Il mistero dei Custodi del mondo

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Ibn ‘Arabî

Il mistero dei Custodi del mondo (Kitâb manzil al-qutb wa maqâmu-hu wa hâlu-hu )

a cura di Chiara Casseler

Il leone verde


La Ka‘ba, centro dell’Universo: proiezione circolare della Ka‘ba e del Recinto sacro dall’Atlante di M. Sharfî, XVI secolo, Parigi, Biblioteca nazionale.

ISBN: 88-87139-33-4 © Copyright 2001 Edizioni Il leone verde Via della Consolata 7, Torino Tel/fax 011 52.11.790 leoneverde@leoneverde.it www.leoneverde.it


Indice

Prefazione Introduzione

p. 7 12

La nozione di Dimora spirituale e la gerarchia dei Santi 13 Il Polo: l’Uomo Universale

16

Il perno e il pilastro

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La lettera alif

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Il patto di omaggio

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I due Imâm

29

Un “volto senza nuca”

34

L’eredità spirituale profetica

36

La Nicchia muhammadiana

37

Conclusione

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Il mistero dei Custodi del mondo

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La dimora del Polo, la sua stazione ed il suo stato spirituali 49 L’intimo colloquio muhammadiano di questa Dimora

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La Dimora spirituale dell’Imâm più perfetto

67

La Dimora dell’Imâm spirituale

76


Un’apparizione del Polo

80

Sezione: [le due Vie]

81

L’intimo colloquio di questa Dimora

90

Glossario dei termini arabi

91

Indice dei nomi e dei luoghi

98

Indice dei versetti coranici citati

100

Bibliografia essenziale

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Chiara Casseler (Trieste, 1973), arabista e dottoranda in Civiltà Islamica, pubblica regolarmente sulla rivista “La Porta d’Oriente”.


Prefazione

Questo breve trattato di Ibn ‘Arabî, il Doctor Maximus (al-Shaykh al-akbar) dell’esoterismo islamico, nonostante il testo arabo non occupi più d’una dozzina di pagine, non può essere considerato come una qualsiasi delle altre sue opere minori. In realtà, eccezion fatta per le dimensioni, esso non è neppure un’opera minore. Una ragione per affermarlo ci è data all’interno dell’opera da parte dello stesso Autore, ossia la precisazione della sua fonte d’ispirazione. Scrive Ibn ‘Arabî: «…ciò che il Polo voleva si presentava davanti a noi, e io da lui in versi lo declamavo, in quel luogo di contemplazione reale e in quel segreto signoriale. Era come se io stessi parlando attraverso la sua lingua e stessi traducendo dalla sua intima coscienza, finché giunsi all’ultimo verso, e allora egli mi ordinò di tacere»1. Sicuramente i versi a cui allude non costituiscono l’opera in oggetto, ma tutta l’opera procede in qualche modo da questo incontro col Polo e dalla funzione di “traduttore” che Ibn ‘Arabî si attribuisce2. È degno di nota che lo Shaykh non attribuisce la paternità dell’opera a terzi che in soli altri due casi, ossia proprio quello delle sue due opere più famose ed importanti: la grande summa delle Futûhât al-Makkiyya («Le Rivelazioni della Mecca»), di cui ha Infra, p. 21. Da notare come altre due opere dell’Autore alludano a questa funzione: il Kitâb at-tarâjim e il Tarjumân al-ashwâq. 1 2

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affermato di non aver scritto una sola riga di questa enorme summa dell’esoterismo – 2.800 pagine in quattro grossi tomi – se non per ispirazione divina3; e i Fusûs al-Hikam («I Castoni delle Saggezze»), un’opera di poco superiore alle 200 pagine, in cui egli espone la saggezza caratteristica di 27 Profeti, da Adamo fino Muhammad, e il cui vero Autore, scrive lo Shaykh, dev’essere considerato lo stesso Profeta Muhammad, che gli comparve in sogno col libro affinché lo facesse conoscere agli uomini4. Considerate in quest’ottica le tre opere risultano gerarchicamente sovrapposte: al vertice ci sono le Futûhât che, anche per la loro mole, appaiono a ragione come il “mare senza sponde” della Scienza divina. Seguono poi i Fusûs che, espressione della Scienza profetica, sono una “goccia” del mare della Scienza divina. Infine troviamo il nostro trattato, il Kitâb manzil al-qutb (lett.: «Il libro della Dimora del Polo»), espressione della Scienza del Polo, che è una “goccia” del mare della Scienza profetica. Ma chi è il Qutb, il “Polo”? Come molti probabilmente sanno l’esoterismo islamico fa espressamente menzione di una gerarchia di Santi – il Dîwân al-Awliyâ’ –, al cui vertice si trova il Polo, la cui funzione è quella di presiedere al governo esoterico del mondo. Si tratta di Santi che, in virtù dell’elevato grado di realizzazione iniziatica raggiunto e della loro capacità carismatica di agire sulle cose mediante la sola potenza dell’energia spirituale (at-tasarruf bil-himma), controllano gli eventi e si fanno garanti dell’integrità del mondo. Due cose vanno ovviamente precisate: la prima, che la loro azione non può avvenire che in conformità all’Ordine divino, di cui non sono che gli “esecutori”; la seconda, che la loro funzione non ha nulla a che vedere col mondo dell’azione terrena e profana. Cfr. Futûhât, II, p. 456. Vedere M. Chodkiewicz, Les Illuminations de La Mecque, Parigi, 1988, p. 24. 4 Cfr. Fusûs, premessa; Ibn ‘Arabi, Le livre des Chatons des Sagesses, trad. franc. a cura di C.A.Gilis, vol. I, Beirut, 1997, p. 27. 3

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Il riferimento immediato di questa gerarchia è nell’ambito della tradizione islamica, ma lo stesso Ibn ‘Arabî c’informa che i quattro “Pilastri” (awtâd) di questa gerarchia non sono che dei “sostituti” dei quattro Pilastri celesti, ossia dei quattro Profeti che la tradizione islamica afferma non essere stati raggiunti dalla morte corporea: Idrîs (Enoch), Ilyâs (Elia), ‘Isâ (Gesù) e Khidr5. Di questi, Idrîs è il “Polo”, mentre Gesù ed Elia sono i due Imâm alla sua destra e alla sua sinistra. Come precisava al riguardo Michel Vâlsan: «Questi esseri, o piuttosto queste funzioni, sono le Colonne (al-awtâd) della Tradizione Pura (ad-dîn al-hanîfî), la quale è evidentemente la Tradizione primordiale e universale, con cui l’Islam nella sua essenza si identifica. Bisogna aggiungere che, se queste funzioni primordiali sono così designate da Profeti apparsi soltanto nel corso del ciclo umano attuale, per lo Shaykh al-Akbar questa è semplicemente una maniera per confortare, mediante realtà riconosciute dalla tradizione islamica in generale, l’affermazione dell’esistenza di un Centro supremo al di fuori della forma particolare dell’Islam e al di sopra del centro spirituale islamico»6. È da questo Centro supremo della Tradizione immutabile che, più o meno direttamente, emanano e dipendono i diversi centri particolari di ciascuna delle forme tradizionali esistenti. La maggior parte dei miti delle origini conserva tracce di questo Centro primordiale: è la Tula iperborea, l’Airyanem Vaêjah iraniano, il Paradêsha indù che, in epoca più recente, dopo il suo occultamento sarebbe stato chiamato col nome di Agarttha. Esso non è altro che la “Terra dei viventi”, o “Terra di luce”, “Terra d’immortalità” che non è stata toccata dalle vicissitudini della “caduta” della razza 5 Futûhât, II, pp. 5-6. Cfr. M. Chodkiewicz, Le Sceau des saints, Parigi, 1986, pp. 118-120. 6 M.Vâlsan, Gli ultimi tre gradi della Massoneria scozzese, Torino, 1988, pp. 17-18.

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originale dell’umanità7. In questo luogo misterioso e inaccessibile, per il semplice fatto che trascende la condizione corporea, dimorerebbero i “Poli celesti”, i Custodi misteriosi del nostro mondo. È qui che viene conservato il patrimonio della Tradizionale immutabile, universale e perenne che solo sussiste continuamente e senza cambiamento attraverso tutto il ciclo d’esistenza, qui che risiede dunque la fonte originale e l’essenza ultima comune ad ogni specifica forma tradizionale che, della Tradizione primordiale, non è che un riflesso o, potremmo dire, un “sostituto”8, allo stesso modo in cui lo sono i rappresentanti della sua gerarchia esoterica in rapporto a quelli del Centro supremo. Quelli che Ibn ‘Arabî sembra avere in vista in questo trattato sono con ogni probabilità proprio i rappresentati di questo supremo Centro primordiale, anche se i dati presentati si intrecciano in modo inestricabile con le funzioni dei loro “sostituti” islamici. Due elementi soprattutto ci farebbero propendere per una interpretazione di questo tipo: il primo è l’inversione dei nomi attribuiti ai due Imâm che si trovano alla destra e alla sinistra del Polo, speculari rispetto a quelli comunemente attribuiti a questi due personaggi9; il secondo, la frase di Ibn ‘Arabî secondo cui, «il Polo, il signore dell’istante, non è né Ebreo né Cristiano né appartiene ad alcun’altra dottrina né comunità religiosa, a meno che queste non gli si conformino, per il segreto in lui deposto!»10. Parole che riflettono in qualche modo il pensiero di R. Guénon a proposito del Sanâtana Dharma, (“la Legge perenne”), nome che designa essenzialmente la Tradizione primordiale. Secondo questo autore, infatti, nessuna forma tradizioCfr. R. Guénon, Il Re del Mondo, Milano, 1977, pp. 95 ss. e 109. Cfr. R. Guénon, Études sur l’hindouisme, Parigi, 1970, pp. 112-113. 9 Ci siamo occupati di questo aspetto nella terza parte del nostro studio su «Regalità e Califfato», in Perennia Verba, Rimini, 5/2001, di prossima pubblicazione. 10 Infra, p. 56-57. 7 8

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nale particolare, benché ne sia un’espressione adeguata secondo le condizioni speciali di tale popolo o di tale epoca, non può mai essere identificata ad esso. «Ciò essendo vero per tutte le forme tradizionali, sarebbe un errore voler assimilare puramente e semplicemente il Sanâtana Dharma ad una o l’altra di esse»11. Se anche queste premesse non ci aiuteranno certo a sciogliere tutte le difficoltà che incontreremo nel presente trattato, possono almeno mostrarci come la tradizione esoterica dell’Islam si congiunge veramente al patrimonio comune di tutta l’umanità.

Paolo Urizzi

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R. Guénon, Études sur l’hindouisme, ibid.

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Introduzione

Il Libro della Dimora spirituale del Polo, in arabo Kitâb manzil al-qutb, è un breve trattato di Ibn ‘Arabî (m. 1240)1 che fa parte della raccolta intitolata Rasâ’il Ibn ‘Arabî: si presenta come un testo piuttosto conciso (consta infatti di sole 18 pagine, nell’edizione, ormai classica, stampata a Hayderabad). Tale brevità si accompagna inoltre, a una presentazione della tematica dottrinale, per così dire, in medias res, perciò il testo risulterebbe di difficile comprensione per il lettore che non avesse già conoscenza del contesto spirituale specifico in cui si colloca l’opera, da un lato, e non avesse precedente esperienza degli scritti e del linguaggio di Ibn ‘Arabî, dall’altro. Dal punto di vista dottrinale, infatti, molto non solo non viene precisato, bensì neppure detto; molte nozioni, anche di imprescindibile importanza, sono date per scontate, come la perenne presenza, nel mondo, di una gerarchia esoterica di Santi, stabilmente strutturata (per quanto non secondo una modalità esteriore e materiale), e ancora la dottrina dell’Uomo Universale (al-insân al-kâmil) e la sua stretta connessione alle figure califfale e polare.

Per le note bio-bibliografiche sull’Autore rimandiamo all’eccellente opera di C. Addas, Ibn ‘Arabî ou La quête du Soufre Rouge, Paris, 1989; vedi anche Muhyî al-Dîn Ibn al-‘Arabî, L’epistola dei settanta veli, a cura di A. Iacovella, Roma, 1997; Ibn ‘Arabî, Il nodo del sagace, a cura di C. Crescenti, Milano, 2000. 1

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Manca persino una presentazione in linea generale delle figure spirituali che sono l’oggetto stesso del testo, vale a dire il Polo e le due Guide (i due Imâm) che lo fiancheggiano come suoi ministri. La notevole concisione del testo originale richiede pertanto un’illustrazione, se non altro per sommi capi, del quadro di riferimento dottrinale in cui l’opera si colloca; nel fare ciò, ci si è proposti di cogliere innanzi tutto gli spunti offerti dal trattato stesso, quanto ai grandi temi di valore iniziatico che vi sono implicati, e si è cercato di chiarirli facendo ricorso il più possibile ad altri scritti del medesimo Autore, maggiormente espliciti o completi, a partire, in primo luogo, dalle grandiose e capitali Futûhât al-makkiyya. La nozione di Dimora spirituale e la gerarchia dei Santi. L’argomento illustrato nel trattato è la Dimora spirituale (manzil) caratteristica di ciascuna delle tre massime categorie iniziatiche, vale a dire il Polo, in arabo qutb, e i due Imâm, ossia le due Guide. Il termine arabo “manzil” significa, letteralmente, “luogo dove si discende” e riveste più di un’accezione, nell’uso che ne fa Ibn ‘Arabî nelle sue opere: esso ha primieramente il senso di “luogo di tappa”, ciò che lo rende sinonimo di “maqâm”, vale a dire Stazione spirituale, tappa lungo la Via iniziatica, ma esprime anche i significati di “mansione” e “rango gerarchico”. È precisamente in quest’ultimo senso che conviene interpretare la presenza del sostantivo manzil nel titolo e nel corso dell’opera qui tradotta, poiché da un lato le figure spirituali presentate sono in primo luogo identificazioni di funzioni universali, delle quali alcuni esseri vengono incaricati “per sovrappiù”, potremmo dire, da parte divina, una volta completato il loro personale percorso di realizzazione spirituale. E, rispetto a tali funzioni, i Santi che le assolvono sono ordinati in gradi gerarchici specifici, definiti e suscettibili di avvicendamento. Ciò ben si accor13


da a quanto precisato dallo stesso Ibn ‘Arabî a proposito del termine manzil: “Le Dimore spirituali (manâzil) non portano questo nome che a partire dal momento in cui vi si discende (nuzûl) senza avere l’intenzione di stabilirvisi”2; esse sono legate a una discesa d’origine e d’iniziativa esclusivamente divine3. Di più, la radice NZL, dalla quale deriva il sostantivo in questione, significa “scendere, discendere, fare tappa”, ciò che, nel caso specifico del Polo e degli Imâm, costituisce una chiara allusione al percorso di realizzazione spirituale discendente, che è in diretto rapporto con gli incarichi rivestiti da queste figure esoteriche, come si vedrà meglio in seguito. Il Polo e i due Imâm costituiscono il vertice della gerarchia dei Santi, chiamata in arabo dîwân al-awliyâ’; il termine dîwân significa letteralmente “registro” e anche “consiglio, assemblea”, ma dal momento che quella dei Santi è una comunità organizzata, secondo le leggi e i misteri dello Spirito, in cui ogni membro detiene una posizione definita e una funzione ben precisa, è senz’altro più pertinente, in quest’ambito, la traduzione della parola come “gerarchia”, secondo la sua valenza tecnica. Il dîwân al-awliyâ’, che rimane invisibile e nascosto agli uomini comuni, ha l’incarico precipuo di custodire il mondo e di presiedere alla sua integrità: i Santi, infatti, costituiscono il supporto manifestato e il ricettacolo perfetto per accogliere l’influenza spirituale (baraka) proveniente dal Cielo e distribuirla sulla Terra. Più precisamente, la gerarchia esoterica è composta da numerose categorie di uomini: ogni categoria (tabaqa) è incaricata di un compito specifico di tutela nei confronti del cosmo e della realtà manifestata, conta di norma un numero fisso e noto di rappresentanti4 e

Citato in C.A. Gilis, René Guénon et l’avènement du troisième Sceau, Paris, 1991, p. 70. 3 Ivi, p. 76. 2

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viene identificata da un nome tipizzante. Ad esempio, la categoria degli awtâd, i Pilastri, è formata da quattro uomini, ognuno dei quali salvaguarda una delle quattro direzioni dello spazio5. Ogni Santo appartenente a una determinata categoria possiede inoltre un titolo esoterico (laqab) che esprime esattamente la sua peculiare funzione in relazione agli altri membri dello stesso grado gerarchico. Tale nome iniziatico è costante e unico, a prescindere dal nome proprio dell’individuo che occupa quella posizione nella gerarchia in un dato momento6. Ibn ‘Arabî lo afferma chiaramente anche nel Kitâb manzil al-qutb: “I nomi [iniziatici] (asmâ’) degli altri servi sono a seconda delle loro stazioni spirituali (maqâmât)”7. Solitamente questo nome esoterico è composto, come d’abitudine nell’Islâm, dal sostantivo ‘abd, “servo”, seguito da un Nome divino. Per riprendere l’esempio degli awtâd, Ibn ‘Arabî ci fa sapere che essi portano i nomi di ‘Abd al-Hayy, “servo del Vivente”, ‘Abd al-‘Alîm, “servo del Sapiente”, ‘Abd al-Qâdir, “servo dell’Onnipotente” e ‘Abd al-Murîd, “servo del Volente”8. Vi sono, però, anche numerose categorie composte da un numero variabile (e spesso ignoto) di Santi; vedi Fut., II, pp. 16-39; per una trattazione dell’argomento e una traduzione delle pagine succitate, vedi C. Casseler, Il Dîwân al-awliyâ’ secondo il Capitolo 73 (parte prima) delle Futûhât al-makkiyya di Ibn ‘Arabî, Tesi di Laurea, Venezia, A.A. 1997-98. 5 Vedi Fut., II, pp. 6-7. 6 Si vedano, in proposito, le parole di Guénon: “se un’organizzazione iniziatica è realmente quel che deve essere, l’indicazione di uno qualunque dei suoi membri con un nome profano, quand’anche sia “materialmente” esatta, sarà sempre intaccata da falsità, più o meno come lo sarebbe la confusione tra un attore e un personaggio di cui questi reciti la parte e del quale ci si ostinasse ad attribuirgli il nome in tutte le circostanze della sua esistenza”, in Considerazioni sull’iniziazione, cap. XXVII Nomi profani e nomi iniziatici, Milano, 1996, p. 217. 7 Vedi infra, p. 69. 8 Fut., II, pp. 7-9; M. Chodkiewicz, Le Sceau des saints. Prophétie et sainteté dans la doctrine d’Ibn Arabî, Paris, 1986, p. 126. 4

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Il Polo: l’Uomo Universale. Il Polo, in arabo qutb, rappresenta il vertice supremo della piramide gerarchica, è il fulcro centrale attorno al quale ruota l’intera realtà cosmica: egli è, simbolicamente, il mozzo della ruota, il centro della circonferenza. Egli riassume in sé tutte le altre funzioni e stazioni spirituali, a lui inferiori, poiché è “il centro, l’apice della gerarchia spirituale, ordinatore spirituale del mondo, fonte della sapienza, vaso di ogni scienza, modello della fede e dell’Islam”9. Il Polo è il più eccellente fra i perfetti (kummal), gli altri Santi, ai quali è superiore non per grado di realizzazione spirituale, bensì per una funzione d’autorità e di controllo (sugli altri Uomini spirituali e sull’universo), ricevuta per investitura divina: “la funzione non ha, per così dire, che un carattere “accidentale” nei confronti del grado: l’esercizio di una determinata funzione può richiedere il possesso di questo o di quel grado, ma non è mai necessariamente collegata a tale grado, per quanto elevato possa essere”10. Il grado iniziatico (martaba) del qutb è quello dell’Uomo Universale o Perfetto (al-insân al-kâmil), vale a dire la permanente condizione interiore della realizzazione spirituale effettiva, completa e perfetta. L’Uomo Universale designa pertanto, simbolicamente, “l’essere totale, incondizionato e trascendente nei confronti di tutti i modi particolari e determinati di esistenza, e financo nei confronti dell’Esistenza pura e semplice”11. È a motivo di questa sua perfezione integrale e onnicomprensiva che l’insân al-kâmil viene anche definito come la Forma del Vero (sûrat al-Haqq), vale a dire la Forma divina (as-sûra al-ilâhiyya), che si può identificare, ‘Abd al-Qâdir al-Jîlânî, Il segreto dei segreti, a cura di P. Urizzi, Giarre, 1994, p. 17. 10 R. Guénon, op. cit., cap. XLIV Sulla gerarchia iniziatica, p. 335. 11 R. Guénon, Il Simbolismo della Croce, cap. II L’Uomo Universale, Milano, 1998, p. 25. 9

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secondo una prospettiva esteriore, all’universo, e interiormente allo Spirito12: “L’Uomo Perfetto attualizza la Forma divina in maniera totale grazie al possesso del Grado supremo (martaba)”13. Di più, l’Uomo Universale è il principio di tutta la manifestazione, al-haqq al-makhlûq bi-hi, vale a dire la Realtà per mezzo della quale ogni cosa è creata14. Egli rappresenta il punto di congiunzione e di separazione fra le realtà divine superiori (al-haqâ’iq al-haqqiyya) e quelle cosmiche, creaturali (al-haqâ’iq al-khalqiyya)15: è un istmo sintetizzante (barzakh jâmi‘), l’intermediario fra il Principio (al-Haqq) e la manifestazione (al-khalq)16. Nei Fusûs al-hikam, I Castoni delle Saggezze, un’altra opera fondamentale dello Shaykh al-Akbar17, così viene descritto l’Uomo: “Questo essere di cui parliamo ha i nomi di “Uomo” [insân] e di “Califfo” [khalîfa]. “Uomo” per l’universalità [‘umûm] della sua costituzione [nash’a] che include tutte le verità principiali [al-haqâ’iq]. Egli è per Dio ciò che la pupilla è per l’occhio, che è l’organo della vista…: mediante lui, Dio guarda le creature e fa loro misericordia.

Vedi, ad esempio, Fut., III, pp. 409-10; IV, p. 85 e C.A. Gilis, Les sept Étendards du Califat, Paris, 1993, pp. 15, 20-1. 13 Fut., III, cap. 340, citato in C.A. Gilis, Les sept Étendards, op. cit., pp. 14-15. 14 Vedi M. Chodkiewicz, Le Sceau, op. cit., p. 89; C. Addas, op. cit., p. 77. 15 Vedi Abd el-Kader, Il libro delle soste, a cura di M. Chodkiewicz, Milano, 1984, p. 7. 16 M. Chodkiewicz, Le Sceau, op. cit., p. 91; vedi anche Ibn ‘Arabî, Il nodo del sagace, op. cit., p. 89. 17 Ossia “il più grande dei Maestri”: è l’epiteto tradizionalmente attribuito a Ibn ‘Arabî e che ancora oggi lo designa per antonomasia. 12

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Egli è l’uomo nuovo ed eterno, il generato senza inizio né fine, il Verbo che separa e unisce”18. C’è dunque una profonda analogia tra la funzione dell’Uomo Universale e quella dello Sguardo divino, poiché il primo assicura in via provvidenziale la presenza operante della Misericordia che proviene dal secondo, di cui è, in una certa prospettiva, il supporto manifestato: “lo sguardo dell’occhio… appare in certo modo diretto “verso il basso”, cioè dal Principio verso la manifestazione stessa, e, oltre al suo senso generale di “onnipresenza”, esso allora assume più chiaramente il significato particolare di ‘Provvidenza’”19. Il secondo nome con cui viene chiamato l’Uomo in questo grado di perfezione è, come si è visto, “Califfo”, vale a dire “luogotenente, vicegerente” e ciò perché “il mondo è reso completo mediante il suo essere [wujûd] che ne fa parte come il castone fa parte dell’anello. Egli è l’incisione e il segno sul sigillo che il Re appone sui Suoi tesori. L’Altissimo per questa ragione l’ha chiamato “califfo”: per suo tramite Egli preserva le Sue creature, come il sigillo preserva i tesori… Egli l’ha preposto [istakhlafa] a guardia del Reame [Mulk]. Il mondo non cessa d’essere preservato fintantoché vi dimora l’Uomo Perfetto”20. Il grado califfale implica dunque una funzione di preservazione e di salvaguardia del mondo, al punto che è lo stesso Ibn ‘Arabî, di nuovo, a esplicitare tale valenza identificando il ruolo metafisico del custode all’Occhio di Dio: “Ogni essere che nel mondo custodisce (hâfiz) una determinata cosa è l’Occhio di Dio (‘ayn al-Haqq)… [Tutti] coloro che custodiscono il mondo possiedono questo grado Fus., p. 50; traduzione a cura di C.A. Gilis in Perennia Verba 1/1997, p. 11. Le parentesi quadre sono nostre. 19 R. Guénon, Simboli della Scienza sacra, cap. 72 L’Occhio che vede tutto, Milano, 1990, p. 375. 20 Fus., ibidem. 18

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(manzila) anche se essi non sanno di essere gli Occhi di Dio (a‘yun al-Haqq)”21. Già Ibn ‘Arabî dunque afferma, da un lato, l’identità fra Uomo Universale e Califfo, nei Fusûs, e dall’altro l’identità fra Califfo e Polo, nel Kitâb manzil al-qutb: “La Dimora del Polo è la Dignità dell’esistenziazione pura (al-îjâd as-sirf)22. Egli è il Vicario (khalîfa): la sua stazione consiste nell’attuazione dell’Ordine [divino] e nell’esercizio dell’Auctoritas (al-hukm)”23. E ancora possiamo leggere nelle Futûhât: “La funzione califfale (khilâfa) appartiene al Polo del tempo (qutb al-waqt)”24. Se il Polo è il Califfo, che è incaricato della custodia del mondo in quanto Occhio di Dio, ciò significa che il Polo è il luogo teofanico (majlâ) più eccellente25 e, di più, è “il luogo dello sguardo di Dio (mawdi‘ nazar al-Haqq) sul mondo”26, “il Supporto dello Sguardo di Dio fra le Sue creature”27. Il mondo, s’è detto, è completato alla perfezione dalla presenza del Califfo e anzi la realtà del suo rango risulta indispensabile per l’esistenza della realtà manifestata: il Califfo svolge dunque nei conFut., III, p. 120. 30. Ciò significa senza le distinzioni di dualità e le tinte dei contrari che sono invece proprie e veramente inevitabili per tutti i gradi inferiori. Il grado del Polo coincide con la stazione iniziatica della soluzione di tutti gli opposti e della sintesi dei contrari, vedi, infra, p.24. 23 Vedi infra, p. 53. 24 Fut., III, p. 137. 30; vedi anche Fut., III, p. 136. 33. 25 Vedi, ad es., Fut., II, pp. 103-104: “Si tratta qui del servo chiamato Luogotenente (khalîfa) e Sostituto (nâ’ib)… ed è “il luogo più perfetto di manifestazione (divina: akmal al-mazâhir)””, citato in P. Urizzi, La Visione teofanica secondo Ibn ‘Arabî, in Perennia Verba, 2/1998, p. 9. 26 Fut., II, p. 5. 27 Ibn ‘Arabî, La Prière pour le Pole, trad. di M. Vâlsan, in Études Traditonnelles, n. 449, 1975, p. 98. 21 22

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fronti del mondo la stessa funzione che lo spirito ha nei confronti del corpo. Ne è il principio vitale, poiché è la presenza dello spirito che assicura la vita al corpo: “La manifestazione (zuhûr) dello spirito al corpo costituisce la vita (hayât) di quel corpo…; mentre l’assenza (ghayba) dello spirito dal corpo determina la sparizione (zawâl) della vita da quel corpo, ossia la morte”28. Perciò l’universo viene chiamato da Ibn ‘Arabî al-insân al-kabîr, letteralmente “il Grande Uomo”, ciò che corrisponde all’appellativo di “macrocosmo”29: “Il Nome l’Esteriore (az-Zâhir) è il Mondo (al-‘âlam)… e il Nome l’Interiore (al-Bâtin)… è l’Uomo (al-insân)”30. L’Uomo viene considerato in questa prospettiva come il principio di tutta la manifestazione, ciò che implica un suo ruolo attivo, eminentemente “maschile”. Tuttavia, secondo una prospettiva per certi versi complementare alla precedente, questo medesimo principio “creatore”, essendo la fonte dell’esistenziazione (takwîn) cosmica, è caratterizzato anche da una funzione “femminile”, poiché lo strumento che assicura la venuta all’esistenza è la donna. È per questo motivo, ci spiega Ibn ‘Arabî, che khalîfa e khilâfa (che significa Califfato) sono termini, in arabo, di genere grammaticale femminile31. Analogamente, anche rûh, che designa lo Spirito, in arabo, è parola femminile, ma secondo una doppia valenza: “Secondo la legge dell’analogia, ciò che è passivo o negativo rispetto alla Verità divina (el-Haqq) diviene attivo o positivo rispetto alla creazione (el-khalq). È qui essenziale considerare queste due facce opposte poiché ciò di cui si tratta è precisamente, se così ci si può esprimere, il “limite” stesso posto fra el-Haqq e el-khalq, “limite” attraverso cui la cre28 Fut., III, p. 66. 5. Secondo il principio tradizionale dell’analogia inversa, l’Uomo costituisce perciò la realtà del “microcosmo”. 29 Vedi ad esempio, Fut., I, p. 153. 30 Fut., III, p. 68. 31 Vedi C.A. Gilis, Lo Spirito universale dell’Islam, Rimini, 1999, p. 81.

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azione è separata dal suo Principio divino e al tempo stesso gli è unita, a seconda del punto di vista dal quale la si considera; si tratta dunque, in altri termini, del barzakh per eccellenza”32. Come già chiarito in precedenza, il barzakh è l’istmo intermediario, la realtà mediana che separa e unisce due estremi contrapposti, poiché ne è in realtà la sintesi principiale: si tratta di una designazione simbolica dell’Uomo, dal momento che questi, a motivo della sua costituzione totalizzante e della sua Forma divina, è il compendio (mukhtasar) dell’universo e la sua sintesi perfetta: “Grazie all’Uomo, il mondo è secondo la Forma di Dio; al contrario, il mondo senza l’Uomo non realizzerebbe la perfezione della Forma divina”33. Il perno e il pilastro. La funzione di Polo viene realizzata da un solo essere durante una determinata epoca: egli è unico, come unico è il centro del cerchio. Il nome di “Polo” gli deriva a motivo della sua funzione assiale: è il perno (madâr), il fulcro attorno al quale ruota l’universo. Se il Polo rappresenta in questa prospettiva il centro dell’universo, egli non potrà che situarsi, simbolicamente, al centro del mondo. Per questo, infatti, viene detto che la sua sede (mahall) è Mecca34: “la sede (la parola araba è markaz, che significa propriamente “centro”35) del Polo supremo (El-Qutb El-Ghawth…) è descritta simbolicamente in una posizione fra cielo e terra, in un punto che si trova esattamente R. Guénon, Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo, Milano, 1993, p. 55. 33 Fut., cap. 327, citato in C.A. Gilis, Les sept Étendards, op. cit., p. 21. 34 Vedi infra, p. 54. 35 Non si tratta di una contraddizione: il testo del Kitâb manzil al-qutb riporta mahall, genericamente “luogo”, da noi tradotto con “sede” in riferimento al suo uso in tale contesto dottrinale, piuttosto tecnico. 32

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al di sopra della Kaabah, la quale è… una delle rappresentazioni del ‘Centro del Mondo’”36. Il qutb rappresenta l’axis mundi e, come già in altre tradizioni, può figurarsi con l’albero che si innalza al centro del mondo il cui tronco eretto simboleggia la sua verticale assialità37, secondo le parole coraniche: “come un albero eccellente, la cui radice è stabile e i rami nel cielo” (Cor. 14:14). Perciò Ibn ‘Arabî può scrivere: “Sappi che l’Uomo è un albero (shajara) fra gli alberi. Iddio lo ha fatto spuntare come albero, non come erba (najm), poiché egli si rizza su un tronco (sâq)”38. In un altro passo delle Futûhât, inoltre, l’Uomo viene identificato al pilastro centrale della tenda: “Iddio – sia Gloria a­Lui! – ha istituito questa forma umana, in conformità al movimento verticale (bi-l-haraka al-mustaqîma), come la forma del pilastro centrale (‘amad) della tenda, perciò l’ha posto come sostegno della cupola dei Cieli. È grazie a lui che Iddio – sia Gloria a Lui! – impedisce loro di scomparire. Per noi dunque il simbolo dell’Uomo è il pilastro. Quando questa forma sparirà e non rimarrà di essa sulla faccia della Terra alcun essere dotato di respiro (mutanaffis), il Cielo si fenderà, giacché in quel giorno sarà fragile (Cor. 69:16), poiché sarà venuto a mancarne il pilastro, cioè l’Uomo”39. Grazie alla sua posizione centrale e assiale, l’Uomo salvaguarda l’esistenza stessa del cosmo “con il suo solo respiro”40 e si pone R. Guénon, Simboli, op. cit., cap. 15 Un geroglifico del Polo, p. 105. Vedi R. Guénon, Il Simbolismo, op. cit., cap. IX L’Albero di mezzo, p. 73. 38 Fut., III, p. 137. 21. In arabo il termine sâq designa sia la gamba dell’uomo sia il tronco, il fusto dell’albero. 39 Fut., I, p. 125. 25. Vedi anche Fut., IV, p. 418. 35. 40 Vedi R. Guénon, La Grande Triade, cap. XIV Il mediatore, Milano, 1980, p. 119 nota. 36

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come mediatore fra il Cielo e la Terra poiché, continua lo Shaykh al-Akbar, “l’Uomo è il figlio generato (mutawallid) dal Cielo e dalla Terra, i quali sono per lui come suo padre e sua madre”41. L’opera di mediazione dell’Uomo rende effettiva la comunicazione fra il Cielo e la Terra e si attua secondo un duplice movimento di ascesa e di ridiscesa lungo l’Asse del Mondo, simboleggiato appunto dall’albero o dal palo: “colui che realizza veramente le implicazioni del rito si assimila agli influssi celesti e in certo modo li riconduce in questo mondo per unirveli agli influssi terrestri, prima di tutto in se stesso, e poi, per partecipazione e per “irradiamento”, nell’intero ambiente cosmico”42. Ciò accade poiché l’irradiamento si produce necessariamente a partire da un punto centrale verso l’esterno in tutte le direzioni e il luogo in cui si situa l’Uomo è davvero “il punto centrale in cui si uniscono effettivamente le potenze del Cielo e della Terra; è perciò, di conseguenza, il prodotto diretto e compiuto della loro unione”43. Del medesimo simbolismo sono allora espressione le parole che troviamo nel Kitâb manzil al-qutb, a proposito del qutb: “Il Polo è il punto centrale del cerchio [cosmico] (markaz ad-dâ’ira) e [nello stesso tempo] la sua circonferenza (muhît)… Attorno a lui ruota l’universo”44. Analogamente scrive René Guénon: “L’“uomo vero” si identifica con questo stesso centro…; per tale motivo tutto ciò che è manifestato in questo stato medesimo procede e dipende interamente da lui e in qualche modo esiste solo come una proiezio41 Fut., I, p. 125. 31. Si tratta di un’espressione simbolica comune, del resto, a molte forme tradizionali, in virtù della natura veramente universale del linguaggio simbolico; vedi R. Guénon, La Grande Triade, op. cit., cap. IX Il Figlio del Cielo e della Terra. 42 R. Guénon, La Grande Triade, op. cit., p. 117. 43 Ivi, p. 84. 44 Vedi infra, p. 49-50.

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ne esterna e parziale delle sue possibilità. È sempre lui che con la sua “azione di presenza” mantiene e conserva l’esistenza di questo mondo perché ne è il centro e, senza un centro, nulla può avere un’esistenza effettiva”45. Il punto centrale costituisce il principio e l’origine dell’estensione spaziale, considerata perciò come un’esteriorizzazione rispetto a esso, ed è anche il “luogo” cui ritornano tutti i raggi emanati da questo centro nelle diverse direzioni in uno stato di completo riassorbimento essenziale. Qui tutti i contrasti e tutte le opposizioni cessano, di fatto di esistere poiché, essendo tale punto unico, la dualità, fonte di ogni opposizione, non ha più modo di essere. Ciò corrisponde, in altre parole, alla Stazione divina (al-maqâm al-ilâhî) che è quella che riunisce e sintetizza, risolvendoli, tutti i contrasti e le antinomie; è l’“Invariabile Mezzo” della tradizione estremo orientale, il mozzo della ruota cosmica46: “per colui che è giunto in questo punto… non esistono più contrari, perciò non esiste più disordine; è quello il luogo stesso dell’ordine, dell’equilibrio, dell’armonia o della pace”47. Ed è proprio in tal senso che Ibn ‘Arabî descrive il Polo, dopo averlo rappresentato dal centro del cerchio, in uno stato incondizionato e assoluto che denota il superamento delle dualità cosmiche: “Egli possiede dei legami sottili estesi a tutti i cuori delle creature, nel bene e nel male, in egual misura, senza alcuna preponderanza per il loro detentore: per lui non sono né bene né male, ma semplicemente realtà (wujûd)”48.

R. Guénon, La Grande Triade, op. cit., p. 119. Vedi R. Guénon, Il Simbolismo, op. cit., p. 58. 47 Ivi, p. 70. 48 Vedi infra, p. 50. 45 46

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La lettera alif. L’albero che si rizza al Cielo, il pilastro centrale della tenda, il punto centrale del cerchio (che corrisponde, del resto, al punto di intersezione dell’Asse del Mondo con un piano di manifestazione specifico) sono tutti simboli assiali comuni, in certo qual modo, a molteplici forme tradizionali, tra cui s’è visto anche l’Islâm. V’è tuttavia un’ulteriore espressione, propriamente islamica, dell’assialità centrale, in stretta correlazione con la figura del Polo: si tratta della lettera alif (la quale corrisponde di norma a una “a” lunga). Essa è, graficamente, un tratto verticale e ha il valore numerico corrispondente a 1, ossia esprime l’unità algebrica, che ha valore principiale rispetto alla molteplicità numerica, allo stesso modo in cui il punto49 rappresenta l’unità geometrica ed è l’origine della dimensione spaziale. Il simbolismo geometrico e quello numerico sono dunque due modi del linguaggio simbolico perfettamente paralleli e speculari, tanto che essi possono essere usati indifferentemente, senza soluzione di continuità nel passaggio dall’uno all’altro: “il Centro è, prima di tutto, l’origine, il punto di partenza di tutte le cose; è il punto principiale, senza forma e senza dimensione, dunque invisibile, e, di conseguenza, la sola immagine che si possa dare dell’Unità primordiale. Da esso sono prodotte, per irradiazione, tutte le cose, come l’Unità produce tutti i numeri, senza che la sua essenza ne riesca modificata o intaccata in alcuna maniera”50. Nelle Futûhât al-makkiyya, similmente, leggiamo: “La radice (asl) dei numeri è l’uno, ed essi non hanno esistenza se non per suo E si noti come il punto sia, in realtà, ciò che risulta dalla proiezione della stessa alif, in quanto tratto verticale, su di un piano orizzontale a essa perpendicolare. 50 R. Guénon, Simboli, op. cit., cap. 8 L’idea del Centro nelle tradizioni antiche, p. 63; vedi anche Il Simbolismo, op. cit., p. 25. 49

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mezzo e grazie a esso sussistono. Chi non conosce l’unità (ahadiyya) del suo Creatore, allora i suoi dei sono numerosi, gli manca la Sua Conoscenza, perciò ignora il suo Signore”51. L’alif, simbolo dell’Asse nella sua forma, è in maniera particolare la lettera polare (qutbâniyya); essa, secondo l’applicazione della Scienza delle Lettere, si identifica al Polo poiché il valore numerico del suo nome (A + L + F = 1 + 30 + 80 = 111) è il medesimo del termine qutb (Q + T + B = 100 + 9 + 2 = 111). E il numero 111 rappresenta l’unità espressa nei tre mondi, vale a dire nell’insieme della manifestazione, ciò che corrisponde alla funzione polare52, in quanto perno unico e unificatore attorno al quale ruota tutto un ordine di realtà (o un piano o un insieme di piani della manifestazione). Il patto di omaggio. Il ruolo di controllo e di dominio esoterico (tasarruf) che il Polo esercita rispetto al mondo manifestato viene illustrato, nell’opera di Ibn ‘Arabî, dalla formulazione dell’atto di omaggio che gli viene offerto dall’insieme delle creature al momento della sua investitura a capo supremo della gerarchia. Si tratta, per la precisione, di un patto di riconoscimento dell’autorità del qutb e quindi della sottomissione a lui da parte del creato: “A ogni Polo, allorquando assume il grado della Qutbiyya, viene sempre reso il patto di omaggio da parte dell’intimo di ogni essere (sirr), animale o pietra, a esclusione degli uomini e dei jinn, tranne che pochi di loro”53. Ogni essere Fut., II, p. 102. 5. Vedi R. Guénon, Simboli, op. cit., p. 106; M. Vâlsan, L’Islam et la fonction de René Guénon, cap. VII Un symbole idéographique de l’Homme Universel, Paris, 1984, p. 109. 53 Vedi infra, p. 54. L’intimo del cuore (sirr al-qalb) rappresenta la manifestazione individuale dello Spirito, in quanto “anima vivente”, che è al 51 52

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vivente accetta la funzione centrale di supremazia del Polo, con l’eccezione degli uomini e dei jinn, fra i quali alcuni soltanto gli rendono il patto. Nel Kitâb manzil al-qutb non troviamo ulteriori dettagli al proposito, piuttosto l’Autore ci rimanda esplicitamente, per conoscere la modalità di svolgimento di questo patto, alla consultazione di un suo ulteriore scritto, definito come “ampio libro” (kitâb kabîr), dal titolo di Kitâb mubâya‘at al-qutb fî hadrat al-qurb, “Il Libro del Patto del Polo nella presenza della Prossimità”. Con ogni probabilità questo trattato è andato perduto, tuttavia possiamo trovarne un equivalente, in certo qual modo, nel capitolo 336 delle Futûhât al-makkiyya, intitolato “Sulla Dimora del patto di omaggio (mubâya‘a) delle piante al Polo, il signore dell’istante (sâhib al-waqt) in ogni tempo (zamân), e ciò fa parte della Presenza muhammadiana”54. Tale capitolo è dedicato all’illustrazione della forma (sûra) e della funzione (mansib) di questo patto, la cui proclamazione viene ordinata da Dio stesso all’insieme del mondo. Al momento del patto, ogni essere pone una domanda al Polo, alla quale egli risponde conformemente all’aspetto della Scienza divina che quel quesito implica. Vi sono esclusi gli Spiriti perduti d’amore (al-muhayyamûn), ossia i Cherubini (al-karûbiyyûn), i quali, a motivo della loro adorazione divina essenziale, non hanno neppure sentore dell’esistenza del cosmo, e rimangono completamente assorbiti nella loro lode e contemplazione della Maestà divina55.

di là del senso interno (il manas indù) che costituisce il velo del mentale posseduto unicamente da uomini e jinn, ma di cui sono privi tutti gli altri esseri viventi nei tre domini naturali (animali, vegetali, minerali). 54 Fut., III, pp. 135-40. 55 Vedi Fut., II, p. 19; III, p. 137 e M. Chodkiewicz, Le Sceau, op. cit., pp. 123, 134.

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Invocazione con il Nome divino Yâ Walî: “Oh Colui che si prende cura (dell’Universo e delle sue creature)!” Calligrafia speculare – moschea Ulu Cami, Bursa (1399)

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Nel nome di Dio il Misericordioso il Compassionevole Che la Grazia e la Pace divine siano sul Profeta e sulla sua famiglia! Sia lode a Dio, Signore dei mondi, e l’esito felice ai timorati di Dio. Non vi è forza né potenza se non in Dio, il Sublime, l’Immenso. E che la Grazia di Dio sia sul nostro Signore Muhammad e sulla sua famiglia, gli eccellenti e i puri, e che Dio li benedica di benedizione sublime. Sappiate – che Dio vi assista – che Dio – sia eccelsa la Sua lode e siano santificati i Suoi Nomi – ha costituito la Dimora del Polo (manzil al-qutb), rispetto alla Presenza [divina], come Dimora del segreto (manzil as-sirr). Il motto iniziatico (hijjîr)1 del Polo è, fra i Nomi [divini], al-Ilâh2, il Dio. Poi Egli ha costituito la Dimora dell’Imâm che si trova alla sinistra del Polo come Dimora di Maestà (jalâl) e di Intimità (uns); a costui appartiene [iniziaticamente] il Nome ar-Rabb, “il Signore”, e Vale a dire l’invocazione perpetua, il costante dhikr interiore che caratterizza in maniera peculiare ogni Uomo spirituale. 2 Non troviamo qui l’essenziale e più comune Nome divino Allâh, dal significato analogo, poiché la presenza di al-Ilâh (assieme ai due Nomi successivi Rabb e Malik) costituisce un riferimento allusivo all’ultima sura coranica, intitolata an-Nâs, al cui terzo versetto compare l’epiteto Ilâh an-nâs, “il Dio degli uomini”. Vedi supra, p. 31. 1

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da lui dipende l’integrità del mondo intero (salâh al-‘âlam) e delle piante (nabât). Egli detiene il segreto della lontananza (bu‘diyya)3, nella sua mano vi sono le chiavi [dei misteri]4, ed egli è il Signore immacolato (as-sayyid at-tâhir) nel mondo. Egli è la spada dell’Imâm-Polo (sayf al-imâm al-qutb)5. In seguito, Dio ha costituito la Dimora dell’Imâm che si trova alla destra del Polo come dimora di Bellezza (jamâl) e di Timore (hayba); a costui appartengono [i Nomi] al-Malik, “il Re” e as-Sultân, “il Sovrano”, in virtù della sua Stazione spirituale (maqâm), non de facto. Nella sua mano vi sono le chiavi del mondo degli Spiriti puri (‘âlam al-arwâh al-mujarradîn) dalle forme, assoggettati (almusakhkharîn)6 [all’Ordine divino] – e [la Conoscenza] delle modalità della loro costituzione nella Presenza divina. Poiché presiede alla salvaguardia del mondo creato più esteriore rispetto all’Essenza, ossia simbolicamente il più lontano. 4 Questo Imâm, infatti, detiene, in maniera esclusiva, la conoscenza di numerosi segreti, che verranno illustrati nel seguito dell’opera; vedi infra, p. 71 e segg.. 5 È interessante leggere al-imâm al-qutb l’uno come l’attributo dell’altro, poiché presuppone che quella di Imâm sia una qualità fondamentale e primaria, in certo modo più “primordiale”, la quale viene poi ulteriormente connotata dalla specifica qualifica spirituale di qutb. Bisogna notare, in questo senso, che il termine Imâm è presente nel Corano, dove definisce la funzione di Abramo come “Imâm per gli uomini” (Cor. 2:124), in seno alla Hanîfiyya, vale a dire la Religione pura e assiale (Cor. 2:135; 3:67, 95), mentre qutb è un termine tecnico posteriore, appartenente specificatamente al Sufismo. L’espressione al-qutb al-imâm compare anche in Fut., I, p. 154, riferita a Mudâwî ’l-kulûm, “il Guaritore delle ferite”, uno dei Poli perfetti del ciclo. Sulla funzione di Abramo vedi anche M. Vâlsan, L’Islam et la fonction de René Guénon, op. cit., p. 131 e C.A. Gilis, La Doctrine initiatique du Pèlerinage, op. cit. 6 Espressione coranica, solitamente riferita agli Angeli o alle entità cosmiche come il Sole e la Luna (Cor. 7:54; 16:12). 3

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In verità il Polo è un volto senza nuca (wajh bilâ qafâ’)7. Il Profeta – che la Grazia e la Pace divine siano su di lui – disse: “In verità, io vi vedo anche da dietro la mia schiena”8. [Con queste parole il Profeta] ha virtualmente affermato l’esistenza materiale della schiena, ma ne ha negato la realtà propria, poiché egli vedeva anche da essa, e ha posto il “dietro” (warâ’) come affermazione della loro assenza9. Dio ha poi costituito l’Imâm della sinistra dotato di due volti: un volto composito (murakkab), che sta di fronte al mondo, e un volto semplice (basît), che sta di fronte al Polo. Ha costituito invece l’Imâm della destra dotato di un unico volto, fisso, e lo ha privato della coscienza (shu‘ûr) della propria nuca, tanto che se venisse interrogato al riguardo, direbbe d’essere un volto senza nuca. Noi abbiamo già illustrato la Dimora dei due Imâm nella Sfera del Cuore (al-falak al-qalbî)10, nel libro intitolato Mawâqi‘ annujûm, “I ponenti delle stelle”11, perciò lo citeremo opportunamente, se Dio vuole, nel presente libro, a proposito della Dimora del Polo e dei due Imâm. La dimora del Polo, la sua stazione e il suo stato spirituali. Il Polo è il punto centrale del cerchio [cosmico] (markaz addâ’ira) e [nello stesso tempo] la sua circonferenza (muhît). Egli Vedi supra, p. 34. Con versione leggermente differente, Bukhârî, Adhân, 71; Muslim, Salât, 125; Nasâ’î, Tatbîq, 60. 9 Poiché gli uomini, ordinariamente, non vedono da dietro, dunque si può dire che siano assenti, cioè che manchino, rispetto a quella direzione. 10 È il titolo di un capitolo dell’opera ivi citata. 11 Vedi supra, p. 32. 7 8

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è lo specchio del Principio (mir’ât al-Haqq). Attorno a lui ruota12 l’universo. Egli possiede dei legami sottili estesi a tutti i cuori delle creature, nel bene e nel male, in egual misura, senza alcuna preponderanza, per il loro detentore13: per lui non esiste né bene né male, ma semplicemente realtà (wujûd). Il loro essere si manifesta come bene ovvero come male nel ricettacolo che le accoglie (mahall al-qâbil), presso le Genti della Sunna in base alla sua posizione, e per alcuni speculativi (‘uqalâ’) secondo la condizione accidentale (‘arad) e il ragionamento (‘aql). L’Altissimo ha detto: “Egli vi ispirò la sua depravazione e la sua pietà” (Cor. 91:8)14 come luogo autentico che procede dal segreto della “Sintesi dei molteplici aspetti divini” (al-âlihî)15. Poi sono apparsi manifesti il Paradiso e l’Inferno, e l’insieme delle relazioni (nisba) nell’Esistenza è simile alla Dignità dell’Essenza divina sintetica (adh-dhâtiyya al-âlihiyya)16; da essa derivano le Parole dell’Altissimo: “Per Allâh” – ossia per mezzo del Nome totalizzante dell’Essenza (bi-ism adh-dhât al-jâmi‘) – “contrae ed espande” (Cor. 2:245) e nella Sua Mano vi sono il rifiuto (man‘) e il dono (‘atâ’). In realtà, come ben sanno gli Uomini della realizzazione spirituale (al-muhaqqiqîn), non esiste irrevocabilmente alcun In arabo viene usato il sostantivo madâr, “asse, perno, fulcro” che deriva dalla medesima radice DWR di dâ’ira, “cerchio”. 13 Ossia per il Polo, che dal suo punto di vista centrale e veramente universale, non considera più le dualità cosmiche, tipizzate qui dalla dualità di bene e male. 14 S’intende la depravazione e la pietà dell’anima (nafs). 15 Il termine è derivato da âliha, plurale fratto di ilâh, vale a dire “le divinità”, intese come le realtà particolari dell’unico Nominato espresse dalla moltitudine dei differenti Nomi divini. In questo senso si spiega la sintesi dei contrari e delle antinomie (come il bene e il male). 16 Ossia implicante tutti gli aspetti divini, anche quelli tra loro opposti e antitetici. 12

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rifiuto, bensì v’è un dono continuo senza interruzione e un’effusione permanente (fayd dâ’im)17. Il rifiuto esiste solamente nella necessità (wujûb) divina che si applica a entrambe le realtà [ossia dono e rifiuto]. L’unico rifiuto possibile è che coloro cui viene donato, a causa delle loro realtà essenziali, non accettano tutti quanti i doni nello stesso tempo, ma solo alcuni di essi. Il non accettarne gli altri noi lo chiamiamo “rifiuto divino”, giacché il giudizio della ragione individuale, presso coloro che lo considerano importante, porta a dire: “Se [Dio] avesse voluto…”, in modo che la cosa rifiutata possa essere [comunque] attribuita a colui cui è rifiutata, nell’istante preciso che [invece] gli viene rifiutato18. Ciò è corretto, ma law è una congiunzione “siniVi è una corrispondenza simbolica fra l’Esistenza (wujûd) e il dono (‘atâ’): come la realtà in sé non è né bene né male, così non v’è, in verità, un dono da parte divina alternato a un rifiuto, bensì tutto è dono, anche ciò che appare all’uomo come un rifiuto da parte divina; sulla dottrina iniziatica del “dono”, vedi il capitolo dei Fusûs al-hikam dedicato alla Saggezza di Seth: Ibn ‘Arabî, Le Livre des Chatons des Sagesses, Beyrut, 1997, cap. 2. Il termine fayd viene usato, da Ibn ‘Arabî, nella definizione dei successivi gradi di automanifestazione dell’Essenza: al-fayd al-aqdas, “l’effusione più santa” corrisponde alla differenziazione delle realtà essenziali delle cose in seno alla Scienza divina, mentre al-fayd almuqaddas, “l’effusione santissima” realizza il successivo passaggio delle cose possibili all’esistenza; vedi Fus., cap. 1, tradotto in Il Castone d’una Saggezza divina in un Verbo di Adamo, in Perennia Verba 1/1997, p. 9; G. De Luca, “Non sono Io il vostro Signore?”, in I Quaderni di Avallon, 31/1993, pp. 64-5. 18 Analogamente nei Fusûs, cap. 2, si legge: “Ciò che viene chiesto sarà affrettato o ritardato seguendo il momento che Dio gli ha destinato: se la domanda è fatta nel momento opportuno, Egli si affretterà a rispondere; se, invece, questo momento è posteriore (alla domanda), in questo mondo o nell’altro, la risposta sarà, anch’essa, ritardata; intendo, l’oggetto della domanda”, Ibn ‘Arabî, Le Livre des Chatons des Sagesses, op. cit., p. 74-5. 17

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stra” (harf mashûm)19, poiché non si accompagna mai se non con ciò che non può verificarsi. Ha detto infatti l’Altissimo: “Se Dio avesse voluto prendersi un figlio” (Cor. 39:4); “Se avessimo voluto prenderci un divertimento” (Cor. 21:17); “Se il tuo Signore avesse voluto non lo avrebbero fatto” (Cor. 6:112); “Se avessimo voluto avremmo portato a ogni anima la sua guida” (Cor. 32:13). Quanto alla cosa a causa della quale si ha il nome di “impedimento” (mâni‘), non si tratta di una cosa che impedisce, vale a dire che gli intelletti sono incapaci di cogliere certe quiddità20 degli esseri esistenziati (mâhiyyât al-mawjûdât), giacché i limiti essenziali (al-hudûd adh-dhâtiyya) sono difficili da raggiungere, e la maggior parte degli intelletti conosce le cose unicamente tramite i limiti formali ed espressivi (al-hudûd ar-rasmiyya wa-’l-lafziyya). Il Vero fa traboccare la Sua Generosità (jûd) sulle cose con un’effusione assoluta (fayd mutlaq), come il sole spande incondizionatamente la sua luce sulla terra, per coloro che osservano, ma la luce viene accolta in maniera differente a causa della diversità del luogo. Non è che sia differente la luce, bensì il suo accoglimento: i corpi lucidati non la ricevono allo stesso modo dei corpi offuscati. Quanto a chi si trova in un Kun, “Sii!”21, costui non ha che il conLaw infatti introduce la proposizione ipotetica dell’irrealtà, dell’impossibilità ovvero un desiderio irrealizzabile. 20 In arabo mâhiyya: è un sostantivo astratto che deriva dalla domanda: “Mâ hiya?”, “Che cos’è [questa cosa]?” e identifica la natura o l’essenza di una cosa. 21 Si intende qui lo stato di virtualità di una cosa, o meglio di una possibilità di manifestazione, nel momento logico che precede la sua esistenziazione, da cui il simbolismo dell’oscurità rispetto alla luce dell’Esistenza. È infatti mediante l’imperativo divino “Kun!” (Cor. 16:40), analogo al biblico fiat, che viene conferita la luce della manifestazione alle cose, fino a quel momento rimaste nello stato archetipico di essenze immutabili (a‘yân thâbita). 19

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trario della luce, e anche questo è un dono22, ma colui che è escluso e rifiutato alla Verità lo descrive come un rifiuto, poiché egli è colui che vela se stesso o a motivo della sua realtà essenziale, oppure a causa di un accidente che può anche venir meno23, come l’azione, il Kun, la ruggine (rân)24, l’esser opposto (didd) e altro. Questi, invece, vengono percepiti come veli, secondo una percezione corretta, e poiché conducono ad altri veli, hanno nome di “cose rifiutate” in rapporto a ciò che si desidera ardentemente. La Dimora del Polo è la Dignità dell’esistenziazione pura (alîjâd as-sirf)25. Egli è il Vicario (khalîfa): la sua stazione consiste nell’attuazione dell’Ordine [divino] e nell’esercizio dell’Auctoritas (al-hukm); il suo stato è la condizione più indifferenziata (al-hâla al‘âmmiyya). Nessuna peculiarità è vincolata al suo stato, giacché egli è il velo universale nell’Esistenza (as-sitr al-‘âmm fî-’l-wujûd). Nella sua mano detiene i forzieri della Generosità, e il Vero gli si manifesta (mutajallin) perennemente. È perciò che Abû Bakr Ciò significa che il fatto di essere una possibilità di manifestazione costituisce già un dono di per sé, anche nel caso delle possibilità di manifestazione che non si manifestano; vedi R. Guénon, Gli stati molteplici dell’Essere, cap. III L’Essere e il Non-Essere, Torino, 1965; L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cap. XV Lo stato incondizionato d’Âtmâ. 23 Vi sono infatti due ordini di possibilità di manifestazione: quelle che non si manifestano, e ciò a causa della loro stessa natura, chiamata in arabo isti‘dâd, “predisposizione essenziale”, e le possibilità di manifestazione che si manifestano. La loro manifestazione avviene soltanto nel momento opportuno, ciò che nel testo viene espresso secondo la prospettiva del venir meno degli accidenti che la ostacolano; la scienza iniziatica relativa a tutto ciò è, secondo le parole di Ibn ‘Arabî, una delle cose più difficili da conoscere; in proposito, si veda ancora una volta il secondo capitolo dei Fusûs. 24 Il vocabolo è coranico (83:14) e si riferisce alla ruggine che vela, oscurandola, la superficie dei cuori; vedi C. Casseler, La dottrina del cuore nel Tasawwuf, in La porta d’Oriente, 1/2001, pp. 86-88. 25 Vedi supra, p. 19-28. 22

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as-Siddîq26 disse: “Io non ho mai visto alcunché senza aver visto prima Dio”27. Il luogo che appartiene al Polo è Mecca, quale che sia il luogo dove egli risiede fisicamente, giacché la sede del Polo è Mecca, e nessun’altra. A ogni Polo, allorquando assume il grado della Qutbiyya, viene sempre reso il patto di omaggio da parte dell’intimo di ogni essere (sirr)28, di ogni animale e pietra29, a esclusione degli uomini e dei jinn, tranne che pochi di loro. Noi abbiamo già scritto, a proposito di questo Patto (bay‘a) e di come esso viene effettuato, un ampio libro che abbiamo intitolato Kitâb mubâya‘at al-qutb fî hadrat al-qurb, “Il Libro del Patto del Polo nella presenza della Prossimità”30. I segreti gli sono [presentati come un] seggio elevato (minassa)31; se all’amato (mahbûb) viene fatta conoscere ogni cosa, quale sarà, allora, la condizione del Polo, dal quale dipendono tutte le necessità Figura di straordinaria importanza per l’Islâm, fu fra i più intimi Compagni del Profeta e alla morte di quest’ultimo divenne il primo dei quattro Califfi ben guidati. 27 Costituisce la prima sentenza riportata da Ibn ‘Arabî nel Kitâb ala‘lâm bi-ishârât ahl al-ilhâm, in Rasâ’il, op. cit. (Le Livre d’enseignement par les formules indicatives des gens inspirés, a cura di M. Vâlsan, Parigi, 1985, p. 21). 28 Vedi supra, p. 26. 29 Nel testo, forse per un errore del copista, non vengono citate le piante, che pure sono comprese nel patto. 30 Si tratta, verosimilmente, di un trattato oggi andato perduto; del medesimo argomento tratta però anche il capitolo 336 delle Futûhât almakkiyya. 31 Il termine minassa identifica inizialmente il letto sul quale si adagia la sposa quando si scopre per la prima volta davanti al marito. La presenza di questo vocabolo allude, simbolicamente, a un contesto iniziatico teofanico in cui i segreti spirituali sono svelati al Polo come la sposa al marito. Allo stesso modo, per tale motivo viene fatta menzione, di seguito, dell’amato. La terminologia nuziale riveste un ruolo fondamentale nei testi che 26

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del mondo, dalla prima all’ultima? Il Profeta – su di lui sia la Pace – disse: “Quando Dio ama un servo lo rende noto ai portatori del Trono (hamalat al-‘arsh)32 e ordina a Jibrîl di proclamare nei Cieli il nome di quel servo, affinché essi lo conoscano e lo amino; poi viene imposto alla Terra di accoglierlo”33. Io ho incontrato personalmente chi vide34 lo straordinario serpente con cui Dio cinge il monte Qâf che circonda la terra, con la testa che si congiunge alla coda35: l’uomo lo salutò e il serpente gli rispotrattano del Polo, poiché il corrispondente aspetto simbolico delle “nozze cosmiche” (nikâh) è preponderante nella funzione polare (vedi ad es., Fut., II, pp. 573-4). 32 I portatori del Trono sono, secondo la tradizione, otto e possono essere identificati alle realtà angeliche che “sostengono” l’insieme della manifestazione, fino al suo limite estremo, rappresentato dal Trono; verranno elencati più avanti, in relazione all’Imâm di sinistra, vedi infra, p. 74. Vedi anche Ibn ‘Arabî, Il nodo del sagace, op. cit., p. 140 e R. Guénon, Scritti, op. cit., pp. 59-63. 33 Hadîth non presente nelle principali collezioni con questa versione, ma ne esistono diverse varianti simili, ad es. Bukhârî, Badâ’ al-khalq, 6, Adab, 41, Tawhîd, 33; Muslim, Birr, 157; Tirmidhî, Tafsîr 19; Ibn Hanbal, Musnad, II, 267, 341, ecc. 34 Si tratta di Abû ‘Imrân Mûsâ as-Sadrânî (m. 707/1307). Vedi la nota seguente. 35 Il monte Qâf è l’equivalente islamico del monte Meru indù, è cioè la Montagna polare (la Collina di Sion giudaica, il Montsalvage cristiano). La lettera Qâf che ne costituisce il nome non è altro che un’allusione simbolica al Qutb, poiché ne è una designazione abbreviativa. Il serpente che circonda il monte corrisponde sia al simbolo alchemico dell’Uroboros che, nella prospettiva microcosmica, a Kundalinî (che in sanscrito significa “arrotolata in forma di anello o spirale”) arrotolata intorno al “nocciolo d’immortalità”, ma rappresenta anche l’insieme della manifestazione ciclica e, a motivo della sua posizione al Cuore del Mondo, gli stati superiori dell’Essere. Vedi R. Guénon, Simboli della Scienza sacra, op. cit., cap. 15 Un geroglifico del Polo, cap. 32 Il Cuore e l’Uovo del Mondo; R. Guénon, Il Re del Mondo, op. cit., passim; P. Ponsoye, L’Islam e il Graal, Milano,

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se, poi gli chiese notizie dello Shaykh Abû Madyan36 che si trovava a Bugia, nel Maghreb. L’uomo chiese allora al serpente: “E da dove ti viene la conoscenza di Abû Madyan?”. L’animale replicò: “Forse che esiste sulla faccia della terra qualcuno che non lo conosca? In verità, da quando Dio Altissimo ha imposto il nome di Abû Madyan sulla terra, non è rimasto alcuno di noi che non lo conosca!”. Questo è lo stato di chi è amato (al-mahbûb) [da Dio]. Come sarà allora lo stato del Polo, di cui la qualità dell’essere amato è solo uno dei benefici? Tramite costui viene salvaguardata l’integrità del mondo (salâh al-‘âlam) e su di lui si rivolge lo sguardo del Vero nell’Esistenza. Noi ci auguriamo che, se Dio vuole, divenga tra breve manifesto sia agli iniziati che agli uomini comuni, sicché tutti quanti siano costretti a seguirne la Via (tarîqa) e siano tenaci in essa. Uno dei Conoscitori (‘ârifîn) chiese a un altro Conoscitore, mentre io mi trovavo nella città di Fès, notizie a proposito del signore dell’istante (shakhs al-waqt)37: “Egli ora è presente (mawjûd) oppure no?”. L’interrogato rispose: “No, egli è atteso”. Ma noi sapevamo che [il suo giudizio] era limitato. Dissi, allora: Presso di lui non c’è alcuna conoscenza del Segreto di Dio disseminato38 nel mondo. Oh se sapesse che il Polo, il signore dell’istante (sâhib 1989, pp. 55-75; Ibn ‘Arabî, Il nodo del sagace, op. cit., pp. 109-11. 36 Ibn ‘Arabî riporta in più luoghi della sua opera il presente aneddoto dell’incontro avvenuto fra un uomo e l’enorme serpente che avvolge il Monte Qâf. L’uomo è solitamente identificato con Abû ‘Imrân Mûsâ as-Sadrânî, uno dei discepoli dello Shaykh Abû Madyan Shu‘ayb b. alHusayn al-Andalusî, detto al-Ghawth (m. 594/1197), santo notissimo e costantemente citato negli scritti di Ibn ‘Arabî. Pur contemporanei, i due non si incontrarono mai fisicamente, bensì solo nel corso di una visione spirituale descritta dallo Shaykh al-Akbar. 37 È uno degli epiteti del Polo. 38 In arabo mabthûth significa “diffuso, sparso”, detto della polvere che, impercettibilmente presente, si spande in ogni luogo.

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al-waqt), non è né Ebreo né Cristiano né appartiene ad alcun’altra dottrina né comunità religiosa, a meno che queste stesse non gli si conformino per amore nei suoi confronti39, per il Segreto deposto presso di lui40! Gli individui, infatti, provano avversione41 soltanto Illâ wa-nafsu-hâ sabbatun ilay-hi mahabbatan fî-hi. La traduzione di questa frase non può risultare letterale, a motivo della sua ermeticità e per l’uso di forti allusioni suggerite dalla presenza della radice sabba, che significa “versare dentro; fondere un metallo; piovere”, ma anche “amare fortemente”. Ciò significa che le dottrine tradizionali “prendono la forma” del Polo come il metallo colato in uno stampo, ed egli viene pertanto rivestito da forme esteriori che non alterano la sua natura primordiale (fitra). Si tratta di una chiara allusione alla Tradizione primordiale (il Sanâtana Dharma indù): “essa è la fonte prima e il fondo comune di tutte le forme tradizionali particolari, che da essa procedono per adattamento…; ma nessuna di queste forme potrebbe identificarsi con il Sanâtana Dharma vero e proprio…”, R. Guénon, Studi sull’Induismo, Milano, 1996, cap. XI Sanâtana Dharma, p. 106. Si tratta di quella che, nell’Introduzione ai Fusûs, viene designata come “la Stazione più antica (al-maqâm al-aqdam), a dispetto della differenza delle diverse forme e delle regole tradizionali”. Il secondo significato della radice, affiancato alla successiva presenza del termine mahabba, rimanda invece al già noto simbolismo nuziale correlato al Polo, poiché tutto questo avviene a motivo di un amore appassionato: sabb ha, tra gli altri, anche il senso di “follemente innamorato; amante”. Sulla funzione dell’Islâm considerato come riattualizzazione ciclica della Religione primordiale (dîn al-fitra), vedi M. Vâlsan, L’Islam et la fonction de René Guénon, op. cit., p. 147. 40 Riferimento all’amâna, il Deposito di fiducia affidato all’Uomo, ciò che lo rende custode (hâfiz) dell’universo e vicario, luogotenente (khalîfa) divino sulla Terra; vedi G. De Luca, art cit. e C.A. Gilis, Les sept Étendards du Califat, op. cit. 41 Tanakkara significa, in primo luogo, “diventare irriconoscibile, mascherarsi”, da cui “concepire avversione, antipatia”, poiché l’ostilità deriva sempre, in ultima analisi, da una forma di ignoranza e negazione. Il passo rimanda necessariamente alla questione delle molteplici Teofanie divine (aspetto dottrinale centrale all’interno dei Fusûs al-hikam), le quali non vengono riconosciute da tutti gli uomini cui si manifestano, poiché 39

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a causa della [propria appartenenza a una determinata] collettività, il che costituisce la prova divina (al-fitna al-ilâhiyya). Ha detto infatti l’Altissimo: “E se Noi l’avessimo costituito Angelo, l’avremmo [poi] fatto uomo” (Cor. 6:9)42; “Noi avremmo fatto discendere su di loro, dal cielo, un Angelo come Inviato” (Cor. 17:95); “Noi non ti vediamo [essere altro] che un essere umano (bashar) come noi” (Cor. 11:27) e ancora “[Egli] mangia di ciò che voi mangiate e beve di ciò che voi bevete” (Cor. 23:33). Gli uomini osservavano la forma esteriore (zâhir) [dell’Inviato] mostrando[gli] un’opposizione che ha come conseguenza la morte, mentre, nel loro intimo, essi ne erano attratti; tuttavia, erano inconsapevoli che era proprio questo individuo che essi respingevano a possedere il segreto che ardentemente ricercavano. È per questo che il Profeta – su di lui sia la Pace – era solito dire: “Mio Dio!, guida il mio popolo, poiché essi non sanno”43. Allo stesso modo si esprime, fra di noi, il [Santo] muhammadiano (al-muhammadî) quando chi è inferiore a questo grado spirituale (martaba) esclama: “Signore, non lasciare sulla terra nemmeno un abitante fra i miscredenti!” (Cor. 71:26)44. È così, infatti, che si esprime il Santo che, fra noi, ha ricevuto un’eredità diversa da quella muhammadiana (waritha ghayr al-muhammadî). Il Polo si meraviglia di chi lo combatte per questo motivo, giacché il segreto per cui i miscredenti combattono i Profeti, e che essi difendono, non è in realtà nient’altro che quel che i Profeti stessi ogni uomo riconosce come tali solamente quelle conformi al suo personale credo (i‘tiqâd). Vedi Ibn ‘Arabî, Le Livre des Chatons des Sagesses, op. cit., pp. 321-22, 330-31. 42 S’intende Muhammad in qualità di Inviato: ciò significa che ogni essere che ha una funzione di guida spirituale rispetto a una comunità deve appartenere alla medesima specie (jins) di quella comunità, quindi sarà un Angelo se la comunità è angelica, uomo se la comunità è umana. 43 Ghazâlî, Ihyâ’, III, 201; cfr. Furuzanfar, Ahâdîth-i Mathnawî, p. 60. 44 Sono parole pronunciate da Noè.

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hanno portato e con cui si sono caratterizzati. Tuttavia, dato che l’esteriore (az-zâhir) è limitato45, poiché è l’estremità del corno delle forme (tarf qarn as-suwar)46, il mondo è ivi compresso47: i cuori sono perciò perplessi (hârat)48, a causa di quella compressione. Se invece venissero estesi nella misura dell’estensione degli Angeli, osserverebbero il Principio (al-Haqq) allo stesso modo [degli Angeli]49. Dayyiq significa letteralmente “stretto, angusto”. Si noti come l’uso di questo termine e del successivo indaghata diano una prima coloritura di estrema plasticità e concretezza a tutto il passo. 46 Possiamo anche leggere sûr, e allora avremmo, propriamente: “l’estremo (tarf) della punta (qarn) del corno (sûr)”. Si tratta di un gioco di rimandi linguistici assolutamente evidente e immediato in arabo, poiché la parola composta dalle lettere s-w-r si può leggere sia suwar, “forme” (plurale fratto di sûra) sia sûr, “corno da caccia, tromba”, che è sinonimo di qarn. La forma della tromba è quella del corno, con l’estremità superiore molto larga e l’estremità inferiore che va a restringersi sensibilmente; si tratta di una rappresentazione simbolica della struttura dei mondi manifestati, i quali sono tanto più ristretti quanto più sono limitati dalle condizioni e dalle modalità che li caratterizzano; vedi R. Guénon, Gli stati molteplici dell’Essere, op. cit. Sul simbolismo della Tromba vedi Fut., III, p. 66; W. Chittick, The Sufi Path of Knowledge, Albany, 1989, p. 16 e The SelfDisclosure of God, Albany, 1998, pp. 357-59. 47 Il mondo è schiacciato (indaghata) nell’estremità inferiore più stretta del corno, poiché essa rappresenta la manifestazione esteriore, incomparabilmente nulla rispetto ai mondi non-manifestati, e ancora: “La manifestazione, nella sua integralità, è veramente nulla in rapporto all’Infinito, precisamente come avviene… per un punto situato nello spazio, il quale, in rapporto a quest’ultimo è uguale a zero” (poiché la sua estensione spaziale è nulla), R. Guénon, ivi, p. 131. 48 Dalla stessa radice HYR di questo verbo deriva anche il termine tecnico hayra, che esprime uno stato di forte perplessità, smarrimento e disorientamento intimo provato dal cuore dell’iniziato di fronte a certe immediate realtà spirituali. 49 Ecco quanto afferma lo Shaykh al-Akbar, in un’altra opera: “poiché gli spiriti provengono dal mondo dell’espansione e dell’ampiezza, fin dalle 45

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