Il libro Sé divino

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I gioielli

testi esoterici del SuďŹ smo collana diretta da Paolo Urizzi 5



Ibn ‘Arabî

Il libro del Sé divino (Kitâb al-Yâ’ wa huwa kitâb al-Huwa) a cura di Chiara Casseler Saggio introduttivo “I fattori della Sintesi trascendente” di Paolo Urizzi

Il leone verde


In copertina: Coppa di ceramica, Egitto, XII sec.

ISBN: 88-87139-65-2 Š Copyright 2004 Edizioni Il leone verde Via della Consolata 7, Torino Tel/fax 011 52.11.790 e-mail: leoneverde@leoneverde.it http://www.leoneverde.it


Indice

“I fattori della Sintesi trascendente” : saggio introduttivo di Paolo Urizzi

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Introduzione

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Il Kitâb al-yâ’ e le altre opere akbariane

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La Scienza delle Lettere: lineamenti e princìpi

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Huwa e huwiyya: il Sé e l’Ipseità

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L’Ipseità e l’Identità Suprema

58

Il nome Huwa

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La declinazione universale

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Le nozze e la triplicità

75

Il sillogismo

84

Il rapporto Huwa – yâ’

87

I pronomi della Persona divina

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Giona e la teofania del “Tu”

101

La lettera nûn

115

Conclusione

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Il Libro del Sé divino

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Completamento ed integrazione: Hâ’, Huwa e Hiya

148

Un briciolo dell’intimo colloquio (munâjât) di Huwa

161

Dall’intimo colloquio di Anâ

164

Dall’intimo colloquio di inna

166

Dall’intimo colloquio di Anta

167

Glossario dei termini arabi principali

171

Indice dei versetti coranici citati

177

Bibliografia essenziale

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Chiara Casseler (Trieste, 1973), è dottore di ricerca in Civiltà Islamica presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Da anni approfondisce i temi di spiritualità islamica e si è specializzata nello studio dell’opera ibnarabiana. Per Il leone verde ha tradotto e curato Il mistero dei Custodi del mondo, di Ibn ‘Arabî.


I fattori della Sintesi trascendente di Paolo Urizzi

Il presente opuscolo, pur nella sua brevità, è notevole sotto molti riguardi e lo stesso Shaykh al-Akbar ci avverte: «Studia attenta­ mente questo libro, poiché per suo tramite ti appaiono brillanti numerosi segreti elevati che gli Uomini di questa Via hanno [sempre] celato»1. È questo il motivo che, alla fine, ci ha fatto decidere per la sua pubblicazione, nonostante le evidenti difficoltà con cui il lettore dovrà cimentarsi. Infatti, al di là delle previste oscurità cui è avvezzo chiunque abbia una seppur minima frequen­tazione delle opere akbariane, il trattato è complicato da un ulte­riore ostacolo per quei lettori che non hanno alcun rudimento della lingua araba, per quanto l’eccellente lavoro di Chiara Casseler non manchi di fornire le delucidazioni indispensabili a chiarirne il senso. Una scelta, dunque, non facile, ma tuttavia dettata dall’essenzialità dell’argomento poiché, come il titolo lascia chiaramente intendere, il testo affronta direttamente la questione del Sé divino e la sua relazione con l’essere individuale, simboleggiati nel linguaggio rispettivamente dal pronome personale di terza persona, huwa (“egli”), e da quello di prima persona, anâ (“io”), che in arabo è all’occorrenza rappresentato dalla lettera yâ’2. Oltre a questi due, vi è naturalmen1 2

Infra, p. 160. Come in tutte le lingue semitiche, anche nell’arabo i pronomi hanno

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te il pronome di seconda persona, anta (“tu”), ossia tutto ciò che è “altro da me” e s’identifica all’oggetto che entra in relazione col soggetto. Il Sé, infatti, non potendo mai essere considerato come un “oggetto” e non potendo neppure identificarsi con l’io empirico, viene designato col pronome della “persona assente” (al-ghâ’ib, alla lettera “colui che non è oggetto di visione diretta”), il Huwa appunto. Si tratta, insomma, dei principali parametri di riferimento di ogni logica del linguaggio, ma soprattutto di quelli del linguaggio della metafisica, quand’anche della “Persona assente” non rimanga in fondo espressione più adeguata che il silenzio. Come si può facilmente vedere, quelli implicati sono anche gli elementi fondanti di ogni epistemologia: la coscienza individuale e la sua relazione con il mondo, nonché la sua reale identità, fine ultimo di ogni dottrina metafisica e di ogni indagine gnoseologica. Il concetto di “io” corrisponde alla coscienza e al dominio mentale, il microcosmo; quello del “tu” al mondo fisico e al dominio cosmo­ logico, il macrocosmo; l’“egli”, infine, a ciò che trascende entrambi i domìni3. Questi sono gli ambiti in cui si esercita la ricerca della conoscenza, e quindi della Realtà ultima, sia in ambito sacro e tradizionale sia in quello dell’indagine filosofica, con la sola fondamentale differenza che, mentre nel primo caso il criterio d’indagine rimane ancorato alla Rivelazione (ar. wahy), intesa come un’ispirazione di origine “non-umana” (cfr. sanscr. apaurusheya), nel secondo esso si affida unicamente agli strumenti inerenti all’essere due forme, una isolata ed una suffissa, che serve per il complemento oggetto e i complementi indiretti, come nel genitivo di me, di te, di lui, ecc., rappresentati da un suffisso che si unisce al nome, verbo o particella a cui si riferisce. La lettera yâ’ (= î ) rappresenta il pronome suffisso me; es.: kitâb (libro) + î (me) diviene kitâbî = il libro di me (ossia “il mio libro”). 3 Ibn ‘Arabî sintetizza il discorso in questo modo: “Anâ [“io”] è più vicino a Huwa [“Egli”] di Anta [“Tu”] e di Ka [“Te”, come suffisso], poiché Anta è quanto di più lontano ci sia da Huwa” (infra, p. 140).

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individuale4; quest’ultima ricerca, pertanto, non può che ridursi, vuoi alle capacità d’indagine interiore (diánoia), ossia all’intelletto razionale, vuoi agli strumenti di conoscenza del mondo esteriore, essenzialmente costituiti dalle nostre facoltà di percezione (aísthesis, sanscr. indriya). I fautori della conoscenza a priori (ar. badîhî), di tipo logico e razionale, sono considerati gli “idealisti”; quelli che considerano solo la conoscenza a posteriori (ar. kasbî)5, riducendola al dominio della percezione sensibile, sono i “materialisti”; quelli che, invece, considerano la possibilità di accedere alla sfera dell’Assoluto sono i “trascendentalisti” 6. Ovviamente, quando si applicano questi schemi, essenzialmente profani e moderni, alle suddivisioni del pensiero tradizionale, bisogna fare dei debiti distinguo, specialmente quando si tratta di dottrina metafisica. La loro menzione è intesa solo a mostrare certi parallelismi del pensiero umano nel suo insieme e le analoghe posizioni concettuali che si sono sviluppate nel corso della storia; ma quelle che separano il mondo sacrale della Philosophia Perennis dal pensiero della filosofia tout-court possono Per questo nella tradizione indù si parla di darshana, alla lettera “punti di vista”, e non già di “sistemi”, che comportano sempre l’idea d’un ordine chiuso; per essa, tutti i darshana fondati sulla Rivelazione (il Veda, in questo caso) sono chiamati âstika (il “vi è” che attesta il riferimento al Veda, ossia ortodossi), gli altri nâstika (“non vi è” tale riferimento, ossia eterodossi). Nell’Islam, ogni prospettiva fondata su di una Rivelazione è quella propria dei “credenti” (mu’minûn), tutti gli altri sono semplicemente i “non-credenti” (kuffâr). 5 Per l’impiego di questi termini nella logica islamica cfr. G. Giurini, introd. ad Al-Qaysarî, La Scienza iniziatica, Torino, 2003, p. 23 n. 41. 6 Questa Conoscenza, richiedendo in ogni caso una forma di “sve­ lamento”, viene classificata dal tasawwuf come kashfî e, nella misura in cui comporta una certa forma di “percezione diretta” (sanscr. aparoksha), soggettiva e incomunicabile, è detta anche dhawqî, “saporosa” (cfr. ibid., pp. 21-22). 4

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essere tanto distanti quanto lo sono le motivazioni che animavano le rilevazioni astronomiche dei costruttori di Stonehenge da quelle degli scienziati dell’osservatorio di Mount Palomar in California. Nondimeno, analogie si possono riscontrare in ogni tempo e sotto ogni latitudine, poiché non c’è nulla di nuovo sotto il sole e gli argomenti, ad esempio, della critica tradizionale al pensiero materialista, o almeno a quello che più sembra corrispondergli, si applicano altrettanto bene in entrambi i contesti. Tale storia del pensiero umano si può dunque descrivere come il graduale passaggio dalla realizzazione di ciò che è per sua natura “senza limite” alla mera investigazione del “limite”, un limite sempre più definito e circoscritto, come precisamente è il campo della moderna mentalità scientifica e filosofica. Non si tratta, in ultima analisi, che della riproduzione sul piano epistemologico del principio di differenziazione o, se si preferisce, di frammentazione, proprio dell’aspetto quantitativo della manifestazione e, poiché quest’ultimo è quello che più caratterizza l’ambiente e l’epoca nei quali viviamo, all’uomo moderno giunge difficile concepire la realtà come forma significante di un Principio di ordine superiore che ne è ad un tempo la causa efficiente e l’essenza trascendente; un principio che, proprio per la sua assolutezza, non ammette alcun­ché di esteriore alla sua natura indivisa7. Questo modo particola­ristico Si tratta dell’Essere che, secondo Parmenide di Elea (V sec. a.C.), “essendo ingenerato è anche imperituro, tutt’intero, impassibile e senza fine. Quello che non è mai stato né mai sarà, perché è ora tutt’insieme (epeì nûn éstin ómoû pân), uno e continuo (sunechés)” (Peri Phuseôs, 8.3-6). Questa definizione trova un perfetto parallelismo in quella che la Sura Al-ikhlâs (Cor. 112) dà del Principio divino: “Dì: Egli Dio è Uno (ahad, Uno-senza-secondo), Dio è Il Tutto impenetrabile (as-samad, la Realtà piena, senza alcunché che le sia esteriore). Egli non ha generato né è stato generato, e nulla è simile a Lui”. Il termine as-Samad ben si accosta al “tutto pieno d’essere (pân d’émpleón èstin èóntos)” di Parme7

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di vedere le cose, per sua stessa natura, si situa palesemente agli antipodi di quello sintetico che presuppone la capacità di coglierne l’essenza uscendo dai limiti del sistema di riferimento8. È come se i contemporanei si peritassero di analizzare in modo sistematico le relazioni che connettono tra loro i punti di una circonferenza, per loro natura indefiniti e quindi non analiticamente esauribili, senza riuscire invece a cogliere il tutto nella sintesi del centro9 da cui la circonferenza ha origine e in cui tutti i punti che la costituiscono alla fine si risolvono10. nide (ibid. 8.24). È scontato che entrambe le prospettive escludono ogni panteistica identità del mondo col suo Principio trascendente. 8 Ciò è richiesto in modo assiomatico anche dai procedimenti della logica analitica, come possiamo vedere perfino in Wittgenstein: “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso” (Tractatus, 6.41). Non essendo il mondo che l’insieme accidentale dei fatti, il loro Principio deve necessariamente trascendere tale divenire contingente, poiché altrimenti sarebbe esso stesso un accidente (cfr. ibid.). La formulazione del principio logico, però, non implica ancora l’intuizione del suo contenuto metafisico. 9 L’intelletto puro, non discorsivo, coglie i suoi oggetti totum simul, senza discontinuità logica (cfr. l’ómoû pân e il sunechés, supra, n. 6). Vedere A.C. Lloyd, “Non-propositional Thought in Plotinus”, in Phronesis 31, 1986, pp. 197-228. Restando in questo àmbito, vale qui la pena di ricordare che per Plotino il “centro” s’identifica all’Uno e che sia esso sia l’Intelletto sono infiniti (cfr. J. Boulad Ayoub, “L’image du centre et la notion de l’Un dans les Ennéades”, in Philosophiques 11, 1984, pp. 41-70; e J.H. Heiser, “Plotinus and the apeiron of Plato’s Parmenides”, Thomist 55, 1991, pp. 53-81). 10 Anche qui possiamo ritrovare una formulazione di Wittgenstein dello stesso tenore: “…il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae in punto inesteso e resta la realtà coordinata ad esso” (Tractatus, 5.64). Quello che viene chiamato qui “Io” non è, come egli ci avverte, l’io empirico, poiché questo Io “è non l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana della quale tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico, il limite – non una parte – del mondo” (ibid. 5.641). Il “soggetto metafisico”, come si può facilmente vedere,

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Introduzione

Qul iy wa-rabbî inna-hu la-haqq. “Dì «iy», sì, per il mio Signore, invero Egli è Verità”. (Cor. 10:53; sura di Giona)

Il Libro della lettera yâ’1: è questo il primo titolo del corto trattato che qui traduciamo. Ibn ‘Arabî (m. 1240), tuttavia, precisa subito dopo che il “Libro del Sé divino” ne è un equivalente, poiché la yâ’ è un simbolo di Huwa, il Sé supremo e incondizionato. La menzione del valore simbolico e della natura metafisica della lettera yâ’ rimanda immediatamente al dominio tradizionale della Scienza delle Lettere (‘ilm al-hurûf): le brevi pagine dell’opera sono, in realtà, un rapido, ininterrotto, concatenato susseguirsi di nessi capitali e nodi cruciali della dottrina akbariana2, presentati alla luce dell’amplissimo orizzonte di quella che è la Scienza alchemica, la Scienza dei Nomi e la Scienza dei numeri. La Scienza delle Lettere è un’espressione particolare della scienza del Verbo – eterno e vivo al Cuore del Mondo – che non può essere disgiunta dalla Scienza della Teofania, ossia l’automa­ nifestazione della Parola divina che avviene, lo vedremo in seguito, secondo diverse modalità3, a partire dalla funzione chiamata, nel testo, Fahwâniyya: il Discorso divino diretto. Traslitterata come Y, in arabo ha la forma seguente: . Akbariano è un aggettivo derivato dall’epiteto di Ibn ‘Arabî al-Shaykh al-Akbar, “il più grande dei Maestri”. 3 E attraverso il prisma dell’eredità profetica (wirâtha). 1 2

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Quasi paradossalmente, di contro alla rilevanza e all’eccellenza delle nozioni e dei temi trattati, l’esposizione risulta poco meno che laconica: la forma, succinta, si rivela allusiva, talvolta addirittura ellittica ed ermetica. Si tratta di una scrittura potentemente simbolica e fortemente sottintesa, suggestiva di evocazioni solo accennate, parchissima di esplicitazioni. Ciò accade in primo luogo a motivo dell’argomento stesso dell’epistola, del resto indirizzata all’élite spirituale delle “Genti delle allusioni sottili e delle verità essenziali”: del Sé dell’Essenza suprema non si può che dire apofaticamente, poiché è solo l’Assoluto che può comprendere Se stesso. Chi parla del Sé supremo, in realtà non ne parla. La dottrina esposta e sottesa nella breve epistola è per vastità, profondità e complessità, a stento riassumibile e quasi mai suscettibile di una sistemizzazione univoca. La modalità argomentativa di quest’opera, poi, afferisce direttamente al cuore di una fra le più complesse delle scienze tradizionali. Consapevoli dell’inesaustività che caratterizza la trattazione di ogni tematica in questa Introduzione, non rinunciamo, nondimeno, all’intento di fornire qualche delucidazione di carattere molto generale, affinché sia possibile accostarsi al testo con qualche strumento concettuale propedeutico alla comprensione e all’interpretazione dei lineamenti propri alla Scienza delle Lettere, di cui manca un autentico corrispondente nell’ambito delle lingue europee4. L’apparente mancanza di tecnicismi ammanta in realtà una rigorosa esposizione grammaticale che costituisce un vero e proprio linguaggio cifrato, per così dire, che ha bisogno di un’attenta opera di decodificazione dottrinale.

Sebbene, ad esempio, le opere di Dante e i Fedeli d’Amore vadano senza dubbio inserite in un contesto tradizionale simile, per l’uso simbolico e allusivo del linguaggio in esse adoperato. 4

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Quello che presentiamo di seguito è, allora, un semplice orientamento, a tratti incompleto o troppo veloce, che compendia rapidamente soltanto una parte delle nozioni e dei concetti contenuti nel Kitâb al-yâ’, e in particolare quelli su cui è parso opportuno soffermarsi, a causa della loro palese rilevanza o, invece, enigmaticità. Ad ogni modo s’è data la preferenza ai temi e agli argomenti meno o per nulla esaminati, finora, nella bibliografia italiana e, più genericamente, occidentale. Per tutte le altre, numerose tema­tiche necessariamente omesse e mancanti, rimandiamo all’ormai copiosa letteratura scientifica prodotta a partire dagli studi akbariani5.

Cfr., ad esempio: C. Addas, Ibn ‘Arabî et le voyage sans retour, Paris, 1996; C. Addas, Ibn ‘Arabî ou la Quête du Soufre Rouge, Paris, 1989; T. Burckhardt, La chiave spirituale dell’astrologia musulmana secondo Mohyiddîn Ibn ‘Arabî, Milano, 1987; W. Chittick, The SelfDisclosure of God. Principles of Ibn al-‘Arabî’s Cosmology, Albany, 1998; W. Chittick, The Sufi Path of Knowledge. Ibn al-‘Arabi’s Metaphysics of Imagination, Albany, 1989; M. Chodkiewicz, Le Sceau des saints. Prophétie et sainteté dans la doctrine d’Ibn ‘Arabî, Paris, 1986; M. Chodkiewicz, The Futûhât Makkiyya and its Commentators: Some Unresolved Enigmas, in The Heritage of Sufism. Vol II. The Legacy of Medieval Persian Sufism (1150-1500), ed. Leonard Lewisohn, Oxford, 1999, pp. 219-32; M. Chodkiewicz, Un océan sans rivage. Ibn ‘Arabî, le Livre et la Loi, Paris, 1992; H. Corbin, L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî, Paris, 1958; G. T. Elmore, Islamic Sainthood in the fullness of time. Ibn Al-‘Arabî’s Book of the Fabulous Gryphon, Leiden, 1999; L. Khalifa, Ibn Arabî. L’initiation à la futuwwa, Beyrouth, 2001. Per un’antologia delle Futûhât al-makkiyya, Ibn ‘Arabî, Les Illuminations de La Mecque. Textes choisis, a c. di M. Chodkiewicz Paris, 1988. 5

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Il Kitâb al-yâ’ e le altre opere akbariane. Il Kitâb al-yâ’6 fu redatto, a Gerusalemme, nel 601/1204, ossia nello stesso anno in cui lo Shaykh al-Akbar, “il più grande dei Maestri” scrisse due altre brevi, ma fondamentali opere: il Kitâb aljalâla, il Libro della Maestà (vale a dire il Libro del Nome “Allâh”) ed il Kitâb al-alif, il Libro della lettera alif. Questi due libri, a ben guardare, vanno a costituire, assieme al Kitâb al-yâ’, un complesso unico, se vogliamo un’ideale parure di gemme differenti, ma intimamente correlate le une alle altre. Vi è, inoltre, un’affinità e, per certi versi, un’identità tematica fra il Kitâb al-yâ’ e l’epistola intitolata Kitâb al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn7, dedicata al simbolismo di tre ulteriori lettere dell’alfabeto arabo. Come deliziose gemme, nel doppio significato di pietre preziose e virgulti inviluppati, le nozioni presenti nel Libro del Sé divino vi vengono manifestate in nuce, ma non sono, per questo, meno coerenti, pregnanti o meno dotate di autonomia concettuale. Il Kitâb al-yâ’, infatti, prefigura sinteticamente alcuni dati e nessi simbolici che verranno illustrati più ampiamente – anche se in modo non meno densamente allusivo – circa venticinque anni più tardi, in uno dei capolavori della scienza akbariana, i celeberrimi 6 Mancando un’edizione critica dell’opera, abbiamo condotto la traduzione a partire dall’edizione delle Rasâ’il Ibn ‘Arabî di Hayderabad, 1948 e dalla ristampa di Beyrût, 1997; abbiamo inoltre consultato il ms. Parigi-naz. 6640/ 72-81 e l’edizione del Cairo, 1954, pp. 15-25. Tuttavia tali testi contengono molti errori ed imprecisioni che, per brevità, non abbiamo segnalato. 7 Non vi sono notizie certe sulla data di composizione dello scritto, sebbene si possa stabilire, come termine ante quo, l’anno 617/1220, in cui risulta compiuta una lettura dell’opera ad alcuni discepoli. La straordinaria vicinanza tematica ed espressiva dei due testi, che arriva fino alla reciprocità, potrebbe condurre ad ipotizzare, analogamente, una coevità di redazione.

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Fusûs al-hikam, ossia il Libro dei Castoni delle Saggezze. Allo stesso tempo, il Kitâb al-yâ’ compendia emblematicamente alcune delle argomentazioni e delle prospettive che troveranno più largo spazio e più dettagliato sviluppo all’interno di diversi capitoli delle Futûhât al-makkiyya8, l’opera capitale cui, al tempo della redazione del Libro del Sé divino, Ibn ‘Arabî stava lavorando da non più di tre anni. Già da queste semplici note si può intuire come tutti gli scritti di Ibn ‘Arabî si compenetrino, l’uno evocando gli altri, in un raffinato gioco di richiami: ogni punto si ricollega a tutti gli altri punti secondo una fitta rete di rimandi interni. Il fine intreccio che ne deriva rappresenta il carattere eminentemente “sferico” dell’opera akbariana: “Ogni parte del nostro discorso è connessa con le altre, poiché è un’unica entità, e questa è la sua esposizione dettagliata”9. Quanto al rapporto riscontrabile fra il Kitâb al-yâ’ e le Futûhât al-makkiyya, nella prospettiva della Scienza delle Lettere, va detto innanzitutto che il secondo capitolo del capolavoro d’Ibn ‘Arabî, interamente riservato a questa particolare conoscenza tradizionale, provvede ad un’introduzione dettagliata e tecnica dei diversi ambiti Segnatamente, i capitoli 2 e 198, in entrambi i quali vengono affrontati e sviluppati molteplici aspetti vertenti sulla Scienza delle Lettere. Sono due fra i capitoli più lunghi e complessi del capolavoro akbariano. Singoli punti, poi, riceveranno una trattazione particolareggiata in molti altri capitoli delle Illuminazione meccane che si trovano, perciò, implicati nella lettura. 9 Fut., II, p. 548. 14. Già nel primo capitolo delle Futûhât leggiamo un riferimento esplicito alla figura circolare, che suggerisce un’applicazione ad un procedimento di lettura e riletture successive dell’opera: “Prendi il compasso all’apertura del cerchio (al-dâ’ira) nel congiungimento dell’estremità della sua esistenza al punto d’inizio (nuqtat al-bidâya). L’ultima cosa è perciò connessa (irtabata) alla prima!”, Fut., I, p. 48. 33. È il segreto del cerchio e, mutatis mutandis, di tutto l’insegnamento del più grande dei Maestri. 8

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del ‘ilm al-hurûf, con particolare attenzione all’insieme delle prospettive cosmologiche. Quelle pagine lasciano intravedere, in altre parole, i nessi alchemici che rappresentano l’altra faccia, per così dire, della Scienza delle Lettere. Tuttavia nel Kitâb al-yâ’, come nel Kitâb al-jalâla e nel Kitâb al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn, l’Autore ha in vista la prospettiva più squisitamente metafisica di tale Scienza, con particolare riguardo all’aspetto della realizzazione iniziatica. Ciò accade, ugualmente, nel capitolo 198 delle Futûhât, dedicato alla dottrina metafisica del Soffio-Respiro dell’Onni­misericordioso (nafas al-Rahmân) – il Principio che informa e permette l’attualizzazione di tutte le lettere (hurûf), vale a dire la manifestazione degli archetipi immutabili (a‘yân thâbita). Nel capitolo in questione vengono riprese ed illustrate con maggiori dettagli, più di una volta, le tematiche dottrinali del Libro del Sé divino, soprattutto nella sezione in cui vengono elencate e commentate le trentasei attestazioni coraniche dell’Unicità divina (tawhîd)10. La Scienza delle Lettere: lineamenti e princìpi. Dai princìpi universali – cioè metafisici – della Scienza delle Lettere procede tutto il vasto complesso dell’elaborazione della Scienza akbariana, che è ermeneutica: la metafisica del Verbo informa la “colorazione” molteplice delle diverse Saggezze profe­ tiche, le cui figure paradigmatiche trovano espressione nel testo dei Fusûs al-hikam, e costituisce l’archetipo della Rivelazione cora­ nica, di cui tutta la scrittura ibnarabiana non è altro che un immenso commentario iniziatico. Fut., II, pp. 405-21. Tutta la sezione è stata tradotta in francese e commentata da C.A. Gilis, in Les trente-six Attestations coraniques de l’Unité, Paris, 1994. 10

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Il fondamento della Scienza delle Lettere risiede, in ultima analisi, nella natura sacra della lingua araba, vale a dire della struttura simbolica dell’arabo – strumento e supporto dell’ultima Rivelazione – che rappresenta la trasposizione riflessa, nell’ambito linguistico, delle leggi spirituali che governano l’universo11. La grammatica tradizionale, alla stregua del nirukta indù, è un complesso di leggi che regolano l’universo linguistico e fonatorio, ad immagine dei princìpi del dominio metafisico. Vi è “uno stretto rapporto tra la metafisica del linguaggio e quella della manifestazione che è sempre considerata un prodotto del Verbo creatore”12. L’applicazione che ne deriva in modo diretto, ma essenzialmente speculare, è quella concernente la Via spirituale: per la legge dell’analogia e della corrispondenza fra le varie parti dell’universo, l’arabo, nel suo aspetto di sintesi superiore e spirituale, costituisce lo strumento iniziatico che permette all’Uomo, compendio del mondo (mukhtasar al-‘âlam), di ripercorrere “a ritroso” le tappe della manifestazione fino alla sua Origine. La Scienza delle Lettere è una metalinguistica che fa da specchio e da luogo di manifestazione dei princìpi metafisici, ciò che realizza mettendo in luce il carattere sacro ed iniziatico della lingua araba. Se la modalità di esposizione è imperniata sull’elemento linguistico, il tipo di conoscenza è tipicamente islamico, poiché la fonte e il ritorno è alla Lettera coranica. Se vogliamo, uno degli elementi che connotano la straordi­narietà di questa Scienza tradizionale può identificarsi nel suo stesso fondamento simbolico: essa trova la sua sostanza in un ambito indispensabile e naturale del consorzio umano cui tutti gli esseri accedono, Nel contesto tradizionale la sacralità dell’arabo viene doppiamente realizzata: da un lato, nella struttura intima della lingua, poiché la sua origine è superiore e divina, dall’altro, nel testo coranico, poiché l’arabo è il veicolo dello stesso Messaggio rivelatorio. 12 G. De Luca, «Non sono Io il vostro Signore?», in I Quaderni di Avallon, 31/1993 (pp. 63-100), p. 71. 11

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coscientemente o no, qual è l’espressione linguistica. Tale caratteristica, di più, viene ritenuta come coessenziale alla natura umana, tanto che l’uomo viene correntemente definito hayawân nâtiq, ossia animale parlante-razionale, vale a dire che usa lo strumento verbale. La percezione immediata e spontanea, la componente connaturata di irrinunciabilità del linguaggio rimandano senza difficoltà alla nozione del soffio (nafas) che, polarizzandosi nella doppia qualità del respiro, inspirazione ed espirazione, rende possibile qualsiasi articolazione vocale, ed è immagine del Soffio dell’Onnimi­sericordioso (nafas al-Rahmân) che dona l’esistenziazione alle essenze immutabili13. Nel Kitâb al-yâ’ vengono considerati e presentati alcuni aspetti del simbolismo di alcune lettere secondo una prospettiva principiale, ontologica e metafisica. Le lettere si sentono, pronunciate, e si vedono, scritte14. Esse costituiscono, in altre parole, un supporto meditativo e uno strumento iniziatico della via realizzativa: quanto al primo aspetto, la lettera (harf) viene presa in considerazione in quanto fonema, ossia in quanto suono emesso da uno specifico modo e luogo di articolazione (makhraj o maqta‘). Il secondo aspetto simbolico fondamentale è, poi, quello della forma vergata della lettera, ossia il grafema. Accanto a ciò, ad ogni lettera – grafema e fonema insieme – è proprio un valore numerico che la caratterizza: alle ventotto lettere dell’alfabeto arabo, perciò, corrispondono le serie complete dei gradi essenziali del numero – unità, decine, centinaia, fino al migliaio. Questi gradi numerici 13 Un certo aspetto materno della Rahma, Misericordia “uterina” (da rahim, “utero”) si riflette nella naturalità originaria, nell’elemento materno della lingua condivisa. 14 Nell’uso operativo – iniziatico – le lettere scritte simboleggiano i Piccoli Misteri, mentre quelle pronunciate i Grandi Misteri; vedi Ibn ‘Arabî, Le livre du Mîm, du Wâw et du Nûn, a c. di C.-A. Gilis, Beyrouth, 2002, p. 96 nota 46.

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– conformemente a quanto accade nella scienza pitagorica15 – non vengono considerati semplicemente dal punto di vista quantitativo, bensì ciascuno di essi rappresenta, qualitativamente, uno dei gradi (marâtib) della manifestazione16. A partire dalla corrispondenza biunivoca fra ogni lettera ed il suo rispettivo valore numerico, si può facilmente dedurre come ogni parola, formata da più lettere, abbia un suo preciso valore numerico, formato dalla somma dei valori delle sue singole lettere. L’identità del valore numerico fra due o più parole17 è uno degli emblemi che sostanziano un’identità simbolica, almeno per un qualche verso o modo, fra i termini considerati, e li fa afferire alla medesima prospettiva spirituale. Tale principio ermeneutico, sebbene di norma sottinteso, è basilare e fondante nelle argomen­tazioni del testo. Huwa e huwiyya: il Sé e l’Ipseità. Attraverso la modalità argomentativa della Scienza delle Lettere, il trattato akbariano da noi tradotto evoca il tema metafisico per eccellenza: l’unicità, l’esclusività, l’assolutezza e l’onnipervasione del Sé divino. Il termine arabo che designa il Sé è Huwa: pronome di terza persona maschile singolare, usato soltanto nel caso nominativo (in cui, cioè, sia il soggetto della frase), corrisponde all’italiano “Egli”18. Va ricordato che la terza persona, in arabo, viene Non è senza importanza, a questo proposito, ricordare che nel Kitâb al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn, Ibn ‘Arabî menzioni esplicitamente i Pitagorici (al-fîthâghûriyyîn). 16 Fut., II, p. 391; Kitâb al-alif, in Rasâ’il Ibn ‘Arabî e Fusûs al-hikam. 17 Si pensi, ad esempio, all’equivalenza fra il Polo (qutb) e l’alif così espressa: Q + T + B = 100 + 9 + 2 = 111; Â + L + F = 1 + 30 + 80 = 111. 18 Sia in queste pagine che nella traduzione dell’opera s’è preferito 15

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designata dal termine ghâ’ib, “l’assente”, dalla cui radice GHYB deriva, molto significativamente, ghayb, “il Mistero, l’Arcano”, ma anche “l’Invisibile, l’Immanifesto”. Nella prospettiva squisitamente metafisica Huwa è il Sé in quanto ghayb, ossia non-manifestato: si tratta, in ultima analisi, dell’Essenza suprema (al-Dhât), incondizionata e assoluta (mutlaqa). L’uso del termine Huwa in quanto pronome divino è di ascendenza coranica: Ibn ‘Arabî nel capitolo 272 delle Futûhât, commentando esotericamente la terzultima sura coranica19, fa notare che il primo versetto di questa inizia col pronome (damîr) Huwa: Huwa Allâhu ahad, “Egli, Dio è Uno”20, senza che, nel testo coranico, vi sia una precedente menzione del referente di tale pronome, come invece il consueto uso linguistico richiederebbe. Di più, non c’è, in tutta la sura coranica, alcuna menzione di alcunché che possa essere rimandato alla manifestazione. Questa particolarità trova la sua spiegazione profonda nel fatto che all’Ipseità dell’Assoluto (huwiyyat al-mutlaq) “non appartiene alcuna relazione (ta‘alluq) con il cosmo”21. I versetti di questa brevissima sura affermano la samadâniyya, vale a dire l’eterna impenetrabilità dell’Essenza dimantenere il termine Huwa, semplicemente traslitterandolo, senza tradurlo, poiché la scienza del Sé è interrelata, sostanziata e inestricabil­mente congiunta alla grammatica sacra di Huwa come pronome e, lo vedremo meglio in seguito, alla morfologia stessa delle lettere che costituiscono questo nome. 19 Cor. 112: “Dì: Egli, Dio è Uno. Dio è l’Assoluto. Non genera e non viene generato. E non possiede alcun eguale”. La sura è intitolata all’ikhlâs, il culto sincero e la purezza adorativa. Analogamente, il capitolo 272 (Fut., II, pp. 578-82) è dedicato alla “Dimora della Trascen­denza dell’Unità divina (tanzîh al-tawhîd)”. 20 La determinazione principiale dell’Essenza è la Sua Unità essenziale (ahadiyya). Nel Libro del Sé divino viene evidenziato il rapporto esclusivo di Ahad e Huwa. 21 Fut., II, p. 580. 6.

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vina22, che lo Shaykh al-Akbar identifica con la pura Trascendenza (tanzîh) e la Purezza (tabri’a)23 supreme. Ad ogni modo, non sono rari i versetti coranici che contengono il termine Huwa, spesso seguito da uno oppure da una coppia di Nomi divini che qualificano e determinano degli aspetti particolari del Sé assoluto: “Egli è il Primo e l’Ultimo” (Cor. 57:3), “Egli è il Re, il Santissimo” (Cor. 59:23), “Egli è il Creatore, il Produttore” (Cor. 59:24). Ora, “i Nomi menzionati dopo «Egli», in questi versetti, hanno la funzione di manifestare, rispetto a Huwa, uno degli aspetti della contingenza (ihdâth), considerato specificamente nell’intero universo. Tutti quanti i Nomi sono interpreti del Sé, mentre il Sé rimane avvolto, attraverso il velo dell’inaccessibilità (‘izza), suprema guardiana, nella Sua Unità e nella sua Ipseità (huwiyya)”24. È dal termine Huwa, di uso e matrice coranica, che viene derivato, direttamente, il sostantivo Huwiyya: essa identifica la natura e la funzione di Huwa in quanto tale, ossia la Sua Ipseità, il Suo “essere se stesso”. Ma “che cos’è Huwa?”. Quando Ibn ‘Arabî pone questa domanda, nel corso del capitolo 73 delle Futûhât, provvede anche a fornirne risposta: “È il mistero dell’Essenza (al-ghayb al-dhâtî) cui non è propria alcuna contemplazione (shuhûd). Huwa non è manifesto né è un luogo di manifestazione, ma è l’Oggetto della ricerca (al-matlûb) indicato chiaramente da Samadâniyya deriva dal Nome divino al-Samad, presente nel secondo versetto della sura in questione, che designa l’Assoluto e la Perfezione divina nell’aspetto del Sostegno universale. Al-Samad è Colui che non ha bisogno di nulla, ma del quale ogni cosa creata ha bisogno (nel contesto umano identifica chi non ha né fame né sete, ossia non ha necessità di alcunché al di fuori di se stesso). 23 Fut., II, p. 580. 1. Tabri’a significa letteralmente “esenzione; liberazione”; deriva dalla radice BR’, “essere innocente” ed “essere libero, immune”. 24 Vedi infra, p. 137. 22

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ogni lingua”25. Huwa è l’Essenza divina nella sua qualità di Mistero – inattingibile, insondabile, inesprimibile – e di non-manifestazione: Huwa, Egli, è al-ghâ’ib, l’assente, ma non perché possa essere in qualche modo mancante, bensì perché Egli, in se stesso, non può mai venir contemplato: “Huwa rimane, sotto ogni aspetto, né conosciuto, né raggiunto, né contemplato, né alluso”26. Huwa è la non-manifestazione assoluta (al-ghayb al-mutlaq) e l’Ipseità del Principio denota il grado conoscitivo supremo per cui Egli è la Sua propria Essenza, ossia Se stesso (‘aynu-hu). Se, infatti, in Se stesso il Principio è assolutamente incondizionato, privo di ogni determinazione, al di là di ogni qualificazione, esente da qualsiasi relazione27, non si può negare che, almeno secondo una certa prospettiva, vi sia – e, se vogliamo, vi debba essere – un aspetto logico per cui l’Essenza si relaziona con se stessa, sia pure semplicemente in se stessa e rispetto a se stessa. In virtù di questa relazione primigenia “l’Essenza si autodetermina come l’Entità unica (al-‘ayn al-wâhida)”28 e tale atto conoscitivo rappresenta la prima, universale determinazione (ta‘ayyun) in virtù della quale, per “riflessione” dell’Essenza su se stessa, prende forma lo specchio metafisico che renderà possibili tutte le ulteriori determinazioni e distinzioni, le quali non sono altro che, in ultima analisi, funzioni e modalità conoscitive per via di automanifestazioni teofaniche (tajalliyât). Huwa, in Sé, non si manifesterà mai: “I segreti (asrâr) sono non-manifestazione (ghayb), perciò Huwa «appar-

Fut., II, p. 128. 35. Vedi infra, p. 136. 27 L’espressione che allude alla non-manifestazione dell’Ipseità (ghayb al-huwiyya) è, precisamente, la non-determinazione (al-lâ ta‘ayyun), che è la più immanifesta delle realtà immanifeste (abtan al-bawâtin); Jurjânî, Kitâb al-ta‘rîfât, Beyrût, 1992, p. 320. 28 G. De Luca, «Non sono Io il vostro Signore?», art. cit., p. 63. 25 26

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tiene» loro, poiché Huwa non si manifesta mai. Il Principio29, in quanto Huwa, non può essere contemplato, e la Sua Ipseità è la Sua verità essenziale (haqîqa)30. In quanto alla Sua automanifestazione nelle forme, invece, il Principio viene contemplato e visto, e ciò non accade se non nel grado di colui che vede, conformemente a ciò che gli viene dato dalla sua predisposizione essenziale (isti‘dâd)”31. Come il mantello che, pur essendo in se stesso un’entità unica, ha una faccia esteriore e una interiore, così l’Essenza è, ab intra, Essenza Suprema inattingibile e irraggiungibile nella sua totale Unità (ahadiyya), e ab extra, invece, è l’Essenza delle forme, implicante ancora, in sé, una determinazione che prende in considerazione la molteplicità (kathra). Così, nel Kitâb al-yâ’, leggiamo: “L’Unità essenziale è l’Essenza incondizionata (al-dhât al-mutlaqa) che non può venir percepita né dai volti con i loro sguardi, né dagli intelletti con i loro pensieri, poiché ciò cui possono giungere (mudrak) le facoltà di discernimento è l’Essenza del mutamento e delle forme”32. È in considerazione della medesima ottica dottrinale che possiamo distinguere le valenze dei Nomi Huwa ed Allâh: “La parola Huwa è più inclusiva che la parola «Allâh» poiché designa Allâh, ogni cosa In arabo al-Haqq, “il Vero, la Verità, la Realtà”. Si veda anche Fut., II, p. 130. 10: “L’Ipseità è la Realtà del nonmanifestato (al-haqîqa al-ghaybiyya)”. 31 Fut., IV, p. 443. 33; sulla nozione di isti‘dâd in rapporto al tajallî si veda inoltre il secondo capitolo dei Fusûs al-hikam, dedicato alla Saggezza di Seth (parzialmente tradotto in italiano in Ibn ‘Arabî, La Sapienza dei Profeti, a c. di T. Burckhardt, Roma, 1987, pp. 27-39; e in francese, Le Livre des Chatons des Sagesses, a c. di C.-A. Gilis, II voll., Beyrut, 1998, pp. 71-111). La vista, attributo unico, rappresenta l’Ipseità; sul complesso simbolismo della Visione nella dottrina akbariana, rimandiamo all’indispensabile trattazione fornitane da Paolo Urizzi nell’articolo La Visione teofanica secondo Ibn ‘Arabî, in Perennia Verba 1/1997, pp. 37-72 e 2/1998, pp. 3-35. 32 Vedi infra, p. 132. 29

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non-manifesta (ghâ’ib) e ogni cosa che possiede una natura propria (huwiyya). E non c’è nulla che non possegga una natura propria che sia conosciuta o menzionata, esistente o meno”33. Entrambi sono Nomi dell’Essenza: Huwa rivela l’Essenza Suprema che sfugge a qualsiasi concezione e a qualsiasi qualificazione, mentre Allâh è il Nome che riunisce e sintetizza (al-ism al-jâmi‘) in Sé tutte le qualificazioni e concezioni possibili34. L’Ipseità e l’Identità Suprema. Se, nell’universalità della prospettiva metafisica, Huwa è incompatibile con la contemplazione e con la manifestazione, nel dominio iniziatico ciò si riflette specularmente, ossia si può affermare esattamente il contrario: “In colui che adora e nell’Oggetto dell’adorazione non si manifesta se non la Sua Ipseità”35. È, questa, inequivocabile espressione della realizzazione dell’Identità Suprema (tawhîd), che coinvolge due aspetti della Huwiyya: da un lato la sua Unità essenziale, per cui l’Ipseità è una e sempre identica a se stessa36, dall’altro la sua onnicomprensività (ihâta) che non esclude Fut., III, p. 514. 22. Queste righe commentano l’occorrenza del termine Huwa nel versetto 59:22 (per cui vedi infra, p. 137), che inaugura e sigilla: “Egli (Huwa) è Dio, Colui il quale non vi è Dio se non Lui (Huwa)”. 34 Si veda Ibn ‘Arabî, Les trente-six Attestations coraniques de l’Unité, op. cit., p. 199. 35 Fut., IV, p. 102. 4. “È proprio la Huwiyya la Realtà divina a noi più vicina e nello stesso tempo la più «invisibile»”, P. Urizzi, La Visione teofanica, parte seconda, art. cit., p. 17. 36 L’Unità essenziale (ahadiyya) è la caratteristica della Sua Ipseità, in cui non vi è molteplicità alcuna; Fut., IV, p. 38. Si veda anche Ibn ‘Arabî, Les Illuminations de La Mecque. Textes choisis, a c. di M. Chodkiewicz, Paris, 1988, p. 329. 33

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nulla dal suo dominio onniavvolgente. L’Ipseità onnicom­prensiva (al-huwiyya al-muhîta) è l’espressione akbariana della Perfezione assoluta, totale e infinita37. Dal punto di vista iniziatico, la nozione di Ipseità, attributo unico ed universale, rappresenta il supremo fondamento metafisico dell’Identità Suprema: “L’Identità Suprema, che è la sintesi dei contrari, sfugge ad ogni percezione o comprensione (idrâk): Ciò che comprende non può essere «compreso» e Ciò che percepisce non può essere «percepito»; […] qui l’impotenza (al-‘ajz) è il limite della percezione”38. La Conoscenza che qualcuno ha del Principio implica necessariamente l’ignoranza di ciò che il Principio è nella Sua Essenza39; il Viaggio termina nella Perplessità (hayra). Qui è l’estremo limite, oltre ci sono solo insondabilità ed impene­ Dalla stessa radice di ihâta deriva il Nome Muhît, Nome divino che vuole esprimere l’onnicomprensività del Principio: “Colui che abbraccia e contiene tutto, Colui che circonda, l’Avvolgente”. L’aspetto divino che vuole significare è, da un certo punto di vista, la polarizzazione speculare rispetto a Samad. Il termine muhît, inoltre, designa la circonferenza. La figura circolare, infatti, assieme a quella sferica, va ritenuta, nell’ambito geometrico, una rappresentazione della Perfezione che, per il fatto stesso di essere ciò che è, non può lasciare alcunché al di fuori di se stessa; il simbolismo di entrambe queste figure occupa un ruolo di primaria importanza nella trattazione akbariana. Sulla nozione di Ipseità onniav­ volgente si veda Fut., II, p. 420, ossia il trentaquattresimo Tawhîd: “Egli (Huwa) Iddio il quale non vi è dio se non Lui (Huwa)” (Cor. 59:22). Ibn ‘Arabî mette in evidenza la doppia presenza di Huwa, che apre e chiude il versetto, per così dire “abbracciandolo”, come un’allusione all’Ipseità onnicomprensiva; cfr. Ibn ‘Arabî, Les trente-six Attestations coraniques de l’Unité, op. cit., pp. 198-200. 38 P. Urizzi, La Visione teofanica, parte seconda, art. cit., p. 6. 39 Ciascuno ha del Principio la conoscenza che gli consta in rapporto a se stesso, ma non può conoscere il Principio nell’aspetto in cui il Principio conosce Se stesso. 37

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trabilità. A questo grado sublime attiene l’immagine spirituale delle Tenebre: “La notte (layl) è mistero non-manifestato (ghayb), e l’Essenza è mistero non-manifestato, e l’emblema (dalîl) dell’Essenza è Huwa”40. Nella tradizione islamica vi è una rappresentazione equivalente delle Tenebre superiori: al-‘amâ’, la Nube oscura del celebre detto in cui il Profeta, interrogato sullo stato in cui Dio si trovava prima di creare il mondo, rispose che Egli era in una Nube al di sopra della quale e al di sotto della quale non c’era aria41. E questa Nube, in ultima analisi, non è altro che cecità, ‘amâ42. Nel medesimo contesto simbolico va inserita l’immagine che, nel linguaggio poetico akbariano, descrive sottilmente l’apparire nel Ibn ‘Arabî, Tarjumân al-ashwâq, p. 66 nota 1 (tradotto da M. Gloton in L’interprète des desirs, Paris, 1996, p. 171). 41 Quest’ultima precisazione, ci ricorda Ibn ‘Arabî, è opportuna affinché si sappia che questa Nube “non assomiglia sotto alcun aspetto” (Fut., II, p. 310. 5) alle nubi così designate nel linguaggio ordinario: si tratta, evidentemente, di un linguaggio simbolico, così come la menzione di un’anteriorità temporale e di una localizzazione spaziale sono incompatibili col dominio metafisico, perciò entrambe vanno intese come espressioni imperfette di una relazione (nisba) che dev’essere interpretata (Fut., I, p. 148. 18). 42 ‘Amâ’, nube, e ‘amâ, cecità, sono due vocaboli derivanti dalla radice ‘MY; quasi omofoni, si distinguono, nella scrittura, per la sola lettera finale. Si veda Kitâb al-jalâla wa-huwa kalimat Allâh, in Rasâ’il, p. 8, e la traduzione di M. Vâlsan, Le Livre du Nom de Majesté “Allâh”, in Études Traditionnelles, nn° 268, 269, 272. Secondo la dottrina di Ibn ‘Arabî il termine ‘amâ’ designa tanto la prima determinazione (ta‘ayyun) dell’Essenza assolutamente incondizionata, vale a dire il suo automani­festarsi a se stessa, ossia la prima esteriorizzazione del Soffio del Misericordioso (nafas al-Rahmân), quanto un secondo grado (martaba) di determinazione, ossia l’Essenza considerata come unica in rapporto ad ogni possibile stato o forma di manifestazione, ciò che corrisponde precisamente alla Funzione di divinità (ulûhiyya). Vedi G. De Luca, «Non sono Io il vostro Signore?», art. cit., pp. 64, 82 nota 13. 40

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cuore dell’evento spirituale supremo: la nostalgia anelante dell’occidente, in arabo al-gharb. L’occidente, il luogo dove scompare la luce, è allora metafora della Teofania dell’Ipseità (tajallî al-huwiyya), evento spirituale che sublima il cuore, incommen­surabil­mente, al Mondo della Trascendenza e del Mistero (ghayb)43. Il venir meno dell’elemento “luminoso”, o meglio il suo totale trascendimento, simboleggia, inoltre, l’atto di automanifestazione dell’Essenza a se stessa: è la “Teofania invisibile” (tajallî ghayb) che Dio rivolge a Se stesso nel mondo non-manifestato. “è la Teofania essenziale (tajallî dhâtî), la cui realtà propria (haqîqa) è la non-manifestazione (ghayb), cioè l’Ipseità che Gli spetta necessariamente, poiché Dio dice di Se stesso (‘an nafsi-Hi) «Huwa» – nel Corano. Questo Huwa non verrà mai meno. Gli appartiene da sempre e per sempre”44. L’identificazione della Teofania invisibile con la Teofania essenziale attua l’estinzione e realizza l’Identità Suprema, la quale, in definitiva, è sempre di Se stesso con Se stesso, poiché (solamente) Huwa è Huwa. Nello stesso passo, tratto dal capitolo dei Fusûs dedicato alla Saggezza del cuore, appartenente al Profeta Shu‘ayb, si legge che con la “Teofania invisibile” Dio “conferisce al cuore la sua predisposizione essenziale”. La dimensione realizzativa suprema viene discretamente allusa dalla presenza del riflessivo divino, poiché il se stesso (nafsa-Hu) dell’Essenza non è altro che l’aspetto supremo dell’Uomo Universale, che realizza pienamente la Forma divina (sûra ilâhiyya)45. Ibn ‘Arabî, Tarjumân al-ashwâq, p. 54 nota 1; vedi anche L’interprète des desirs, op. cit., p. 146-47. Non manca neppure il simbolismo che esprime l’aspetto supremo della tenebra (zulma), poiché questa “può applicarsi alla scienza dell’Essenza, giacché non rivela, assieme a se stessa, alcuna altra cosa all’infuori di lei”, Ibn ‘Arabî, Kitâb istilâh al-sûfiyya, p. 14, in Rasâ’il. 44 Fus., I, p. 120. 45 Vedi P. Urizzi, La Visione teofanica, parte seconda, art. cit., p. 22; 43

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Il Libro del Sé divino1

Nel nome di Dio, il Misericordioso, il Compassionevole. «Signore, rendimi facile il bene2». Sia lode a Dio, la lode degli animi3, quella che caratterizza l’in­ timo dei cuori (sarâ’ir) e che lascia traccia4 nelle cose esteriori. E la preghiera sia su Muhammad, l’Araldo divino5 dalla Stazione della vista interiore (basâ’ir), e sulla sua famiglia, i primi e gli ultimi. Rimandiamo qui, una volta per tutte, alla nostra Introduzione per la delucidazione e i relativi approfondimenti delle tematiche presenti nel testo; il che ci esenti dal rinviarvi, nel corso del testo, in ognuno dei suoi singoli punti. 2 Questa invocazione d’apertura, peraltro piuttosto rara nelle epistole akbariane, non è presente nell’edizione del Cairo e neppure nel manoscritto parigino. 3 Damâ’ir significa sia “intimi” sia “pronomi”. L’Autore provvede fin dall’esordio a utilizzare la lingua e gli stessi termini tecnici grammaticali facendone trasparire la doppia valenza, nel perfetto connubio simbolico di lingua sacra e verità essenziali. 4 Mu’aththir: il participio deriva dalla radice ’THR che, nella prima e nella seconda forma del verbo, sarà largamente usata nel trattato. 5 Al-dâ‘î, ossia “Colui che chiama a Dio”, è appellativo coranico del Profeta (Cor. 33:46; 46:31). 1

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Questo è il libro della yâ’, o il libro del Sé divino (kitâb alhuwa), su cui noi abbiamo scritto per le Genti delle allusioni sottili (ishârât) e delle verità essenziali (haqâ’iq), i quali sanno scorgere il Vero negli impedimenti e nei legami. Sappiate – che Dio vi assista – che huwa è una metonimia (kinâya)6 dell’Unità essenziale (ahadiyya); perciò si dice, a proposito del lignaggio divino (al-nasab al-ilâhî): “Di’: «Egli, Iddio è Uno (ahad)»” (Cor. 112:1)7. E l’Unità essenziale è l’Essenza incondi­ zionata (al-dhât al-mutlaqa) che non può venir percepita né dai volti con i loro sguardi, né dagli intelletti con i loro pensieri8 poiché ciò cui possono giungere (mudrak) le facoltà di discernimento9 è l’Essenza del mutamento e delle forme10. Non c’è alcuna Stazione Kinâya designa usualmente la metafora, ma qui identifica l’uso di un termine al posto di un altro, ciò che non è altro che il significato etimologico di metonimia. Vedremo, inoltre, fra poco, come questo termine venga usato anche per identificare i pronomi personali (e, del resto, anche il pro-nome è un nome usato in-vece di un altro). 7 Il versetto inizia, infatti, con la menzione del pronome Huwa, qui tradotto con “Egli”. L’evocazione di un lignaggio divino ha, evidente­mente, un valore paradossale poiché, se il lignaggio designa ciò da cui qualcuno trae la sua discendenza, va da sé che il Principio non può avere alcunché ad Esso anteriore. Il nasab ilâhî indica, pertanto, l’identità e la designazione divine originali. 8 La via apofatica, che conduce a Ciò che non ha limite o definizione alcuna, non può che dar luogo a una parola di negazione (kalima nafy). Si veda Kitâb al-jalâla, in Rasâ’il, p. 8: “Allâh – Egli è l’Altissimo – non è né conosciuto né può essere conosciuto, non è né ignorato né può essere ignorato, non è testimoniato, né scoperto. Non può essere abbrac­ciato con la vista, né concepito né percepito”. 9 Al-idrâkât, anche “le percezioni”. 10 In contrapposizione all’Essenza incondizionata, realmente inattin­ gibile: l’Essenza del mutamento e delle forme allude al susseguirsi delle Teofanie attraverso le quali il Sé si rende manifesto: ora, le Teofanie mutano incessantemente, poiché non vi è ripetizione possibile nell’Esi­ 6

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spirituale in cui vi sia una teofania (tajallî), come la teofania di Anâ, “Io”, di Innî, “In verità Io”11, di Anta, “Tu”, di Ka, “Te”, senza che Huwa sia celato all’interno12 di quella teofania. In questo modo, da un lato si verifica la comunicazione13 di quanto si mani­festa di queste Stazioni e, dall’altro, per mezzo di Huwa, si verifica la pura trascendenza (tanzîh)14 per l’Essenza incondizionata. È [solo] il Discorso divino diretto (fahwâniyya)15 che non è mai stenza. E ancora, la menzione delle forme vuole ribadire che la Teofania è l’automanifestazione, da parte divina, di un Nome, quindi di un aspetto particolare dell’Essenza, non dell’Essenza in sé e per sé. L’Essenza del mutamento e delle forme (dhât al-tahawwul wa-’l-suwar) rimanda ad un noto hadîth che descrive la manifestazione divina nel Giorno della Resurrezione: Dio si manifesterà agli uomini, ma essi non Lo riconosceranno finché Egli non si presenterà nella forma corrispondente al loro credo: “Egli muterà nella forma in cui essi Lo avevano visto una prima volta” (Muslim, îmân, 302). Solo allora i credenti saranno in grado di riconoscerLo. Il tema della Teofania dell’Essenza che si contrappone alle svariate forme delle credenze (i‘tiqâdât) viene ripreso più volte negli scritti akbariani: si vedano W. Chittick, The Sufi Path of Knowledge, pp. 38, 99-101 e soprattutto Le Livre des Chatons des Sagesses, a c. di C.-A. Gilis, pp. 278, 290-91, 318-22, 577-79. 11 Espressione asseverativa di matrice coranica (Cor. 7:158; 20:12); si vedano anche Ibn ‘Arabî, Les trente-six Attestations coraniques de l’Unité, op. cit., pp. 112 e segg. e Ibn ‘Arabî, La Parure des Abdâl, a c. di M. Vâlsan, Paris, 1982, p. 22. 12 Mabtûn: latente, implicito. La radice BTN da cui deriva il verbo batana significa “penetrare nell’intimo” e poi “essere celato; nascondersi”; dalla stessa radice abbiamo batn, “ventre, grembo” e bâtin “interno, intimo”. 13 Al-ikhbâr: si tratta dell’aspetto catafatico, suscettibile di un’espressione. 14 Tanzîh è anche “immunità, purezza”; qui si tratta dell’aspetto apofatico, ossia di ineffabilità. 15 Fahwâniyya – che deriva dalla radice di “bocca” (fah, fam) – è un termine tecnico usato rare volte da Ibn ‘Arabî e designa l’archetipo del

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separato dal Sé (Huwa), mentre ciò che non è Discorso divino diretto non conosce il Sé, ma conosce soltanto l’“In verità Io”, l’Io, il Tu ed il Te. I Conoscitori di Dio16 non smettono di essere legati Verbo proferito. Dal punto di vista puramente metafisico rappresenta la Parola esistenziatrice identificabile nel “Sii!” (kun) divino che fa uscire l’essenza immutabile (‘ayn thâbita) dal suo statuto di possibilità di manifestazione (mumkin) a quello dell’essere attuale (wujûd). Questo passaggio viene considerato un moto della Generosità divina (jûd), ciò che appartiene, quindi, all’aspetto della Misericordia assoluta (rahamût); cfr. Ibn ‘Arabî, Kitâb al-tajalliyât, p. 13, in Rasâ’il; S. Ruspoli, Le livre des théophanies d’Ibn Arabî (Introduction philosophique, commentaire et traduction annotée du Kitâb al-tajalliyât), Paris, 2000, p. 136. Dal punto di vista iniziatico, inoltre, la fahwâniyya viene definita, dallo stesso Shaykh al-Akbar, come “il Discorso diretto del Vero (khitâb al-Haqq) per mezzo dell’incontro faccia a faccia (mukâfaha) nel mondo immaginale (‘âlam al-mithâl)”, Kitâb istilâh al-sûfiyya, p. 17, in Rasâ’il. Conformemente, M. Gloton traduce fahwâniyya come “contemplation ou présence face à face”, e precisa che letteralmente sarebbe “bocca a bocca”, in Ibn ‘Arabî, L’interprète des désirs, Paris, 1996, p. 255 e index, s.v. La nozione di mukâhafa si trova in stretto rapporto con quella di munâzala, ossia “l’incontro a mezza strada” fra Dio ed il Viaggiatore spirituale (i due vocaboli sono, tra l’altro, analoghi sia per morfologia che per valori semantici, entrambi implicando un “faccia a faccia”, un rapporto reciproco fra due). Nel capitolo 384 delle Futûhât, che introduce la sezione dell’opera dedicata alle munâzalât, vengono menzionate le “lingue della fahwâniyya” che rappresentano la traduzione delle verità essenziali e dei segreti nelle forme corrispondenti agli incontri a mezza strada implicanti un Discorso divino diretto (al-munâzalât al-khitâbiyya), in Fut., III, p. 524.14. Da ultimo, non sarà inutile far notare che, come fahwâniyya, anche mukâhafa è fortemente connesso con la bocca – nonché con il “faccia a faccia”–, poiché uno dei suoi significati è “baciare improvvisamente sulla bocca una donna”. 16 Al-‘ulamâ’ bi-’Llâh. Costoro sono gli unici che si ricollegano alla Presenza della Maestà (jalâl), la quale “possiede delle Glorie del Volto (subuhât wajhiyya) che bruciano, per questo Egli non si manifesta mai

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(marbûtîn) al Sé; quando dicono: “Non posso calcolare lode a Te (thanâ’ ‘alay-ka)”17, il Sé è celato, in questo caso, nel Te. [E quando dicono] Tu, come “Tu hai lodato Te stesso (‘alà nafsi-ka)”, in questo caso il Sé è celato nel Tu e nel Te18. Un altro disse: “L’impotenza a raggiungere la conoscenza è conoscenza”19, vale a dire che egli comprende di non poter comprendere, perciò non comprende. Se il Sé fosse compreso, allora non sarebbe il Sé, poiché si può comprendere solamente ciò che è altro dal Sé, per mezzo del Sé20. nella Sua Maestà, ma si mani­festa al Suo servo solo nella Maestà della Sua Bellezza (jamâl). […] Alla Maestà non si ricollegano che i Conoscitori mediante Allâh (‘ulamâ’ bi’Llâh) e la Maestà non ha una trac­cia che in loro” (Fut., II, p. 542); cfr. P. Urizzi, La Visione teofanica (parte seconda), art. cit., p. 4. 17 Si tratta di un hadîth: Muslim, salât, 222; Tirmidhî, da‘wât, 75; Ibn Mâja, iqâma, 117. 18 Il Sé divino, simboleggiato dal pronome Huwa di terza persona singolare è in realtà presente anche quando il soggetto grammaticale della frase è una seconda persona singolare. 19 Al-‘ajz ‘an dark al-idrâk idrâk. Si tratta di una celeberrima sentenza del Califfo Abû Bakr. Idrâk significa “percezione” e “comprensione” e qui vuole alludere all’intelligibilità della conoscenza distintiva: è una delle espressioni più alte della via apofatica, la docta ignorantia. L’impotenza è il limite estremo della percezione. Si veda anche il secondo capitolo dei Fusûs (I, p. 62): “Non aspirare dunque oltre, né t’affaticare per elevarti, poiché non v’è, in ultima analisi un grado più elevato di questo […]. Oltre ad esso non vi è che pura non-esistenza (‘adam mahd). Dunque, la Conoscenza che qualcuno di noi ha (del Principio) implica l’ignoranza (a conoscerLo per quel che Esso è nella Sua Essenza)”, traduzione citata in P. Urizzi, La Visione teofanica, parte seconda, art. cit., pp. 6-7. Cfr. Kalâbadhî, Il Sufismo nelle parole degli antichi, op. cit., pp. 249-53; Ibn Sab‘în, Le questioni siciliane. Federico II e l’universo filosofico, a c. di P. Spallino, Palermo, 2002, p. 100. 20 L’Essenza Suprema rimane inafferrabile e inattingibile a motivo della sua impenetrabilità (samadiyya).

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Un altro disse: “Ecco, noi Ti lodiamo per un bene”. Contemplò Ka, poi disse: “Dunque, è Anta che noi lodiamo”. Poi contemplò Anta e ne fece la stessa lode, poi disse: “E al di là di colui che noi lodiamo?”. Così manifestò Huwa nelle sue parole, e “al di là” significa al di là dell’Io, del Tu e delle loro sorelle21. In seguito affermò, per mezzo della yâ’, chi noi lodiamo, in persona (nafsahu). Perciò Huwa rimane, sotto ogni aspetto, né conosciuto, né raggiunto, né contemplato, né alluso. Non vi è sé se non Huwa22 e ciò che è altro da Huwa, lo è nell’Io, nel Tu e nelle loro sorelle. Sia lode a Colui che ha nobilitato il Discorso divino diretto per mezzo del Sé, e ha abbellito23 questo Discorso in mezzo alle altre facoltà di discernimento. Non vi è divinità se non Lui (Huwa). E grazie all’on­nipervasione (sarayân) del Sé negli esseri creati, giacché ad essi non appartiene alcuna esistenza (wujûd) se non per mezzo del Sé, e ad essi non appartiene alcuna sussistenza (baqâ’) dopo l’esistenza se non per mezzo del Sé, tutto ciò che è dopo il Sé diviene un sostituto24 di Huwa ed un’apposizione esplicativa25, intendo che si Vale a dire le altre forme dei pronomi personali. Lâ huwa illâ huwa. La costruzione è quella della testimonianza di fede (shahâda): lâ ilâha illâ Allâh, “non vi è dio se non Iddio”. Tuttavia risulta evidente come l’ambito sia eminentemente unitivo, poiché se nella shahâda vi era ancora un filtro distintivo rappresentato dalla differenza fra ilâh ed Allâh, qui assistiamo invece all’affermazione della scomparsa di ogni distinzione, nella coincidenza dell’Identità metafisica suprema. Cfr. le identiche parole in Kitâb al-jalâla, p. 10. 23 Jammala-hâ. Abbiamo preferito questa lettura, conformemente al ms. di Parigi, più convincente di quella del Cairo (ajmala-hâ), poiché una seconda forma del verbo, analoga a jammala, è presente poco prima con sharrafa, “nobilitare”. 24 Badal, qui usato anche in riferimento al suo significato grammaticale di “permutativo”, che corrisponde, in linea generale, alla funzione di un’apposizione. 25 ‘Atf al-bayân è un’altra espressione tecnica dell’analisi grammaticale. 21

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unisce a lui per illustrare i gradi che appartengono a Huwa, ma che non sono Huwa26. Il Sé permane nella Sua sintesi indifferenziata (ijmâl) e nella Sua gloriosa inaccessibilità (‘izza). E Dio ha detto, in un altro punto del Corano: “Egli è Iddio, Colui il quale non vi è divinità se non Lui” (Cor. 59:22, 23). Ha iniziato con Huwa, ha concluso con Huwa ed ha manifestato, per mezzo di Huwa, il grado della Funzione di divinità (ulûhiyya)27. Egli ha detto anche: “Non vi è dio se non Lui, l’Onnimisericor­ dioso, il Clemente” (Cor. 2:163)28; “Egli è il Primo e l’Ultimo” (Cor. 57:3); “Non vi è dio se non Lui, il Conoscitore del Mistero (‘âlim al-ghayb)” (Cor. 59:22), “Egli è il Re, il Santissimo” (Cor. 59:23), “Egli è il Creatore, il Produttore” (Cor. 59:24)29. I Nomi menzionati dopo «Egli», in questi versetti, hanno la funzione di manifestare, rispetto a Huwa, uno degli aspetti della contingenza (ihdâth), considerato specificamente nell’intero universo. Tutti quanti i Nomi sono interpreti del Sé, mentre il Sé rimane avvolto30, attraverso il velo dell’inaccessibilità, suprema guardiana31, nella Sua Questa frase costituisce la negazione di ogni panteismo: Egli possiede e detiene tutti i gradi e tutti i livelli, ma il rapporto fra questo e quelli è assolutamente irreciproco, poiché Egli è anche incomparabilmente di più e oltre rispetto alla totalità dei gradi manifestati o intelligibili. 27 Il versetto coranico, infatti, inizia e termina con il termine Huwa, ed è un’attestazione della Funzione divina. Ibn ‘Arabî commenta questo versetto, che fa parte del Tawhîd dell’Ipseità onnicomprensiva (al-huwiyya al-muhîta), in Fut., II, p. 420. Vedi supra, p. 59. 28 Su questo versetto, si veda il primo dei 36 Tawhîd; Ibn ‘Arabî, Les trente-six Attestations coraniques de l’Unité, op. cit., pp. 24-28. 29 In tutti i versetti citati è presente il termine Huwa. 30 Muktanaf è participio dalla radice KNF, da cui anche kanaf, il “grembo; rifugio” di Dio già visto nel racconto akbariano di Giona. 31 Al-‘izza al-ahmà. ‘Izza significa “inaccessibilità”, ma allo stesso tempo anche “potenza, gloria” e “onnipotenza” e rappresenta un termine tecnico che riveste una notevole importanza nell’opera akbariana. Il velo 26

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Unità (ahadiyya) e nella sua Ipseità (huwiyya). Perciò noi abbiamo considerato ciò che viene dopo Huwa un’apposizione esplicativa del grado oppure anche un sostituto messo al posto del grado32. Huwa non spetta ad alcun altro che all’Essenza incondizionata qualificata dall’Unità essenziale. È per questo che Essa è caratterizzata dall’Unità, come peculiarità essenziale, giacché tutto ciò che è altro da Dio – Egli è l’Altissimo – è esistenziato33 ed è raggiungibile rispetto a Dio e per una parte di lui, intendo per una parte di ciò che è altro da Dio, perciò si trova nel Tu, non nel Huwa34. della ‘izza è il velo supremo che impedisce l’accessibilità all’Essenza divina, di cui garantisce l’assoluta trascendenza metafisica. Dal punto di vista iniziatico, lo Shaykh Al-Akbar definisce il velo dell’inaccessibilità (hijâb al-‘izza) come “la cecità (‘amà) e la perplessità (hayra)”, in Kitâb istilâh al-sûfiyya, p. 16. Sull’espressione, cfr. anche Ibn ‘Arabî, L’interprète des desirs, a c. di M. Gloton, Paris, 1996, pp. 160-70. Questa figurazione simbolica trova origine nel hadîth qudsî: “La Grandezza (kibriyâ’) – o, per altri, l’Immensità (‘azama) – è il Mio mantello e la Potenza (‘izza) è il Mio perizoma (izâr). Colui che Me li contende Io lo spezzo”; Muslim, birr, 136; Ibn Mâjah, zuhd, 16. Il Mantello designa simbolicamente il Servo perfetto, mentre l’izâr, il lungo perizoma che cinge i fianchi giungendo fino ai piedi, rappresenta il velo della Gelosia (hijâb al-ghayra) che, è detto, non si solleva mai. Mantello e perizoma sono le due vesti che completano l’abito del pellegrino durante il pellegrinaggio (hajj). Ciascuno dei termini del detto assume il valore di locuzioni tecniche che danno adito a notevolissimi sviluppi teoretici nella meditazione akbariana; vedere Fut., I, pp. 64, 103, 112; II, p. 102-04; IV, 245-46, 408; P. Urizzi, La Visione teofanica, parte seconda, art. cit., pp. 4-6. 32 Mustakhlaf è il participio passivo della decima forma verbale della radice KHLF, la stessa di khalîfa, il Vicario o Luogotenente. Potremmo dunque interpretare l’espressione badal mustakhlaf come un’allusione alla funzione vicariale umana… 33 L’edizione del Cairo porta: mashhûd, “contemplato, oggetto di contemplazione”. 34 Ossia nel dominio dell’alterità, rappresentata dalla seconda persona

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Non esiste alcuna metafora (kinâya) che si possa avvicinare a Huwa, tranne che la yâ’35 e specialmente quando le è unita la lettera lâm in lî, “a me”36, oppure quando le si unisce inna, “invero”, in innî, “in verità io”. La yâ’ possiede un potere immenso (sultân ‘azîm), al quale nessuno può avvicinarsi, senza che esso eserciti il suo comando su costui37, perciò quando inna vuole mantenere la sua posizione, senza subirne l’influsso, prende la nûn di difesa38 e la pone come scudo39 fra sé e la yâ’. In questo modo l’effetto della yâ’ cade sulla nûn di difesa e inna rimane intatta, come nella parola coranica: inna-nî, “Invero Io” (Cor. 20:14)40. La seconda nûn41 è la nûn di difesa, non è una nûn dal valore reale distinto. Lo stesso accade nei verbi42, come daraba-nî, “mi ha picchiato” [ossia il verbo al perfetto arabo] e yukrimu-nî, “mi onora” [ossia il verbo all’imperfetto arabo]. Quanto ad akrama-nî, “mi ha onorato” singolare, che è esteriore, che è altra rispetto al Sé supremo. 35 Si tenga presente che il valore numerico dei due termini è identico: H + W = 5 + 6 = 11; Y + â = 10 + 1 = 11. 36 Locuzione comunissima dal valore possessivo: “io ho, mi appartiene”. 37 Dal punto di vista linguistico, si pensi alla yâ’ come pronome suffisso di prima persona singolare: la sua presenza muta la vocalizzazione desinenziale (i‘râb) del sostantivo, per cui viene a mancare, di fatto, la distinzione dei casi. 38 Nûn al-wiqâya è un’espressione grammaticale. 39 Mijann è un sostantivo strumentale che deriva dalla radice janna “velare, coprire; proteggere”, la stessa da cui derivano jinn e janna, “giardino, Paradiso”. Lo scudo è, dunque, “lo strumento per mezzo del quale ci si protegge”. 40 Si veda il diciassettesimo Tawhîd; Ibn ‘Arabî, Les trente-six Attesta­ tions coraniques de l’Unité, op. cit., pp. 112 e segg. 41 Si intende la seconda nûn nella scrittura araba, poiché la prima è quella che porta in sé il segno ed il significato del raddoppio. 42 Il pronome di prima persona singolare, se suffisso alle forme verbali, è non più -î, bensì -nî.

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[ossia lo stesso verbo al perfetto], se non vi fosse stata la nûn di difesa, allora la yâ’ avrebbe avuto un effetto sui verbi [modificandone la vocale finale]. Tutto ciò deriva dalla forza del potere della yâ’, che è intermedia fra Anâ e Huwa. Anâ è più lontano da Huwa rispetto alla yâ’, poiché Anâ non possiede alcun influsso, ma Anâ è più vicino a Huwa di Anta e di Ka43, poiché Anta è quanto di più lontano ci sia da Huwa44. Rimangono il Noi (nahnu) e l’invero (inna) nella specificazione (tamyîz) dei loro gradi rispetto a Huwa, assieme ad Anâ. Quanto ad Anâ e a inna, entrambi sono più lontani di nahnu, rispetto a Huwa, e nahnu è più vicino a Huwa rispetto ad Anâ e a inna. nahnu è, come Huwa, una sintesi (mujmal) che i [molteplici] gradi poi dettagliano e determinano (tufassilu-hu) ed è, intendo fra i pronomi, come il Nome Allâh fra i sostantivi: ogni volta in cui non è delimitato da un grado specifico, così accade per quest’altro che è nahnu, e Anâ è più forte di inna, per via dell’effetto della yâ’ che quest’ultimo subisce45. Perciò, quando Dio volle la nobiltà della Stazione spirituale (sharaf al-maqâm)46 nei riguardi di Mosè, mediante l’elezione [divina] Anta significa “Tu” e -ka è il pronome personale suffisso che vale “te” e “ti”. 44 Cfr. le parole di M. Vâlsan: Anta “implique par contre un état de distinctivité dans lequel les deux personnes «moi» et «toi» (les personnes «prèsentes» en grammaire) se situent sur le même plan individuel, ce qui métaphysiquement est le plus grand éloignement de la réalité universelle du Soi absolu qui ignore toute distinctivité et toute détermination onto­logique ou personelle”, in Ibn Arabî, La parure des Abdâl, Paris, 1992, p. 23. 45 In altre parole, il grado della prima persona divina, che comprende sia il singolare Io che il plurale Noi, è più forte del grado rappresentato da inna – da intendersi quando si accompagna al suffisso di prima persona singolare inn-î o inna-nî “in verità Io” – poiché inna subisce l’effetto della yâ’, mentre non così Anâ e Nahnu, che sono espressioni dirette, integre ed autonome della prima persona. 46 La Stazione di Mosè corrisponde al momento in cui egli riceve l’in43

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(al-istifâ’iyya), si manifestò Anâ47 e inna introdusse la nûn di difesa, affinché inna restasse illeso, come Anâ, per ricollegare (li-ta‘alluq) la Stazione a Mosè. Il Principio si manifestò nella Sua tremenda immensità (ya‘zumu), presso Mosè, affinché non [gli] arrivasse, nella sua inniyya48, alcun effetto da parte sua. Perciò disse – sia eccelso Chi parla –: “Io ti ho scelto, perciò ascolta ciò che viene rivelato: «In verità Io, Io sono Iddio»” (Cor. 20:13)49. L’inniyya è rimasta illesa per mezzo del primo Anâ e del secondo Anâ – intendo per mezzo dei loro due estremi – dall’effetto [della yâ’], allorché è stata difesa per mezzo della nûn. Analogamente colui il quale chiede di essere fatto risalire50 a lui (ilay-hi) per mezzo di lui (bi-hi) è difeso da lui per mezzo di lui, intendo colui che chiede il ricollegamento51, perciò non [ne] subisce l’influsso e se [ne] protegge. “E Noi siamo giunzione divina di togliersi entrambi i sandali, ossia di abbandonare ogni stato di dualità (rappresentato dai due sandali): “In verità Io sono il tuo Signore (Innî Anâ rabbu-ka). Togli i tuoi due sandali! In verità tu sei nella valle santificata di Tuwà” (Cor. 20:12). 47 Anâ è da intendersi come la manifestazione teofanica della prima Persona divina. 48 Inniyya è un sostantivo che deriva da inna e designa, iniziaticamente, la verità essenziale di una cosa (letteralmente significa “la natura e la funzione di inna”). Il termine può leggersi anche anniyya e, conservando il medesimo significato, si considera derivato, invece, da anâ. Questa doppia lettura è emblema del trait d’union simbolico che, come si vede anche nel testo, collega strettamente inna e anâ. Inniyya, con diverse accezioni, è anche vocabolo dell’uso filosofico: cfr. Avicenna, Metafisica, a c. di O. Lizzini e P. Porro, Milano, 2002, pp. 1302; Qaysarî, La scienza iniziatica, op. cit., pp. 63, 108. 49 Le ultime parole del versetto sono Inna-nî anâ Allâh. Il versetto, del resto, inizia con Anâ. 50 Intisâb; deriva dalla medesima radice di nasab, menzionato all’inizio dell’opera. 51 Nel testo è presente per quattro volte di seguito il pronome suffisso

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più vicini a lui della sua vena giugulare” (Cor. 50:16). A Nahnu appartiene la prossimità (qurb), mentre a Huwa appartiene la lontananza (bu‘d)52. Fa le veci di Nahnu la vena giugulare, ossia habl al-warîd, e habl è l’unione53. Non così Huwa, invece, poiché sono i [diversi] gradi delle metafore54 ad apparire, e a questi appartiene l’indeclinabilità, ossia l’immutabilità55 e l’inal­terabilità. Perciò esse di terza persona singolare maschile -hu (che per ragioni eufoniche viene vocalizzato -hi). Il primo, in entrambe le coppie, dovrebbe sottintendere il referente divino, che qui è la prima persona Anâ, mentre è probabile che gli altri due vogliano esplicitare il mezzo, il tramite della preservazione creaturale, ossia la nûn al-wiqâya. 52 Si veda l’inizio del capitolo 386 delle Futûhât, intitolato “La conoscenza della Condiscendenza della «vena giugulare» (habl al-warîd) e dell’Ubità dell’«esser insieme» (al-ayniyya al-ma‘iyya)”: “Dio – sia glorificato ed eccelso – ha detto: «E Noi siamo più vicini a lui della sua vena giugulare» (Cor. 50:16) e «Egli è con voi (Huwa ma‘a-kum) ovunque voi siate» (Cor. 57:4). Per mezzo della Sua Ipseità egli è con noi e per mezzo dei Suoi Nomi egli è più vicino a noi di noi stessi” (Fut., III, p. 531. 5). Il pronome di prima persona plurale, chiarisce Ibn ‘Arabî qualche riga più sotto, nella stessa pagina, non è una metonimia di terribilità o magnificenza (‘azama), bensì, conformemente al suo valore grammaticale, designa la molteplicità (kathra) dei Nomi divini. 53 Habl significa, letteralmente, “corda”. La presenza di questo termine non può non evocare, in una certa misura, l’episodio della vita di Mosè in cui egli gettò il suo bastone che divenne serpente, mentre i maghi del Faraone gettarono le loro corde ed i loro bastoni, che rimasero tali (cfr. Cor. 20:66; 26:44); si veda il capitolo 25 dei Fusûs, dedicato a Mosè, in Ibn ‘Arabî, Le Livre des Chatons des Sagesses, op. cit., pp. 658-59; e Fut., cap. 167, tradotto in italiano come L’Alchimia della felicità, a c. di M. Jevolella, Como, 1996, pp. 53-57. 54 Vale a dire i diversi pronomi personali, che sono indeclinabili. 55 Thubût. L’esposizione mantiene il suo doppio registro interpretativo, poiché thubût è, allo stesso tempo, anche la condizione metafisica dell’archetipo (‘ayn thâbita).

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spettano per diritto ontologico (istahaqqat) alla funzione di Divinità (ulûhiyya), in misura ancora maggiore dei Nomi (akthara min alasmâ’), e il Signore (al-Rabb), che è immutabile, caratterizza queste metafore. Quanto ai sostantivi56, sono sottoposti ad alterazione in base alla differenza delle necessità e dei gradi. I nomi non riescono a difendersi come si difendono i pronomi (al-kinâyât), perciò si dice “Dio ha detto” e “io adoro Dio” e “nel nome di Dio”57, per cui, come vedi, si verifica l’alterazione. Huwa si contraddistingue per una peculiarità stupefacente, vale a dire la sua immutabilità in un’unica forma che non cambia. Tu dici, infatti, ‘abadtu-hu, “io lo adorai” [ossia il verbo al perfetto], ukrimu-hu, “io lo onoro” [ossia il verbo all’imperfetto] e simili, perciò non abbandona questo grado58, se i mondi dipendono (ta‘allaqat) da Lui (bi-hi) per la loro sussistenza. E se non dipendono da Lui ed Egli li ricerca, allora Huwa è nella Stazione dell’elevatezza (rif‘a)59 e dell’inaccessibilità (‘izza), come Zawâhir: il termine deriva dalla radice ZHR, “essere esteriore, manifesto”, e designa una realtà palese ed evidente, mentre invece il termine damâ’ir, che designa i pronomi, deriva dalla radice DMR, “nascondere, celare”. 57 Le tre frasi citate esemplificano i tre casi della declinazione, caratterizzati ognuno da una diversa vocale breve finale. Rispettivamente: Allâhu, caso nominativo con funzione di soggetto; Allâha, caso accu­sativo con funzione di complemento oggetto; Allâhi, caso obliquo con funzione di complemento indiretto. 58 Huwa si usa solo al caso nominativo, mentre per gli altri casi si usa hu. A differenza del Nome Allâh, che si declina, Huwa non è suscettibile di alterazioni, ossia manifesta un livello maggiore di trascendenza e di impenetrabilità: non solo Huwa è sempre uguale a se stesso, ma, di più, egli è solo se stesso. 59 Questo termine deriva dalla radice RF‘, “sollevare, innalzare”, ma identifica anche l’atto del pronunciare una parola con la vocale “u” finale, ossia al caso nominativo, nella declinazione dei nomi o al modo indicativo, nella flessione dei verbi. Si rammenti che la lettera hâ’ è 56

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Anâ e Anta con la nobiltà della Sua Ipseità (huwiyyati-hi) che non spetta né ad Anâ, né ad Anta né alle loro sorelle. Quanto al [grado della] metafora (kinâya) di -nâ, -nî, -nâ60 e -ka, essi sono più vicini a Huwa di Anâ, Anta, e inna. Anzi, se non fosse per la loro esistenza (wujûd) in Anâ, Anta e inna, a questi ultimi non spetterebbe alcuna vicinanza a Huwa. La spiegazione dettagliata di questo argomento è lunga. Quanto ai gradi della manifestazione in queste metonimie, essi si diversificano al differenziarsi di quelle. Il più nobile di loro è colui la cui invocazione perpetua (hijjîr) è Huwa. Alcuni uomini, fra coloro che non conoscono la nobiltà di Huwa, né la differenza fra l’Essenza delle forme e del mutamento (dhât al-suwar wa-l-tahawwul)61 e l’Essenza incondizionata (al-dhât al-mutlaqa) ritengono che sia Anâ la più nobile delle metonimie, per via dell’unificazione62. Essi non sanno che l’unificazione è assolutamente impossibile63 e che il significato che ti risulta da ciò che tu intendi con “unificazione” è “chi dice «Io»”. Non c’è, quindi, unificazione, giacché il parlante (al-nâtiq), rispetto vocalizzata in questo modo sia in Huwa che in hu. 60 La forma -nâ è quella del pronome suffisso di prima persona plurale, “ci”. Tuttavia, qualche pagina più avanti, Ibn ‘Arabî sembra trattarne in quanto desinenza verbale, sempre della prima persona plurale. 61 Vedi supra, p. 132 nota 10. 62 Ittihâd, ossia l’unione, che vale anche come fusione e coincidenza. 63 L’ittihâd è il divenire una sola essenza da parte di due, quella del servo e quella del Signore. Si vedano le parole di M. Vâlsan: “In quanto concezione della realizzazione suprema, l’errore dell’ittihâd consiste nel considerare, dapprima, che l’essere umano, ad esempio, riposi su di un’essenza ultima distinta dall’Essenza divina, concludendo che l’Unità finale è il risultato della fusione delle due essenze”, in Ibn al-‘Arabî, Il Libro dell’Estinzione nella Contemplazione, Milano, 1996, p. 59. La concezione corretta è quella del Tawhîd: il principio del Tutto è una Realtà essenziale unica, e la realizzazione suprema non è altro che la presa di coscienza, la contemplazione di questo principio.

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a te, non è Anta. Quando, infatti, dici Anâ, Anta non c’è (lâ huwa), giacché tu non puoi fare a meno di dire “Io”, o attraverso la tua egoità (bi-anâniyyati-ka)64 oppure attraverso la Sua egoità (bi-anâniyyati-hi). Se tu dici “Io” attraverso la tua egoità, allora tu non sei Lui (Anta lâ huwa). Se tu parli attraverso la Sua egoità, allora non sei tu che parli, ma è Lui (Huwa) che dice “Io” attraverso la Sua egoità. Sicché, in ogni modo, non c’è nessuna unificazione, né per la via del significato né per la via della forma, poiché per i sapienti chi parla è – immancabilmente – Anâ: o conosce Huwa oppure no. Se conosce Huwa, allora il suo dire “Io”, con lucidità65, non è lecito. Se non conosce, allora è obbligatorio per lui mettersi in ricerca (al-talab) e chiedere perdono di quell’“Io” come chiedono perdono i peccatori. Huwa è il più intatto (aslam) in ogni aspetto ed in ogni stazione, per il sapiente come per il velato. Quanto ad Anta, è più difficile di Anâ e più spessamente velato, questo poiché Anta si rivela teofanicamente (yatajallà) solo nella forma della scienza66. Perciò Anta viene ignorato, se non è secondo Anâniyya deriva da Anâ e, più precisamente da anâna, ossia “il fatto di dire «io»”: l’anâniyya corrisponde alla natura intima dell’essere che dice “io”, ossia la natura personale. Essa designa inoltre la modalità teofanica in cui Dio si manifesta attraverso la prima persona, ciò che accade, specialmente, nell’epifania del Roveto ardente a Mosè; cfr. C.-A. Gilis, La Doctrine initiatique du Pèlerinage à la Maison d’Allâh, Paris, 1982, p. 246. 65 Sahw è un termine tecnico che designa lo stato interiore di sobrietà e di coscienza, in contrapposizione a quello dell’ebbrezza spirituale (sukr). Ibn ‘Arabî vi dedica, rispettivamente, il capitolo 247 e il capitolo 246 delle Futûhât. 66 Poiché la scienza prevede, per sua stessa natura, una distinzione, se non altro logica, di conoscente e conosciuto, al pari della dicotomia implicita nell’affermazione di Anta: dire “Tu” comporta necessariamente distinguere un “Tu” da un “io”. 64

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la forma della scienza di colui cui si rivela teofanicamente: si tratta di una Stazione pericolosa, giacché Anâ trae la sua permanenza da questa Stazione e, se non fosse per Anâ, Anta non permarrebbe: Huwa da Anta viene escluso e colui dal quale viene escluso Huwa, si tema per lui. Colui il cui gusto iniziatico è quello dell’Anta ha bisogno di far propria la trascendenza (tanzîh) in modo da non prendere forma, e così elevarsi dal grado dell’Immaginazione (khayâl), per poi contemplare tutti i gradi del Cosmo Invisibile67. In verità, quanto a Huwa, “niente è simile a Lui” (Cor. 42:11). Allora la teofania dell’Anta gli si concede68. Infatti gli stolti (al-hashwiyya)69, gli antropomorfisti (al-mujassima) e coloro che sostengono la comparabilità divina (ahl al-tashbîh), la loro teofania è soltanto Huwa in Anta, ma non si tratta di quell’Anta ricercato dai veri Conoscitori. Questo è il luogo dell’insidia e dell’astuzia [divine]70. Noi chiediamo a Dio la purezza adorativa (ikhlâs). Quanto alla metonimia della wâw in fa‘alû71, “essi fecero”, In arabo al-ghayb al-kawnî; si tratta degli stati sovra-formali della manifestazione, mentre khayâl designa il mondo della manifestazione sottile. 68 Yusallimu la-hu. Col significato, inoltre, di “lo lascia incolume”, ossia “gli si concede senza procurargli danno”. Il verbo sallama ha entrambi questi significati e deriva dalla medesima radice SLM del termine sâlim, presente in precedenza e tradotto come “illeso”. 69 Letteralmente “coloro che parlano insensatamente, a vanvera”, il termine designa con dispregio i sapienti di basso rango, ingenui e letteralisti rispetto alle espressioni antropomorfe contenute nel Corano; si veda, Ibn Sab‘în, op. cit., p. 23. 70 Makr e istidrâj; l’astuzia, in questo senso, è anche tranello e trappola. Al makr è dedicato il capitolo 231 delle Futûhât. 71 Si tenga presente che in arabo le desinenze caratterizzanti le persone del verbo al perfetto (nel testo, la «-û» della terza persona plurale maschile) sono in realtà delle forme pronominali (tranne che alla terza persona singolare maschile e femminile, in cui il pronome è considerato “nascosto”). 67

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essa è, rispetto a Nahnu, come è Huwa è rispetto all’Essenza: un equivalente. Quanto alla metonimia -nâ [ossia la desinenza della prima persona plurale nel verbo al perfetto]72, questa si avvicina alla yâ’ nell’esercitare un influsso (fî ’l-ta’thîr), quando le è proprio un effetto (athar), come nel caso di akramnâ-kum, “noi vi onorammo” e simili; infatti [-nâ] esercita un influsso sul verbo e lo fa sparire, ferma restando l’immutabilità (thabât) che spetta a questo. E quando non gli è propria alcuna [capacità di] esercitare un influsso, ma un altro (ghayruhu) è capace di un influsso su di lui, allora non è forte della sua forza e diviene come Anta, nel termine akrama-nâ, “egli ci onorò”, se un altro (ghayru-hu) akrama-hu, “lo onorò”. Invece è forte nell’Invisibile nell’aspetto della somiglianza (shabah) a Huwa. L’eminenza (sharaf) di Huwa – come di ciò che gli è vicino – rispetto a tutti i pronomi personali (damâ’ir) è stata fissata per via dell’eminenza dell’Essenza incondizionata. Non c’è niente di queste metonimie che non sia riconducibile per alcuni aspetti all’elevazione (‘uluww) e per alcuni aspetti alla discesa (nuzûl)73. La loro eminenza è più elevata quando si verifica la somiglianza con Huwa. Sappiate che Huwa implica la yâ’ più di ogni altra metonimia, giacché Huwa vale 1174, ossia è il nome dell’Unità (ahadiyya). Ora, l’Unità richiede l’uno, e ciò che rimane è il 10. Ma Huwa non ha il valore di 10, perciò è indispensabile la yâ’75. Per questo Egli dice di Se stesso innî, “in verità Io”76 e non dice “Huwa”: inna fa in modo di realizzare la yâ’, e la yâ’ è un Discorso divino diretto Vedi la nota precedente. Si tratta, evidentemente, di due aspetti di tendenza antitetica, al pari di quelli di trascendenza (tanzîh) e comparabilità (tashbîh). 74 Ossia H + W = 5 + 6 = 11. Inoltre il nome della lettera yâ’ ha l’identico valore numerico. 75 Perché il valore numerico della lettera yâ’ è precisamente 10. 76 Ricordiamo che la parola va scritta con la yâ’ finale, appunto. 72 73

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(fahwâniyya) che appartiene all’Unità, mentre Huwa è un Discorso divino diretto che appartiene a noi (la-nâ). Inna è presente, attestato, confermato e richiesto da altri, ossia dalla yâ’. è possibile poi che Huwa sia un Discorso divino diretto che appartiene all’Unità, quando Anâ si rivela teofanicamente nella misura della scienza di colui cui si manifesta, come le parole dell’Altissimo: “Dio (Allâh) testimonia che non vi è dio se non Lui (Huwa)” (Cor. 3:18). La testimonianza, in questo caso, appartiene ad Allâh77, che rappresenta la Sintesi dei Nomi (al-jâmi‘ li-’l-asmâ’), allo stesso modo in cui la yâ’ è la stessa Unità assoluta78. Nelle Stazioni simili a questa, Huwa è un Discorso divino diretto che appartiene a Lui (la-hu) – sia gloria a Lui. Quanto alla yâ’, si tratta di un’inniyya cui appartiene una realtà propria (haqîqa). Completamento ed integrazione: Hâ’, Huwa e Hiya79. Quanto a Huwa, è evidente che esso, siccome è Huwa, è Hû [ossia hâ’ + wâw]. Quanto a ciò che, di Huwa, siccome è Huwa, Ossia, avviene da parte del Nome Allâh. Dhât al-ahadiyya al-mutlaqa: letteralmente, l’essenza dell’Unità assoluta. Il termine dhât, usato, come in questo caso, in stato costrutto, ha anche il valore di “stesso, medesimo, in persona”. 79 In tutto il passo che segue non bisogna mai dimenticare la doppia valenza dei termini Huwa e Hiya: Huwa va letto contemporaneamente anche Hû, Hiya è anche e allo stesso tempo Hî. Hiya è il pronome personale di terza persona singolare femminile: “ella, essa, lei”. Il suo valore numerico è 15 (H + Y = 5 + 10), che è anche quello del nome arabo di Eva, Hawâ’ (H + W + Â = 8 + 6 + 1). L’aspirata iniziale di Hawâ’, qui traslitterata sempre con «h» è in realtà, in arabo, una lettera differente dalla hâ’ lieve di Hiya. 77 78

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