anno III n. 1 - Gennaio 2015 - Poste italiane s.p.a. sped in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. n. 46 del 27/02/2004) art. 1 comma 1 - DCB - Caserta
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Cià Guagliò Il Duemilaquindici si apre con una notizia che non avremmo mai voluto leggere, una di quelle a cui si stenta a credere e per le quali si spera fino alla fine che possa trattarsi di uno scherzo. La perdita di Pino Daniele, ci piace ricordarlo con una frase che lui stesso diceva quando gli chiedevano se sentiva la mancanza di Massimo Troisi…facciamo finta che ci siamo “appiccicati”, che abbiamo litigato ed è solo per questo che non ci si incontra più. Tornando a Backstage Press, questo mese di gennaio ci porta alcune novità, diamo il benvenuto a Giuseppe Maffia fotografo di esperienza e professionalità che arricchisce le nostre pagine di scatti impec-
cabili, Ambra De Vincenzi che ci racconta i principali concerti live della capitale e non solo e Francesco Ruoppolo musicista e musicologo. Aces in My Book è invece la nuova rubrica che è curata da Alfonso Papa (omonimo del nostro caporedattore) esperto di libri e di cinema. Ha frequentato il master biennale in Tecniche della narrazione presso la Scuola Holden di Torino, un corso annuale di sceneggiatura alla Scuola del fumetto di Milano e un corso annuale presso la Scuola di Giornalismo e Pubbliche Relazioni Carlo Chiavazza di Torino. Tra le altre cose ha collaborato con la casa editrice Einaudi in qualità di lettore e ha lavorato su alcuni set cinematografici, tra cui “Radiofreccia” di Luciano Ligabue e “Un amore” di Gianluca Maria Tavarelli. Dal 1999
al 2007, prima per l’Associazione Cinema Giovani e poi per il Museo Nazionale del Cinema si è occupato dell’organizzazione del Torino Film Festival. Attualmente lavora in qualità di production manager per la Film Commission Torino Piemonte, dove fa anche parte della commissione di valutazione dello Short Film Fund. Ha scritto qualche saggio e articolo pubblicato qua e là (BestMovie, Quaderni del Premio Letterario Giuseppe Acerbi) e un sacco di roba sparsa inedita. Nell’ottobre 2014 ha fondato il blog magazine “Aces in My Book”. Prima o poi terminerà il suo primo romanzo. Forse. Vive a Torino. Non ci resta che iniziare a sfogliare questo nuovo numero di Backstage Press e scoprirne tutti i contenuti.
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16 TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI Backstage Press è edito dall’associazione culturale “Il Sogno è Sempre Onlus”. Tutti i diritti sono riservati. Manoscritti, dattiloscritti, articoli, disegni e fotografie non si restituiscono anche se non pubblicati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta in alcun modo senza l’autorizzazione scritta preventiva da parte dell’editore. Gli autori e l’editore non potranno in alcun caso essere responsabili per incidenti o conseguenti danni che derivino o siano causati dall’uso improprio delle informazioni contenute.
REDAZIONE Alfonso Morgillo, Wanda D’Amico, Alfonso Papa, Marica Crisci, Domenico Ruggiero, HANNO COLLABORATO: Michela Drago, Alessandro Tocco, Francesco Ruoppolo, Alfonso Papa (To), Giuseppe Maffia, Ambra De Vincenzi. REGISTRAZIONE n. 815 del 03.07.2013 presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (CE). Comunicazione Editore: Il Sogno è Sempre Onlus Sede Legale: Via Botteghino, 92 – 81027 San Felice a Cancello (CE) Sede Operativa: Via Giacomo Matteotti, 20 – 81027 San Felice a Cancello (CE) – Fax. 0823.806289 – info@backstagepress.it – www.backstagepress.it Distribuzione: Gratuita Stampa: Pieffe Industria Grafica
TEMPO DI MUSICA
19 FIORELLA MANNOIA
21 BACALOV, REA, PIZZO
24 MARCHEL DUCHAMP
27 EMERGIAMO
28 ACES IN MY BOOK
30 TEATRO
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ph Giuseppe Maffia
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L’anima Vola in the Clubs tx Ambra De Vincenzi
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Una serie di successi, personali e di vendita, hanno reso l’anno appena concluso particolarmente fruttuoso ed importante per Elisa. La cantautrice bisiaca è infatti finalmente riuscita ad affrontare (e vincere) la sfida costituita per lei, da sempre, dall’italiano, sua lingua ma-
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dre ma al contempo figura mostruosa, affascinante ma ostica, spaventosa perché costringe a spogliarsi completamente, a svestirsi da tutte le maschere, a mettersi a nudo abbandonando ogni filtro. Il risultato di questa faticosa ricerca è appunto “L’Anima Vola”, il primo album di Elisa scritto e cantato interamente in italiano. E se non mancano gli “aiutini” di qualche illustre collega (A modo tuo è un regalo di Ligabue, mentre i testi di E scopro cos’è la felicità ed Ecco che sono opera, rispettivamente, di Tiziano Ferro e Giuliano Sangiorgi), il grosso dei testi sono farina del sacco della stessa Elisa, che a questa sua svol-
ta linguistica ha dimostrato di tenere moltissimo, e questo forse è bastato a fugare i dubbi di quanti hanno avuto il sospetto che si trattasse di una mera trovata commerciale. Il pubblico di Elisa, a giudicare dai risultati di vendita ottenuti dal disco, pare proprio aver capito ed apprezzato la direzione intrapresa dalla sua musica: l’album, infatti, è stato certificato disco di Platino dalla FIMI con più di 60.000 copie vendute. E non è tutto, perché il 17 novembre scorso è stata pubblicata una riedizione del fortunato album, “L’Anima Vola – Deluxe Edition”,
ph Giuseppe Maffia
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i è concluso il 20 dicembre all’Atlantico di Roma L’Anima Vola Live in the Clubs, che ha portato Elisa sui palchi di alcuni dei più importanti club d’Europa per la terza tranche del tour legato alla promozione del fortunato album “L’Anima Vola”, pubblicato il 15 ottobre 2013 per Sugar Music.
ph Giuseppe Maffia
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contenente tre canzoni inedite (Pugni sotto la cintura, L’abitudine di sorridere e Ti dirò di sì), due cover (One degli U2 e Bridge over troubled water di Simon & Garfunkel) e un bonus DVD con interviste ed estratti dalla data bolognese della prima parte del tour.
ph Giuseppe Maffia
Dopo un’annata così ricca di successi, una serie di date nei palazzetti a marzo, qualche data estiva con gran finale il 27 settembre all’Arena di Verona, una tournée nei club di tutta Europa, Elisa aveva parecchio da festeggiare. Sul palco dell’Atlantico, oltre che dalla sua band (il compagno Andrea “Ringo” Rigonat alle chitarre, Christian “Noochie” Rigano alle tastiere, Victor Indrizzo alla batteria, Curt Schneider al basso, Roberta Montanari, Lidia Schillaci e Bridget M. Cady ai cori), è stata accompagnata da due ospiti spe-
ciali: il cantautore londinese Jack Savoretti, che ha aperto il concerto ed ha duettato con Elisa sulla sua Changes e sulla splendida Hallelujah di Leonard Cohen, ed il romano Andrea Faustini, reduce dall’ultima edizione di X Factor UK, che ha accompagnato Elisa in Forgiveness e in una deliziosa versione di (Sittin’ on) the dock of the bay di Otis Redding. Elisa ha offerto un concerto dall’attitudine rock, nel modo più puro ed assoluto possibile. La dimensione più intima e raccolta dei club è quella che più le si addice, valorizzandola tout court e rendendo possibile uno scambio più diretto con il pubblico. I suoi musicisti, d’altra parte, producono un suono compatto, esplosivo, da vera rock band d’altri tempi. Senza dubbio questa vocazione risulta un po’ penalizzata dalla scaletta ab-
bondantemente infarcita di grandi successi che di rock hanno ben poco, ma si sa: quando il pubblico cresce bisogna dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Il risultato, nel caso di Elisa, è comunque quello di un ottimo show, in cui a ballad emozionanti ed eteree come Fairy girl e Dancing si alternano pezzi energici ed esplosivi, dalle storiche Labyrinth, It is what it is, Rainbow, Cure me, alla nuovissima Pugni sotto la cintura. Si è riconfermato anche il momento jukebox inaugurato nella prima parte de “L’Anima Vola Tour”, in cui Elisa e la sua band usano concedersi senza riserve. In occasione della data romana hanno regalato ben 5 pezzi fuori scaletta: Electricity, Rock your soul, I know, Gift e Redemption song (classico di Bob Marley). Il saluto finale di Elisa è un arrivederci a data da destinarsi, perché il tour è giunto al termine e di notizie certe sul prossimo album ancora non se ne hanno. Ma Elisa, forse, ci spiazzerà tutti di nuovo: pare che al momento sia tornata a scrivere in inglese. Non ci resta che aspettare! © Riproduzione riservata
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Pino Daniele Napule è…
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ti insieme, una montagna di dolore… non so da quel momento quanto ho pianto. Chi non è di Napoli può capire fino ad un certo punto, chi non è un musicista napoletano può capire ancora meno. Pino Daniele non è stato solo un cantante, un chitarrista, non uno qualsiasi, Pino Daniele È Napoli, con le sue contraddizioni, con la sua bellezza, coi chiaroscuri, il ritmo frenetico, la melodia potente capace di conquistare il mondo, è popolo e cultura elevata, è Scampia e Vomero, denuncia e rassegnazione, impegno e superficialità. Ci ha talmente descritti, descrivendo sé stesso, che ormai ph Giovanni Canitano
ono le 8 del mattino di lunedì 5 gennaio 2015, ho dormito a casa dei miei genitori. Entra mia madre e mi chiede se sono sveglio, quindi mi dice “è morto Pino Daniele”. Ci metto qualche minuto per capire che non si tratta di un incubo. Accendo il cellulare e vado su internet, pregando ogni dio possibile che si tratti di una bufala. Ma non è così, “zio Pino” ha raggiungo Massimo in Paradiso, perché se esiste davvero, non può che accogliere persone come loro. Vi è mai caduta una montagna addosso? Ecco, quella è la sensazione che ho provato: una montagna di ricordi, tut-
tx Francesco Ruoppolo
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siamo totalmente identificati in lui. Qualcuno che dovrebbe cogliere l’occasione per star zitto ha detto cose assurde, tipo che Pino aveva preso le distanze dalla città, andandone via. Ora, per quanto possa infastidire che un tuo mito non stia alla porta accanto, bisogna però mettersi nei panni di un artista, che ha l’esigenza lavorativa di vivere prima di tutto in posti dove sia “centrale” la sua attività (Roma, Milano), e poi dove sia meno sotto i riflettori e anche con un po’ di distanza dal troppo affetto (quello sì) che un popolo come quello napoletano può nutrire. Pino da subito si è trasferito, a Formia, dove aveva casa, studio. Poi altri spostamenti fino al buen ritiro in Toscana. Detto ciò bisogna sottolineare che non ha mai rinnegato la sua città; ci ha sempre difesi, ma al tempo stesso pungolati, stimolati al cambiamento. Se prese mai distanze, queste furono quelle da cartolina, dalle immagini oleografiche che ancora oggi qualcuno si ostina a usare per coprire da una parte i problemi reali, dall’altra una città che diventa sempre più moderna ed europea, con tutta la fatica che può esserci in una realtà come Napoli. Napoli nel dialetto, nell’accento, nel carattere, nel sorriso,
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ph Roberto Panucci
sempre presente tra le note e nei tanti modi di dire presenti nelle sue canzoni, che ha fatto scoprire a molti la parlesia, noi che ci chiedevamo chi fosse lo “jammone”. Perché Pino Daniele è così rappresentativo ed amato dai napoletani? Prima di tutto perché rappresenta un simbolo di rivalsa, un talento che ha sudato ogni risultato ottenuto. Nascere in un quartiere popoloso, difficile, in una famiglia numerosa, modesta, ed arrivare a suonare coi più grandi musicisti del mondo… se non è questa rivalsa! È il nostro “sogno ame-
ricano”, il faro, l’obiettivo cui puntare, il riferimento di ogni ragazzo che va a comprare la sua prima chitarra, che scrive la sua prima canzone. Napoli oggi è purtroppo piena di un sottobosco fatto di improbabili cantanti e autori, dove è nata la forma canzone oggi spopolano più che mai (segno del degrado culturale cui versa la città) i cosiddetti neomelodici (e qualche colpa di questo fenomeno va data anche a qualche giornalista che ha lucrato sullo sdoganamento degli stessi). Guardando questa pochezza però ti fermavi e pensavi “vabbeh,
però abbiamo anche Pino Daniele”. Non poter dire più questa frase fa male da una parte, ma dall’altra investe di nuova responsabilità chi crede in una realtà artistica diversa della nostra città. Pino credo sia stato l’artista con l’apertura mentale maggiore in Italia e forse nel mondo. Pronto dall’inizio a qualsiasi contaminazione, perché nato in una cultura meticcia di natura, ha mischiato generi, linguaggi, sonorità, dalla tradizione partenopea al blues, jazz, rock; Europa, America, Africa hanno convissuto nelle sue composizioni, anima latina e rabbia metropolitana, fino a sfociare negli esperimenti madrigalistici di Gesualdo da Venosa. Ha collaborato con chiunque: Baglioni, Vasco, Giorgia, Pat Metheny, Al di Meola, per fare pochi nomi della lunghissima lista; ha riempito con concerti memorabili stadi, palazzetti, piazze… su tutte la più cara, Piazza Plebiscito, teatro del fiume di gente del 1981, passando per altre occasioni, fino al mare di gente di ogni generazione di mercoledì 7 gennaio 2015, per l’ultimo saluto. Io ero lì e la cosa che mi ha colpito di più è stato il silenzio irreale che già un’ora prima si era impossessato della piazza… eravamo quanti, 150mila? 150mila persone in silenzio in attesa di dare l’ultimo applauso al nero a metà, anima viva e vera di Napoli. © Riproduzione riservata
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Pallante Ufficialmente
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l tuo ultimo lavoro “Ufficialmente pazzi”, in questa società attuale siamo veramente tutti pazzi? Bella domanda, ovviamente questa è la mia visione il mio modo di guardare. Ufficialmente pazzi che è il titolo del disco, quindi non sono da solo ufficialmente pazzo altrimenti il titolo sarebbe stato diverso. Ci sono due chiavi di lettura, la prima è che ufficialmente pazzi è anche il titolo
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Pazzi
di un brano contenuto nel disco che ho scritto insieme ad una carissima amica, che purtroppo ha avuto una brutta esperienza, quella di trovarsi all’interno di un manicomio ed al termine di questa esperienza è riuscita a scrivere delle cose meravigliose. Me ne ha donata una e dopo un po’ di tempo ne ho fatta una canzone. Mi piaceva che il titolo fosse questo, per ringraziare
tx Alfonso Papa
quella persona e la sua forza. L’altro senso è quello a cui facevi riferimento nella domanda e cioè che mi sembra evidente che come genere umano, come abitanti di questo pianeta siamo un po’ andati oltre e per certi versi un po’ folli. Nessun altro essere vivente che abita il nostro pianeta si autodistrugge o distrugge il territorio, come facciamo noi. Il disco è stato anticipato dal singolo “Tutto quello che resta (del perduto amor), che ha visto la partecipazione di Alex Britti in una veste decisamente inedita. Ci parli di questa collaborazione? E’ stata molto divertente, come lo sono tutte le cose che faccio con Alex. La collaborazione nasce da un’amicizia più che ventennale. Un giorno mentre suonavamo sul divano è venuta fuori questa canzone ove Alex ha suonato il basso e la batteria ed Erica Mou ha fatto i cori impreziosendo ulteriormente il brano.
L’album nasce completamente immerso nella natura, in un bosco dell’Umbria. Tu ami molto la natura e la non violenza verso gli animali. Ritieni che la musica sia un buon canale per promuovere questi messaggi? Credo che la parola è un metodo fondamentale e la musica lo sia altrettanto, sia un qualcosa di eccezionale per tutti i tipi di comunicazione. Io nella vita sono così e la mia musica ne è diretta conseguenza. Questo aspetto sarà presente anche nella parte live? Sicuramente si, sia perché frequenterò dei posti un po’ inusuali “cruelty free”, ma anche perché il mio impegno non si ferma certamente al fatto di avere un disco certificato “Vegan ok”, sono una persona che in pieno aderisce a questa filosofia o se vogliamo semplice pensiero della non violenza. Anche la manifattura è stata fatta sempre tenendo presente che non fossero impiegati materiali che derivano dagli animali. © Riproduzione riservata
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Italia Rock Progressive, Le Contaminazioni tx Wanda D’Amico
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ome tutte le correnti, sia musicali che artistiche in genere, il rock progressive sinfonico, fu d’ispirazione ad altre sotto tendenze. Alcune di queste, come il rock d’avanguardia, che aveva la particolarità di mischiare il rock britannico al jazz rock, ebbe molto successo tra le note di gruppi come Arti e Mestieri e i Perigeo, due gruppi che riuscirono a portare la propria musica soprattutto all’estero. Del gruppo Arti e Mestieri ricordiamo
album come Tilt (immagini per un orecchio), pubblicato nel 1974, e Giro di valzer per domani (1975). Del Perigeo, invece, l’ottimo Abbiamo tutti un blues da piangere del 1973 e il successivo Genealogia. Di più difficile collocazione è il genere che gli Area proponevano, il loro era un misto, oltre che di rock progressive, di musica araba, greca e di free jazz. Nacquero quasi per caso durante la
registrazione dell’album Radius, incisero il loro disco di esordio nel 1973, Arbeit Macht Frei, che conteneva il brano Luglio Agosto Settembre (nero), questo gruppo in particolare mise da parte l’idea che l’arte dovesse fare solo arte e utilizzarono la musica come vero e proprio strumento di militanza politica, così come già da tempo stavano facendo gli Stormy Six, gruppo rock progressive del milanese.
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Di questo gruppo (nato nel 1969) si ricordano L’unità, un brano del ’73 e il brano Stalingrado/la fabbrica. Altri gruppi, se non per vera e propria militanza politica, scelsero comunque di utilizzare la musica come strumento di denuncia sociale, mischiando il rock progressive al folk, come i Canzonieri del Lazio famosi per il brano Quando nascesti tune. Altro gruppo di spicco con le stesse intenzioni di denuncia sociale furono i Napoli Centrale, che vedeva come front man James Senese alla voce e al sax. Questo gruppo spicca anche per essere stato uno dei primi a fare musica di “recupero” dei brani tradizionali (come il brano Campagna) come anche gli Osanna. Questa corrente mista vide gli esordi anche di un giovanissimo Alan Sorrenti che fu autore di una fantastica opera prima dal titolo Aria, che mescola il suo stile intimista
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ad un virtuoso uso della voce e che segue le influenze di Tim Buckley. Il “metodo” di Alan Sorrenti non fu isolato, all’interno della stessa cerchia di può inserire Fabrizio De Andrè primo sicuramente dal punto di vista letterario e che nell’album La buona novella riuscì a raggruppare tutti i musicisti che formeranno poi la PFM. Da quest’ultima corrente, cantatutorale intimista, emersero, lentamente e con molto indugio, altri cantautori che provenivano da altre tendenze, ad esempio Claudio Rocchi (bassista degli Stormy Six) proveniente da una cultura psichedelica del quale si ricorda uno dei suoi album di esordio Volo Magico n°1. Di grande rilevanza è l’opera rock Orfeo 9 di Tito Schipa Jr., incisa su doppio LP, e documentata in un film sperimentale. Il film, prodotto dalla Rai, trattava argomenti come la droga, un tabù per
l’epoca. Questo fece si che il film e l’opera rock fossero spinti nel dimenticatoio. Solo dopo 35 anni il film viene riportato alla luce e proiettato al festival di Venezia. Anche i Giganti avevano prodotto nel 1971 un lavoro in forma di concept dal tema altrettanto scottante (in questo caso la mafia), intitolato Terra in bocca, osteggiato dalla RAI e finito senza alcuna eco. Tra i pochi album di artisti dal grande successo commerciale, possono considerarsi progressive, Amore e non amore di Lucio Battisti, pubblicato nel 1971 e nel quale suona la futura PFM, e due dischi dei Pooh in cui sono presenti anche due suite, la prima contenuta in Parsifal del 1973, la seconda in Un po’ del nostro tempo migliore del 1975 (Il tempo, una donna, la città). © Riproduzione riservata
Fiorella Mannoia
Un viaggio attraverso la musica.
tx Ambra De Vincenzi
È
un vero e proprio viaggio indietro nel tempo quello che Fiorella Mannoia propone nel suo ultimo album, “Fiorella”, uscito il 27 ottobre, prodotto da Piero Fabrizi per la Durlindana e distribuito dalla Sony BMG; un’antologia in due cd pensata per festeggiare i 60 anni della cantante romana, compiuti il 4 aprile, e soprattutto per celebrare i suoi 46 anni di carriera.
A colpire di Fiorella Mannoia non è il punto di vista prettamente vocale, sebbene il particolarissimo timbro di voce da contralto e l’impeccabile controllo della voce la
rendano interessante anche in questo aspetto. Ciò che di lei ammalia maggiormente è l’eleganza, il sentimento e la partecipazione con i quali dà significato ad ogni singola parola che canta, raccontandola, riempiendola di senso. Sul palco Fiorella è accompagnata dalla sua band di sei elementi: Carlo Di Francesco alle percussioni, Davide Aru alle chitarre, Luca Visigalli al basso, Fabio Valdemarin al pianoforte, Diego Corradin alla batteria, Clemente Ferrari alle tastiere e alla fisarmonica. La magia della musi-
ph Giuseppe Maffia
Lo stesso senso ha il Fiorella Live Tour, iniziato a novembre e conclusosi il 30 dicembre a Roma con l’ultima delle
quattro date in calendario alla Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica, tutte sold out. Un ulteriore modo per festeggiare a contatto col pubblico e rivivere le tappe più importanti della sua carriera. E non soltanto attraverso le canzoni, ma anche con i cambi d’abito ispirati ai diversi stili adottati negli anni.
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22 ph Giuseppe Maffia
ca è amplificata dalla location mozzafiato della Sala Santa Cecilia e dagli splendidi giochi di luce che hanno accompagnato lo spettacolo. Il viaggio parte dal Festival di Castrocaro del 1968, quando una Mannoia 14enne propose la sua versione di Un bimbo sul leone di Adriano Celentano. Si prosegue con i primi successi degli anni ’80, da Caffè nero bollente (Sanremo 1981) a Come si cambia (Sanremo 1984) e Quello che le donne non dicono (Sanremo 1987), accompagnati dalle immancabili giacche con le “spallone” tanto in voga all’epoca. I ricordi vanno avanti, e la serata è tutta un alternarsi di momenti emozionanti e divertenti, tanto che nominarne solo alcuni è difficile. Centrale, nella carriera dell’artista, è sempre stato il rapporto con i grandi autori che hanno subito compreso il suo talento di interprete e che le hanno regalato gli immensi capolavori che l’hanno resa celebre, Enrico Ruggeri ed Ivano Fossati in primis. La Mannoia, dunque, come dichiara lei stessa, non ha mai avuto il “complesso della cover”, e in questo tour, come d’altra parte nell’album, in cui sono presenti ben 18 duetti, ha deciso di omaggiare non solo i cantautori con cui già aveva collaborato in passato, ma anche quelli che comunque l’hanno in qualche modo segnata con la loro musica.
Eccola dunque cimentarsi con una cover de La stagione dell’amore di Franco Battiato (uno dei momenti più emozionanti della serata), con Cercami di Renato Zero, e ancora La casa in riva al mare del compianto Lucio Dalla, al quale la Mannoia aveva già dedicato un album-tributo nel 2012, “A te”, reinterpretandone alcune canzoni.
I temi che stanno a cuore alla cantante si ritrovano tutti nelle canzoni che propone, siano esse scritte di suo pugno, come la recente In viaggio, che parla di maternità ma anche di emigranti, o di altri autori, come La paura non esiste, firmata da Tiziano Ferro, che Fiorella decide di dedicare a tutte le donne vittime di violenza domestica.
A metà concerto Fiorella racconta col sorriso sulle labbra della sua trasformazione stilistica databile ai primi anni ’00 quando, dopo decenni passati a tenersi lontana dagli orpelli e dagli “sculettamenti” affinché ci si concentrasse solo sulla musica, sull’emozione e sul messaggio che aveva a cuore e voleva trasmettere, ha scoperto la sua femminilità e la liberazione nel mostrarla agli altri: dismessi i rigorosi tailleur, Fiorella passa all’elegante vestito rosso che, per l’occasione, ha ritirato fuori da un cassetto ed è tornata ad indossare.
Via con me di Paolo Conte e Il cielo d’Irlanda, composta per la Mannoia da Massimo Bubola, sono i trascinanti pezzi con cui Fiorella e la sua band salutano il pubblico, e lo fanno senza risparmiarsi: la cantante scende dal palco e attraversa la platea ballando divertita tra la folla, concedendo foto e abbracci come se si trovasse ad una grande festa tra amici. E forse è proprio così che si sente, Fiorella, col suo pubblico. © Riproduzione riservata
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Luis Bacalov, Danilo Rea, Alberto Pizzo tx Francesco Ruoppolo
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unedì 12 gennaio 2015, al teatro Diana, la notte si è illuminata di stelle, le tre stelle del pianoforte presenti sul palco, tre generazioni a confronto: il premio Oscar Luis Bacalov, un mago del jazz spesso prestato alla musica leggera d’autore italiana, Danilo Rea, e l’astro nascente Alberto Piz-
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zo, il cui percorso artistico ha come obiettivo quello di avvicinare la musica classica ed il jazz. Questa finalità, sposata anche dai due ospiti, è subito evidente all’inizio della serata: i tre iniziano, scambiandosi accompagnamenti e parti soliste, con il I Preludio dal Clavicembalo ben temperato di J.S. Bach, dal quale
prende forma l’elaborazione di Gounod, che usò questa composizione come accompagnamento per la sua Ave Maria. Bach non è un caso (verrà più volte citato dai maestri durante il concerto), essendo – per la sua genialità vissuta in ogni direzione della tastiera – un riferimento per ogni jazzista. Bacalov, Rea e Pizzo eseguono brani
in trio, duo, a solo. Il primo suonando brani di Vincente Greco (compositore argentino di chiare origini italiane), spaziando tra il tango tradizionale, passando per Astor Piazzolla (potente l’esecuzione a tre di “Libertango”), compositore dedicatario di Astoreando, non unica opera di Bacalov eseguita al Diana, dato che non poteva mancare la colonna sonora del Postino di Troisi. Rea, col suo inconfondibile stile percussivo, inizia con una rielaborazione jazzistica di Te voglio bene assaje, cita Gerswin introducendo
Tammurriata nera, quindi la miscela di melodie celebri, tra De Andrè, Sinatra, temi da film (come Moon River), nascoste tra sostituzioni, riarmonizzazioni, clusters, cambi di metro, tipici del linguaggio jazzistico. Pizzo principia il suo spazio solistico eseguendo temi di Ennio Morricone, le musiche di Cinema Paradiso, standard jazz suonati col tocco di un moderno Bill Evans; spicca Over the rainbow miscelata con Quando di Pino Daniele, e al grande artista partenopeo da poco scomparso che con Danilo Rea esegue
Napule è. Il pubblico, numeroso, torna a casa ricco di emozioni, con le orecchie cariche di note e il sorriso di chi sa godere della musica vera. © Riproduzione riservata
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ndo CHIMICA corsi collettivi e individuali di:
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Belli e fatti p re ss
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gni fenomeno umano non può essere capito se non lo si inquadra nel suo corrispondente periodo storico. Questo accade in particolar modo per il Dada. Movimento culturale nato nei terribili anni della prima guerra mondiale, quando tutti i valori umani furono stravolti dalla logica del grande conflitto. Nasce così un disgusto verso tutto ciò che viene fatto in suo nome e verso tutte le cause che l’hanno generata. Ed è proprio questo spirito di disgusto che anima un gruppo di giovani intellettuali che diedero vita al Dada: una rivolta totale contro tutti gli aspetti della civiltà. “Dada vuole distruggere tutto, per ricostruire il mondo completamente diverso, rendendo all’uomo quel ruolo di protagonista, autore di se stesso”. Contro la letteratura, contro la poesia, contro l’arte, contro ogni cosa bella e perfetta e contro tutte le correnti artistiche. Dada vuol dire libertà, un nuovo modo di concepire l’arte: un oggetto comune messo in una certa posizione invece che in un’altra, diventa più interessante generando uno shock nello
spettatore, distogliendolo dalle sue abitudini mentali. Grande scandalo, ma anche un grande interesse, fu suscitato dalla figura di Marcel Duchamp (Blainville 1887 – Neuilly 1968). Nel 1917 egli inviò sotto falso nome, ad una mostra dove faceva parte del comitato organizzativo, una scultura dal nome Fontana: era un orinatoio maschile in maiolica bianca capovolto e collocato su un piedistallo di legno. Lo scandalo fu immenso e la scultura fu rifiutata. Tuttavia l’opera di Duchamp rappresentava al meglio il concetto di arte Dada: trasformare un oggetto della quotidianità in opera d’arte, cambiandone semplicemente il contesto. Oggetti che egli stesso chiamò i ready-mades e cioè “belli e fatti”. Di notevole importanza storica la figura di Duchamp, non soltanto per l’impatto emotivo che le sue opere hanno determinato sui contemporanei, ma anche per tutte le conseguenze che hanno avuto sull’arte dei decenni successivi.
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Fontana(1917)
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rentenne napoletano, si definisce un’eccezione che “trasgredisce” la regola. In realtà, DJ con vasta esperienza internazionale e cantautore. Studi di canto e pianoforte, ha viaggiato molto e con curiosità in tutti i continenti e di ogni luogo ha assorbito culture e influenze musicali: bossa nova, funky, tanto pop, moltissimo rock. Così, nel primo album (2005), complice l’incontro con Carmerita Esposito della C.E.Production, ha trasfuso atmosfere soul e funky mescolate con le contaminazioni afroamericane. “Rabbia” (2009, IRMA Records) è rock tutto italiano, così come le produzioni del 2012 e 2013 nate anche dall’incontro con Renato Droghetti e Luca Longhini e che portano agli ultimi progetti rock e all’ album “Sono qui ancora”. Un percorso con un
bilancio lusinghiero: 5 singoli, due album, altrettanti DVD e una compilation. C’è poi l’attività di DJ (col nome d’arte Benny Càmaro) che, dal 2001, lo portai nei locali più alla moda della Costa Smeralda e della Versilia, ma anche Barcellona e oltre Atlantico (Los Angeles). Gioca per solidarietà con la Nazionale DJ. “La musica è l’arte dei suoni. La prima cosa che impari al Conservatorio, ma che solo vivendola fino in fondo ne comprendi il vero significato, tanto importante e totalizzante da diventare la ragione di vita. Sono stato fortunato: ho cominciato ad amare la musica all’età di 4 anni. Di tutti i giocattoli che avevo mi appassionava solo una tastiera di un’ottava…”.
“Canto principalmente rock, soul e funky, ma mi piace viaggiare attraverso tutti i generi e studiarli a fondo, come i paesi che visito”. Quali esperienze ti intrigano maggiormente? Sono cantante, pianista, Dj. Giro molto e sarebbe difficile precisare tutti i momenti. Quello che m’è rimasto più dentro è certamente il Radio Cuore Tour, con dieci tappe di bella musica in giro per l’Italia. Ma anche i tantissimi locali in cui mi sono esibito: l’Hollywood e il Just Cavalli di Milano, il Billionaire, il Sopravvento e il Sottovento o l’Utopia di Varsavia, il Cavalli di Miami, ma anche Punta Cana, Mexico, Barcellona. Non disdegno le feste di piazza. Vado dovunque mi chiama la musica.
Quali sono i generi musiRaccontaci del tuo ultimo cali che ami di più? disco.
“Sono qui ancora” è un concept, racconta una lunga storia con le difficoltà che la vita, normalmente, pone lungo la strada. Ogni testo di ogni singola canzone racconta un’avventura, un momento, un dolore o una gioia. Racconta la vita. © Riproduzione riservata
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Il romanzo Fegato e cuore di Alessandro Marchi si “adatta”.
l programma europeo di training professionale TorinoFilmLab, dedicato in particolare allo sviluppo di storie per il cinema, che si declina attraverso una varietà di offerte rivolte a professionisti di tutto il mondo, ha tra le sue proposte anche quella dedicata in modo specifico all’adattamento cinematografico. AdaptLab è ormai già al suo nuovo via per il 2015, visto che la scadenza della “call for entry” per quest’anno è stata il 5 gennaio. Chi si fosse distratto troppo a causa dei festeggiamenti natalizi quindi dovrà aspettare la prossima occasione. Ad ogni modo ci sembrava interessante parlarne, dando voce, per così dire, a una delle controparti - giusto per offrire un punto di
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vista trasversale - su uno dei progetti sviluppati nell’ambito dell’ultima edizione, ovvero non a uno degli sceneggiatori-registi che hanno partecipato attivamente al programma di training, ma allo scrittore di uno dei romanzi proposti per l’adattamento. Alessandro Marchi, che ha accettato di rilasciare una breve intervista sulla sua personale esperienza con AdaptLab, è nato a Bologna nel 1979 ed è l’autore del romanzo “Fegato e cuore”, pubblicato dalla giovanissima e interessante Casa Editrice BookSalad e scelto appunto per partecipare al programma AdaptLab dello scorso anno, conclusosi con il Meeting Event di Torino dello scorso novembre:
Come mai avete deciso di candidare “Fegato e cuore” al programma AdaptLab? “Fegato e cuore” è stato il primo libro in assoluto della Casa Editrice BookSalad di Anghiari, pubblicato a Maggio 2012: siamo giovani e piuttosto naïf, al limite della sfacciataggine. Fare nuove esperienze e tentare nuove vie è nella nostra natura. Questa, poi, ci sembrava poter essere un’opportunità seria e concreta. Ci abbiamo provato, è andata bene. Quali sono secondo lei le maggiori difficoltà quando ci si propone di trasformare un romanzo in un film, che ci si augura possa avere successo? Enormi. Non per niente, quasi sempre, i lettori più affezionati ad un libro restano delusi dalla trasposizione cinematogra-
fica. Prima difficoltà, credo, sia quella strettamente legata al tempo. Il libro ha tutto il tempo che vuole per narrare la propria storia, il cinema no. In circa due ore devi condensare centinaia di pagine, che una persona impiega decine e decine di ore a leggere. Questo, sotto un altro aspetto, è un vantaggio per il cinema, ovviamente: chiunque può spendere due ore per vedere un film. In pochi sono disposti a spendere una settimana per leggere un libro, che spesso viene lasciato a metà. Oltre al tempo, c’è il ritmo. Sulla pagina scritta dare ritmo è difficile, senz’altro, ma è concesso anche qualche rallentamento (non troppi) prima che il lettore chiuda il volume. Al cinema se il film stagna lo spettatore si annoia. D’altro canto il film ha la straordinaria potenza dell’immagine dalla sua, rispetto alla parola scritta. Specialmente per i colpi di scena, un’immagine è più efficace. Altra difficoltà è quella di riuscire a mantenere uno stile narrativo che in qualche modo ricordi quello dello
scrittore. Penso, ad esempio, a “La versione di Barney”. Un libro che ho adorato, con una narrazione vulcanica che è andata completamente persa nel film, una totale delusione. E poi, più pragmaticamente, i costi. Fare un film costa tantissimo e non è facile cambiare direzione se ci si accorge di andare in quella sbagliata. Anche lo scrittore fatica a liberarsi di quelle pagine scritte che non funzionano, ma in fondo basta un po’ di coraggio e il tasto “canc” per farlo. Da scrittore cosa pensa del binomio editoria-cinema? È un binomio che funziona perché fa gioco sia all’editoria, sia al cinema. Il mondo della pellicola ha nei libri ogni giorno pubblicati in tutto il mondo un bacino di storie potenzialmente inesauribile dal quale trarre film. Mentre l’editoria ha la possibilità di fare quel salto di quantità (quantità, appunto, non qualità) che solo attraverso il grande schermo è possibile. Il libro resta sempre lo stesso ma, se il film ha successo, può ampliare il proprio pubblico
di lettori in maniera enorme – possibilità altrimenti preclusa. Sono assolutamente convinto che ogni scrittore dovrebbe avere l’ambizione e il proposito di portare la propria storia e il proprio messaggio a più persone possibile. Il cinema fornisce questa opportunità, per cui l’atteggiamento snob che a volte si registra nei confronti delle versioni cinematografiche dei film è del tutto fuori luogo. Anche se non ben riuscito, e succede spesso come ho detto, il film raggiunge comunque un numero di persone immensamente più grande di un libro – una piccola parte delle quali leggerà anche l’opera letteraria. Se quindi il film avrà fatto guadagnare anche solo un lettore, ne sarà valsa la pena. Continua a leggere l’intervista su: www.backstagepress.it © Riproduzione riservata
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45 Fringe Napoli Teatro Festival Italia Lo spettacolo è scritto e diretto da un collettivo di artisti IF0021, di provenienza artistica diversa, che sperimentando nelle nuove tecno-
logie audiovisive, uniscono e contaminano i linguaggi, indagando nelle infinite possibilità creative. Spazio circolare, plasmato dal movimento e dalle azioni sceniche del performer, in
dialogo con un violoncellista. Spazio circolare, immaginario, come luogo di incontro tra proiezioni mentali e proiezioni reali, spazio circolare confinato da sensori che codificano il movimento in suono, creando una barriera sonora, tramite un processo di live-coding. Silenzio e suono si alternano alla ricerca di una sintesi tra corpo | suono | ambiente. Un esperimento coreo-video-sonoro in cui il movimento nello spazio circolare si traduce in “visione simbolica” e “spazio timbrico”. Il cerchio primo è inoltre il luogo d’incontro tra un uomo e un albero. Albero come antenna tra cielo e terra per connettere, attraverso l’uomo, due dimensioni e manifestarne l’integrazione. Info spettacolo: Piccolo Bellini, 24 e 25 gennaio – sab ore 21:15, dom. ore 18:00 prezzo biglietto: euro 10,00-15,00 © Riproduzione riservata