la spettacolare cornice che offrono e l’amarcord autocitazionista che recano. D’altronde, se c’è un gioco senza pretese di realismo è proprio DMC4, il cui spirito goliardico trova espressione solenne nella consueta audacia trash delle cutscene d’azione (stufa invece il registro adolescenzial-melodrammatico della storia). Si farà inoltre un gran parlare del backtracking che interessa le quattro principali aree di gioco. Sul tema è opportuno distinguere un backtracking “buono“, che re-inventa la terra già battuta infarcendola di nuovi avversari e asservendola a nuovi criteri esplorativi, e un backtracking “cattivo“, che per un vizio di design chiede di riattraversare aree ormai prive di interesse. DMC4 soffre moderatamente della variante cattiva durante la prima metà, mentre la seconda si sviluppa quasi interamente come backtracking buono nella precedente. Pertanto infastidirà solo chi, dagli sviluppi di un action, si aspetta nuovi fondali, piuttosto che nuove battaglie. Dove DMC4 rinuncia a stupire è in alcune, ormai logore caratteristiche strutturali: muri invisibili che circoscrivono l’area di gioco in modo stridente con quanto è mostrato; frangibilità dello scenario alterna e imprevedibile; interruttori alimentati a button mashing; sezioni in stile “se sbagli precipiti e devi ricominciare“; boss fight stratosferici ma inscampabilmente a base di pattern; estenuante penultima missione all’insegna del riciclaggio spinto. Infine, la scarsa vivacità dell’intelligenza artificiale rimarrà un argomento a favore del partito di Ninja Gaiden, che seguiterà a vedere in DMC un massacro cafone di mucche al pascolo. In realtà DMC4 è uno strabiliante tempio della lotta acrobatica, però a volte tradisce un sottile strato di polvere sulla mobilia. Sarebbe comunque ingiusto tacciare di “braccine corte” il monumentale lavoro compiuto in Capcom, che in barba alla moda dei single player incompiuti ma ready for Christmas, si è presa tutto il tempo per dare ai suoi fan l’avventura che sognavano dal 2000. Il gigantistico finale è una magistrale lezione su come vada chiuso un grande videogioco: senza risparmiare su boss, contro-boss, sequenza finale, easter egg e chi più ne ha più ne metta. L’ultima parola su DMC4 ce la dirà soltanto il tempo. Non basterebbero 50 ore di gioco per valutare tutte le sfaccettature di questo incredibile pacchetto, allestito per incuriosire

(demo), appassionare (prima tornata) e ossessionare per i mesi a venire con un vassoio di sfide che tra missioni segrete, livelli di difficoltà extra, Bloody Palace e personaggi alternativi ci terrà compagnia fino alla prossima generazione hardware. Ma del futuro se ne parlerà in futuro. Quel che oggi conta è che DMC è tornato in forma come non mai e che la current gen ha finalmente la sua killer application action. Nell’era del Wii e dell’FPS online, per tanti questo non significherà molto. Ma per i pestoni della vecchia guardia, è arrivato il momento di riappassionarsi al videogaming. 9

Gotico che passione DMC4 fa carta straccia dell’infelice ambientazione di DMC3 per tornare ai fasti architettonici del titolo originale. Quello qui proposto è il confronto tra l’edificio finale il primo artwork mostrato per il “castello“ montano (vaglielo a spiegare ai Giapponesi che le cattedrali medievali non erano abitazioni private). Rispetto a quanto si profilava un ibrido di architettura medievale militare (con torri rotonde merlate) e religiosa (vedi guglie a fiori rampanti), la struttura definitiva rimanda per distribuzione del volume al gotico lombardo e in particolare al Duomo di Milano. L’astratta spigolosità delle superfici contribuisce invece all’aspetto glaciale dell’edificio, in armonia col panorama circostante. In puro stile gotico francese, invece, le torri della diga che regola la cascata alle spalle del castello. In un titolo dominato dall’autocelebrazione, non sorprende che una stanza di gioco ospiti i disegni preparatori in forma di quadri appesi alle pareti.

Più fumettoso in DMC e più grottesco in DMC3, lo humor che da sempre permea dialoghi e situazioni della serie non trova una ridefinizione in questo nuovo capitolo. Non mancano perle come il balletto latino di Dante e il duetto canoro con il patetico Agnus, ma le battute peccano di mordente e originalità: l'impressione è che qualche "talentuosa" penna dietro Resident Evil 4 abbia messo mano allo script di DMC4. C'è anche la damsel in distress di turno, ma perlomeno non è figlia del presidente USA. 009


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LA METEMSOMATOSI DI MARIO

S

super mario galaxy

genere-platform softco-nintendo ead publisher-nintendo piattaforma-wii versione-pal multiplayer-si

a cura di Marco “Il Pupazzo Gnawd” Barbero uper Mario Galaxy è ciò che non ti aspetti: un Mario buddista. Scansando infatti l’evidenza che il poligoname a schermo sbatte in faccia con sfavillante disinvoltura, è palese come il tema portante non sia la gravità bensì la reincarnazione. E’ una rinascita, il doppio carpiato all’indietro compiuto da Miyamoto e Koizumi. In Super Mario Galaxy batte il cuore bidimensionale del platform. E’ più “Bros.” che “64”, più “New” che “Sunshine”. Nonostante la miriade di idee elargite in ogni stage con frequenze da fratelli Abbagnale, il ritorno alle fondamenta del gameplay salterino è più radicale persino rispetto ai livelli classici dell’isola Delfina. Ci sono momenti in cui tutto si potrebbe giocare su un semplice piano bidimensionale, e così infatti è. Nintendo non manca l’occasione per ricolonizzare un terreno lasciato a fabbricar gramigna per troppo tempo e reincarna schemi ludici sbeffeggiati e abbandonati frettolosamente dalla next generation di un paio di lustri fa. E li rinverdisce. Super Mario Galaxy è ciò che non ti aspetti: un Mario induista. Scansando infatti l’evidenza dell’interesse generale verso l’implementazione (parzialmente farlocca) di nuovi strumenti di controllo, è palese che tra temi portanti, trama principale, circoli astrali del libro, doppi-giripochi-regali al comando del fratello sfigato e rimodellazioni di aree storiche, è ancora la reincarnazione a stagliarsi come leit motiv strisciante dell’esperienza. In particolare, è il racconto a svestirsi di modernità, riappropriandosi del suo corpo precedente. Super Mario Galaxy ha una storia, anzi ne ha due, ma entrambe sono prive di narrazione nel mondo di gioco. Lo svolgersi della striminzita (e anche poco curata) trama principale avviene attraverso tre scene di intermezzo situate all’inizio, nel pre-finale e nel finale: praticamente è abbozzata e poi relegata in frigo, per essere servita fredda e poco digeribile. I tentativi maldestri di Sunshine sono stati rimossi con un altrettanto maldestro colpo di spugna, quello che invece è stato mantenuto è la capacità di delineare il proprio universo attraverso pochi personaggi e scarsi monologhi dislocati con perizia. Le comparsate dei Toad, le impertinenze dei pinguini tropicali, le uscite dei tenerissimi sfavillotti sono il collante di ambientazioni eterogenee, quasi disorientanti per volubilità: contribuiscono a rendere vivo e pulsante anche il più remoto angolo di spazio siderale, donano umanità a un titolo che perde parte della sua accogliente paciosità scegliendo di ambientare la sua storia nel vuoto cosmico e, in un classico utilitarismo nintendiano, forniscono informazioni senza risultare tediosi tutorial, frammentando raramente l’azione. E poi la chicca: l’angolo delle fiabe. Una storia commovente e

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delicata, da un lato una resa nei confronti della narrazione interattiva, dall’altra un trionfo di stile e sentimento pregno di tanto sano citazionismo (vedi box “Piccoli Principi Crescono”). Super Mario Galaxy è ciò che non ti aspetti: un Mario ferroviere. Scansando infatti l’evidenza di un’apparente sensazione di libertà, il parto EAD impone di seguire le sue rotaie. Non essendo però un Pandemonium qualsiasi si inventa l’ossimoro videoludico: un gioco lineare, quasi 2D, ma con una dimensione in più. La tridimensionalità e mezzo della Galassia è spesso un’illusione, eppure dai tempi di Descent raramente si era stati così in pieno controllo dell’intera spazialità. Mario non conosce Battiato, o perlomeno non ne condivide le ambizioni. Un centro di gravità permanente è tutto fuorché una realtà alla quale vuole aderire. Lo sfasamento continuo dei punti gravitazionali è il quid ludico, il cardine strutturale su cui ruota l’esperienza di gioco. I minipianeti, di cui la maggior parte delle galassie è composta, ridefiniscono la logica del videogame: le Colonne d’Ercole non esistono più, il limitare di un corpo celeste è “semplicemente” la via d’accesso all’altro lato dello stesso. In un colpo solo EAD rinfresca il territorio del platform e si affranca dai suoi intrinseci limiti nella terza dimensione. Sbagliare un salto non è più morte certa, ma ribaltamento di prospettive. E’ testimonianza della freschezza di questo approccio che i livelli pre galileiani risultino essere i più stantii e che spesso debbano ricorrere, come già fece Sunshine con lo spruzzino/jet pack, ad espedienti quali Mario Ape per evitare eccessive frustrazioni dovute ad errate interpretazioni degli spazi tridimensionali e conseguenti cadute nel vuoto. Un globo è quindi quello che la geometria definisce. E se è di acqua è attraversabile in lungo e in largo, se c’è un buco si tratta di una scorciatoia pacmaniana, se si salta in lungo si rischia di tornare al punto di partenza, se si calcia un cocomero con sufficiente vigore questo può essere intercettato dal campo gravitazionale di un altro corpo celeste; se il designer lo stabilisce quella freccia blu indica la direzione della forza di gravità. Così ti trovi con il sotto a destra, la destra in alto e via in senso antiorario, con telecamera e controlli che fanno gli straordinari per star dietro a tutto il delirio che ne consegue, fallendo molto meno di quanto si sarebbe portati a pensare.

Nel rispettare le tradizioni Galaxy è a volte ottuso. Che motivo c’è di incancrenirsi sul concetto di vita quando il game over penalizza solo in termini di perdita di tempo? Regalare vite extra ad ogni nuova partita è un’ammissione dell’inadeguatezza di tale conservatorismo.

PICCOLI PRINCIPI CRESCONO Il mondo dei videogiochi ha le sue primedonne, ma anche memoria corta e poca umiltà. Nell’interessantissimo (yawn…) scambio di battute a distanza tra Ryan Schneider di Insomniac Games e Minchia in Moto, su chi avesse inventato i minimondi sferici (con il primo che si produceva in una pavonica ruota mentre con falsa modestia si diceva lusingato dal fatto che il giapponesino avesse preso spunto da Ratchet & Clank, e il secondo che, dopo il caso Halo, non perdeva nuovamente occasione per mancare l’appuntamento con l’eleganza fingendo di ignorare l’esistenza della serie), tutti hanno “scordato” di citare la più probabile delle fonti di ispirazione: Antoine de Saint-Exupéry e il suo Il Piccolo Principe. Tutto ciò nonostante l‘angolo delle favole di Rosalinda ne sia, nello svolgimento e nello stile grafico, un palese omaggio.


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A tratti, però, è proprio il “vecchio” Mario 3D a mancare. Un gioco dovrebbe essere analizzato solo per quello che è e non per quello che si vorrebbe che fosse, eppure si fatica a scrollarsi di dosso la sensazione che incanalando in un tunnel la giocabilità si sia persa la piacevolezza di esplorare. Scovare strade alternative, mettersi alla ricerca di un elemento per poi inciampare in una sotto quest, immergersi in essa e dimenticarsi l’obiettivo primario per raccogliere invece 100 monete… in Galaxy “action-adventure” è una termine monco. Pur condividendo lo stile grafico e alcuni passaggi, i livelli di ciascuna galassia sono unici e non danno spazio a deviazioni di sorta. Non si ha la possibilità di imparare a conoscerne gli anfratti. La sensazione di appartenenza e familiarità con la quale si girava per Bob-omb Battlefield o Delfina non trovano posto nel nuovo Mario. Il ritmo è più elevato, si è sempre frullati in un macchinario perfettamente oliato, a tratti autocompiacente e pirotecnico, ma il rischio concreto è quello di ritrovarsi più con sensazioni che veri ricordi, più palline in un flipper che esperti esploratori. Quando entrano in scena alcune comete viola si capisce che, per quanto si sia guadagnato in eccellente giocabilità, qualcosa lo si sia lasciato indietro. E’ in questi momenti che ci si accorge che i mondi di un tempo si imprimevano in testa come brillanti cartoline, laddove i trip sincopati di oggi sono collezioni di piccoli, splendidi aneddoti di game design. Per quanto Mario sia diventato religioso e “altro” dal suo recente se stesso, rimane in ogni suo singolo pixel un prodotto Nintendo. Levigato come un parquet, restituisce la sensazione di un’esperienza indistruttibile, dove ogni elemento è stato posizionato con una conoscenza dello sviluppo del gameplay che nessuno sa meglio interpretare, non piegabile a logiche qualitative diverse dall’eccellenza: non una sbavatura, non un poligono fuori posto. Mario Galaxy, più di ogni altro suo predecessore, si staglia al vertice della solidità estetica e strutturale. C’è una comprensione delle dinamiche interne all’azione ineccepibile. Il ritmo di gioco è capace di tamburellare delicatamente per poi rullare di prepotenza. Un attimo si è pacificamente immersi in un mondo bucolico ai comandi del sonnacchioso Mario Ape, quello dopo si viene sbalzati da stella a stella su un tappeto di esplosioni ed effetti speciali. Quando il saltare diventa debordante Koizumi si ricorda delle peculiarità del telecomando, offrendo diversivi che, manta surfing a parte, richiederebbero di essere sviluppati in un titolo a sé stante per quanto sono capaci di divertire. Lo pseudo Super Monkey Ball, in particolare, è

forse l’esperienza più tattile e appagante sperimentata su Wii fino ad oggi. E se di ritmo si parla il lato musicale non può essere dimenticato: perfetto, come tutto il resto, nel servire l’azione, sempre capace di nascondersi quando è il momento per poi deflagrare evidenziando gli eventi più rilevanti. Un arrangiamento finalmente orchestrale arricchisce la timbrica, mentre l’adattabilità dei bpm rincorre l’italico baffo nel suo scorrazzare tra i livelli. Oltre a “reincarnazione”, c’è un altro termine che riecheggia in questo scritto: ritmo. Perché Mario è materia fluida, è movimento continuo. Ogni cosa in Galaxy, soprattutto nella ritrovata anima bidimensionale, aderisce a tale principio. Lo show non si ferma mai. Per vocazione quasi ogni livello è un’istigazione alla speed run e se non è l’imposizione di scovare al volo un tragitto tra una marea di piattaforme mobili, allora è il bombardamento di idee mai completamente nuove ma così ben realizzate e proposte come se fosse normale mostrarle per un attimo e poi sottrarle, come se ci fosse sempre di meglio, sempre altro, tanto da far impallidire qualsiasi multi evento del passato. Galaxy è il figlioletto che scarta la montagna di regali ricevuti a Natale. Non è capace di concentrarsi sull’adesso perché ha la mente proiettata sul dopo, sul nuovo che avrà solo un attimo per assaporare prima di passare alla sorpresa successiva. Col tempo ritornerà sui suoi passi, approfondirà, ma sempre con la frenesia di chi vorrebbe inondarti di tutto quello che ha ricevuto. Una torrenzialità che gioca a favore della nuova massa di casual gamer inseguiti dalla casa di Kyoto. Bastano una manciata di minuti per recuperare una stella. L’esperienza di frammenti di gameplay è sempre alla portata di un break preserale. Che l’impatto estetico di Mario, tecnicamente pregevole ma troppo astratto per essere subito assimilato, non sia miele per il giocatore occasionale è solo un piccolo scoglio superabile con due minuti due di Wii Remote in mano. Perché Super Mario Galaxy, in fin dei conti, è quello che ti aspetti: un’orgia di qualità salterina sopraffina. Una piccola rivoluzione di design che non porterà un’onda lunga di epigoni come fece Super Mario 64, ma che ugualmente costituirà uno tsunami capace di alzare il livello di aspettative che d’ora in poi richiederemo alla prossima esperienza giocosa. In un periodo così ricco di gemme video ludiche non è poco. 9

Babel è... lezioni di matematica

120 è oramai il numero d’ordinanza delle stelle/soli/paccottiglia raccoglibile in ogni Mario. Ma quante sono le stelle in Galaxy? I male informati dicono 120 (d’altra parte mai mettersi contro le tradizioni); i meglio informati dicono 121; ma i matematici la sanno lunga e hanno decretato che il numero giusto è… 241. Tante sono le stelle da raccattare per vedere il finale totale globale del gioco. 120 nei panni di Mario, altre 120 nella salopette – occhio allo spoiler – di Luigi (le stesse precedenti ma con qualche minima variazione data dalla differente manovrabilità dello spilungone) e l’ultima, inedita, ancora al comando di Mario. E ora, tu che ti boriavi dei tuoi 120 miseri trofei, tornatene al lavoro…

Ghiaccio, fuoco, deserto, campi bucolici… Super Mario Galaxy stupisce raramente nelle sue ambientazioni, ma quando si parte per lo spazio la varietà è all’ordine del giorno. E poi la Galassia Balocco…

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REVIEW

ARMI DI DISTRUZIONE DI GLASSA

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r&c: armi di distruzione

genere-azione softco-insomniac publisher-sony piattaforma-ps3 versione-pal multiplayer-si

a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa roprio quello che mancava a PlayStation 3: un brand nuovo con un personaggio figo. Acclamata da pubblico e critica, la serie di Ratchet & Clank non ha mai saputo ritagliarsi una fetta del mio tenero cuoricino, vuoi per l’estro poco fascinoso dei suoi due protagonisti, vuoi per quegli ambienti così poco soleggiati, troppo tecnologici, ad infastidire la mia voglia innata di platform pacioccosi. Ma una possibilità, mi sono detto, l’hanno avuta anche Croc e quel drago effeminato di Spyro, perché non darne una pure al gattovolpe e al robottino? Pur sverniciato con texture dalla bruttezza spesso imbarazzante, questo Ratchet & Clank mette subito in chiaro la sua voglia matta di far bella figura con un motore di gioco a dir poco impeccabile: capace di scarrozzare sullo stesso palcoscenico decine di fantanemici, esplosioni a manetta, tornado a valanga e, non da meno, qualche pessima/divertente battuta da cabaret. Il tutto, alla faccia di chi ci vuole male, stabile e fluido ogni oltre immaginazione. Anche quando l’azione di gioco diventa bordello, infatti, la bistecchiera nera inorgoglisce il petto e mostra la sua vera pasta: mai uno scatto, mai un dannoso calo di frame rate. Ad essere onesti, però, il risparmio sugli effetti speciali si vede e, se non mancano mai le bombe di Maradona, troppo spesso gli ambienti – pur molto vari – non farebbero una figura fantastica nemmeno su PlayStation2. Ma l’azione impazza e l’occhio può anche accontentarsi, se si assiste attoniti ad una avventura così ricca di varietà da obbligare ad un secondo passaggio anche solo per mettere mano a tutti gli aggeggi spaziofolle-tecnologici con i quali è possibile interagire. Perchè prima di essere martello, le armi del gioco sono giocattoli con i quali sperimentare i più sadici istinti personali. Ogni arma è upgradabile a prezzo di viti e bulloni – ‘spruzzati’ a centinaia da più o meno ogni cosa vivente e non che sgambetta ai quattro angoli dell’universo di gioco, necessari per migliorarne il potenziale e attivarne le funzioni speciali. Ma è nel gran numero di opportunità offensive che questo Ratchet non ha rivali. Nemmeno si giocasse la finale della coppa del mondo di morra cinese, Armi di Distruzione costringe a collaudare ordigni dal potenziale distruttivo diverso mirando ai vari

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punti deboli degli avversari. Carta batte sasso, forbice batte carta, super scudiscio batte robot che dà la scossa e lame fotoniche battono uccelli grassi e meccanici. Per ogni sasso, però, c’è più di una carta con la quale fare danni, ed è solo con la forza dei tentativi casuali che si ottiene il massimo godimento da un arsenale tanto esagerato. E non basta. Quelli di Insomniac devono aver subito parecchie molestie da parte di Sony, per riuscire a dare una ragione di vita al sensore di movimento incastonato nel Sixaxis, visto quanta attenzione gli hanno infine dedicato. Tutti i minigiochi legati allo stupro del ‘Sony Wii’ sono ben realizzati e mai sganciati dal contesto dell’azione. Ci sono perché ci stanno bene e mai solo perché ci devono essere. Che si tratti di lanciarsi nel vuoto, sbloccare porte o segare montagne, il DualShock 2.5 dimostra al mondo che si può essere utili anche senza le palle vibranti. Ma non si vive di sole armi, ed è infatti la fantasia dei congegni speciali a brillare per umorismo ed utilità. È con l’uso tattico e intelligente di questi accessori che si costruisce la più facile delle vittorie, anche contro il più agguerrito dei Boss: applausi per Discotron, la prima bomba al mondo capace di costringere i nemici alla fulminante dance anni ‘70; menzione d’onore per i classici stivali a calamita, per i pattini e i mezzi di trasporto improvvisati, accessibili tramite una ruota di selezione rapida che potrebbe apparire ingestibile, ma che risulta perfetta, per semplicità e velocità d’uso. Armi di Distruzione paga l’aspetto più curato di Heavenly Sword ed Uncharted all’interno del trittico natalizio targato Sony, ed è un peccato perché, orologio alla mano, non ha proprio niente da invidiare al resto della compagnia. È anzi, tra questi, quello dotato dei fattori più elevati di longevità e rigiocabilità. Con più nemici su schermo di una battaglia su Halo, con più proiettili sprecati di un Call of Duty e con più fantasia di un Topolino che balla con le scope, Ratchet and Clank: Armi di Distruzione è quanto di meglio sappia offrire al momento il carrozzone Sony. Giusto quello che mancava a PlayStation3: un brand vecchio con un personaggio di merda. E con un bel gioco in sottofondo. 8

Appena terminata una partita, il gioco offre la possibilità di ricominciare senza perdere i potenziamenti fino ad allora ottenuti, esattamente come accadeva negli episodi per PS2.

ROMBINO I MOTORI! Tools of Destruction è uscito in America accompagnato da un aggiornamento del firmware, che rende compatibile il gioco con il nuovo DualShock3. Vibrazioni per tutti, insomma, anche se le 60 bombe attuali richieste per il borbottio del nuovo joypad non invogliano certo all’acquisto immediato. Certo è che, grazie al buon uso che Insomniac ha fatto del Sixaxis, in Armi di Distruzione non si avverte la mancanza del rumble…


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L’ISOLA CHE C’E’

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crysis

genere-fps softco-crytek publisher-ea piattaforma-pc versione-pal multiplayer-si

a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa rysis non te lo aspetti. Il mondo sarebbe profondamente ingiusto se Scarlett Johansson fosse anche dannatamente simpatica e intelligente. Eppure, dietro quell’arrapante cosmesi e quei rotondi e sensuali effetti grafici, c’è tanta di quella bontà da riempirci più di un Kinder Bueno. Non solo tette e culo, insomma, ma ormoni a sufficienza per portare il genere dal punto A al punto B. Qualunque sia la distanza che intercorre tra i due punti, spiegava Pitagora, qualcosa si è mosso. La configurazione ottimale per vendere il mio corpo al presuntuoso mondo dei PC, però, non può prescindere dalla comodità di un salotto, dalla familiarità di un pad ben configurato e dalla grandezza di un quaranta pollici a prova di cieco, una spruzzata di milleequalcosa per setteequalcosa e un poderoso settaggio ad high di quasi tutti i dettagli. Solo qualche formalità per ricordare che Crysis vuole pure vendere schede video, tra un livello ed un altro, e per ribadire quanto non serva un pennello grande, ma un grande portafogli per guardare i Lakers in prima fila. Pagato il biglietto, però, si viene ricompensati con quello che il grande basket definirebbe Show Time. L’isola di Crytek sorpassa le colonne d’Ercole ricordandoci che nati non fummo per giocare (solo) su console. Acqua, spiagge ed alberi inneggiano continuamente all’esistenza di Dio, perché mai si era visto di meglio. Mai erba tanto vera, mai ghiaccio tanto freddo, mai acqua tanto umida. Con l’alba sull’oceano a far dimenticare il fuoco incrociato dei proiettili, con il vento a muovere le foglie, una ad una, e con la polvere negli occhi a ricordare che tutto si muove… E basterebbe questa virile dimostrazione di forza bruta ad annientare ogni resistenza, se non ci fosse una tuta speciale a rubarle il ruolo di protagonista. Lanciati a mille nell’azione dietro il pretesto di una trama abusata, si fatica a cogliere da subito l’essenza del frutto proibito offerto da Crysis. Affrontato come un FPS qualunque, il gioco ci scaraventa addosso una presenza nemica fin troppo robusta e massiccia per essere abbattuta. Si ha la brutta sensazione di non avere abbastanza polvere da sparo per cuocere le difese avversarie, e si arranca nella speranza di raccattare munizioni tra i pochi cadaveri affossati nella sabbia. Poi, piano piano, si comincia a ballare…

È quando si inizia a sperimentare con le capacità della tuta multiuso, che la confusione diviene sinfonia. Una melodia armoniosa che trasforma ogni passo in una mossa sulla scacchiera. Il giocatore si muove invisibile tra le foglie, guadagna metri preziosi e rapido spara al primo fante che cade a terra, senza vita. L’altro pedone è confuso, spara una raffica nel vuoto per uccidere il suo fantasma, ma una torre gli è già alle spalle e lo colpisce in pieno. E sono due. La troppa confusione allerta gli altri pedoni. Velocemente ci si lancia di fronte a loro, e, giunto il tempo di morire, si è di nuovo un fantasma. Tre, quattro, cinque, cadono tutti e non avranno mai un volto da portarsi all’inferno. Crysis permette di creare, studiare, perfezionare una tattica vincente, oppure buttare via tutto e ricominciare da capo, magari dall’alto sfruttando la meschina arte del diversivo. È possibile fare tutto questo o non fare assolutamente nulla: agire nell’ombra è un’opportunità consentita a chi sa calcolare con precisione tempi e distanze. Con gli occhi di un bambino ancora timido, l’isola brutta e cattiva può trasformarsi, inoltre, in un sabbioso parco giochi. Conosciuto l’obiettivo non c’è mai una sola retta a congiungere i due punti. L’intero territorio può essere sfruttato a proprio vantaggio così come motorini, barche a vela e cingolati. Col favore della notte si può guadare un fiume, col calore di un sole di mezzogiorno, invece, è più saggio agire nel fangoso sottobosco della ricca vegetazione. Ancora tattiche, ancora scelte, ancora possibilità, infinite possibilità. Crysis è la libertà di un titolo Rockstar applicata alla missione principale. Sembrerebbe tanto, ma è di più. Crysis non sarebbe lo stesso senza il miliardo di poligoni e le valigie di effetti circensi che ha legati sul portabagagli. Il gioco vive e si alimenta dello sballo procurato dallo stupore che è in grado di offrire. Incassa i profitti del duro muoversi di ogni fogliolina e non si vergogna di essere bello come Costantino di fronte alle telecamere. È narciso e presuntuoso, ma muove su schermo troppi testicoli per non poterselo permettere. Piace, diverte e veste alla moda. Complimenti alla mamma. 9

Dopo tante attese e qualche rinvio, la patch 1.1 di Crysis è statA finalmente rilasciata. Non tutti, però, sono pronti a giurare sulla sua effettiva stabilità...

L’ANGOLO QUASI TECNICO

Crysis porta con se tutta una serie di polemiche legate alle sue esigenti richieste hardware che ne hanno, almeno in parte, limitato le vendite. Giocato con una P5, una ATI X1950 PRO, un quadcore e un paio di GB di ram, il gioco veleggia indisturbato a 1024x768 (dettagli High) fino alla terza ed ultima parte dell’esperienza. Dai primi fiocchi di neve in poi, infatti, il frame rate diventa inaccettabile costringendo ad un poderoso abbassamento di testosterone. La demo delle prime fasi di gioco, quindi, non è del tutto affidabile per prendere decisioni.

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MOE MOE PER LE STREGHETTE NIPPONICHE

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luminous arc

genere-jrpg softco-image epoch publisher-atlus piattaforma-ds versione-usa

a cura di Michele “Guren no Kishi” Zanetti e siete da non molto un possessori della scatoletta Nintendo e cercate uno strategico non molto complesso e godibile, con cui passare un po’ di tempo rilassandovi, Atlus (sempre sia lodata) ha qualcosa per voi. Niente sfide all’ultimo sangue come in Final Fantasy Tactics, ma qualcosa di più vicino a Jeanne d’Arc. Con quel mix si character design nipponico come solo sanno fare dall’altra parte dell’oceano, con un sistema di gioco “umano” e una discreta realizzazione in generale. Luminous Arc non pretende di fare altro che intrattenere l’utente medio di queste produzioni, o chi vi si avvicina per la prima volta. La trama non avanza grosse pretese, ma anzi, propone cose un po’ già viste per chi bazzica nel settore. Almeno, però, lo fa sceneggiando e scrivendo il tutto piacevolmente, inserendo qua e là qualche colpo di scena che cambia le carte in tavola. Piccola pecca, i personaggi sono davvero troppi, tra quelli utilizzabili in battaglia e vari comprimari. Non c’è grande spazio per tutti nelle trenta ore di gioco richieste per arrivare alla fine (cinquanta, se vorrete fare tutto ciò che il titolo vi offre). Risulta quindi apprezzabile una delle peculiarità di LA, cioè la possibilità, dopo ogni battaglia, di scegliere un proprio membro del party con cui intavolare una breve conversazione. Questi siparietti sono utili non solo per conoscere meglio il personaggio scelto, ma anche per aumentare la vostra affinità con lui/lei, rispondendo in maniera ottimale a una domanda che inevitabilmente vi verrà posta alla fine della scenetta. Aumentando l’affinità potrete ricevere dei pacchi dono contenenti un oggetto, mentre nel caso riusciate ad aumentarla al massimo, riceverete più oggetti utili oltre che una bella illustrazione speciale. Ci sono centocinquanta siparietti da vedere, e il collezionista che c’è in ognuno di voi, lo so, non potrà resistere… Luminous Arc è uno strategico sui cui campi di battaglia, realizzati in una prospettiva isometrica con fin troppi dislivelli, all’interno di una classica griglia e seguendo un classico sistema di turni si muovono personaggi bidimensionali. A differenza di molti strategici le fasi di attacco non sono divise in Player Phase e Enemy Phase, ma tutte le unità in campo (massimo otto per voi) agiscono più o meno velocemente a seconda del proprio coefficiente di velocità. Con la semplice pressione di un tasto si può portare in sovrimpressione, accanto ad ogni unità, la sua barra HP e un numero che indica fra quanti turni potrà agire. Questa possibilità, però, mette in luce un difetto sul quale non si può soprassedere: i rallentamenti. Avere tutte quelle barre sullo schermo fa crollare il frame rate a livelli imbarazzanti. Forse proprio a causa di questo problema i programmatori hanno deciso di non inserire icone per indicare i cambiamenti di stato che a seguito degli attacchi nemici affliggono i propri PG, preferendo fornire queste informazioni direttamente nell’apposita voce tra le statistiche nello schermo superiore. Rimane comunque piuttosto brutto vedere un

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nugolo di sprite, tutti grigio chiaro, e non poter sapere con il solito colpo d’occhio quale fra i tanti gode di temporanei potenziamenti. Per il resto Luminous Arc si gioca come uno strategico ordinario, fatte salve alcune piccole regole, come il fatto che colpire un avversario di fianco o da dietro aumenta la possibilità di fare centro e il danno inferto. Sembra una banalità, ma dopo aver giocato Soul Nomad & the World Eaters per PS2, non si possono più avere certezze. Il fatto poi che gli scenari siano in prospettiva isometrica ma non in 3D, causa un po’ di difficoltà nell’avere chiara l’intera morfologia del terreno, con alcuni casi in cui potreste sbagliare a piazzare le truppe, visto che l’inquadratura non può essere ruotata o zoomata a piacere. A proposito di piazzamento delle truppe, prima di ogni battaglia si possono scegliere i personaggi da schierare, ma questi verranno disposti a caso dalla CPU nell’apposita area di partenza. Altre scelte da notare riguardano l’impossibilità di guadagnare esperienza colpendo i propri compagni, anche se è sempre possibile arrecargli dei danni tramite l’uso di tecniche e magie. Nel primo caso, i personaggi che basano tutto il loro essere su attacchi da corpo a corpo e abilità fisiche faticheranno abbastanza per stare al passo con la mole di personaggi dotati di magie di stato e di cura. Mentre i primi continueranno a sudarsi ogni level-up i secondi potranno abusare delle loro magie e continuare a incamerare notevoli quantità di punti esperienza. Non è molto difficile ritrovarsi con un party sovrapotenziato in poche ore, ma con più di venti livelli di differenza fra i suoi membri. Sempre a proposito di magie, queste colpiscono anche i propri personaggi, non solo i nemici. Lo stesso vale per le magie di cura, quindi è bene scegliere con attenzione i propri obiettivi onde evitare di massacrarsi con le proprie mani o di aiutare gli avversari, anche se in quest’ultimo caso è abbastanza utile per tenere in vita il boss di turno e continuare a incamerare punti esperienza con i tre personaggi di cui sopra. Cosa più unica che rara, l’esecuzione delle magie è veloce, indolore, efficace, snella, piacevole. Luminous Arc e Dragoneer’s Aria non si conoscono. Per fortuna. LA è un gioco estremamente facile. Nessuno degli scontri obbligatori vi impegnerà più di tanto, e nel caso non riusciate ad avanzare potrete sempre riaffrontare una delle battaglie già vinte nella mappa del mondo. A questo proposito sarebbe stato saggio se i programmatori vi avessero sempre concesso l’opzione di rifiutarvi di combattere, nel caso il vostro party sia più forte di quello nello scenario in cui siete capitati. La possibilità purtroppo sembra data a caso, quindi vi ritroverete a rifare battaglie e a perdere tempo per miseri guadagni, magari mentre cercate di spostarvi da una zona all’altra del mondo per completare una side quest. Che il tutto venga aggiustato per il seguito? 7

Al contrario di quanto accadeva in Shining Force II (raggiungi il livello venti, parla con il prete), alcuni dei personaggi in Luminous Arc cambiano classe automaticamente nel corso della storia, guadagnando abilità e magie extra oltre a un nuovo “aspetto”.

SCHIACCIA IL BACO IN SENERGIA Due cose che abbondano in LA sono i bug e le mosse speciali. Tra i primi i più fastidiosi sono: 1) una linea bianca o nera che appare e scompare all’improvviso durante i dialoghi o le fasi giocate; e 2) le righe di testo che spesso non seguono altrettanto velocemente le numerose parti doppiate. Per quanto riguarda le mosse speciali, queste si dividono in due tipi: Flash Drive e Synergy. Le prime si imparano raggiungendo certi livelli e, a seconda della potenza, consumano una, due o tre barre FP che si riempiono uccidendo nemici e venendo colpiti. Le Sinergy, invece, sono attacchi speciali combinati, disponibili solo per alcuni personaggi, sbloccabili in certi punti della storia e usabili solo in determinate condizioni.


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WHO’S YOUR DADDY?

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bioshock

genere-fps softco-take two boston publisher-take two piattaforma-360/pc versione-pal multiplayer-no

a cura di Cristiano “Amano76” Ghigi pparentemente esistono due Bioshock. Quello dell’eccezionale demo, e quello del gioco completo. Uno è il Bioshock che promette sfide all’ultimo sangue con i big daddy, architetture esuberanti e un bombardamento costante di oggettivismo. L’altro è quello che regala un’esperienza ludica significativa, un’ambientazione raffinata in ogni sua parte e delle folli nemesi che offrono faccia a faccia memorabili, tanto nella loro teatralità quanto nel loro spessore ludico. Una volta inoltrati per le vie e le gallerie di Rapture si capisce subito perché ci sia chi è stato deluso dalle promesse della demo: la tensione della prima mezz’ora scema rapidamente, a causa di camere della vita che rendono gli scontri con i big daddy una facezia, e per via di ambienti che preferiscono essere funzionali alla strategia di gioco piuttosto che all’estetica art deco del livello iniziale. Ma una volta fatti i conti con la delusione delle aspettative tipica di ogni prodotto vessato dall’hype, Bioshock si rivela un’opera complessa e audace, che lavora lentamente (forse troppo per alcuni) la sua via verso il cuore e la mente del giocatore. Le sezioni di Rapture che sono accessibili durante il corso del gioco rappresentano infatti un’esigenza narrativa squisitamente pianificata, che mostra tanto l’ascesa al potere di Fontaine (un malavitoso che ha portato alla distruzione l’utopia di Ryan) quanto il risultato, fallimentare, dell’iniziativa di Ryan nei campi della scienza, dell’arte e dell’industria. La loro rivalità, così come la serie di anomalie e mutazioni che contaminano la città di Rapture, danno corpo alle teorie dell’oggettivismo senza apparentemente difenderle o criticarle. Ciononostante, piuttosto che tartassare il giocatore di filmati, testi e obbligatori colloqui con personaggi non-giocanti, Bioshock si rivolge al suo pubblico indirettamente: attraverso l’ambientazione, attraverso discontinui indizi forniti da registrazioni sonore, restituite da un doppiaggio di qualità altalenante sia da parte del cast anglofono che di quello italiano. E’ al giocatore che viene poi affidato il compito di unire i punti e ricostruire la successione di eventi che ha portato Rapture al fallimento, in un viaggio dove la ragione, l’arte, la scienza affrontano i loro demoni. Un viaggio che è reso ancor più avvincente dalle difficoltà che si incontrano lungo la strada: i ricombinanti e i big daddy. La mancanza di una modalità online o cooperativa e la costruzione a effetto della trama non devono far pensare che Bioshock sia uno di quei titoli che esauriscono il loro fascino dopo il completamento (vedi Assassin’s Creed). La versatilità dei plasmidi dà infatti l’opportunità di pianificare strategie di ogni tipo: stealth, passive o aggressive. Si possono tendere trappole manomettendo torrette e piazzando mini-cicloni, si possono attaccare avversari a distanza

facendo uso dei plasmidi elementali o della telecinesi, si può scegliere il contatto diretto dando fondo all’armamentario (raramente si resta senza munizioni, e i proiettili possono essere customizzati per ogni tipo di avversario) o combinare l’uso di un plasmide con un’arma (l’accoppiata ghiaccio/mitragliatrice, o quella dummy/shotgun). Le possibilità sono illimitate, tanto che qualsiasi livello si può risolvere anche utilizzando solo e soltanto un singolo tipo di plasmide. L’esperienza varia però enormemente nel caso si faccia uso delle camere della vita, che annullando il rischio di restare bloccati da avversari troppo coriacei o livelli troppo impegnativi (come il labirintico Fort Frolic) fanno sicuramente “il gioco” di chi vuole gustarsi Bioshock tutto d’un fiato, ma allo stesso tempo annacquano l’entusiasmo di chi preferisce assaporare la soddisfazione di aver battuto i formidabili big daddy. Bioshock infatti raggiunge il suo picco ludico quando si dà fondo alla versatilità del sistema di combattimento e quando si impara a torcere un intero livello contro questi teneri bestioni, sfruttando contemporaneamente le pozze di benzina, le torrette automatiche, i ricombinanti, gli spazi angusti dove i big daddy non possono infilarsi o le cime che i big daddy non possono raggiungere. Solo a quel punto si comprendono la vastità e la cura riposte dagli autori nel game design: nella pianificazione di un sistema di armi e plasmidi sostanzialmente equipollenti ma ognuno diverso dall’altro, e nella realizzazione di un’ambientazione che permette di sfruttare le peculiarità architettoniche con inventiva, in modo da poter adottare qualsiasi tipo di approccio risolutivo. Se proprio si volesse trovare un difetto al gioco di Take Two, ci sarebbe da dire che Bioshock fa tutto benissimo ma non fa nulla di nuovo. Anche senza scomodare il precedente System Shock 2 (accidenti che fantasia nello scegliere i titoli!), di fronte all’ambizione concettuale di Assassin’s Creed Bioshock offre ben poco di innovativo. Sulla lunga distanza, ora che il mercato di PlayStation3 comincia a ingranare e i titoli “da avere” per entrambe le console stanno aumentando esponenzialmente, potrebbe rapidamente risultare un prodotto superato. E’ importante in ogni caso tributare una standing ovation a Ken Levine e il suo team di programmatori per non aver trasformato il gioco in un prequel per l’avviamento di una nuova trilogia, come invece è accaduto per Gears of War e Assassin’s Creed. Bioshock è un’esperienza che inizia, si sviluppa e si conclude, un titolo che dovrebbe essere preso a paragone dalla comunità ludica e come esempio dalle altre software house, con la più alta replay value a memoria di Xbox 360. 9

Tra le armi fornite dal gioco è disponibile anche una macchina fotografica. Catturando gli avversari su pellicola si otterranno bonus al danno e nuovi plasmidi. Maggiore è il rischio cui ci si espone (come ad esempio immortalare un big daddy mentre sta per dare una trivellata al giocatore), maggiore il bonus che si riceve.

LOST IN RAPTURE Le similitudini con Lost non sono poche. La premessa del disastro aereo, l’idea dell’isola in cui si ritirano talenti scientifici, i fenomeni che oltrepassano i confini della ragione, e l’enfasi riposta nel ruolo dei bambini: sono molti gli elementi che sembrano sovrapporsi. Hanno copiato? Esistono decine di storie che hanno lo stesso incipit (non solo La rivolta di Atlante di Ayn Rand ma anche L’isola del Dr Moreau per citarne alcune) e in ogni caso cos’è, esattamente, che sappiamo dell’ambientazione di Lost? Pressoché nulla. Una cosa è sicura: per quanto manchino personaggi della complessità di Sawyer o Locke, il modo in cui è stata svolta la sceneggiatura di Bioshock batte ai punti l’intreccio della serie Abc, che fatta eccezione per la cura della cronologia degli eventi e degli indizi si è rivelata uno dei più grandi bluff della storia televisiva. Piuttosto che aspettare come degli sfigati il tie-in di Ubisoft (sono DAVVERO in trepida attesa di sapere cosa MAI tireranno fuori) mollate le speranze di capirci qualcosa e ricompensate Take Two del denaro che merita.

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AFFETTATO DI MOSTRO MISTO

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warriors of the lost empire

genere-action jrpg softco-tommo publisher-ufo piattaforma-psp versione-usa multiplayer-si

a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti arriors of the Lost Empire fa parte di quella categoria di giochi a cui appartengono Baldur’s Gate: Dark Alliance, Champions of Norrath e Untold Legends: mai troppo impegnativi, semplici strutturalmente e ripetitivi al massimo. Se non vi piace il genere, avrete senz’altro FPS, giochi di guida o sportivi a iosa da spolpare su altri lidi. Guardate il voto, fate finta che sia un tre e arrivederci. Gli altri restino, potrebbero trovare qualcosa di interessante. In un altro luogo e in un altro tempo, il saggio e giusto imperatore Hadrianus è arrivato a una sorta di punto di rottura: la vecchiaia, le responsabilità continue e altri grattacapi gli rendono insipida la vita, ma quando meno se lo aspetta ritrova la gioia di vivere. Antinous, un giovane dall’animo nobile salvato dalla prigionia in un dungeon di dubbio gusto, diviene la luce dei suoi occhi. Hadrianus costruisce una città dedicata all’amato, in cui ritirarsi a trascorrere la vecchiaia, ma la tragedia è dietro l’angolo. Intrighi di corte, tradimenti e la sparizione dell’ex imperatore, avvistato mentre varcava le soglie di Antinopolis, porteranno ad una spedizione di ricerca nella città, stranamente brulicante di mostri e di umani dediti ad un culto straniero e blasfemo. La spedizione non riesce ad ottenere risultati apprezzabili e vengono quindi assoldati alcuni mercenari. Nei panni di uno di loro, dovrete esplorare la città e far luce su vari misteri. La storia, anche se non molto originale, risulta piacevole da seguire e ben scritta, con parecchi riferimenti espliciti, sottili o molto velati alla Roma antica. I personaggi sono pochissimi e ognuno è una piccola preziosa fonte di informazioni per capire meglio il quadro generale della vicenda. Alcuni svolgono ruoli particolari come il fabbro, il mercante, la (notevole) donna a capo della spedizione (da cui potrete ricevere gratuitamente alcuni oggetti in caso si sia a secco) e un particolare mentore, sempre pronto a guidarvi e consigliarvi. Le classi tra cui scegliere sono solo quattro, e sono tutte un miscuglio di due o tre classi viste in altri titoli simili. Ogni personaggio è però reso unico da dieci tecniche peculiari che si sbloccano sconfiggendo boss e sub boss. Tutti possono equipaggiare un’arma secondaria, scomoda da usare, ma le cui statistiche si sommano a quelle generali del personaggio. L’arco diventa subito la scelta più letale grazie alle frecce infinite e alla capacità di bloccare i movimenti dei nemici di piccola e media taglia per un breve lasso di tempo. L’unico limite sarà dato dalla forza di resistenza del vostro pollice destro. WOTLE sfrutta tutti i tasti che PSP mette a disposizione, in maniera meno confusionaria rispetto a Untold Legends: The Warrior’s Code, ma i crampi alle dita sono lo stesso assicurati. Alto e basso risultano scomodi per scorrere gli oggetti nell’apposita barra, come scomodi sono sinistra e destra per ruotare la telecamera. La rotazione inoltre è velocissima, e nel caso siate

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circondati da più nemici scatta il caos e si comincia a martellare su quadrato e triangolo come dei forsennati. I due tasti servono per attacchi leggeri e pesanti, e possono essere combinati tra loro alla maniera di un Soul Calibur. Solo, più semplice. L vi permette di usare una delle quattro skill, assegnate ai tasti principali, che avrete scelto di portarvi dietro nel dungeon. Il tasto R è da considerarsi il “jack of all trades” della situazione. La sua funzione principale è quella di parata per gli attacchi in arrivo di fronte, ma è anche estremamente utile per portare la telecamera in linea con la visuale del personaggio. Insieme a R, i principali tasti assumono la funzione di far cadere un oggetto, lanciarlo o usarlo. Infine, se combinato con cerchio, scatta l’uso dell’arma secondaria. X, come di sovente accade negli action RPG, è relegato alla funzione di salto. Piuttosto spettacolare se vista nei filmati dimostrativi, un po’ meno se usata da voi: utile, soltanto, per saltare qualche avversario in casi disperati. Nei diciassette dungeon a disposizione, tutti al chiuso e di piccole dimensioni, composti da più livelli e con un orizzonte visivo non proprio profondissimo, incontrerete creature mostruose e vari esseri umani ostili. Interessante il fatto che le due tipologie siano in conflitto tra loro e se le diano di santa ragione in molte occasioni. Basterà comunque poco perché la scarsa IA del gioco dica a entrambi di far fronte comune e di fondarsi contro di voi in massa. Non importa che in mezzo vi siano trappole sul pavimento, asce oscillanti dal soffitto, colonne ricolme di corna o spuntoni che causino loro danni costanti. Un minimo di esperienza e potrete divertirvi a sfruttare ogni bug o carenza di questo titolo a vostro vantaggio. Meno simpatico è ricevere un possente colpo da un minotauro, pararlo, e ritrovarsi incastrati dentro un muro a causa di un contraccolpo, non potendone più uscire… È comunque presente, e apprezzata, la possibilità di ritornare in città usando un apposito medaglione (che vi obbligherà comunque a ricominciare il dungeon daccapo) e magari fare qualche spesa. Niente soldi in WOTLE, ma il vecchio, sano baratto (molto permissivo). Da notare come le armi e molti tipi di oggetti recuperati durante le varie peregrinazioni, vengano direttamente inviati a un bel baule il cui contenuto sarà sempre accessibile quando troverete altri suoi simili. Esattamente come i vecchi “bauli comunicanti” dei primi Resident Evil. Se siete disposti ad accettare una realizzazione tecnica tra il buono e il discreto, una longevità non proprio esaltante e una certa semplicità e facilità di fondo, WOTLE potrebbe piacevolmente intrattenervi senza grandi pretese, almeno nell’attesa che qualcuno si decida a concludere le vicende di Dark Alliance su altri lidi… 7

Yuzo Koshiro, e il suo studio, firmano i brani della colonna sonora. Decisamente troppo pochi, ma buoni.

I SOLITI RITARDATARI

Nonostante una versione cinese, con tanto di traccia inglese, sia presente già da parecchio tempo sul mercato (e non), WOTLE giunge in America, senza alcun cambiamento, a quasi un anno di distanza dalla sua versione nipponica (Lost Regnum - Makutsu no Kōtei). Il gioco uscirà anche nei nostri lidi a fine febbraio. Stranamente, nel comunicato del publisher europeo, Antinous viene definito come la “BELLA MOGLIE” di Hadrianus. Mera gaffe o censurona in arrivo?


UNDERRATED review

MADE IN SWEDEN

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the darkness

anno-2006 softco-STARBREEZE publisher-2KGAMES piattaforma-360 genere-FPS multiplayer-SI

a cura di Cristiano “Amano76” Ghigi asta guardare il cast di doppiatori selezionato dalla svedese Starbreeze per i personaggi di The Darkness, per capire che si tratta di una softco con le idee molto chiare. Kirk Acevedo (il tormentato Miguel Alvarez della serie Oz) per il protagonista Jackie Estacado, Lauren Ambrose (la rossa Claire Fisher di Six Feet Under) per Jenny Romano, e l’onnipotente Mike Patton (voce dei Faith no More, Peeping Tom e The Dillinger escape plan) per il malefico demone Darkness, ruolo che il musicista ha interpretato con vocalizzazioni disumane senza l’aiuto di alcuna distorsione sonora. Altri caratteristi eccellenti sono poi Dwight Schultz (lo schizzato Murdock del mitico A-Team) nei panni dello spietato Zio Paulie, e Mike Starr (uno degli attori più ricorrenti nei film di mafia) per il terrificante Butcher Joyce. Il tutto benedetto da un motion capture che saccheggia platealmente la mimica del cinema americano dedicato alla mafia italiana, con particolare riguardo per l’intramontabile I Soprano. Lo script, stilato in collaborazione con il fumettista Paul Jenkins, è condito di dialoghi tanto brillanti quanto volgari: stiamo pur sempre parlando di uno sceneggiatore che in Hulk Ultimate Destruction aveva messo in bocca a Joe Fixit (alter ego grigio di Bruce Banner) battute come “tu cosa fai, sputi o ingoi?...intendo il sangue eh! ...mehehehe”. Il risultato, voluto, è quello di un gangster movie a tinte horror condito di umorismo e spacconerie da veri “bravi ragazzi”. L’effetto è talmente riuscito che il giocatore è in grado di riconoscere le citazioni (o le fonti di ispirazione) tanto quanto è in grado di apprezzare quello che è farina del sacco di Jenkins e di Starbreeze. Estacado si muove e parla come un giovane De Niro, senza mai mostrare gli odiosi scatti e le improbabili torsioni tipiche dei personaggi poligonali frutto di grafici megalomani, convinti di aver il talento per poter escogitare animazioni degne di un attore di professione. Butcher Joyce gesticola teatralmente col suo fisico da wrestler, mentre la telecamera accentua con un primo piano le gigantesche dimensioni del suo collo da toro. La diabolica zia Sarah fa venire alla mente in pochi secondi l’altrettanto inquietante mamma Livia della serie I Soprano, e lo scherzoso ma crudele Don Corrado di L’onore dei Prizzi. I visi, ricreati con un gusto che di solito è esclusivo dei videogiochi giapponesi, sono tutti riconoscibili e contraddistinti non solo da tratti somatici specifici, ma da espressioni facciali riprodotte con estrema fedeltà da un motion capture ineccepibile. Lo spirito da gangster movie che si respira in the Darkness permea anche le intense ambientazioni del gioco. Le sezioni ambientate nella metropolitana di New York, ridotta ovviamente a

dimensioni infinitesimali, sono popolate da ogni genere di caso umano: la vecchia senile che si è persa, lo spacciatore, i break dancer, il musicista con l’armonica, il profeta impazzito. Parlando con loro si ha un’ulteriore occasione di gustare la credibilità e allo stesso tempo originalità dei dialoghi, dando ancora più potenza al già riuscito contrasto tra la dura realtà della vita mafiosa e l’assurdità della cosmologia di Darkness. Persino le decorazioni sui muri sono state curate fin nei minimi particolari, con graffiti creati appositamente da artisti svedesi e tappezzati di poster di film fittizi, dai titoli e dagli “strilli” assolutamente credibili come quello di Chackra Assassin, simpatica presa in giro dell’Hitman di Io Interactive. A queste sezioni si alternano quelle ambientate nell’Outerworld, un inferno dove tedeschi e inglesi combattono una eterna Prima Guerra Mondiale, condannati a tornare in vita ogni volta che muoiono. Pur nella loro brevità e monotonia ludica queste sezioni si fanno notare per un character design di notevole impatto (per dirne una: i visi dei militari, riprodotti con dettagli quasi fotografici, sono privi di palpebre) e trovate estremamente spassose, come quella del soldato che si suicida ogni cinque minuti declamando poesie decadenti. Il tutto viene tenuto insieme da uno dei loading screen più accattivanti nella storia del videogioco. Lungo tempo è passato dalla pallina che poteva essere mossa sullo schermo lasciando una scia colorata in Phantasy Star Online: oggi Starbreeze mette a frutto le capacità di calcolo delle console più recenti con uno schermo dove Jackie Estacado si produce in brevi ma esilaranti soliloqui sui taxi newyorkesi, la metropolitana di Manhattan, e i metodi poco ortodossi dei mafiosi. Complessivamente il valore ludico di The Darkness non è considerevole (può essere piuttosto privo di sfida, specie per gli amanti del genere fps) ma da un punto di vista estetico è un titolo che accorcia ulteriormente la distanza tra cinema a videogioco, arrivando nei suoi momenti migliori ad azzerarla. Il risultato è particolarmente encomiabile soprattutto se si considera il fatto che gli autori hanno ridotto ai minimi termini la quantità di filmati presenti nell’avventura: i rarissimi casi (due) in cui non si è ai controlli di Jackie sono stati gestiti con una plausibile giustificazione a livello narrativo. Una soluzione che nemmeno gli ingegnosi programmatori di Take 2 sono riusciti a escogitare in Bioshock, dove per far procedere la storia è stato necessario inserire una sequenza cinematografica, rovinando così l’atmosfera che avvolge il resto dell’avventura, basata sul concetto e l’esercizio del libero arbitrio. La sensazione costante, insomma, è quella di trovarsi protagonisti di un film, come solo Ueda

Il giocatore è accompagnato da tre tipi di darkling. Quello più versatile, il gunner (qui in versione “Donnie Brasco”) cambierà comportamento, commenti e soprattutto fatality a seconda della maglietta che gli si fa indossare. Dopodichè si appresterà a pisciare sui cadaveri dei malcapitati. No, non sto scherzando.

TO KILL A MOCKIN’FUCKIN’ BIRD Aggirandosi in The Darkness ci si imbatterà in televisori con canali interattivi dove è possibile assistere all’intera serie televisiva di Flash Gordon (tredici lunghi episodi di un trash assoluto), The StreetFighter (lungometraggio di arti marziali con il tarantiniano Sonny Chiba) , l’Uomo dal Braccio d’oro (lungometraggio con l’italianissimo Frank Sinatra) e due canali di video musicali (uno pop, l’altro heavy metal) dedicati a misconosciuti gruppi svedesi. E’ inoltre presente Il Buio oltre la Siepe di Alan Pakula, che però potrà essere visionato solo durante una rilassata sequenza del gioco, a fianco di Jenny. Incredibile ma vero, è possibile spulciarsi tutte e due le ore e mezza del film: chi resisterà almeno dieci minuti verrà premiato con un achievement (Romantic).

era riuscito a fare con i suoi Ico e Shadow of Colossus, o Ubisoft con il suo King Kong. Un’opera che come il precedente Chronicles of Riddick supera la pochezza della sua fonte originale, in questo caso un fumetto scontato che fa il verso, male, allo Spawn di McFarlane. Ancora una volta Starbreeze ha dimostrato di non essere tutta chiacchiere e distintivo.

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Dal mese prossimo (e dai prossimi giorni!)

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