pool magazine

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CHI HA PAURA DELLA CINA CONTAMINAZIONI POP IN TERRA D’ORIENTE

AMSTERDAM

LA CITTA’ CHE GALLEGGIA

POST PUNK LA FINE DEL PUNK



EDITORIALE “violenta Stimolati da un’inarrestabile urgenza espressiva e da una fascinazione per l’aleatorio, eccoci al debutto editoriale di Pool, un magazine che punta sulla vitalità dei contenuti attraverso un approccio creativo, diretto e funzionale. Pool, un pensiero locale per un’azione globale.

di Michele Casella

Nel coacervo indistinto delle pubblicazioni informative che trovano spazio nella nostra penisola, l’affacciarsi di una rivista che provi a distinguersi appare già un traguardo pregevole. Colpa di un sistema che non riesce più a puntare sulla pregnanza degli argomenti ma che si trova costretta a prediligere la velocità all’approfondimento, la spettacolarizzazione alla preparazione, la notizia stuzzicante al tema elegiaco. Il progetto editoriale che stiamo provando a portare innanzi parte dalla consapevolezza di queste difficoltà e vuole andare controcorrente, nella precisa convinzione che la qualità dei contenuti e le capacità dei collaboratori siano elementi insostituibili e altamente spendibili anche in questo periodo. Ben consci che le notizie viaggiano alla velocità della luce attraverso la rete mondiale, il nostro intento è quello di focalizzare l’attenzione sul valore del giornalismo, della critica e dell’approfondimento. La decisione di affrontare questa sfida nasce dalla volontà di cimentarsi con un ambito coinvolgente e allo stesso tempo inafferrabile, dal quale siamo candidamente affascinati: la cultura in tutte le sue forme. La contaminazione delle arti e lo sviluppo di percorsi che raccolgano stimoli differenti rimanere centrale nel progetto di Pool, la cui funzione primaria sarà quella di seguire il filo rosso della cultura attraverso le sue diverse declinazioni. Il desiderio, di riflesso, è quello di creare un punto di riferimento per i nostri lettori, un’occasione di riflessione per una comunità alla ricerca di stimoli e di nuove idee. Proprio da questo impegno deriva la scelta del nome, una parola inglese ma di diffusione internazionale, il cui primo significato è “centro di aggregazione”: POOL. Con questo debutto proviamo a indagare i margini della realtà urbana attraverso gli occhi di alcuni artisti contemporanei, focalizzando l’attenzione sulla periferia di Amsterdam e di alcune città italiane. Le visioni, sia narrative che fotografiche, tracciano un percorso originale e pregnante, al quale si affiancano articoli e recensioni dedicati al punk e alle sue icone: dal tomo essenziale di Simon Reynolds alle italianissime Teste Vuote Ossa Rotte, fino ad arrivare al cinema di Sofia Coppola ed al glam della sua splendida Maria Antonietta. E poi ancora la poetica irriverente del teatro di Rezza e Mastrella, i deserti di Schifano, la nuova pop-culture cinese e tanto spazio alla musica alternativa, alla letteratura internazionale e al fumetto d’autore.

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ringraziamo

hanno collaborato

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comune di bari comune di putignano

Alceste Ayroldi Paola Ciccolella Paola Damiani Edoardo "Catfish" Fassio Roberta Fiorito Antonella Gaeta Enrico Godini Pasquale La Forgia Roberto La Forgia Enzo Mansueto Moonlit Nicola Morisco Serafina Ormas

istituto superiore di design di napoli

assessorato alla cultura della regione puglia della provincia di bari di bari di putignano ordine giornalisti di puglia biblioteca provinciale s.teresa dei maschi feltrinelli libri e musica

Paola Leanza Fabio Pennetta Vincenzo Pietrogiovanni Davide Rufini Silvia Viterbo Direttore R esponsabile Michele Traversa



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PITTI

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SAN NICOLA

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POST PUNK

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AMSTERDAM

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IL CODICE ATLANTICO

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CHI HA PAURA DELLA CINA

il nuovo uomo splendori d’arte d’oriente e d’occidente la fine del punk

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archivio mentale

l’opera di leonardo approda a zagabria contaminazioni pop in terra d’oriente

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POOL BIMESTRALE - ANNO I - # 00 - 25.01.007

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PITTI il nuovo uomo di Silvia Viterbo

Torna la fiera più fashion dell’anno, il grande mercato delle tendenze e dell’eleganza. Un viaggio attraverso stand e mannequin.


pagina precedente AD39 a sinistra Ferragamo sotto Capucci pagina seguente Messaggerie

Un uomo così? Si, lo voglio. Serpeggia nel parterre femminile durante la sfilata di Messaggerie, per Pitti Immagine a Firenze, un crescente consenso ai nuovi adolescenti, belli, provocanti, raffinati che sfilano sulla passerella allestita nel Teatro Nazionale, non restaurato dopo i degradi del tempo e gli interventi provocatori dei noglobal. Una collezione che è un passo nel domani dipinto a tinte sfumate. e' un Pitti pieno di vip, star della tv, sportivi con tutto il glam di supernotti rock, raffiche di concerti, inaugurazioni e performance; gli interpreti di questa collezione ben si inseriscono come artisti decadenti, star con un’atmosfera metropolitana, dove i trattamenti danno anima ai tessuti e i lavaggi manuali ed i volumi sono pensati per un mix urbano affascinante. Le maglie fatte a mano sono indossate su tuxedo in fustagno, il lucido dei pantaloni ironizza con i tessuti rustici e sportivi delle giacche, le camicie hanno colli piccoli e particolari sartoriali e i jeans per la notte sono in filo di lurex e spago da calzolaio. Ma la rivoluzione dell’abbigliamento sportivo continua con scarpe con soluzioni innovative nei materiali e nelle suole, dalla collezione Puma studiata da Alexander Mc Queen, per dare al passo un’andatura sempre più felina, al nuovo mocassino Navy in cavallino e fondo antiscivolo di Voile blanche. Cachemire in cento colori


per Gentryportofino e consegna in 48 ore del capo personalizzato con le iniziali, e in lana e cachemire è anche la tracolla di Brooksfield, anche se la soluzione più affascinante è sicuramente il blazer di Ballantyne, presentato da Luca Cordero di Montezemolo, che pesa quattrocentoventi grammi ed è destrutturato ma con taglio e rifiniture sartoriali che permettono al nuovo manager di muoversi con poco bagaglio, ma sempre con un guardaroba perfetto. E se tutto il trend proposto è all’insegna del lusso e del ritrovato fascino sartoriale dell’abito fatto su misura secondo gusto e personalità, e se accanto alla moda italiana viene riproposta la couture maschile inglese nella mostra “The London Cut”, che presenta i grandi sarti che hanno vestito personaggi celebri come Cary Grant e continuano a farlo, c’è pur sempre il mondo delle discoteche che pretende la sua moda. E qui Gas, griffe del denim fra le più quotate, presenta lo smoking impeccabile ma di jeans nero pece con bande in raso, e Borsalino il casco “per la sera” di seta nera. Sempre smoking, ma questa volta in edizione pigiama per il raffinato seduttore di Grigio Perla, e vero smoking con mantello, cappello e persino bastone per la ritrovata voglia di vestirsi da sera nell’interpretazione di Ferragamo. Ed è sempre la nostalgia per quella eleganza smarrita che conduce dentro Palazzo Pitti alla Galleria del Costume, dove si susseguono splendidi abiti di antichi casati fra cui quello di manifattura italiana donato dal pugliese Francesco Capitaneo, sino a giungere al grande Capucci e all’ironia di Moschino. Per poi nella magica atmosfera di Boboli, dove Kriss Van Assche ha presentato una attesissima installazione evento, sollevarsi sui piedi soavi come ballerini per farsi fotografare sotto infiniti cappelli rétro, e ritirare da candide mani il classico fazzoletto di cotone bianco con la data ricordo. Un gioco delizioso ideato da questo stilista di Anversa che non ha nessuna boutique ma i cui capi si possono trovare in selezionatissimi negozi in tutto il mondo. E anche Lapo Elkann ricomincia da Pitti, con una linea di occhiali al carbonio in vendita sul sito www.luisaviaroma.com. Un brand ormai noto come Harry&Sons realizza la camicia con interventi di cachemire accanto al cotone, per un’eleganza antigelo mutuata dai più romantici fuorilegge-gentiluomini del sud: i briganti. Simbols - che ha presentato la sua nuova linea indossata da un imbronciato Gabriel Garko - si presenta per la prima volta con un total look con i caldi colori della campagna inglese immerso nei suoni e nei riflessi del mare, ma anche con capi in edizione limitata con i simboli ancestrali dei trulli e Park House. A questi si affiancano emergenti come Banana Moon, AD39 e Futuro, rientrato con grinta e sempre disegnato da Nicola Introna. E Banana Moon è stato anche un divertente fuori salone nel locale trendy: “Universal Sanchez”, fra aperitivi e notti senza fine.


illusione #001 Nessuno fa niente per niente, ma qualcuno riesce a darne l'illusione!! SarĂ anche un proverbio, ma noi ci facciamo in quattro per non illudervi www.baseneutra.com


VIVERE SOTTO LE CUMMERSE albergo diffuso in valle d’itria di Chantal Marchese Un progetto rivolto alla valorizzazione dei luoghi più preziosi di questa terra, quelle location speciali ed enormemente suggestive che possono donare tranquillità e benessere ai loro ospiti. Luoghi evocativi e di sogno che rimango per sempre impressi nella memoria.


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L’arrivo a Locorotondo è un’epifania visiva; il bianco della calce avvolge ogni angolo del borgo antico, decorando le stradelle gelosamente custodite dai propri abitanti in un insieme grazioso ed intimo. Le sue case terminano con degli inconsueti tetti aguzzi che qui vengono chiamati cummerse; il loro manto di copertura è costituito da lastre calcaree (dette chiacarelle) e riveste una sottostante volta a botte piuttosto rialzata. È in questo meravigliosa cornice che nasce l’albergo diffuso “Sotto le Cummerse”; l’ambizione è quella di trasformare questo incantevole salotto urbano in un unico complesso residenziale per i turisti e i visitatori che qui vogliono fermarsi in assoluta tranquillità; il tutto senza rinunciare ai comfort che i mini appartamenti riescono ad offrire grazie alla completezza dei loro arredamenti in stile con la semplice architettura interna delle cummerse. Il tour attraverso le zone più caratteristiche della cittadina parte dalla Casa Della Fontanella, un luogo ristrutturato secondo millenarie regole d’arte da maestri muratori locali. La casa si sviluppa su di un unico piano e si affaccia sulla caratteristica piazzetta “Largo Bellavista”, al di là della quale lo sguardo può spaziare sulla Valle D’Itria e sul bianco dei muretti costruiti a secco. Immerse nel dedalo delle freschissime viuzze del centro storico, le case denominate Fiorita e Dei Germani si aprono sulle silenziose e caratteristiche stradelle di Locorotondo, così come la Casa Del Concerto, quella Degli Angeli e la Suite.


Il Signore dell’Olio di Chantal Marchese

La tradizione messa al servizio del successo imprenditoriale e del buon gusto. Il Re Mida dell’oro da tavola svela i segreti della sua esperienza. In un mercato globale in cui l’immagine pare contare più della qualità, la tradizione olivicola pugliese continua ugualmente a mantenere una posizione determinante nei delicati equilibri di settore. La massiccia presenza di piante di ulivo addirittura millenarie – spesso oggetto di mostre fotografiche, interesse storiografico e curiosità turistica – caratterizza radicalmente il territorio pugliese, tanto da rientrare nella tradizione iconografica della regione. Le immagini di alberi dai tronchi attorcigliati, piegati dal peso dei secoli e depositari di una preziosa memoria, rappresentano un simbolo dal fascino indescrivibile. A rendersi protagonista di un’importante opera di valorizzazione, sia culinaria che culturale, è stata Villa Agreste, l’azienda guidata da Enzo Iaia che ha riformulato il modo di intendere il settore olivico dei nostri giorni. Situata nella splendida cornice della terra di Ostuni e forte di una produzione completamente realizzata in proprio, Villa Agreste cura il processo di trasformazione delle olive partendo dalla loro raccolta per arrivare fino allo stoccaggio ed all’imbottigliamento. Una riuscita fusione fra livello naturalistico e adeguato ordine di agricoltura da profitto. Avvalendosi di tecniche agronomiche innovative e di un’essenziale esperienza generazionale, l’azienda di Iaia ha intrapreso un percorso di molitura in purezza, puntando su una produzione eterogenea grazie alla quale ogni olio mantiene una qualità ed un sapore assolutamente unici. Nettare, Bellolio

e Riserva, monovarietali e in blend, queste le qualità che tratteggiano il risultato di antiche tecniche riconsiderate alla luce della modernità. Un gusto irripetibile, millenario, un dono per il palato che passa dal fruttato al fragrante, non mancano di cedere sentori di erba fresca, mandola e carciofo.Un discorso assai simile a quello vinicolo, volto alla riscoperta di un alimento insostituibile della nostra tavola attraverso una visione dinamica ed oculata. Di conseguenza è cambiato anche il rapporto con il consumatore, ora coinvolto in un discorso degustativo che risponde al crescente interesse verso l’olio di qualità. Un interesse che ha ormai inglobato il turismo culturale di cui la Puglia è forte promotrice, contribuendo ad aumentare il fascino della terra pugliese e la notorietà della cucina locale. Il che non è poco per una regione che occupa il 45% della produzione nazionale e che attraverso esempi come quello di Villa Agreste sta tentando una convinta e decisiva virata generazionale. Uno sforzo ancor più importante se si pensa che l’ultimo mezzo secolo non è stato affatto positivo per questo settore; la concorrenza di altri tipi d’olio, che poco hanno in comune con la qualità dell’extra vergine, e la necessità di una comunicazione sempre più efficace e prorompente hanno causato la nascita di falsi miti ed errate aspettative. La nuova strada percorsa da Enzo Iaia mette in mostra un potenziale di alto livello e di grandi risultati.



VENDESI ULIVO la deportazione di una cultura millenaria di Paola Leanza

Si pensa erroneamente che la natura non possa esprimersi, che i segni che ci manda siano solo frutto dell’immaginazione di qualche amante della flora locale. Ma se invece gli alberi, le piante e i frutti potessero parlare ci racconterebbero la storia di un’intera regione, il passare del tempo e l’evolversi della cultura e delle tradizioni di un popolo che dalla terra ancora oggi trae sostentamento. Così, se vengono a mancare gli strumenti fonetici ci pensa una macchina da presa, due registi e la voce dei lavoratori della terra stessa a raccontare l’amore per un patrimonio naturale spesso sottovalutato e poco valorizzato, vanto per la Puglia in tutto il mondo ma danneggiato dalle “pratiche distruttive perpetrate negli anni”, affermano i registi Melania Catucci e Giuseppe Laruccia. “Vendesi ulivo”, un cortometraggio girato in presa diretta in collaborazione con l’associazione Maharajah, è un’inchiesta documentaristica sulla cultura plurisecolare dell’albero d’ulivo e le pratiche di produzione dell’olio extravergine d’oliva pugliese. A dar voce agli alberi e ai frutti sono gli abitanti dell’interland barese, quelli che si crede non esistano più e che siano solo ricordi sbiaditi fermati dallo scatto di un fotografo. E invece sono proprio gli anziani dai volti segnati dal sole e dall’età a parlare e raccontare come

si produce l’olio, quanto sia laborioso far crescere e curare le piante e le olive, come si effettua la raccolta. Una passeggiata mano nella mano con gli antenati di tutti, con la tradizione che ancora vie tra di noi ma che spesso viene messa in secondo piano. Colpa forse di discutibili scelte amministrative, o colpa forse dello scarso interesse per il passato, o forse colpa della dimenticanza che col suo lungo mantello nero copre gli occhi e l’anima di chi le si avvicina; l’amore per la terra e i suoi prodotti ha un sapore antico, non conforme alla modernità che ci circonda. Cantucci e Luruccia, originari di Polignano a Mare, hanno quindi dato voce agli “umori dei piccoli contadini che con il loro incessante lavoro quotidiano provvedono tra mille difficoltà a curare i loro uliveti per rifornire i franto i della materia prima di cui necessitano per la produzione dell’olio, le olive, appunto”, spiegano i dueregisti/produttori, il tutto rispettando il loro dialetto, la loro dote di interpretare con gesti ogni frase, il colorito modo di raccontare di quanto le cose siano cambiate e di quanto “si stava meglio prima”. Nella pellicola, quindi, è evidente il riferimento alla realtà microproduttiva che caratterizza il nostro tessuto economico e che rappresenta la garanzia stessa della qualità della nostra produzione, in quanto frutto di un processo

lavorativo tradizionale non ancora contaminato dai ritmi frenetici della produzione industriale. Ma è anche la scoperta della simbologia mistica e religiosa legata al ramoscello di ulivo, simbolo di pace che la colomba porta nel becco a Mosè di ritorno dalla terra ferma dopo il Diluvio Universale, è il simbolo della pace tra i popoli che si fa fatica a raggiungere, è icona della tranquillità di chi vive seguendo i ritmi della natura, il sorgere e il calare del sole, è il simbolo dell’armonia tra popoli e territorio. E il cartello “Vendesi ulivo”, sulla copertina del dvd, è in fondo mettere in vendita la storia dei pugliesi. Ogni foglia ha qualcosa da raccontare, nella corteccia si nasconde la verità pluriennale di un popolo, nei sui frutti l’amore per la terra e il sapore della pagnotta calda guadagnate. Il passato non è in vendita perché vive, seppur dimenticato, attorno a noi.



SAN NICOLA Splendori d’arte d’Oriente e d’Occidente di Antonella Gaeta

S’avvertono i mari del tempo. Dottrine e conflitti, imperatori e vescovi, preghiere e prodigi mettendo pochi passi, mille al massimo meno dei secoli necessari al consolidarsi di un piccolo grande miracolo transconfessionale. Percezione condivisa per chi attraversa i quindici secoli della mostra San Nicola. Splendori d’arte d’Oriente e d’Occidente nel castello svevo di Bari fino al 6 maggio. Appare questo il momento per recuperare il culto di San Nicola, tra i pochi ecumenici dei quali è dato sapere. Cristiano sopratutto, cattolico e ortodosso. In Russia si dice ancora “se anche muore Dio, ci rimane pur sempre san Nicola”. Ma è anche - per una delle tante bizzarrie del quale è costellato il percorso nicolaiano (Babbo Natale compreso) - onorato da alcune comunità islamiche del Mediterraneo che identificano Nicola da Myra con il santo derviscio Sari Saltik. Tra verità storica e credenza agiografica con l’esposizione, curata dal medievalista dell’Università di Siena Michele Bacci in collaborazione con Fabio Marcelli dell’ateneo perugino, si scopre il Santo di una città di mare, che viene da lontano e non ha mai smesso di andare. Tra qualche secolo prenderà un’altra forma ma al visitatore basta sapere che, dall’altra parte del culto, il dotto taumaturgo è diventato icona del consumismo natalizio secondo il padre della pop art Andy Wharol. C’è, a conclusione del percorso espositivo, anche il suo Babbo Natale modello Coca-cola. Ma prima c’è tutta la ieraticità solenne, dorata, polimaterica di un santo, vescovo in Asia Minore tra III e IV secolo, che in vita più che miracoloso fu generoso e accogliente. Prima icona dell’essere umano come dovrebbe essere. Poi santo per tutti i secoli a venire, capace di domare le tempeste, di portare giustizia, di salvare vite, di avvicinarsi e innestarsi su culti diversi e diverse tradizioni. Centoventidue opere che saranno completate, a fine febbraio, dall’arrivo delle otto preziosissime icone del monte Sinai, per la prima volta mostrate in Occidente, preservate dalla remota ubicazione del monastero di Santa Caterina.


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Sono le più antiche raffigurazioni pittoriche, risalenti all’VIII secolo. Nel silenzio di luci basse comincia il viaggio in sette sezioni, ideale passaggio e mappa d’arte costruita da geniali visionari della pittura come da artigiani della pietra, del tessuto, del legno e della carta, resa possibile anche da prestigiosi prestiti provenienti dal British Museum di Londra, dalla Biblioteque nazionale di Parigi, dal Centro di studi bizantini di Washington, dalla galleria Tretjakov di Mosca. Prima sezione “Myrizon en Miyrois” ovvero le origini della figura di san Nicola in Asia minore nei secoli IV e IX. Tre preziosi sigilli del VII e VIII secolo con i segni dell’iconografia del santo che prende forma intorno alla tomba a Myra. Sette delle otto icone del Sinai sono nella sezione “Archierarchis Christou” che documenta la diffusione del culto a Bisanzio e nel Mediterraneo orientale tra il IX e il XV secolo in avori, cammei, oreficeria. La grande Russia nella terza sezione “Velikii Cudotvorec”, san Nicola è protettore delle Russie tra il XII e il XVIII secolo. La sua potenza taumaturgica investe gli oggetti che lo rappresentano, dall’effige tonda di Novgorod alla statua lignea di Mozajsk. La sezione “Sacer pastor Barensium” contiene il salto da Oriente a Occidente attraverso la traslazione del corpo di san Nicola da Myra a Bari nel 1087. Punto fondamentale che lo consegna al mare e ai marinai. Come racconta anche la quinta sezione “Terra marique gloriosus” che, tra il XII e XVI secolo, segue le rotte del santo lungo il Mediterraneo. La sesta sezione della mostra “Presul immensae largitatis”, attraverso i prodigi e miracoli testimoniati dalla tradizione occidentale, consegna pezzi di piena bellezza. Come la casula duecentesca dell’alto Reno, il “Miracolo del grano” del Beato Angelico o il polittico rinascimentale di Sebastian Dayg, per la prima volta riunito. E, ancora, opere di Paolo Veneziano, Andrea Orcagna, Corrado Giaquinto, Lorenzo Lotto. Chiude la settima sezione, “Patron des enfants sages” dove san Nicola, passando nel folklore dell’Europa del Nord, diventa nei secoli Santa Klaus, dispensatore di doni come lo fu con la dote delle tre fanciulle nella sua Asia. Il giro di millenni è compiuto.

San Nicola. Splendori d’arte d’Oriente e d’Occidente Bari, castello svevo 7 dicembre 006- 6 maggio 007 mostra a cura di Michele Bacci Promossa da Comune di Bari, Regione, Direzione per i Beni culturali e Paesaggistici, Provincia, Curia di Bari, Basilica di san Nicola, Università di Bari con il contributo della Fondazione AntonVeneta. Organizzazione: Arthemisia aperta tutti i giorni dalle 9,30 alle 19,30 informazioni 800.96.19.93


LA DEFLAGRAZIONE DELLE IDEE Testi pirotecnici ed allestimenti scenici fatti di piccole sculture, la coppia Rezza – Mastrella svela la solitudine attraverso un lavoro sul linguaggio e sui tempi comici. di Michele Casella

Spesso costretti lontano dalle scene a causa di una censura bianca, ostracizzante, impalpabile, Antonio Rezza e Flavia Mastrella continuano nel progressivo cammino creativo e si presentano in teatro con impeto sempre più dissacrante. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare conoscendo l’opera teatrale del duo, già con Fotofinish i due artisti hanno realizzato uno spettacolo unitario, coerentemente costruito attorno a testo e scena, eppure ugualmente non allineato: la “storia” ruota attorno ad un uomo che si fotografa per sentirsi meno solo, dando vita ad una serie di personaggi e situazioni al limite della follia. La fresca destrutturazione dei primi cortometraggi e soprattutto di monologhi come Pitecus ed Io viene ora abbandonata in funzione di una più precisa organizzazione delle dinamiche contenutistiche. La frammentazione – dell’immagine, del testo e comunque dell’azione – lascia dunque spazio all’unitarietà, ma senza cedere alla facile comprensione o alle necessità della narrazione. Rezza e Mastrella non hanno compassione per ciò che definiscono “il passamano miserabile della storia”; non c’è compromesso che possa giustificare una semplificazione del racconto, non ci sono ragioni che possano portare ad una castrazione dell’inventiva autoriale. Tutto è autentico e viscerale, geniale e fuori controllo, perfino edonistico. Insomma, differente da quanto oggi è canone e regola di stile. In questo senso Bahamut opera un ulteriore scarto meta-linguistico, inserendo l’urlo come “nuovo orecchio di uno spettacolo fatto per i soli occhi”. Una scelta dai tratti assolutamente autarchici che però non scade nel puro nichilismo. Chiave di volta dello spettacolo è il finale, in cui tutti in registri para-narrativi implodono con eccezionale forza centripeta e le barriere fra testo, autore e personaggi vengono energicamente divelti. Eppure anche un’opera come Fotofinish ha un tema conduttore, ed è la disperazione, affrontata da Rezza in maniera assolutamente personale e slegata. Egli ripropone ancora una volta il suo corpo e la sua voce attraverso l’incredibile capacità mimica e l’impressionante numero di registri vocali che è capace di utilizzare. La fiera consapevolezza della sua presenza scenica e le estreme sollecitazioni a cui sottopone il pubblico affondano le radici in una ricerca linguistica unica e sorprendente, incontestabilmente passionale e destabilizzante. Ma non si tratta di un monologo ieratico al limite della mestizia o del perbenismo, bensì di un testo ironico e talvolta schizofrenico, che rivolta i codici della comunicazione contemporanea mettendoli al servizio di una vena creativa e divertita. Cinema, televisione e teatro collidono attraverso trovate linguistiche che analizzano l’uomo nella sua incompiutezza. Si tratta di esasperazione, non di grottesco, che mostra l’esaltazione maniacale e la frenesia con cui la coppia di artisti da sempre si cimenta nelle sue opere per il teatro. Accanto all’istrionico primo attore sono le sculture a tutto tondo di Flavia Mastrella ad appropriarsi del giusto spazio scenico: si tratta di opere talmente necessarie per lo spettacolo da dover essere definite ‘piccoli attori recitanti’. Nella progressiva evoluzione delle sue scenografie, la Mastrella è passata dall’ideazione dei quadri di scena (tanto unici quanto essenziali) alla loro trasformazione in ‘mutanti’, cioè in abiti che vengono indossati da Rezza


per dar vita ad uno spunto astratto nella creazione dei personaggi teatrali. Con Fotofinish e Bahamut questa ricerca di comunicazione visiva raggiunge il suo apice grazie ad opere che acquistano utilizzi e significati assolutamente inediti ed inaspettati. I casi più eclatanti sono quelli della sfera, ora esposta al museo di arte contemporanea della Certosa di San Lorenzo a Padula, e di una bicicletta – dal design quantomeno audace – che nelle mani di Rezza si presta a movimenti improbabili e fantasiosi. Ma è soprattutto la scatola di Bahamut ed il suo allestimento scenico essenziale a colpire l’occhio dello spettatore; l’uso di stoffa e metallo, sviluppato nel concept di un grande giocattolo teatrale, si inserisce nell’iter di ricerca intrapreso dalla Mastrella e risponde alle inderogabili esigenze di leggerezza dello spettacolo. Rezza si auto-costringe a soluzioni azzardate, in cui il movimento verticale, forzato fino all’eccesso, detta il ritmo dello spettacolo attraverso salti e continue progressioni. Uno sforzo che in Fotofinish già sembrava estremo - poiché costruito su corse laterali e sfiancamento fisico - ma che nella più recente opera si arricchisce di nuovi slanci e invenzioni eccentriche. D’altro canto, se nei precedenti spettacoli il coinvolgimento del pubblico era parte integrante della narrazione, con Fotofinish gli spettatori diventano vere comparse e si ritrovano catapultati sulla scena in veste di ostaggi e cadaveri. Un puro spostamento spaziale in cui il pubblico-salma è costretto a rappresentare e rappresentarsi in un gioco di specchi ironico e pungente. Manca dunque quell’aggressione verbale che si ritrovava in Pitecus, ma continua ad essere esclusa sia una forma di interazione tra attore ed uditorio sia un affrancamento degli spettatori dalla condizione di passività. Non potrebbe essere diversamente dato che Rezza rivendica una condizione di superiorità naturale dell’artista rispetto al suo pubblico, ma allo stesso tempo insiste con determinazione su una sostanziale fiducia nei confronti di chi assiste ai suoi spettacoli. La produzione teatrale di questi due artisti romani è senza dubbio graffiante; le risate, il ritmo incalzante, l’incredibile dinamicità del testo e la spregiudicata presenza scenica di Rezza riescono anche a mettere in luce temi delicati o angoscianti come solitudine, incomprensione, religione e ovviamente desiderio. C’è una forte componente ironica, rinvigorita da un’incredibile dose di creatività e talento, ma c’è soprattutto una libertà mentale ed artistica a cui non siamo quasi più abituati. Quella di Rezza e Mastrella rimane una voce fuori dal coro da supportare incondizionatamente.

un testo che rivolta i codici della comunicazione contemporanea


MARIO SCHIFANO Oltremare di Fabio Pennetta


L’Associazione Culturale BluBramante di Roma propone, nello scenario del castello di Sannicandro, l’esposizione “Oltremare”, dove sono state presentate al pubblico (in taluni casi per la prima volta) circa 30 opere di Mario Schifano che ci mostrano il profondo legame, emotivo più che culturale, che unisce l’artista alla terra dov’è nato (Libia, 1934) ed ha trascorso la sua prima giovinezza. La mostra, curata da Achille Bonito Oliva, si pone come ideale seguito del precedente progetto itinerante “Deserts” che ha portato dieci grandi tele dell’artista nelle maggiori città del nord Africa. Il paesaggio mediterraneo, presente in tutto l’iter artistico di Schifano e in misura maggiore nell’ultima sua produzione, ci offre l’opportunità di scoprire i tratti salienti della sua pittura, al di là delle tante “rivisitazioni” e soprattutto scevri dalle facili suggestioni dei temi classici della pop art, che pure gli hanno concesso ampia (e meritata) fama internazionale. Schifano si muove a tutto tondo, un eclettico vagabondo dell’arte il cui stile, pur nella sua unicità, è stato influenzato da interessi molto diversificati per tematiche e contenuti. Profondamente legato ai suoi tempi, Schifano attraversa gli anni ‘60 assorbendone ogni aspetto, con un’esistenza al limite che spesso scandalizzava il provincialismo dell’epoca. Riduttivamente definita come la maggior espressione della pop art in Italia, la pittura di Schifano si sottrae presto al confronto: alla rappresentazione dell’oggetto quotidiano come provocatorio contenuto dell’opera d’arte, Schifano oppone un linguaggio pop che vuole testimoniare un preciso impegno politico e porsi allo stesso tempo come una alternativa praticabile all’ortodossia artistica del realismo sociale. Alla stessa chiave di lettura appartengono le fascinazioni dei nuovi media; la pittura si riduce a schermo, le tele si riempiono di toni acidi, i contrasti cromatici vengono racchiusi in pesanti bordi neri. Ma vi sono anche dichiarati omaggi all’opera di Balla ed alle innovative istanze futuriste, episodi in cui gli interventi e le “rivisitazioni” di Schifano pongono a confronto ed in comunicazione una nuova avanguardia - già matura nelle sue forme espressive - con quella ormai definitivamente consegnata alla storia. Forse deluso nelle aspettative di concreto connubio tra arte e impegno sociale, Schifano abbandona per alcuni anni la pittura, aprendo una significativa parentesi cinematografica. Torna alle tele all’inizio degli anni ‘80, con una copiosa produzione che procede di pari passo con gli interventi sulle immagini fotografiche e le prime suggestioni del video come mezzo espressivo. Proviene in gran parte di questo periodo l’ampia sintesi offerta da “Oltremare”, una raccolta di opere dove la ricerca di Schifano abbandona i residui informali degli esordi e le esasperate sperimentazioni per tornare al colore; con tale elemento l’artista libico descrive e dilata lo spazio nella tela, facendone un uso ora corposo e quasi gridato nei toni piatti e solari, ora steso in lievi velature sovrapposte volte a circoscrivere ombre, ricordi. E’ questa la pittura della memoria; i cieli dell’infanzia, un deserto non deserto, denso di colori e luci, e forme definite con rigorosa padronanza del segno, figure dietro cui si percepisce uno spazio che respira, in un continuo lento movimento. Il tema del deserto, del mare, dei grandi spazi che sconfinano dalla tela è la scena entro cui Schifano muove e fonde la figura, attraverso segni densi e materici che si alternano a tecniche miste, dove gli acrilici sposano la terra, la sabbia.


HAIRGARAGE l’officina dello stile di Carla De Castris

La moda al servizio del cliente, una strategia in netta controtendenza rispetto ai canoni quotidiani a cui siamo abituati. In un periodo in cui le proposte di stile ci colpiscono con eccezionale prepotenza, la capacità di tornare in strada per rinnovarne l’estetica è un talento da tenere a cuore. Un esempio di abilità imprenditoriale e di intelligenza creativa è alla base del salone Hair Garage, dove Giovanni Montanaro e Francesco Fragnelli hanno allestito il loro avamposto dello stile. Un luogo in cui affidarsi a due esperti del settore per la cura della propria immagine ma soprattutto per rinnovarsi o riscoprirsi, uno spazio dove il team di lavoro ha un approccio estremamente giovane, grintoso e brillante. “In effetti non mi sento affatto un imprenditore – ci confida Giovanni –, la nostra proposta è invece quella di prendere degli elementi dalle varie culture che abbiamo conosciuto per poi adattarli alle esigenze di ogni singolo cliente. Quel che più mi rimane impresso dai miei viaggi di lavoro è soprattutto la moda di strada, quel che la gente di New York, Amsterdam o Barcellona sceglie come proprio carattere distintivo”. Una vocazione, dunque, che nel corso di un decennio di lavoro ha trovato un luogo nel quale racchiudere tutti questi diversi stimoli. L’Hair Show, infatti, è innanzi tutto uno spazio ampio ed accogliente ma dal taglio minimale, dove i riflessi del lunghissimo

specchio vanno ad incrociarsi con vetro, acciaio e cemento industriale. Pronto ad accogliere ogni genere di proposta inerente alla bellezza, il salone è concentrato soprattutto sull’hair style professionale. “La cura dei capelli è fondamentale per la nostra idea di stile e moda, e su questo aspetto abbiamo lavorato per molti anni – interviene Francesco –, ma manteniamo una costante attenzione per quel che ci viene proposto. In questo momento, infatti, credo che gli usi e i consumi dei ragazzi tra i trenta ed i quarant’anni che vanno in discoteca siano un esempio illuminante di quel che oggi è moda”. L’esperienza di Francesco l’ha portato a diventare ambasciatore L’Oréal nel mondo, un’evoluzione naturale per una persona che ha a lungo lavorato fra gli Stati Uniti, Londra e Parigi. L’affezione per la Puglia ha poi fatto tornare i due soci a Martina Franca, dove hanno cominciato l’avventura dell’Hair Show e dove hanno intenzione di continuare a sperimentare il loro metodo di lavoro. “Abbiamo intenzione di aprire le porte anche all’abbigliamento ed all’intimo – incalzano i due creativi – provando a consigliare con professionalità sia la donna che l’uomo. Vogliamo portare avanti il marchio del made in Italy anche all’estero, provando a metabolizzare quante più intuizioni eterogenee per rendere al massimo nel nostro lavoro”.


23 Un progetto ambizioso all’insegna dell’innovazione che punta con risolutezza verso obiettivi concreti e in continua evoluzione.


POST PUNK La fine del punk di Enzo Mansueto

14 gennaio 1978: dal palco del Winterland di San Francisco, un alienato Johnny Rotten sibila la frase «Ever get the feeling you’ve been cheated?». E’ la pietra tombale sui Sex Pistols, su di un’avventura cominciata nel novembre del 1975 e destinata a incidere radicalmente sull’immaginario collettivo del mondo intero. E coi Sex Pistols finiva il punk: almeno quello anarcoide e provocatorio che imbellettava in gesti Dada lo sberleffo al conformismo. Poi il conformismo si impadronirà della sua eredità: chiodi borchiati, creste, anfibi, slogan militareschi. Una uniforme che nulla aveva a che fare con l’individualismo ad oltranza dell’attitudine originaria. Ma l’«attitudine», come ama chiamarla un protagonista della prima ora, Don Letts, inafferabile trasmigra. Lo stesso Don Letts incarna quella mobilità: coetaneo dell’amico John Lydon, giamaicano nato a Londra, Brixton, egli ascende alle ribalte nei tempi d’oro del punk come deejay del Roxy Club. Una manciata di settimane al 41-43 di Neal Street, Covent Garden, tra gennaio e aprile 1977. Serata punk, ma i dischi punk erano ancora pochi e cortissimi e allora via con tonnellate di reggae e massicce dosi di dub. Nasce così la fratellanza Punk-Reggae. Don Letts lo trovavi sulla Kings Road, nelle boutique Acme Attractions o Boy, o a zonzo verso gli stand dell’Antiquarius di Chelsea. Per un po’ è manager delle Slits. Caroline Baker, fashion editor di Vogue, gli regalerà una cinepresa portatile: arriva The Punk Rock Movie, reportage visivo del movimento. Quando John Lydon rompe coi Sex Pistols e va a sbollire rabbia e incomprensioni in Giamaica, inviato dal patron della Virgin, il miliardario eccentrico Richard Branson, per scritturare gli artisti del reggae, sceglierà Don Letts come accompagnatore. Tra musica e immagini in movimento, il percorso di Don Letts attraverserà i Clash, i Big Audio Dynamite, Bob Marley, la nuova dancehall. Un turbine di mutazioni, ancora una volta catalizzate da Mr. John Lydon, oramai – a dispetto di una immagine pubblica iperesposta – ex-Rotten.


E come per Dada, la più radicale delle avanguardie, l’avanguardia che arriva a minacciare il concetto stesso di avanguardia e a cancellare non solo il passato, ma il futuristico futuro, una pars costruens si intravvede tra le rovine seminate dall’azzeramento di Pistols e compagnia: la pars destruens ha svolto il suo lavoro. Missione terminata. Mentre i soliti cloni addomesticano quel lavoro intransigente e nichilista nelle pose da cartolina dei nuovi punk da tabloid, i protagonisti della prima ora, assieme ai nuovi fertilissimi semi della nuova onda, già sono in moto per spostarsi su inauditi territori. Nasce così quella congerie di fenomeni musicali che, in una manciata di anni, produrrà quanto di più fermentante e creativo la musica pop abbia mai prodotto. O, almeno, lo produrrà per l’ultima volta, prima di arenarsi nel meccanismo della replica. E’ quella che, con etichetta più o meno appropriata, chiamiamo «New Wave», ma che, circoscrivendo l’attenzione soprattutto alle sue manifestazioni iniziali, da qualche tempo piace chiamare post-punk. Ne ha tracciato una storia esemplare Simon Reynolds in Rip It Up And Start Again (London, Faber and Faber 2005), adesso tradotto ottimamente in Italia proprio col titolo Post-punk 1978-1984 (Isbn, Milano 2006, pp. 715, euro 35). Un libro eccezionale, tra i migliori titoli in assoluto nell’ambito della storia e dello studio, non solo musicale, delle espressioni della pop culture: avvincente nella scrittura, riccamente documentato, stimolante. A ciò, ovviamente, si aggiunge l’interesse in sé e per sé dell’oggetto: il postpunk, vale a dire, una galassia di band, tendenze, suoni, immagini, città, una nebulosa di fenomeni estesa su tutto il mondo civilizzato, capace di produrre i suoi frutti mutanti anche lontano dalle solite capitali, dai soliti circuiti oscillanti sull’asse LondraNew York, in un ultimo, forse già galvanico, sussulto del corpo del rock’n’roll. I capitoli del libro seguono questa storia dettagliatamente, partendo dai prodromi paralleli alla stessa scena punk, in una zona di confine in cui è davvero difficile distinguere nettamente il verbo ortodosso del No Future dal gesto creativo della nuova onda. Dopo l’esordio misterioso dei californiani Residents, è dalla periferia industriale di Cleveland, nell’Ohio, che muovono i primi passi, già tra 1974 e 1975, i Devo e i Pere Ubu. E negli stessi mesi del punk, nei circuiti ristretti del punk britannico, gente come Howard Devoto, fondatore dei Buzzcocks, concepisce il progetto dei Magazine e Vic Godard, coi suoi Subway Sect, impone nuove direzioni al suono, fuori dalla banalità ostentatamente infantile del «one-two-three-four: tre accordi e via!». Howard Devoto, coi suoi Buzzcocks, prima, coi meravigliosi Magazine, poi, impone dunque sulla scena una città alternativa alla Capitale, destinata, negli anni, a divenire una Mecca incontrastata dei suoni indipendenti: Manchester. Scintilla scatenante, manco a dirlo, un concerto in città dei Sex Pistols: 4 giugno 1976 alla Free Trade Hall. Secondo la testimonianza di Tony Wilson, uomo di televisione (sul canale nordbritannico Granada TV, col programma So It Goes, risposta all’istituzionale Topo Of The Pops della BBC, fu tra i primi a mandare in onda il punk) e futuro patron della mitica Factory Records, quel concerto inaugurava tutto quanto sarebbe successo a Manchester negli anni a venire. Il settanta per cento dei principali musicisti della scena futura erano tra quei trenta personaggi assortiti accorsi al temuto concerto. Ian Curtis era lì, Peter Hook era lì, Mark E. Smith, Morrissey… ma nessuno conosceva gli altri, fino a quel momento. Sarebbero presto arrivati allora, i Fall, i Joy Division, poi i New Order. Oltre a questi ultimi, la Factory produrrà diecine di pietre miliari, dai Durutti Column agli A Certain Ratio. Come Manchester, che nel decennio successivo produrrà la tripletta The Smiths, Stone Roses, Oasis, per la conferma da qui all’eternità nel panteon del rock, altre città del nord industriale si affacciavano con una loro autonoma scena: la Leeds dei Gang of Four o la Sheffield dei Cabaret Voltaire e degli Human League. E accanto a queste scene, le vicende irriducibili del Pop Group, e delle varie filiazioni, Pig Bag e Rip Rig And Panic, sdoganatori insindacabili del verbo del white/punk-funk, così in voga nei revival odierni, da LCD Soundsystem ad Undercover a Rapture – un autentico frullato delle pagine di Reynolds. O le contaminazioni reggae delle Slits, prima vera indie band tutta al femminile. E ancora, se mai non bastasse la potente iniezione di inventiva centrifuga, Scritti Politti, Throbbing Gristle e, dalla quieta Cardiff, una band che ci piace riproporre come una straordinaria perla di quegli anni: gli Young Marble Giants, un trio di sola fragile voce femminile, basso geometrico e fraseggi asfittici di chitarra (con qualche tastierina), il cui apparente minimalismo sottovoce, fa lievitare nei silenzi e nelle sordine tutto il fermento di una gioventù sonica e folgorata: Colossal Youth si intitolava il loro lp di esordio, pubblicato nel febbraio del 1980 da una lungimirante Rough Trade. Gli States contribuiscono decisamente alla nuova onda: c’è la New York dei Suicide – il cui urlo elettronico lacerava già le notti del punk -, dei primi Talking Heads, del ruomorismo della No Wave, con Lydia Lunch, i DNA di Arto Lindsay, i Contortions di James White/Chance. Dalla Georgia erano sbarcati a New York, col singolo del 1978 Rock Lobster, i B-52’s, mentre nientemeno che Philip Glass produceva i Polyrock, rock urbano e minimal, per il nuovo dinamicissimo scenario. A questa prima ondata, seguiranno le scosse di assestamento, a volte regressive, della new wave gotica – il dark, come impropriamente si dice da noi – ma anche splendide, eccentriche costruzioni: dall’Australia, i Birthday Party – già Boys Next Door – di un certo Nick Cave e, dalla decadente Berlino ancora incastonata nel pianeta sovietico, la furia industriale degli Einstürzende Neubauten. Un ruolo centrale, cruciale, in questa storia, lo gioca però – e chiudiamo tornando al punto di partenza – John Lydon. Nel febbraio 1978, dicevamo, abbandona i Sex Pistols. In mente ha già un progetto, qualcosa, nella forma, nei suoni, nel modo di proporsi, di inaudito sulla scena del rock. Non una band, ma un’impresa di distruzione dell’industria musicale, una anti-corporation, una company, nel doppio senso inglese di “comitiva” e “compagnia imprenditoriale”: Public Image Ltd. L’Immagine Pubblica Limitata reagisce alla sovraespozione del cadavere del punk e delle sue icone con la sottrazione e gli attentati deliberati alle logiche del music business. Nell’ottobre del 1978, assieme ai vecchi amici Jah Wobble al megabasso e Keith Levene alla chitarra, e con Jim Walker alla batteria, sfodera il singolo omonimo con liriche esplicite: « You never listen to a word that I said / You only seen me / For the clothes that I wear / Or did the interest go so much deeper / It must have been / The colour of my hair!». Il punk era morto davvero… Sarà però con l’apparizione di quell’oggetto sonoro non identificato, Metal Box, apparso nel novembre del 1979, che i PiL danno una spallata definitiva al passato, al presente… al futuro. Tre vinili da 12” a 33 rpm rinchiusi in una scatola di latta come quelle delle pellicole per i cinema. Dentro, dodici tracce, dodici percorsi, dodici incubi sonori capaci di anticipare tutto quanto, dalla club culture alternativa al post-rock sarebbe sopraggiunto nei decenni. Elementi dub, casualità elettronica, liricismo urbano si fondono in un’opera-oggetto insuperata. Nessuna possibile definizione. Il materiale metallico, radioattivo, pericoloso da maneggiare, della creatività post-punk era colto nella sua quintessenza.


MUZIK 001

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JUNIOR WELLS

IN FLAGRANTI

GIARDINI DI MIRO’

Delmark

Codek/Discograph

Homesleep/Audioglobe

Sembrerà strano, ma il miglior disco di Chicago Blues uscito nel 2006 è stata una prova risalente a più di trent’anni prima. Si tratta di Junior Wells “Live at Theresa’s 1975”, pubblicato dalla Delmark. Il carismatico armonicista gentiluomo e “Godfather of the Blues”, ideale terza via tra Sonny Boy Williamson e James Brown, viene catturato vivo nel suo feudo, un bar del South Side dove era solito concludere le nottate dopo aver già eseguito almeno due show in altrettanti locali concorrenti. A differenza di innumerevoli album dal vivo, qui non ci sono esecuzioni approssimative, suoni melmosi e distorti e incitazioni della marmaglia a ripetere all’infinito gli stessi prevedibili assoli. Junior, accompagnato da luminari come i chitarristi Sammy Lawhorn, Byther Smith e Phil Guy, rifulge senza il maquillage delle post-produzioni in studio e appare per quello che è: un autentico, indiscutibile testimonial della rinascita del cool. Improvvisa sul repertorio prediletto ("Little By Little", "Messin' With The Kid", "Come On In This House"), intermezza chiacchiere su Dean Martin e Frank Sinatra, elargisce arguti brandelli di filosofia da sala da biliardo. E incanta gli ascoltatori del cd quasi quanto i privilegiati avventori accalcati al civico 4801 di S. Indiana Avenue.

Come spesso accade, e non solo nelle “cose di musica”, coloro che per primi introducono elementi di novità nel genere di riferimento non è detto che siano quelli più fortunati nel collezionare i dovuti riconoscimenti. Questo è sicuramente il caso di In Flagranti, duo composto da Sasha Crnobrnja & Alex Gloor, intenti da diversi anni a portare avanti una proposta che artisti di più recente formazione hanno sviluppato in direzioni e forme assai simili. L’ambito di riferimento è infatti quello caro a gruppi quali Lcd Soundsystem e !!! o, qualcosa di molto vicino alla “visione” dell’altro fantastico duo newyorchese dei Rub ‘n’ Tug. Wronger Than Anyone Else si presenta allora come riassunto di una seppur breve carriera e i 17 brani che lo compongono sono stati abilmente editati e montati in sequenza con l’evidente intento di creare un mirabolante party mix quasi sempre sopra le righe. Nessun intento minimal, anzi; “massimalismo” dance, anche a giudicare dai video e dalla grafica che accompagna le loro produzioni, un efficace mix tra erotismo e fashion ’70. Come la loro musica del resto, creata solo ed esclusivamente da campionamenti. Un po’ come entrare in un negozio di abiti usati ed uscirne con un paio di pantaloni di pelle rossi. Non per tutti i giorni, ma con un loro indiscutibile fascino.

Assurti al rango di cult-band del panorama indipendente italiano, i Giardini Di Mirò arrivano alla prova decisiva per una carriera vissuta al confine fra piccola notorietà e grande fama. Abbandonati (almeno in parte) gli ingombranti debiti di riconoscenza verso il suond dei Mogwai, i Giardini spingono sull’elettronica e sulle trame chitarristiche con insperata abilità, creando un piacevole effetto catartico all’ascolto di ogni brano. Con Embers insistono con efficacia sugli archi e sulle saturazioni uditiva, per poi accostarsi agli Yuppie Flu con Spectral Woman, brano indie-rock davvero efficace. La voce di Glen Johnson (già leader dei memorabili Piano Magic) addolcisce invece la malinconia di Self Help e porta a compimento una delle più interessanti collaborazioni del 2007, aprendo le porte alle atmosfere spettrali ed intriganti di Petit Treason. Le ombre notturne scompaiono però nell’intensa Broken By, splendido esempio di passionalità e ispirazione, grazie alla quale le chitarre dream si intrecciano al miglior post-rock anni 90 e ad un’interpretazione vocale coinvolgente. Resta solo spazio per il delicato cantautorato di Clairvoyance, a cui le tenue voce di Kaye Brewster dona una punta di gloriosa tragicità. Un’ottima prova.

LIVE AT THERESA’S 1975 di Edoardo “Catfish” Fassio

Wronger Than Anyone Else di Enrico Godini

DIVIDINE OPINIONE di Michele Casella


Marco Philopat, cantastorie e agitatore culturale - come lui stesso si autodefinisce - già noto per il romanzo punk “Costretti a sanguinare” (Shake Edizioni, ripubblicato nel 2006 da Einaudi) e per altri due libri, “La banda Bellini” (Shake) e “I viaggi di Mel” (Shake), ci propone un nuovo lavoro sul punk anni 80 in Italia. Questa volta, invece di raccontare in prima persona, Philopat fa parlare gli altri coordinando un’interessante raccolta di storie sul primo punk italiano. Il libro è frutto di una serie di registrazioni e interventi raccolti tra l'estate del 2005 e l'autunno 2006 dove prendono parola trenta protagonisti della scena punk italiana. I protagonisti con i loro interventi caotici, aggressivi, spacconi, comici, struggenti, malinconici e teneri, testimoniano come negli anni 80 lungo tutta la penisola decine e decine di gruppi punk hanno formato un circuito perfettamente funzionante che ha creato le basi di un preciso stile di vita anticonformista e riottoso. Insomma una minuscola generazione stritolata dal correre del tempo, dall'eroina e dal riflusso... che allo stesso tempo è stata in grado di influenzare il presente con le forme di lotta antagoniste, la scena musicale, l’editoria, la grafica e l’estetica.

LUMI DI PUNK teste vuote ossa rotte di Moonlit

Purtroppo l’uscita del libro è quasi coincisa con la morte - il 25 novembre 2006 - di uno degli autori di una storia di questo primo volume, ovvero Gianluca Lerici, meglio conosciuto come Professor Bad Trip, uno dei più importanti artisti underground italiani degli ultimi anni. Tra le altre testimonianze in Lumi di Punk è presente anche una memoria sulle vicende baresi intitolata "Dai Wogs alla Giungla (1979-84)” di Enzo Mansueto degli Skizo di Bari, un'occasione per ricordare (per chi ha vissuto quegli anni) oppure per conoscere luoghi, immagini e nomi di Bari città controculturale di un quarto e passa di secolo fa... Il tutto scritto con poca nostalgia e molta rabbia. In parallelo non più tardi di qualche mese fa, nel maggio 2006 è uscito, edito dal sito web HYPERLINK www.lovehate80.it, un libro che raccoglie tutti i numeri di “Teste Vuote Ossa Rotte” (T.V.O.R.), una delle fanzine punk più note negli anni 80 a livello mondiale. La fanzine T.V.O.R è stata un punto di riferimento per tutti i punk, italiani e non, che a suo tempo hanno avuto modo di leggerla o semplicemente sfogliarla. È stata più volte definita una delle migliori fanzine mai uscite, a livello mondiale: geniale e innovativa nella grafica e nei contenuti, ricca di foto spettacolari e di interviste fatte a un numero considerevole di gruppi hardcore punk della scena italiana ma anche del resto del mondo. Questa fanzine raccolta nel libro, con i suoi contenuti ci fa rivivere e ci racconta, in una chiave sempre ironica e intelligente, tutto il meglio della scena mondiale dei primi anni 80 usando anche sorprendenti gags socio/politiche del nostro bel paese e non solo.

Il libro contiene la storia di T.V.O.R., dove ogni numero è preceduto da un’introduzione scritta da Stiv “Rottame” Valli in persona, i cinque numeri della storica fanzine di Como e un sacco di extra: pagine del n.6 (inedite), illustrazioni, lettere, flyer, ricordi, foto e molte altre curiosità/amenità. Inoltre, Stiv Valli grazie ai suoi studi grafici e alle sue grandi doti artistiche ha reso sicuramente unica questa fanzine con lo stile “cut and paste” che tuttora viene usato da ragazzi in tutto il mondo per realizzare fanzine cartacee ma anche, e soprattutto, web-zine. Marco Philopat, LUMI DI PUNK - la scena italiana raccontata dai protagonisti, HYPERLINK Agenzia X, Milano 2006, pp. 240, euro 16. Stiv “Rottame” Valli, T.V.O.R. Teste Vuote Ossa Rotte 1980-1985: storia di una caoszine hardcore punx, Lovehate80.it, 2006, pp. 304, euro 25.











MUSICA DI CONFINE un viaggio geografico e temporale di Nicola Morisco

Chi viaggia fra le musiche della terra ha un umore vagabondo e percorre zone di confine, perché sono quelle che consentono uno sguardo più ampio. Solo sul confine si può osservare in tutte le direzioni possibili, anche quelle surreali. E’ solo nel secolo scorso, anni di grande velocità, globalizzazione e innumerevoli reti di comunicazione, che la musica ha subito una divulgazione pressoché capillare. E’ uscita dai confini geografici (e temporali) e si è mescolata tra generi, tradizioni culturali dei diversi Paesi della terra, tanto da essere definita musica senza frontiera o di confine. Ma, mettendo da parte l’aspetto geografico della musica, della quale ormai se ne appropriano un po’ tutti grazie anche alla divulgazione in tempo reale, l’affollata linea di confine nella musica il più delle volte è rappresentata dalla trasversalità e la contaminazione, la ricerca e, soprattutto, quel naturale istinto di stare lontani dal music business e dalle più ovvie soluzioni sonore. Il confine in questi casi può essere anche un luogo virtuale, un punto nelle nostre menti, un sogno: è il rifiuto della “meccanizzazione delle anime” e del consumismo nell’arte, e quindi la ricerca di se stessi passando attraverso l’idea del viaggio. Un cammino fra musiche apparentemente molto diverse ed eterogenee, dal jazz contemporaneo alle memorie di popoli discriminati ed esclusi, dall’elaborazione e dal riuso di materiali classici in contesti più attuali alla grande forza del rock di ricerca. Tutte musiche possibili, di confine appunto. Senza cadere nei prevedibili elenchi telefonici di musicisti che hanno cambiato il volto alla musica negli ultimi decenni. In questo breve e decisamente limitato percorso, che si avvale anche di alcuni autorevoli pareri, parleremo solo di alcuni “movimenti musicali” che hanno decretato cambiamenti importanti negli ultimi quarant’anni, passando dall’America all’Inghilterra fino all’Italia. New York è sempre stata una città a forte densità creativa artistica innovativa. Uno dei tanti momenti fortunati della Grande Mela è stato sicuramente il periodo sperimentale dei primi Anni ’70, quando al CBGB’s, si concentravano artisti come Arto Lindsay con i DNA, Television, Patti Smith Group, Ramones, Talking Heads, un vero e proprio laboratorio musicale importante per l’evoluzione musicale di quegli anni. Un sound che getta le

basi del punk ma soprattutto cambia irreversibilmente il cammino del rock (da quel momento in poi si chiamerà new wave), in parte ancora influenzato dalla beat generation. “Allen Ginsberg mi ha insegnato ad essere una vera attivista – ricorda la poetessa del rock Patti Smith-, politicamente responsabile, con grande attenzione verso il sociale. William Burroughs mi ha trasmesso i segreti dello scrivere e l’aspirazione ad essere sempre aperta, sincera, leale e ad esprimermi attraverso la verità. Gregory Corso mi ha dato la forza di combattere per le mie idee senza paura. Poi, tra i grandi del passato, ispiratori della beat generation, William Blake mi ha folgorato. Nella sua opera c’è tutto: politica, spiritualità, rivoluzione; mi ha aiutato a credere in un Dio creatore e ispiratore del bello”. Rispetto alla musica di confine la Smith non usa mezzi termini “l’ispirazione e il talento non possono essere legati ad alcun vincolo, tanto meno quello territoriale. Pensiamo a Jimi Hendrix, il mio favorito, il suo contributo al rock’n’roll è stato enorme in ogni sua componente: spirituale, politica, rivoluzionaria, immaginifica. Pur partendo dalla tradizione afroamericana è stato un innovatore assoluto regalando una musica senza confini, geografici e stilistici”. Sempre in quel localaccio newyorkese c’erano anche i Television del geniale chitarrista Tom

Verlaine che, con Richard Lloyd (chitarra), Fred Smith (basso) e Billy Ficca (batteria), allargano gli orizzonti del rock tanto da comporre la suite Marquee Moon (con i tratti di una composizione classica). “È vero – conferma Lloyd –, ci sono degli elementi di musica classica in Marquee Moon, ma non ho mai pensato di riscriverla in questa chiave, questo vuol dire che i confini e la sperimentazione facevano parte del nostro DNA”. Un altro fenomeno musicale di rilievo alla fine degli Anni ’60 è il cosiddetto “Canterbury sound”, uno dei movimenti più significativi del rock britannico d’avanguardia, che amava unire jazz, rock, folk e psichedelia. “Le novità del progressive – ricorda Richard Sinclair, tra i promotori del genere in formazioni come Caravan, Hatfield & The North e Wild Flowers – riguardavano le nuove sonorità, molto innovative, tra il jazz e il pop senza tralasciare una linea melodico-romantica, una vera e propria scuola che si impose in tutto il mondo. Se si considerano le alchimie sonore tra il rock, la musica classica e sperimentale, il folk e il jazz, allora il progressive può avere ancora molto da dire, come in un work in progress, ma se si tratta del rock progressivo un po’ stantio non sembrano esserci possibilità di andare avanti”. La musica per Goran Bregovic nasce dalla


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frontiera balcanica, una terra dove si incrociano tre culture (ortodossa, cattolica e musulmana), dove l’unico confine è quello di sperimentare i suoni. “La musica si nutre di razze incrociate”, afferma Bregovic. “In un certo senso sono fortunato a venire da una frontiera, grazie alla quale ho potuto assimilare e sperimentare una musica senza steccati con cui andare oltre le consuetudini omologate”. Così invece Gianmaria Testa (uno dei più autorevoli artisti italiani) commenta il suo modo di vedere la musica di confine: “Più che contaminare la musica penso a uno scambio culturale. E’ necessario, anche perché quando ci si avvita su se stessi non si producono molti risultati dal punto di vista musicale. Dalla consanguineità nascono frutti deboli, mentre con le differenze ci sono produzioni forti. Per questo cerco sempre di partecipare a diversi progetti che mi arricchiscono umanamente e musicalmente”.



PLANET OF SOUND Una rassegna di musica decentrata Di Paolo Golia

Una rassegna lunga due mesi che partirà a febbraio per poi concludersi ad aprile: è questo l’obiettivo di Planet Of Sound, la manifestazione di eventi live che vedrà alternarsi artisti internazionali su diversi palchi della città di Bari. Alla base della rassegna c’è la volontà di creare una rete tra i luoghi che ospitano ancora musica dal vivo, al fine di realizzare una manifestazione che abbia un esteso raggio d’azione e che trasformi, almeno per un po’, il capoluogo pugliese in un “pianeta del suono”. Lo scopo sarà non solo quello di promuovere la conoscenza della musica internazionale indipendente, ma anche quello di sottolineare l’importanza di salvaguardare gli spazi prettamente “culturali”. Momento più caldo di tutta la rassegna sarà di certo la tappa dei californiani Savage Republic, capostipiti della scena trance losangelina, tra i primi ad ipotizzare una congiunzione tra i suoni ruvidi e violenti del punk occidentale con le melodie mediorientali, i mantra indiani, e le percussioni africane; un appuntamento reso ancor più importate se si considera che la band sarà nel mezzo di un tour europeo che toccherà solo brevemente l’Italia. Industrial, psichedelia, avanguardia, trialismo e fluttuazioni kraut, un mix di ispirazioni eccellenti che diedero vita per tutti gli anni ’80 ad album che segnarono il tempo dell’evoluzione della musica indie. Una speciale anteprima di Planet Of Sound si terrà il primo febbraio presso la Taverna del Maltese con il concerto dello svedese Thomas Denver Jonsson, mentre a fine aprile la rassegna si concluderà con un grande ospite a sorpresa.



MALI festival del deserto di Michele Traversa

Un happening musicale per celebrare la cultura tamashek, quella dei tuareg, i popoli nomadi stanziati nel sud del Sahara che dal 2001 s'incontrano assieme ad artisti internazionali per esibirsi a suon di worldmusic sul palco del deserto. Giunta ormai alla settimana edizione, la kermesse maliana quest'anno si è tenuta dal 11 sino al 14 gennaio 2007 a Essakane, ormai dimora fissa dell'evento, a due ore da Timbuktu (Mopti e Gao gli aeroporti più vicini). La giornata tipo potrebbe essere divisa in due tranche: quella più tradizionale, durante il giorno, con corse di cammelli, tindes (canti femminili tipici) e sfilate, e quella più spettacolare, legata alle esibizioni degli artisti sul paloscenico che iniziano con le prime luci del tramonto. Da sempre i tamashek (o tuareg) si riuniscono nel deserto per trasmettere, da una generazione all'altra, il sapere della vita, la loro cultura, le loro radici, attraverso la musica. Ma negli ultimi decenni le regioni desertiche del nord del Mali sono state scontro di guerre civili, dure repressioni e carestie che hanno rischiato di distruggere la tradizione dei raduni. Nelle passate edizioni nomi illustri hanno calpestato il palco del Festival: l'ex cantante dei Led Zeppelin, Robert Plant, Ludovico Einaudi, e poi Amadou & Mariam con Manu Chao, Ali Farka Tourè e molti altri. A prendere parte a questa

Woodstock dal cuore africano, per questa edizione ci sono stati gruppi continentali tra i più conosciuti, come i Desert Blues (Habib Koïté, Tartit, Affel Bocoum), Oumou Sangaré, Toumani Diabaté e Tinariwen in rappresentanza del Mali. Dalla Mauritania sono arrivati invece i Dimi Min ABBA, mentre molti altri sono giunti da Costa d'avorio, Senegal, Burkina Faso, Guinea, Marocco e Algeria. Per la sezione internazionale sono stati ospitati personaggi noti da Spagna, Francia, Svizzera e persino da oltre oceano con rappresentanze statunitensi e australiane. Questo festival si inserisce nell'ambito delle grandi feste tradizionali touaregs, quali Takoubelt a Kidal e Temakannit à Tombouctou, che per molti anni hanno rappresentato luoghi di decisioni e scambio culturale sotto forma di canti e danse touareg, poesie, corse di cammelli e giochi. Nell’arco della tre giorni, quasi quaranta gruppi artistici sono invitati a venire dai paesi d'origine per presentare la loro arte. In funzione dell'interesse mediatico che suscita e dell'ingente sforzo logistico che richiede, la manifestazione è entrata nella categoria dei Grandi Festival Moderni pur mantenendo la sua dimensione tradizionale. Le manifestazioni tradizionali incominciano nella mattinata e sono arricchite da sfilate, corse di cammelli, "Tindés" (canti femminili tradizionali), esposizioni, conferenze


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e giochi diversi. La programmazione legati ai suoni e alle luci (concerti e animazioni) invece incominciano appena prima del tramonto. Per questa edizione è stata inoltre prevista una notte speciale in onore dello scomparso chitarrista maliano Ali Farka Touré, a cui sono state dedicate reinterpretazioni musicali, proiezioni e la consegna di un premio alla memoria. Il costo dell'ingresso al mega concerto afrooccidentale è di 149 euro, ma vi sono anche alcune agenzie di viaggio che, in accordo con il Festival, organizzano un servizio di trasporto jeep da Mopti e Bamako sino al sito di Essakane con tanto di pernottamento in tenda e pasti compresi. Una raccomandazione per i viaggiatori interessati è quella di tener conto dei bruschi cali di temperatura, tipici del clima desertico: dai 30 gradi del giorno si passa velocemente ai 5 della notte. È consigliabile quindi un abbigliamento pronto a ogni evenienza, un buon sacco a pelo e torcia. Per qualsiasi altra informazione contattare il sito ufficiale del Festival è www.festival-au-desert.org


AMSTERDAM la cittĂ che galleggia di Michele Traversa


La città simbolo della stravaganza e dell’eccesso cambia le regole. E si apre con ancor più decisione alle nuove forme di avanguardia artistica. Un viaggio nei meandri della restaurazione olandese.

Amsterdam si può girare per la maggior parte a piedi ma circolano 550.000 biciclette e questo è senz'altro il modo ideale per spostarsi, anche se dovrete abituarvi all'idea che vi possa venire rubata. Questo è il primo impatto che si ha quando arrivante in questa splendida città nel cuore dei Paesi Bassi. I trasporti pubblici sono molto efficienti e il punto dove convergono tram, autobus e metropolitana è la Centraal Station. Presso la stazione è reperibile una cartina gratuita dei trasporti pubblici della zona centrale. Dissuadetevi dal guidare in città: non ci sono parcheggi gratuiti nella zona dei canali e se non acquistate un voucher per il parcheggio vi verrà bloccata l'automobile con le ganasce. È più sensato parcheggiare fuori dal centro e raggiungere la zona con i mezzi pubblici. I motociclisti possono parcheggiare sul marciapiede gratuitamente. Le tariffe dei taxi di Amsterdam sono tra le più care d'Europa. Chiamare un taxi, a parte il prezzo della telefonata, non vi costerà di più che raggiungere a piedi il parcheggio di taxi più vicino. Non dovreste fermare i taxi di passaggio, ma comunque nessuno vi bada più di tanto se lo fate. Gli olandesi affermano che sono tipici della loro tradizione culinaria i pancakes e gli speculaas, ma la loro paternità viene reclamata

rispettivamente anche da inglesi e tedeschi (e danesi). Esistono senza dubbio alcuni piatti tipici (molto varia è la scelta di zuppe), ma si tratta di piatti che vengono cucinati soprattutto nel sud del Paese con un uso abbondante di burro. Il quartiere a luci rosse di Amsterdam si trova in una zona molto graziosa della città: se cercate una scusa per andarci potete fare finta di essere interessati all'architettura. La zona, con le sue case malfamate e il numero infinito di distillerie, ha svuotato le tasche dei marinai sin dal XIV secolo. Ora le distillerie sono scomparse ma le prostitute in mostra nelle vetrine sotto luci rosse al neon, i buttafuori davanti ai teatri del sesso che adescano i passanti, i 'live show, fuckyfucky podium' (palcoscenici con scene di sesso dal vivo) e i sex shop non lasciano nulla all'immaginazione. Folle di turisti stranieri e locali si mescolano con potenziali protettori, ubriachi, tipi bizzarri, spacciatori di droga e soldati dell'Esercito della Salvezza. La prostituzione di strada è illegale, quindi le turiste donne non vengono automaticamente prese per prostitute, ma sarebbe comunque meglio per tutti usare il buon senso come in ogni grande città: non fotografare le prostitute, e non farsi coinvolgere in conversazioni con gli spacciatori di droga. Se vi trovate dunque ad Amsterdam,


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avete ed amate la sfida, potreste avventurarvi ad assaggiare le crocchette vendute da Febo (de lekkerste! ovvero la catena di fast-food olandese). Il cibo viene esposto in apposite cellette, che si aprono nel momento in cui si inseriscono uno o due euro. Le kroketten si mangiano di solito con la senape e possono contentere pollo, manzo o vitello. I pancakes sono delle specie di crepes giganti servite sia salate (con prosciutto e formaggio, spinaci, pancetta, salame ecc...) che dolci (alla nutella, marmellata, con il gelato o con il tipico stroop, uno sciroppo denso). I locali qui più o meno si equivalgono per prezzo e qualità, ma io personalmente vi consiglio il Moy Kong , specializzato in cucina cantonese, gestito da un gentilissimo vecchietto. Per provare la cucina thailandese invece un buon posto è il Chao Phraya in Nieuwmarkt 10. Per mangiare bene e spendere poco, potete anche spingervi fino alla zona dell'Albert Cuyp Markt. Se invece il vostro budget non è proprio limitatissimo, la zona attorno a Leidseplein offre ristoranti per tutti i gusti e tutte le tasche. Infine se volete sfamarvi con un pasto economico, abbondante e di discreta qualità, la soluzione ideale è rappresentata dalla mensa universitaria , l'Atrium (Oudezijds Achterburgwal 237, aperta non solo agli studenti da lunedì a venerdì 17-19).

Gli abitanti di Amsterdam sono molto bravi nel pattinaggio, soprattutto sui canali gelati, nell'andare in bicicletta (che è uno dei principali mezzi di trasporto) e nel jogging, praticato in particolare nel Vondelpark dove oltre ad andare in bici si fumano anche dei gran cannoni stile Bob Marley. Gli Amsterdamse Bos dispongono di diversi sentieri per jogging e passeggiate. All'Het Twiske si può camminare, andare in bicicletta o noleggiare barche. Gli olandesi sono appassionati navigatori, e il windsurf è quasi uno sport nazionale. Durante i fine settimana flotte di chiatte restaurate attraversano in lungo e in largo la grande distesa d'acqua dell'Ijsselmeer. Prima che fosse abitata, la zona settentrionale di Amsterdam era una palude desolata in continuo mutamento; i criminali giustiziati venivano scaricati qui per essere divorati dai corvi e dai cani. In seguito all'espansione della città, in queste terre inospitali si sviluppò un prospero quartiere della classe operaia. Amsterdam Noord è il posto giusto per farsi un'idea della vita tradizionale olandese, lontana dalle folle della città vecchia. Qui ci sono vasti mercati pubblici il mercoledì, il venerdì e il sabato, visitati da pochissimi turisti. Un traghetto pedonale gratuito attraversa l'IJ dietro la Centraal Station e arriva fino al Noordhollands Kanaal.

INFO UTILI Ente Nazionale Olandese del Turismo e Congressi Tel. (0)2 76 02 02 52 Fax (0)2 76 02 02 96 www.holland.com. COME ARRIVARE con voli low cost da Roma, Pisa, Verona www.transavia.com; con Meridiana www.meridiana.it da Firenze e Torino o la compagnia di bandiera Klm www.klm.com, che prenotando con un dovuto anticipo si possono avere buone offerte da Roma e Milano.


PERIFERIE A cura di Stefania Scateni-Editori Laterza di Michele Casella

Degrado, desolazione, ma soprattutto silenzio: è quel che trapela dalle immagini contenute in Periferie, l’eccellente volumetto edito da Laterza e curato da Stefania Scateni. Milano, Napoli, Bari, Bologna, Roma e Torino, sei città affidate alla narrazione di altrettanti scrittori e immortalate dall’obiettivo (ora sofisticato, ora impietoso) di una manciata di artisti dell’immagine. Un modo per respirare la città nelle sue diverse sfaccettature, per perdersi nei meandri di luoghi privi di identità, anonimi nelle loro stratificazioni di cemento. Quartieri spesso desolati, frequentati da personaggi che hanno subito una violenta esclusione sociale ma che hanno ancora storie da raccontare. Vite avventurose o tristemente stravolte, come nel caso di Nadia, la sessantenne romana con un passato fatto di lotte sociali ed un presente da eroinomane. L’approccio stilistico dei sei scrittori segue ovviamente le inclinazioni personali, spostando sensibilmente il baricentro della narrazione. C’è spazio innanzi tutto per una visuale che affonda le sue motivazioni nella critica sociale, con scritti particolarmente intensi che in alcuni tratti sfociano nella denuncia. È il caso della periferia di Napoli e di Giuseppe Montesano, che spiega con folgorante lucidità: “La logica urbanistica delle periferie è l’escludere, l’atomizzare, il separare. Le periferie sono il luogo della deportazione, e sono concepite apposta per questo”. Un processo di disgregazione sociale che va di pari passo con l’inarrestabile incedere del consumismo di massa; una progressiva conversione del fulcro della città in enorme centro commerciale, dove possano trovare spazio negozi, ristorantini à la page e locali di intrattenimento. Il criterio fortemente descrittivo viene a galla nella Torino di Silvio Bernelli, gelidamente concreta nelle sue opere mastodontiche e nella sua architettura modernista, ma soprattutto insolitamente cinematografica grazie alla vivida precisione dell’autore. Un contrasto stimolante rispetto allo stile autobiografico e passionale di Emidio Clementi e di Nicola La gioia, due ottimi storyteller

che hanno vissuto le periferie di Bologna e Bari con deciso coinvolgimento. Il primo si inoltra nel quartiere La Barca per rievocare memorie lontane (già sullo sfondo del suo romanzo La Notte del Pratello), il secondo tira le somme di una città docilmente omologata, che sembra spegnersi lentamente nel pulviscolo sollevato dalla selezione sociale. “Una sgradevole atmosfera di consenso generale, piuttosto, mi dava da pensare – scrive Lagioia a proposito del capoluogo pugliese – era la fine apparente dei contrasti a rendermi irrequieto”. A completare il volume troviamo inoltre alcuni splendidi lavori fotografici che in alcuni casi hanno funzionato da vera ispirazione per gli scrittori interpellati. L’avvincente racconto on the road di Biondillo prende infatti spunto da una foto di Annalisa Sonzogni, nella quale è catturata una casa popolare della periferia milanese. Da lì parte una ricerca in auto che è una scusa per perdersi nella grande città lombarda, per rivendicare con forza l’unicità di quei luoghi. Alessandro Piva, invece, usa l’ironia per mostrare il volto popolare di Bari, il gruppo Underworld rielabora artisticamente la Napoli meno turistica mentre Andrea Chiesi e Laura Palmieri mettono in mostra il lato invisibile delle loro periferie. Menzione di merito per Botto & Bruno, le cui foto possiedono una forza evocativa ed un’aria talmente eterea da sembrare sul punto di scomparire in una lenta dissolvenza. Una sorte alquanto simile a quella delle tante vite che popolano le periferie di questo volume.


AMSTERDAM archivio mentale di Roberta Fiorito

L’opera è quel che rimane al termine dell’azione ma ciò che conta è proprio l'azione (H.C.Bresson)


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Il rapporto fra l'uomo e l'architettura, i conseguenti condizionamenti che essa impone nella vita personale e nelle relazioni sociali, la memoria, il concetto di storia vista nei suoi piccoli sviluppi, nelle micro analisi che nascono partendo dall'Io, questi i temi centrali del progetto Mental Archive. L'opera è frutto dalla collaborazione fra Rossella Biscotti e Kevin van Braak, (due artisti indipendenti, lei italiana e lui olandese, che vivono e lavorano in Olanda, hanno partecipato a numerose esposizioni collettive e personali presso spazi privati e pubblici, ottenendo anche diversi riconoscimenti) ed il contributo fotografico di Gennaro Navarra (ilq uale vive e lavora a Napoli, dove ha fondato l'agenzia di comunicazione HUB). Un quartiere periferico di Almere, una città olandese di “recente” costruzione, è il punto di partenza. I due artisti chiamati a lavorare in questo quartiere hanno passato i primi due mesi ad osservare, ad analizzare le relazione sociali, mimetizzandosi fra gli abitanti, girando nei supermercati, per le strade, hanno cercato di infiltrarsi nella vita di un suo cittadino tipo. “Trovare un punto di contatto, cercare di instaurare un dialogo con gli abitanti non è stato semplice - racconta Rossella Biscotti - la periferia di Almere è un luogo immobile. E’ un luogo per microcriminalità convertita ad una vita giornaliera standard, dove gli adolescenti si dondolano tra la casa e la panchina di fronte. Una quotidianità imposta dalla struttura stessa dei luoghi”. Una periferia “dorata”, dice Gennaro Navarra, se confrontata a tante città dove sempre più spesso il termine periferia è divenuto sinonimo di degrado e miseria, un quartiere dove tutto è apparentemente perfetto e in ordine ma ridotto all'essenziale. Un luogo che per sua stessa struttura impone una quotidianità svolta all'insegna dell'omologazione, della standardizzazzione dei modi di vita dove il centro del quartiere è il supermercato, il centro commerciale, la multisala, luoghi di transito dalle funzioni evidentemente anti sociali. “Un falso benessere diffuso, una qualità della vita garantita, ma minima”, incalza la Biscotti, in contrasto con una umanità ricca e variegata. I suoi abitanti

infatti vivono una condizione del tutto particolare, provengono da paesi e luoghi differenti e si trattengono lì solo temporaneamente. Il progetto artistico nasce proprio in reazione all'organizzazione stessa del quartiere, un luogo che non si caratterizza come elemento di coesione fra i suoi abitanti, non sviluppa un senso di appartenenza, bensì offre la più assoluta solitaria quotidianità. I due artisti creano una occasione di scambio, una sorta di connessione virtuale e simbolica fra i sui cittadini attraverso Shivren, un ragazzo di 13 anni. “Abbiamo chiesto ad alcune persone di narrare a Shivren un’esperienza, un racconto esclusivo di vita personale, che lui avrebbe conservato e memorizzato. Passando da una casa all’altra, incontro dopo incontro, Shivren ha archiviato le storie nella sua memoria creando una rete, un collegamento sensibile tra persone differenti”. L'unica traccia di quella che i due artisti definiscono “un'esperienza artistica” è una serie di 12 fotografie ed il racconto/memoria dei protagonisti. L'impressione che si ha guardando tali immagini è che le equilibrate architetture, gli interni minimali ed essenziali che incorniciano le scene, non siano posti banali, vuoti, anonimi e senza vita ma, all'opposto, che abbiano un aspetto familiare e precipuamente caratterizzato da un vissuto

di forte umanità. Lo stesso Gennaro Navarra, nel momento in cui si è trovato a scattare le fotografie, ha ricercato gli scorci, gli angoli delle abitazioni dove maggiormente poter rintracciare “lo spirito di quelle persone”. I luoghi ripresi, infatti, sono arricchiti dagli elementi della loro vita più intima: giocattoli poggiati in un angolo, foto di parenti lontani, un quaderno di scuola. Inolrre i gesti e gli sguardi dei protagonisti, colti nel momento di massima espressività, risultano più eloquenti di qualsiasi parola, forti ed incisivi perchè facilmente interpretabili. In questo modo, all'interno del lavoro, le fotografie non funzionano solo come testimonianza dell'esperienza vissuta. Sono tracce di memoria che aiutano Shivren a ricostruire il momento del racconto mentre, da un punto di vista extra artistico, diventano un modo per accumulare esperienza attraverso il confronto con persone differenti e di diverse classi sociali, come un rapinatore di banche, vecchi prigionieri di campi di sterminio, un allevatore di piccioni, un ex pugile.Ma nel silenzio del museo di Paviljoens and Gemeente ad Almere o fra le pagine di questa rivista, per noi spettatori le fotografie diventano tracce di immaginazione, l'unico modo possibile per renderci partecipi dell'esperienza, donandoci la possibilità di viaggiare attraverso le loro “possibili” storie.


IL CODICE ATLANTICO l’opera di leonardo approda a zagabria di Paola Ciccolella - Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Zagabria

Il 5 dicembre 2006 è stata inaugurata a Zagabria la mostra del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci.


Ideata e curata dall’agenzia Anthelios di Milano, la mostra del Codice Atlantico di Leonardo Da Vinci giunge a Zagabria dopo essere stata accolta in molte città europee fra cui Roma, Innsbruck, Budapest, Bratislava. La mostra ha trovato una splendida collocazione in uno dei palazzi più belli di Zagabria, il Museo d’Arte e d’Arte applicata, situato nella centrale Piazza del Maresciallo Tito, proprio accanto al teatro Nazionale. Il giorno dell’inaugurazione erano presenti più di 1000 persone, ai discorsi di rito hanno partecipato, oltre al Direttore del Museo Miroslav Gasparovic anche l'Ambasciatore d'Italia in Croazia S.E. Alessandro Grafini, il vice ministro per la cultura Branka Biskupic e il sindaco di Zagabria Milan Bandic nonché uno dei curatori della mostra Ferruccio Dendena. La mostra è una opportunità unica per il pubblico croato che potrà ammirare oltre 60 tavole originali dell’edizione Hoepli 1894-1904 del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci provenienti dagli archivi dell’Accademia dei Lincei e numerosi modelli di macchine giunti dal Museo Leonardiano di Vinci e da storiche collezioni come quella di Luigi Boldetti.

Il codice atlantico è costituito da numerosi manoscritti originali che Leonardo dedicò a numerose discipline scientifiche; non fu però Leonardo a riunire i circa 1.300 manoscritti incollandoli su un grande album che diede il nome al codice. Fu Pompeo Leoni, scultore e collezionista, che nella seconda metà del Cinquecento realizzò la raccolta con criteri a volte discutibili ma con il grande merito di aver salvato dalla dispersione e forse dalla scomparsa una parte importante di studi leonardiani. L’originale del codice atlantico di Leonardo è custodito presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano. La mostra vuole raccontare la storia di questo codice “artificiale” e la ricchezza dei suoi contenuti, rilevanti per comprendere gli anni in cui la scienza moderna compiva i suoi primi passi, ma anche per accostarsi alla quotidianità del lavoro nella bottega di Leonardo e alla sua vita, con i problemi comuni a tutti gli uomini del suo e anche del nostro tempo. Il percorso affascinante della mostra è scandito dalle tavole originali della prestigiosa edizione dell’Atlantico curata dall’Accademia dei Lincei fra il 1894 e il 1904. In quegli anni, per la prima volta, l’intero codice venne trascritto, consentendo l’inizio di studi sistematici fino ad allora svolti in maniera frammentaria e parziale. Si tratta del periodo di maggiore interesse per gli studi dedicati a Leonardo da Vinci. Viene avviato infatti in più parti d’Europa l’imponente sforzo della trascrizione sistematica dei

manoscritti vinciani. In Italia l’interesse si focalizzò sul Codice Atlantico. Delle 280 copie prodotte solo poche rimangono a distanza di oltre un secolo, gelosamente custodite negli archivi di alcune importanti istituzioni come l’Accademia Nazionale dei Lincei o il Museo Leonardiano di Vinci. Proprio dall’Accademia dei Lincei provengono le tavole esposte nella mostra. Accanto alle preziose tavole sono esposti alcuni modelli di macchine provenienti dal Museo Vinci che costituiscono bellissimi esempi di interpretazione di alcuni fra i più noti studi leonardiani, come quelli sul volo, sulla guerra, sull’acqua. Si possono ammirare il grande aliante, la vite aerea, il carro armato, il cuscinetto a sfere. Alcune di queste macchine poi sono affiancate da gioielli della moderna tecnologia che costituiscono le moderne applicazioni delle invenzioni leonardesche. L’idea centrale è quella di mostrare, accanto alla grandezza di Leonardo e dei suoi progetti, il formidabile cammino compiuto dalla scienza e dalla tecnologia dopo i cinque secoli che ci separano dal Rinascimento. Oggetti di elevata tecnologia come il motore Ferrari o la trasmissione degli elicotteri Agusta saranno esposti accanto agli studi vinciani: ecco quindi, ad esempio, il modernissimo cuscinetto a sfere toroidale accanto al modello leonardiano e la bicicletta ad alta tecnologia accanto al progetto vinciano. Il pubblico della mostra, durante il percorso,

ha l'opportunità di avvicinarsi in modo immediato all'incredibile ricchezza d'ingegno di una delle più straordinarie personalità del Rinascimento, per apprezzare l'umanità del suo pensiero, l'attualità delle sue scoperte, la profondità delle sue ricerche e la bellezza della sua arte. La mostra vuole essere anche un momento di riflessione e approfondimento su alcuni aspetti nuovi e meno noti del genio creativo e soprattutto mira a rappresentare uno stimolo per i giovani a percorrere, attraverso l'opera di Leonardo, alcune tappe fondamentali della scienza e dell'arte nell'epoca del Rinascimento. La mostra costituisce inoltre una tappa importante nel cammino delle già vivacissime relazioni culturali italo-croate. Il progetto culturale che la mostra presenta vede anche il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri, dell’Accademia Nazionale dei Lincei e di istituzioni come la Società Geografica Italiana e l’Università degli Studi di Milano (Dipartimento di Matematica), la Commissione Italiana dell’Unesco, il Museo Leonardiano di Vinci. Anche per l’edizione di Zagabria la mostra ha ottenuto il patrocinio di importanti istituzioni croate e italiane: il Ministero della Cultura croato, la Città di Zagabria, l’Ambasciata d’Italia e l’Istituto Italiano di Cultura di Zagabria. Rilevanti sono state anche le adesioni di enti e imprese che con le loro risorse hanno reso possibile questo appuntamento suggestivo con la cultura: Banca Intesa, Generali Assicurazioni, Candy, Europlakat e Vipnet.


CHI HA PAURA DELLA CINA? Contaminazioni pop in terra d’oriente Di Paola Damiani

Il ‘fenomeno’ Cina è sotto gli occhi di tutti, per decenni il vasto continente è stato molto lontano dall’Occidente sia geograficamente che culturalmente, oggi abbiamo la certezza che nel nostro futuro la crescita galoppante dell’economia asiatica condizionerà le nostre scelte. Un universo per molti aspetti ancora sconosciuto e con il quale dobbiamo interagire. La cultura contemporanea cinese e quella europea si sono incontrate proficuamente, basti pensare al successo del cinema cinese in Italia e l’attenzione nel campo artistico da ambo le parti è molto elevata. La mostra in corso presso il Museo d’Arte Contemporanea Pino Pascali ne è un qualificato esempio e costituisce il primo appuntamento in Puglia di cui andiamo fieri.


01 Un gruppo di ragazzi si incontra per vivere una grande avventura nella periferia di Canton, sono vestiti come i loro eroi “I cavalieri dello Zodiaco” dei cartoon giapponesi. Per tutta la notte mettono in scena inseguimenti, combattimenti. Azioni fantasiose in uno scenario di squallidi spazi urbani trasformati in luoghi dell’immaginario, in set fantastici abitati da strani animali giganteschi. Estasiati ed estenuati all’alba li vediamo circolare ancora mascherati nel caos della città che si sveglia operosa, per il rientro a casa. L’avventura per quel giorno è finita, si torna alla normalità di tristi scene familiari in condomini popolari dove regna l’incomunicabilità generazionale tra genitori ignari e sottomessi e giovani con impulso d’evasione. Accade nel video di Cao Fei, giovane artista già nota al pubblico per la sua partecipazione alla Biennale di Venezia, esposto a Polignano a Mare nel Palazzo Pino Pascali, sino al 25 febbraio 2007, nella mostra “Chi ha paura della Cina?” curata da Rosalba Branà, direttrice di questo attivo Museo comunale di Arte contemporanea. Un’occasione per gustare un assaggio dell’arte cinese contemporanea che negli ultimi anni si è posta con straordinaria rapidità all’attenzione internazionale. Artisti sino a pochi anni fa costretti a produrre in maniera pressoché clandestina sono ora, con le mutate politiche di un regime che si apre al mercato globale, star internazionali. Un successo immediato e frastornante a volte, con opere che raggiungono in alcuni casi quotazioni vertiginose, contese da un collezionismo cannibale che cerca nell’arte asiatica nuove forme di investimento. Nelle grandi città cinesi nascono i distretti artistici, aree post industriali riconvertite in quartieri della creatività con gallerie, studi d’artista, atelier di moda, agenzie pubblicitarie, ristoranti, bar, spazi per concerti. Il più famoso a Pechino è la “Factory 798”, ricavato in una ex fabbrica di birra. E’ ormai segnalato dalle più comuni guide turistiche, che sembrano suggerire che anche l’arte è una merce e questo il luogo adatto per lo shopping.

Gallerie di tutto il mondo aprono succursali, i loro spazi propongono talenti cinesi ma portano anche l’arte occidentale puntando su un immenso potenziale di acquirenti, i nuovi ricchi asiatici. L’ arte contemporanea cinese arriva da noi in dosi massicce e crea confusione, la stessa che probabilmente assale i cinesi che affollano i grandi magazzini di Shanghai e Pechino: un miscuglio insensato di vetrine di grandi griffes affiancate a marchi inventati che di made in Italy hanno solo il nome. Tutto è così veloce, sovrabbondante da non avere i tempo di scegliere, capire, assimilare. Ma, al di là del mercato, in queste città e nei suoi distretti artistici si respira un’atmosfera straordinariamente fresca, vitale. Tutto è in fermento e, nonostante il controllo continuo di un regime che ancora interviene con la censura, è palpabile l’ottimismo verso il futuro, la curiosità, l’apertura al nuovo. Noi occidentali al loro cospetto sembriamo stanchi, disillusi, cinici. E’ proprio da alcune delle realtà più originali di questi distretti artistici che la mostra a Palazzo Pascali attinge. Da Pechino vengono i video del progetto Long March Space, vere e proprie “azioni” artistiche dal forte contenuto politico e sociale. Questo gruppo di artisti agisce nelle campagne e nei villaggi periferici del paese, luoghi non ancora raggiunti dalla civiltà avanzata delle città ed in cui si vive ancora nella povertà e nell’isolamento. Si tratta degli stessi spazi un tempo attraversati dalla “Lunga Marcia”, da cui prese le mosse la rivoluzione maoista; le loro poetiche incursioni tradotte in video fanno riflettere, come le statue di Cristo vestito da Mao e di Marx fatte navigare su zattere nel corso di un fiume, o come la grande onda fluttuante di teli con colori di bandiera. Il video di Yang Fudong ci parla invece di identità e anonimato, rischio sempre in agguato nella vita metropolitana. Visioni eleganti, in un ritmato passaggio di omologati “colletti bianchi” che attraversano le strade al suono della melodia sensuale di una bossa nova, ricerca di armonia in un quotidiano dominato dalla logica del lavoro alienate, ripetitivo.


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02 Alcuni di questi impiegati sono appostati dietro le finestre dei loro uffici con pistole puntate sull’esterno. Sempre sul tema dell’identità e della critica allo sviluppo della città non più a misura d’uomo è l’ironico video di Yang Zhenzhong, che regge sul precario equilibrio di un dito l’immagine capovolta del landscape di Shangai. L’aspetto giocoso sembra un motivo ricorrente nel lavoro di questi giovani artisti, ma anche un’opportunità per introdurre elementi di critica sociale. Come nel gusto pop di Ren Sihong - che prepara tre statuine irriverenti di un Mao in vetroresina rossa -, nel lavoro di Yang Jiechang - tanto appassionato di football da creare una sua squadra immaginaria per cui realizza vestiti e gagliardetti – o perfino nelle soldatesse pin up di Tsui Tin Yun. Wang Du, invece, riproduce Roma e il Colosseo in foto stampate su grandi sacchi di immondizia, segnalando criticamente il consumismo di un turismo culturale usa e getta, tipico dei gruppi orientali organizzati in “tour de force” nelle nostre città d’arte. Ma il fascino della cultura occidentale sembra farsi dialogo costante in questi lavori. Le bellissime fotografie di Zhang Huan la interpretano in un bacio dell’autore con una delle statue di Roma, incontro amoroso di civiltà. Il più giovane Tung Lu Hung fa campeggiare spavalde Sailor Moon in un primo piano di fotografie digitali, ponendole su uno sfondo sfocato di antiche opere d’arte veneta: tormentone di una cultura giovanile fatta di icone infantili che provengono dai manga giapponesi. A metter quiete in questa sovraesposizione di immagini, la silenziosa performance zen di H.H.Lim (di cui la mostra di Polignano propone una parte documentale) che attende che un pesce abbocchi all’amo della sua canna da pesca, immobile, per ore a pochi millimetri dalla superficie dell’acqua. Chi avrà più pazienza: il pescatore in attesa o il pesce affamato che dovrà saltare fuori dall’acqua? Nel lavoro di questo artista, da anni residente a Roma, c’è tutta la filosofia orientale che abitualmente associamo ad un ritmo lento,

un ritmo che - nonostante tutto - sopravvive nelle città in fermento. Tra intrichi di scale mobili e treni super veloci, ecco le postazioni di foot massage, o gli imperdibili ed economicissimi parrucchieri apparentemente super fashion (dal lavaggio lentissimo mentre tra coccole e massaggi si rimane stesi su comodi lettini), e ancora il thai-chi nei parchi, al termine di scatenate nottate in trasgressivi rave party, lontani da occhi indiscreti in grattaceli dalla vista vertiginosa. I ragazzi cinesi cavalcano entusiasti la modernità e la modellano ad un sentire antico. 01 CAO FEI “ Cosplayer” 2004 video still 02 CAO FEI “ Cosplayer” 2004 video still 03 XIUNG JUN QIN “Green” 2004, olio su tela, cm. 200x180 pagina precedente CAO FEI “ Cosplayer” 2004 video still



BOOK 001 PATRICIA BOSWORTH GIULIA CARCASI DIANE ARBUS IO SONO DI LEGNO Rizzoli, pp.352, euro 18.50

Feltrinelli, pp.144, euro 11,00

Venuta ai clamori del mondo artistico per aver impresso su pellicola i volti ed i corpi di minorati psichici e cosiddetti freak, grazie a questa biografia la figura di Diane Arbus acquista finalmente la legittima tridimensionalità. L’ingombrante sottotitolo, Vita E Morte Di Un Genio Della Fotografia, dietro il suo carattere pretenzioso svela l’approccio narrativo scelto da Patricia Bosworth: un’appassionata ed incondizionata venerazione. Il libro, di conseguenza, risulta dettagliatissimo. Le scelte, gli umori, i pensieri e i dolori dell’artista newyorchese sono raccontati con minuziosa precisione e fanno da filo conduttore agli eventi della sua vita. Dalle note adolescenziali del suo diario intimo al desolato suicidio del 1971, Diane Arbus viene ritratta con eccezionale vividezza: al centro della biografia vi è ovviamente il suo rapporto con gli uomini, che rivela un marcato carattere incestuoso e conflittuale. Dotata di un’accentuata sensualità e di una decisa ambiguità, la Arbus sembra vivere ogni attimo della sua vita con estrema leggerezza o con tragica drammaticità. Il suo amore per la fotografia diventa un vero filtro per la realtà e l’obiettivo della macchina le consente di mantenere un lucido distacco dal suo soggetto. Ma ogni aspetto della biografia sembra poi convergere nella sua vita di relazione, talvolta coinvolgendo il lettore con estrema abilità, talaltra soffermandosi su dettagli francamente superflui o ridondanti (dalla pagella delle scuole elementari ai dolori ai piedi). Tutto, in ogni caso, contribuisce alla riuscita del volume, ma resta il rammarico di dover cercare altrove le bellissime foto che hanno reso celebre questa icona del nostro tempo.

Giulia Carcasi. Atto secondo. Dopo aver guardato l’amore e la vita con gli occhi di Carlo e Alice, capovolgendo la storia, prima con le parole e i gesti di lei, poi con i pensieri e le paure di lui, Giulia Carcasi esplora un altro tipo di amore e di relazione, quella tra una madre e una figlia. Giulia che cerca di scoprire sua figlia, di capirla leggendo il suo diario, di aiutarla raccontandole la sua storia e Mia, una giovane donna blindata, cinica, dura. Entrambe di legno. Giulia torna indietro, alla sua giovinezza, alla sua amicizia con Sofia, una giovane suora peruviana, torna a rivivere il rapporto con la sua famiglia, la quasi fastidiosa discrezione di sua madre, il tradimento della sorella, l’incontro con il marito e la passione per Miguel. Mia vive la sua vita con rabbia, distacco, con dolore, con diffidenza. Colleziona i giorni e archivia le possibilità di incontrare l’amore, crede nei piccoli segni del destino e li vede dappertutto. Utilizzando ancora una volta due voci che si raccontano, che a tratti si parlano, Giulia Carcasi prova a scolpire il corpo legnoso delle due donne, in un binomio di durezza e provocazione, di tormento e rimpianto, di passione e negazione. Sono parole che fluttuano alla ricerca di una verità, sono segreti che si rompono senza fare rumore, è un filo teso tra due capi che talvolta si strattonano. Sembra una storia immobile, ma bisogna appoggiare l’orecchio alla corteccia per sentirne il fluire, il trapassare.

di Michele Casella

di Serafina Ormas

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ANTONIO PASCALE

“Chiedevo, si, qualcosa, ma senza l’ansia della risposta” di Michele Casella

Non È Per Cattiveria è un libro di viaggio ma allo stesso tempo un’opera molto personale ed anticonvenzionale, come mai hai deciso di avere un approccio al testo così particolare? Nonostante con questo libro abbia provato a raccontare il Molise, si tratta pur sempre di un diario personale, una dimensione di riflessione e di conoscenza; l’approccio autobiografico è risultato inevitabile, dato che frequento quei luoghi ormai da trent’anni. In Molise c’è uno strano rapporto con il tempo e, anche se la categoria dei “viaggiatori professionisti“ pensa che sia necessario arrivare in India per cercare il nirvana, credo che l’Italia abbia della caratteristiche altrettanto peculiari. Il nostro Paese è assai differenziato, l’Appennino è un luogo a sé, dove ci sono poche persone che hanno differenti tempi biologici. Come è nata l’idea del libro e quali sono state le reazioni dei molisani dopo la pubblicazione? L’editore Laterza aveva letto i miei libri precedenti e aveva pensato di affidarmi una scrittura di viaggio. Inizialmente mi avevano proposto Napoli, ma non conosco molto bene quella città e così ho pensato di parlare del Molise. Le reazioni sono state molto varie, tanti si sono complimentati ma alcuni si sono anche arrabbiati; non si capacitavano che io scrivessi della loro regione nonostante non fossi originario di lì. Con S’è Fatta Ora racconti una storia completamente diversa ma affronti alcuni temi comuni a quelli di Non è Per Cattiveria, per esempio quello dell’amore e della cura… In S’è Fatta Ora presento la biografia di Vincenzo Postiglione, un mio alter ego che sta per diventare padre. Questa situazione lo getta in uno stato di angoscia, non sa cosa fare e perciò decide di trasmettere al figlio un riflesso delle sue esperienze. nella scrittura o ci si innamora di un personaggio o delle sue idee, così questo libro è stato un modo per comunicare le mie al lettore. Ho anche parlato del concetto di cura, che a me suona sempre ambiguo; Battiato in una canzone fa grandi dichiarazioni d’amore alla sua donna, dicendole che senza le sue cure le non ce la potrà fare, ma instaura un rapporto che definirei di potere. Invece, a questa idea di potenza, sostituirei il concetto di manutenzione

S’è Fatta Ora minimum fax, pp. 126, euro 9.50

Non è Per Cattiveria Editori Laterza, pp. 124, euro 9.00

di Pasquale La Forgia

di Michele Casella

Marzo 2004. Nell’antologia La qualità dell’aria, Pascale pubblica Io sarò Stato? Oggi, attorno alla traccia di quel racconto, è fiorito un romanzo: S’è fatta ora. In queste pagine Vincenzo Postiglione, alter ego dell’autore, rievoca con lucida partecipazione alcuni momenti della propria vita, orchestrando i ricordi in un’operazione di scavo che mette in comunicazione i piani dell’educazione sentimentale e civile, della vita privata e pubblica. Vincenzo riattraversa infanzia e adolescenza, recupera il filo della sua formazione. E vi ritrova una serie di iniziazioni al dolore, spesso casuali e indesiderate, a volte cercate con un’ostinazione bambina. Quella di Vincenzo non è una ricerca di tempi e virtù perdute: quando si guarda alle spalle, avvista il masochismo di un intero Paese, schiva il pantano dell’autoanalisi e collauda in società la sua capacità di adattamento. Il libro, densissimo e spassoso, è di rara immediatezza. Un contributo prezioso alla biografia della nazione.

Tra piglio ironico e puro legame affettivo, Antonio Pascale ci regala un libro che è un po’ diario un po’ guida turistica, un volume scritto in estrema libertà espressiva e che racconta una delle regioni più singolari della penisola: il Molise. Intrecciando una manciata di informazioni utili ad un’esaltante narrazione autobiografica, lo scrittore romano mostra una capacità aneddotica in grado di irretire il lettore più smaliziato e refrattario. Con un passato da “viaggiatore professionista”, ricco di avventure e spostamenti veloci, Pascale ci racconta il suo cambiamento di rotta in favore di un approccio rilassato, “pigro” e focalizzato sulla pausa. Una metamorfosi che segue percorsi paralleli a quelli dell’amore e che ci permette di conoscere un po’ meglio sia lo scrittore che il Molise. Ne vien fuori un ritratto genuino e sorprendente, in cui i luoghi e gli umori hanno davvero un sapore extra-ordinario e per i quali diventa facile provare una piacevole affezione.


COMICS 001 GIPI Appunti Per Una Storia di Guerra Rizzoli, pp. 138, euro 14.90

JIRO TANIGUCHI In Una Lontana Città Rizzoli, pp. 418, euro 17.90

M.Questa SASEK È Parigi Rizzoli, pp. 64, euro 14.00

Intestataria di un progetto di recupero davvero encomiabile, la Rizzoli ristampa tre titoli decisamente allettanti per gli estimatori del fumetto d’autore internazionale. La scelta, oculatissima, cade su tre autori provenienti da luoghi, ambiti e periodi storici decisamente differenti. Il viaggio immaginifico comincia con Gipi, artista che esordisce col suo romanzo grafico di debutto su Cocononino Press. Proprio la casa editrice bolognese aveva dato alla luce la prima stampa di Appunti Per Una Storia di Guerra, un libro che racconta la storia di tre ragazzi negli anni di un conflitto armato. La spirale di eventi che avvolge i protagonisti ha l’amicizia come tema portante, ben scandito dalle dinamiche di violenza e dalle pratiche di iniziazione che si susseguono continuamente attraverso le pagine. È il racconto di Giuliano, Christian e Killerino, ancora troppo giovani per conoscere la vita ma già abbastanza adulti perché qualcuno ce li scaraventi dentro, ma è anche un racconto di emarginazione che ha il gusto dell’avventura. La voce fuori campo di Giuliano, che ripercorre gli eventi con la memoria, crea un leggero filtro per il lettore ma allo stesso tempo consente un processo di intensa immedesimazione. La crudeltà della guerra e soprattutto l’inquietudine del farne parte costituiscono il nucleo narrativo di Appunti, un libro incisivo e folgorante che ha procurato a Gipi la palma di miglior romanzo del 2006 al festival di Angoulême. Il Giappone degli anni 60 fa invece da sfondo ai personaggi di In Una Lontana Città, il meraviglioso romanzo di oltre 400 pagine che Jiro Taniguchi ha dedicato alla memoria e alla nostalgia. Originariamente uscita per la Cocononino Press, questa graphic novel sfrutta il tema della distorsione temporale per raccontare la storia di una famiglia, catapultando un uomo di 48 anni alla sua vita di quattordicenne. Al suo iniziale spaesamento si sostituisce velocemente la gioia di rivivere quegli anni sereni e la curiosità per le nuove prospettive e le concrete opportunità. La pacatezza e l’attenzione di quest’uomo di mezza età vengono racchiuse nel suo corpo di adolescente ed egli accarezza la possibilità di

58 rendere più felice sua madre, di godere della compagnia dei suoi compagni e di non perdere le tracce di suo padre. L’eccezionale tecnica grafica di Taniguchi ci regala dei primi piani assolutamente convincenti e comunicativi, ma è soprattutto la cura per i dettagli a colpire l’occhio del lettore. C’è un piacere palese nel tratteggiare ogni singolo particolare, dalla leggiadra fogliolina alla più piccola sfumatura emotiva, eppure il romanzo mantiene un’empatia con il lettore che solo un maestro è in grado di comunicare. In Una Lontana Città è un romanzo per coloro che hanno perso qualcosa nella vita, per quelli che hanno dei fantasmi del passato coi quali riappacificarsi, ma anche per chi sfiora spesso col pensiero gli anni di lietezza giovanile. Un libro elegiaco. A completare la terna di ristampe troviamo anche l’opera di M. Sasek, autore di una fortuna serie di volumi in grande formato dedicati alle città del mondo. Con la pubblicazione di Questa È Parigi la Rizzoli ci restituisce un albo che non si limita a mostrare i colori e le bellezze turistiche della capitale, ma che ci fa respirare un po’ d’aria francese attraverso una variegata galleria di personaggi, scorci, monumenti e sguardi. Pubblicato per la prima volta negli anni 60, Questa è Parigi sembra aver acquistato ancor più fascino rispetto al periodo originario e ci dona libro in cui la capacità tecnica va di pari passo con un vivace senso di ironia. La speranza adesso è quella di veder affiancati tutti i volumi della serie – con città come Londra, Roma, New York, Venezia, Hong Kong e Washington – e magari di poter anche ammirare (a più di quarant’anni di distanza) i quattro film ad essi ispirati. Michele Casella




CIAK 001

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LOST IN VERSAILLES Ritratto della regina dalle spalle di champagne di Vincenzo Pietrogiovanni

Una ragazza si trova nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Questo sarebbe il modo migliore di tratteggiare brevemente il personaggio di Kristen Dunst in Marie Antoinette, terzo ed ultimo film di Sofia Coppola. E se tentassimo uno schizzo sempre di Kristen Dunst ne Il Giardino Delle Vergini Suicide, e di Scarlett Johanson in Lost In Translation, gli altri due film della Coppola? Un cut&paste della prima frase ed il gioco è fatto. Dunque la Coppola ci sta prendendo in giro, riciclando la stessa idea in tre salse diverse? Nient’affatto! Anzi, l’ipotesi è che il cinema americano abbia finalmente trovato in Sofia Coppola una nuova poetessa dello spaesamento, sulla scia di Jim Jarmush o di Martin Scorsese. Kristen Dunst è una meravigliosa Maria Antonietta dalla pelle candida; ma il suo tormento, quello dell’ingresso all’interno dell’universo di Versailles, e quello del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, è reso con grande capacità interpretativa. Maria Antonietta è poco più che quattordicenne, quando si unisce senza amore – e, per sette anni, senza sesso al Delfino di Francia. Trascorre le sue giornate tuffandosi in caramelle e dolci coloratissimi, vestendo i meravigliosi abiti creati da Milena Canonero, acquistando scarpe per cui le ragazze in sala impazzirebbero (All Star comprese!), facendosi acconciare i capelli da coiffeur di grido, andando all’Opéra o a festini, tirando fino all’alba dopo litri e litri di champagne. L’edonismo e la superficialità del mondo dei sogni sono simboli di un tempo che non sembra passare mai. La corte di Versailles, divenuta sfavillante e sontuoso set cinematografico, sembra l’odierna Hollywood. Nel Settecento non c’erano i paparazzi, ma la camera da letto reale era luogo aperto a fortunati astanti;

non c’erano i tabloid ma in tutti i salotti d’Europa si parlava degli amori clandestini e dell’infertilità di Maria Antonietta. Pare che Sofia Coppola concepisca le scene dei suoi film sui ritmi della colonna sonora. È solo una voce ma ci dice molto della sua cifra stilistica: creare immagini dal forte impatto, in cui la musica partecipa vigorosamente al processo drammaturgico. I suoni dei Bow Wow Wow, Cure o New Order ricreano le atmosfere in cui la stessa regista è cresciuta, quelle degli Anni ’80, il decennio più superficiale ed edonistico del XX secolo, per l’appunto. Maria Antonietta diventa non solo icona pop, ma sfodera anche l’energia ingenua e nichilista di una punk ante litteram: nel suo atteggiamento ribelle, che sfida i cliché di corte, risuonano le note indisciplinate degli Strokes. E poi c’è il titolo nella locandina del film che ricorda la copertina di Never Mind The Bullocks dei Sex Pistols - per non parlare della scelta di Marianne Faithfull per il ruolo di Maria Teresa d’Austria! Purtroppo certe licenze espongono al fuoco incrociato: i pochi ma sonori ululati di protesta a Cannes e le recensioni di certa critica che è ancora dell’idea che esistano film giusti e film sbagliati. È vero, nel film manca la Storia, con l’evento degli eventi: la Rivoluzione Francese; manca il popolo che, anche quando arriva minaccioso a Versailles, è del tutto fuoricampo. Ma il film è estensione riflettente dello sguardo di Maria Antonietta. Noi osserviamo il mondo attraverso i suoi occhi; e semplicemente, per la regina, il popolo non esiste. Il dibattito è diventato infuocato, soprattutto in Francia, dove si è registrato persino l’intervento del philosophe Bernard-Henry Lévy, che, levando i suoi prestigiosi scudi in difesa del film, così conclude un suo articolo su Le point,: “un des portraits les plus inspirés de notre reine aux épaules de champagne”.

Con Marie Antoinette, Sofia Coppola sembra chiudere una trilogia dello smarrimento, che fotografa personaggi femminili nell’età dell’innocenza e dello stupore. Sfodera ritratti di donne come non se ne vedevano da tempo, donne ricche di sensibilità ed apprensioni, in cui forse lei stessa sembra rispecchiarsi, o che comunque sente fraternamente vicine. E non ci stupiremmo se, messa alle strette da un giornalista, rivelasse: “Marie-Antoinette, c’est moi!”.


MARIO BIONDI una mano piena di anima! di Alceste Ayroldi

Come sei approdato a queste sonorità ricche di R&B, soul e Jazz? Ho sempre amato il soul ed il jazz, i primi dischi comprati a 12 anni li ho consumati… Le cassette regalate da amici musicisti di mio padre mi facevano inpazzire!!! Rimanevo sempre affascinato dalle vocalità nere e piene di vocalism. Hai un timbro vocale marcatamente “black”. E’ solo un dono di Madre Natura od anche di studi? Un po’ natura un po’ ricerca e tanto lavoro. Come e perché è nato “The Handful of Soul” ed il sodalizio con gli High Five? Dall’idea di Luciano Cantone e della Schema records di creare un progetto intorno a me ed al singolo This Is What You Are. Hai attraversato diversi meandri della musica, generi e musicisti di diversa estrazione. Chi ha lasciato un segno nei tuoi percorsi musicali? Musicisti, cantanti e persone “comuni” che ho incontrato durante il cammino, ognuno di loro ha trasferito a me passione amore e gioia per la musica. Avere un successo come il tuo non è un’impresa semplice: quale consiglio daresti ad un giovane musicista per raggiungere il successo? Non cercare il successo ma amare ciò che si fà quindi accettare anche i momenti bui e condividere con chi ti ascolta la passione. La tua band ideale è composta da… Matti, passionali, precisi, scriteriati. Il tuo lavoro evoca la tradizione soul. Quanto è importante il rispetto della tradizione musicale? La tradizione l’ho vissuta e coltivata con mio padre in musica in Sicilia Il soul non è solo tradizione è un modo di essere. Se dovessi comporre un brano, quale genere musicale sceglieresti? Soul Jazzy blues se vogliamo etichettarlo ma etereo e forte. Come occupi il tuo tempo libero? Con i miei figli e con i miei cari o al computer con i miei nuovi conoscenti ma sempre con tanta musica. Quali sono i progetti futuri di Mario Biondi? Quello che ho sempre fatto (Musica) ma con qualche serenità in più e con intorno persone vere per creare musica spettacoli e quant’altro.

MARIO BIONDI AND THE HIGH FIVE QUINTET The Handful of Soul Schema/Family Affair Chi è Mario Biondi? Il focus è piuttosto eloquente. Il cantante siciliano ha navigato tra generi musicali diversi e si è imbarcato in avventure differenti. La sua assoluta naturalezza espositiva e la sua voce, l’hanno consacrato nel gotha del soul, antesignano del modern sound che mutua dal jazz, lo scompone e lo ricompone in archetipi black particolarmente accattivanti. Il successo che lo impone nei network di maggior ascolto è solo l’apice dell’iceberg. Mario Biondi ha lavorato duramente per giungere ad una tale perfezione vocale, un black sound che evoca ricordi storici.I dodici brani che formano The Handful of Soul, lavoro prodotto con la consueta maestria da Luciano Cantone e dalla Schema Records, sono trascinanti e…tracimanti. Limpidamente ballabili e cantabili grazie anche alle note sferzate dagli High Five, quintetto aduso a ritmi sempre diversi e che riesce a sposare le zigzaganti fenditure del bop con le adornanti misture della lounge music, ma sempre tenendo in conto le robuste sonorità ritmiche del soul. Bosso, Mannutza, Scannapieco, Ciancaglini e Tucci, corroborati dagli interventi di De Bellis e di Petrella, hanno ben racchiuso, in un dadaistico dipinto, la voce e le sonorità del leader. Colpiscono le avventure saggistiche di No Mercy for Me, Handful of Soul e Never Day. Al termine dell’ascolto: una pioggia di colori suonanti invadono la mente. La voce “nera” di Mario Biondi è pronta per ripartire.



traversa Coletta, 12 - prolungamento Viale Pasteur - www.zenzeroclub.it


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