MAGGIO 2015
POKER SCUDETTO
Personaggi Tranquillo D. Meneghin M. Sacchetti Conti D. Cinciarini Eurolega Gana el Madrid Un budget Real NBA Africa time Mock 2015 Speciale Mozart, diavolo o semplicemente Drazen Reportage giovani Reggio Emilia
Baskettiamo Magazine
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Anno 5 #14 - MAGGIO 2015
Direttore responsabile Salvatore Cavallo Vicedirettore Andrea Ninetti
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Hanno collaborato a questo numero Marco Biggi Gianpaolo Capozzi Alessandro Coco Enrico D’Alesio
Michele De Francesco Francesca Riva
Alessandra Rucco Eugenio Simioli
Alessio Teresi Special Guest Francesco Ponticiello (coach) Simone Lucarelli (fotografo) Adi Vastano (fotografo)
Renzo Rocchietti (fotografo) FOTOGRAFIE CIAMILLO-CASTORIA Progetto grafico Salvatore Cavallo Baskettiamo Magazine è una testata giornalistica in attesa di registrazione Società editrice CNC Communication srl
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Slam Dunk - Editoriale di Salvatore Cavallo
INSIDE
Tranquillo 1vs1 di Marco Biggi
Poker scudetto di Salvatore Cavallo - Andrea Ninetti EUROLEGA Gana el Madrid di Andrea Ninetti Un budget REAL per alzare la coppa di Alessio Teresi SuperDINO e l'azzurro per ripartire Intervista a Dino Meneghin
di Francesca Riva Mara…MEO
Intervista a Meo Sacchetti
di Eugenio Simioli
Il Condor di Cremona
Intervista ad Andrea Conti
di Michele De Francesco Africa Time di Enrico D'Alessio MOCK 2015 di Enrico D'Alesio
Mozart, Diavolo o semplicemente DRAZEN di Alessandra Rucco Un posto per due di Francesco Ciccio Ponticiello La quiete dopo la tempesta La difficile stagione di Pesaro
di Gianpaolo Capozzi
REPORTAGE - VIAGGIO NEL MONDO DELLE GIOVANILI Pallacanestro Reggiana di Enrico D'Alesio TIME OUT di Andrea Ninetti
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18 34 40 44 48 50 58 65 70 74 79
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di Salvatore Cavallo
E dito ria le
Q
SL A M DU NK
uando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare! Il basket del Bel Paese ma anche del Vecchio Continente, per non parlare di quello d’oltre Oceano, è entrato nella fase più entusiasmante e vibrante, ogni errore ormai può risultare decisivo ed i polsi non possono più tremare. Hanno così preso il via le semifinali playoff con il quartetto delle meraviglie formato da Milano, Sassari, Venezia e Reggio Emilia pronto a lottare con il coltello tra i denti per cucirsi lo scudetto sulle maglie. Ma anche in A2 si è alzata la contesa per la promozione con Torino che dovrà difendersi dall’assalto della sorprendente Agrigento per tornare nella massima serie. In questo numero potrete trovare ampio spazio dedicato a questi temi, con analisi tecniche e non solo della corsa scudetto e di quella promozione. REAL PADRONE D’EUROPA Un importante servizio l’abbiamo dedicato al trionfo madrileno nella massima competizione europea. Gli spagnoli hanno sfruttato fino in fondo il vantaggio del fattore campo e sono riusciti ad alzare al cielo l’Eurolega 2014/15. Nell’approfondimento dedicato al successo di Nocioni e compagni siamo andati oltre il solo risultato sportivo con un’attenta analisi sui budget necessari (e spesi) dalle varie contendenti per arrivare a competere per il trionfo finale. Ed i conti che vengono fuori lasciano piuttosto perplessi perchè ci fanno capire che non è tutto oro quel che luccica... In tutto questo aggiungiamo il budget messo a disposizione da Giorgio Armani che, probabilmente, dovrebbe permettere all’Olimpia di farsi valere anche fuori dell’orticello dello Stivale...
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senza dimenticare che sinora i meneghini sono rimasti a mani vuote. Con gli investimenti fatti, quest’anno e nelle scorse stagioni, ci saremmo aspettati di vedere una Milano protagonista in Europa... SGUARDO AL FUTURO Se una ristretta cerchia di squadre è ancora sul parquet a lottare per l’obiettivo stagionale, la maggior parte delle società sta già pensando al domani ed al prossimo campionato. Questo è il momento di fare i conti con le risorse economiche a disposizione e quindi di programmare, ripartendo dalle delusioni o dalle soddisfazioni raccolte nel corso di quest’ultimo anno. Nel calderone del momento c’è anche la riforma della serie A2, con ancora troppe incertezze su come sarà il prossimo campionato, sulle modalità di suddivisione delle 32 partecipanti. Emergono poi due volontà agli antipodi. Da una parte il desiderio di dare maggiori certezze al professionismo della Lega A con l’invocato (da molti) blocco delle retrocessioni; dall’altra avanza con veemenza la richiesta di veder premiati gli sforzi economici con il raddoppio delle promozioni. Cosa accadrà? Probabilmente nulla nell’immediato ma forse a bocce ferme sarebbe opportuno discuterne in maniera seria. Intanto la ComTec agirà anche in A2... servirà a scongiurare le note e tristi vicende di quest ’anno con un campionato che ha perso troppi pezzi per strada? Infine attendiamo buone notizie sul fronte dei diritti televisivi di serie A, con l’auspicio che si scelga la strada della suddivisione in più pacchetti e con una maggiore offerta per i telespettatori.
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PA L L A A L L’ E S P E RTO di Marco Biggi
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TRANQUILLO
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V
Quattordici anni fa l’ultimo trionfo europeo di
gnome, il “Flavio nazionale”, per anni la
Bologna, da allora un costante calo della com-
decisamente poco in linea col suo co-
servizio delle emozioni che regala il parquet,
scende in campo per un particolare Uno Vs Uno,
sfidato dal nostro Marco Biggi, che lo ha stuzzi-
cato su temi importanti quali il potere econonella
pallacanestro
moderna,
la
ricostruzione del movimento in Italia e la valorizzazione dei nostri giovani.
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incero, schietto, sintetico e pungente,
voce del basket nostrano e americano, poesia al
mico
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una squadra di club italiana grazie alla Virtus
petitività del nostro basket. È solo una questione di budget o ci sono anche errori che sfuggono ai più?
«E’ questione di budget ristretti e conseguentemente di peggiori giocatori. L’analisi dovrebbe
però soffermarsi sul perché di questa contra-
zione di budget e talento».
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Gli addetti ai lavori e gli appassionati si dividono
tra pro e contro la grossa quantità di stranieri in
campo. Qual è il punto di equilibrio per valorizzare
tinuare in questa direzione, anti-storicamente. Il
resto sono chiacchiere di sottofondo, buone per fare
schiuma».
i giovani Italiani e garantire un buon livello di spet-
L’Eurolega ha velatamente fatto percepire di voler
«Non c’è un punto di equilibrio, l’unico possibile è
struttura a stelle e strisce è veramente replicabile
tutto diverso è ragionare su come reclutare, allenare
«E’ replicabile un modello basato su profitti e costi,
tacolo?
che gioca ad alto livello chi alto livello vale. Del e affinare i giocatori italiani. Sono due discorsi del
creare una Superlega Europea in stile NBA, ma la
nel Vecchio Continente?
come in qualsiasi azienda. Cioè il modello che al mo-
tutto distinti, chi li mischia è nel migliore dei casi
mento NON esiste, e che al momento neppure l’Eu-
Lega e Fip giocano un ruolo fondamentale nella ri-
vogliono chiaramente fare altro, pur in presenza del
lare, soprattutto per un continuo turn over di
Il 2015 è l’anno degli Europei, come sempre tutti ci
miope, nel peggiore interessato».
costruzione di un movimento che fa fatica a decol-
società stabili economicamente ad alto livello.
Quali sono gli errori da evitare? Qual è la strada da intraprendere?
«Chi vuole cambiare le cose deve cambiare il mo-
rolega mi pare in grado di imporre a club che
conclamato fallimento del sistema».
aspettiamo tanto dagli Azzurri, il talento non manca, ma dove possono realmente arrivare?
«Vincere. Oppure uscire al primo turno. Dipenderà
dalla capacità di trovare una convivenza produttiva,
dello economico del sistema. Finora Lega e FIP sono
che è diverso dallo stereotipo del “tutti amici” che
mine non casuale. Per ora mi pare che vogliano con-
“anything is possible”, come direbbe Kevin Garnett».
state garanti di un sistema che ormai è fallito, ter-
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non li porterà lontani. Se invece faranno patti chiari,
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P O K E R SCUDETTO MAGGIO 2015
a cura di Salvatore Cavallo - Andrea Ninetti
a c o rs a t r i c o l o re e n t ra n e l v i v o . Q u a tt ro s q u a d re , u n m a g n i f i c o p o ke r s u l p arq u et p ro nto a gio c a rs i q u e l t r i a n g o l i n o tricolore tanto agogn ato, sogn ato, su d ato e per il quale si lotta e si combatte dal giorno d el rad u n o f in o a lla s iren a co n clu s iva, s p erando possa essere quella della vittoria nell ’u l t i m a e d e c i s i va ga ra d i f i n a l e . M a n co a d i r l o l a favo r i ta è s e m p re l a ste s s a , l a M i lano da bere che, con gli investimenti senza egu ali d i Gio rgio Arman i, è s emp re almen o u n metro ( o fo rs e d ieci) d avanti agli av vers a ri. Un p o ’ co me la S ien a d egli an n i d ’o ro e d e g l i s c u d e tt i i n s e r i e , i m e n e g h i n i n o n s e m b ra n o ave re r i va l i . I l ve ro r i s c h i o p e r M i l a n o è … M i l a n o ! Re p u ta rs i i m b a tt i b i l i , specchiarsi troppo e non avere voglia di lotta re e d u m i l tà p o t re b b e d i ve nta re u n b o o meran g in grad o d i far rivivere alla b an d d i B a n c h i g l i i n c u b i ( e l e s c o n f i tte ) d i S u p e rco p p a e C o p p a Italia. Ecco così che la prima vera e più autorevole a ntago n ista d iventa S a s s ari, q u ella D in a mo c a p a c e d i fa r m a l e a M i l a n o n e l m o m e n t o d e c i s i v o, q u a n d o e ra v i e ta t o s b a g l i a re e d era scoccata l’ora di vincere! Possiamo dire, s e n za t i m o re d i s m e n t i ta , c h e S a s s a r i s a co me s i fa a vin cere e s o p rattu tto a b attere
M i l a n o . I l p ro b l e m a p e r l a co m p a g i n e ca ra al Pres id ente S a rd ara è in p rimis d i es o rciz za re il ta b ù Mila n o al Pa laS erra d imign i e in s e c o n d o l u o g o r i u s c i re a t ra s fo r m a re l ’exp lo it d i u n a p artita in u n a s erie d i s u cces s i, almeno 4, per volare in finale. Eh sì, perché q u esto Mila n o – S as s a ri, p er tu tti la f in ale annunciata, arriva al giro precedente, in semif in a le. Ma camb ia p o co o n u lla, s i tratta d i u n “ fa c e to fa c e ” n e l q u a l e , p u r n o n e s sendo ancora in palio il tricolore, ci si gioca l’a cces s o a ll’atto f in a le. C h i avrà la meglio, l a p a n c h i n a i n f i n i ta d i M i l a n o o l a fa c c i a to sta d i u n g r u p p o c h e v u o l e s a l i re a n co ra p iù in alto co n le s u e armi sfavilla nti? Gen tile co ntro L o gan , i ch ili d i S a mu el o p p o sti a l l a ve r t i c a l i tà d i L a wa l , l ’e st ro d i S o s a e D ys o n in a ntites i co n la d o min ante ra z io n a lità di Brooks e Hackett, questi sono solo alcu n i d ei temi ch e o ff re la p rima s emif in ale, s e n e ved ra n n o d elle b elle. Al m o m ento d i c h i u d e re q u e st o n u m e ro d i B a s ke tt i a m o M a ga z i n e re g i st r i a m o i l co l p a c c i o s a rd o i n ga ra 1 e d i l p a re g g i o m e n e g h i n o n e l l a re p lica s u l p arq u et d el Fo ru m. O ra la sf id a s i s p o sta in q u el Pala s erra d imign i d ove la D in amo ved e le stregh e q u a n d o c’è d a aff ro n ta re l’O limp ia.
È d i tu tta evid en za p erò ch e n o n s i vivrà d i s o l o M i l a n o – S a s s a r i , p e rc h é n e l l a c o rs a
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p l ayo f f c ’è a n c h e l ’a l t ra m e tà d e l c i e l o, o s s i a l a s e m i f i n a l e t ra Ve n ez i a e Re g g i o Emilia che designerà la seconda finalista, la squadra che cullerà fino in fondo il sogno di c u c i rs i s u l p e tt o i l t r i c o l o re . Pe r l a Re ye r p i ù v i n c e n te d e l l a st o r i a ( o l t re i l 7 0 % d i s u cces s i in stagio n e) è q u a s i n atu ra le ritro va rs i a q u e st o p u n t o d e l c a m m i n o d o p o i s o ntu o s i acq u isti estivi, investimenti mirati a costruire una squadra completa, dotata di elevato tas s o tecn ico, ma ga ri p o co atletica m a c o n l e m a n i d e c i s a m e n te e d u c a te i n o g n i re p a r t o . C a r l o Re c a l c a t i , u n i c o c o a c h co n Valerio Bia n ch in i ad aver vinto tre s cu detti in tre città diverse, guida un gruppo la c u i a n i m a è s e n za d u b b i o ra f f i g u ra ta d a i gio cato ri p relevati in b lo cco d a lle cen eri d i S i e n a : Re s s , V i g g i a n o, O r t n e r e N e l s o n h a n n o p o r tato e s p e r i e n za e m e n ta l i tà v i n cente mentre Stone e Goss rappresentano il fo sfo ro e le man i a cu i aff id ars i n elle emergenze; Peric e Jackson sono i (presunti) gregari dalle mani d’oro mentre Dulkys, Ruzzier e l ’u l t i m o a r r i va t o A ra d o r i ra p p re s e n ta n o q u e l l ’a g g i u n ta n e c e s s a r i a p e r c o m p i e re i l p a s s o in p iù . F ra il d ire e il… vin cere c’è la
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Reg gia n a , co mp agin e a fo rte tra z io n e trico lo re ch e, d o p o aver ris ch iato n o n p o co co n B r i n d i s i , s i p re p a ra a v i ve re i l p e n u l t i m o atto d e l ca m p i o n ato fo r te d i u n 2 - 0 i n sta gio n e ch e las cia b en s p erare.
O ltre al ro b u sto n u cleo italian o, C in cia rin i, Po l o n a ra , D e l l a Va l l e e C e r v i , s e n za t ra l a s c i a re l ’a p p o r t o d i M u s s i n i e P i n i , c o a c h M e n e tt i , 5 s u c c e s s i s u 6 c o n f ro n t i c o n Re ca l cat i , 3 a 3 n e l l e sf i d e co n l a Reye r, p u ò contare sui “vecchietti ” terribili Kaukenas e L av r i n o v i c , o l t re a l l a ve r ve d i u n a ste l l a come Diener che, limitato ad inizio anno da u n a c o n d i z i o n e f i s i c a p re c a r i a , h a t ro va t o strada facendo la condizione giusta per cerc a re d i e s s e re , a n c o ra u n a v o l ta , “ M a n D ra ke ”. S u l l a c a r ta s i t ra tta d i d u e s f i d e m o l t o e q u i l i b ra te e , g i o c a n d o s i s u l l a d i sta n za d i 7 p a rtite, ci s entia mo d i p ro n o stic a re ga ra t re c o m e s f i d a c h i ave d e l c o n f ro n t o M i l a n o – S a s s a r i e ga ra q u a tt ro co m e m atc h s p a r t i a c q u e n e l d u e l l o f ra Ve n ez ia e Reg gio E milia . Ma o ra la p aro la a l p a rq u et e… b u o n b as ket trico lo re!
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G A N A
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M A D R I D
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M
di Andrea Ninetti
adrid torna sul tetto d’Eu-
classe di quella squadra (l’altro era il coach, un
nel modo migliore che si
rono l’ultimo acuto internazionale prima del
ropa e lo fa a casa propria,
potesse immaginare per scrivere il lieto fine, come nella più bella delle favole. I “blancos”,
dopo aver perso due finali consecutive, scac-
ciano così l’incubo della sconfitta dominando
giovanissimo Zelimir Obradovic) che regalalungo digiuno.
LE SEMIFINALI
Se il Real è stata la protagonista indiscussa
della manifestazione, altrettanto non si può
la Final Four con una semplicità che li ha fatti
dire per il CSKA Mosca, deludente oltre ogni li-
Pablo Laso ha condotto le “merengues” sul
vigilia. Il miliardario club moscovita (si parla di
sembrare ancora più forti di quel che sono.
gradino più alto del podio, un trionfo meritato
mite e incapace di reggere la pressione della
un budget di quasi 40 milioni di euro!) indicato
che è valso il nono titolo continentale, un re-
da molti come la principale favorita per il ti-
rioso come, per trovare il nome del Real
per mano dell’Olympiacos (De nuevo tu?), o
debba fare un salto indietro di due decenni, ri-
noulis, il Re del Pireo che, dopo 35 minuti di
cord mai centrato da nessun altro club; cuMadrid nell’albo d’oro della manifestazione, si
salendo fino al lontanissimo 1995, quando
tolo, è caduto ancora una volta in semifinale,
meglio sarebbe dire per mano di Vassilis Spanulla, ha deciso la semifinale ribaltando prati-
nella finale di Saragozza (sarà l’aria di casa a
camente da solo il +9 accumulato dai russi in
soulas cadde sotto i colpi dello “zar” Arvidas
stato tradito dai suoi uomini migliori, un im-
portar fortuna?) l’Olympiacos di Sigalas e FasSabonis e di Joe Arlauckas, due dei tre fuori-
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tre quarti e mezzo di gara. Coach Itoudis è
palpabile Teodosic e un pacchetto lunghi scon-
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fitto a rimbalzo e quasi mai innescato a dovere dagli esterni.
Nonostante ciò, il CSKA stava conquistando la finale senza
troppi patemi e solo la sfuriata di Spanoulis ha regalato un
esito opposto. Quel che abbiamo visto fare al numero 7 biancorosso è uno dei motivi per i quali questo sport è amatissimo,
bello e imprevedibile dal primo all’ultimo secondo; va pur-
troppo ricordato però che, appena 24 ore più tardi, lo stesso
Spanoulis si è trasformato in eroe negativo con un evitabilis-
simo “trash talking” nei confronti di Maciulis, quando il de-
stino della finalissima era già abbondantemente scritto.
Arrivato in Spagna dopo aver spazzato via il Maccabi Tel Aviv,
campione in carica, e con l’intento di continuare a stupire, il
Fenerbahce ha chiuso al quarto posto la sua prima partecipazione alla F4. Gli uomini di Obradovic, tutti ragazzoni atletica-
mente dotati ma meno esperti degli avversari, hanno subito il
Real dal primo minuto, incassandone ben 35 nel solo secondo
quarto per un – 20 a metà gara difficile da ribaltare; e, in ef-
fetti, la rimonta è stata solo abbozzata, Vesely e Goudelock
hanno cercato di imbastire il complicato recupero, una paziente risalita giunta fino al –9 ma senza mai dare la vera sterzata
all’incontro,
mentre
Bjelica,
votato
MVP
della
manifestazione, pensava bene di commettere quarto e quinto
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fallo in sequenza, quando c’era ancora il tempo per la clamorosa impresa. LA FINALE
E’ stata partita vera solo nel primo quarto, poi un monologo
dei padroni di casa, dominanti a rimbalzo, aggressivi in difesa
e proiettatisi verso il titolo grazie ad un 44% complessivo al
tiro che, unito al misero 21% messo a referto dagli avversari
nel tiro pesante, ha vanificato l’ottimo 16/25 da 2 fatto regi-
strare dei greci, penalizzati anche da una mano a dir poco freddina dalla lunetta (12/26). Carroll e Maciulis sono stati
chirurgici dall’arco, “el chico” Nocioni è stato una furia incontrastata sotto canestro e Llull, più di Rodriguez, ha saputo in-
fliggere i colpi giusti al momento giusto della contesa. Sul
versante ellenico Spanoulis è tornato sulla Terra dopo i cinque
minuti di fuoco vissuti contro il CSKA, mentre il temuto duo di lunghi Hunter – Dunston ha catturato, in coppia, appena un
rimbalzo in più del solo Nocioni, che con Ayon, Rivers e Maciulis ha garantito carattere, versatilità e soprattutto difesa, la vera arma nemmeno troppo segreta che ha deciso la finale.
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“
di Alessio Teresi
Money makes the world go round”, ma sarebbe meglio dire “Money makes Euroleague go round”. Già perchè per competere al giorno d’oggi in Europa di soldi ce ne vogliono molti, ma è anche necessario saper spenderli bene. Ne sa qualcosa il Cska Mosca, la vera sconfitta delle Final Four giocate un paio di settimane fa a Madrid, soltanto terza a discapito di un budget da 41 milioni di euro, un record di investimenti mai fatto da una squadra di pallacanestro del Vecchio Continente. Tanto per capire quanto i moscoviti abbiano investito la scorsa estate per tornare a conquistare l’Eurolega, basterebbe pensare ai sette milioni di euro elargiti a Milos Teodosic per un contratto triennale che rappresenta il contratto più remunerativo di tutto il basket europeo in assoluto. Come se non bastasse, dalle casse del Cska sono usciti anche altri quattro milioni di dollari per convincere Nando De Colo a lasciare l’Nba e poco meno per
riportare, a stagione in corso e sempre da oltre oceano, Kirilenko per vestire una maglia che fu già sua nel 1998 e nel 2011. In confronto a queste cifre, sono spiccioli i due milioni dati a Markoishvili per due anni, mentre ricordiamo pure gli oltre sei milioni e mezzo di dollari offerti per tre anni (senza fortuna) a Calathes per liberarsi da Memphis (con cui ha concluso la stagione a 800 mila dollari netti), o la trattativa da un milione di euro sfumata con Derrick Brown. Sulle rive della Moscova ci sono dei veri e propri “Paperoni” insomma, ma il risultato di Madrid ancora una volta ha bocciato l’operato di Vatutin, beffato per l’ennesima volta dai dispetti dell’Olympiacos. Olympiacos che, dal canto suo, ha ottenuto la terza finale in quattro anni con il budget più basso tra le quattro contendenti del Barclaycard Center, poco oltre venti milioni di euro (di cui 8,5 circa solo per gli stipendi dei giocatori),
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utilizzati la scorsa estate in gran parte per blindare due pezzi da novanta come Printezis (rinnovato fino al 2017 a discapito del triennale da 4,5 milioni offerto dal Galatasaray ) e Spanoulis. Dopo aver confermato il gruppo indigeno che tante fortune aveva dato negli ultimi anni al club del Pireo (Sloukas, Mantzaris, Katzivelis) ed aver definitivamente integrato il gruppo di giovani (Agravanis, Papapetrou, Kavvadas) su cui il club ha pesantemente puntato già da due anni, non sono state fatte spese folli per portare ad Atene giocatori americani, che comunque hanno garantito un buon rendimento a dispetto di ingaggi relativamente accessibili per il portafoglio della famiglia Angelopoulos. Dalla defunta Siena è arrivato Othello Hunter con un 1+1 da cinquecento mila dollari a stagione (denaro in gran parte derivato dall’uscita dal contratto di Cedric Simmons) mentre i soldi risparmiati con la partenza di Perperoglou sono stati prontamente investiti su un biennale da quattrocento mila euro a stagione per Oliver Lafayette. Ventisette circa i milioni di euro invece investiti dal Real Madrid per portarsela finalmente a casa dopo attesa ventennale, questa benedetta Eurolega. Gran parte di questo denaro è servito a pagare gli stipendi del nucleo storico 34 ©RIPRODUZIONE RISERVATA
spagnolo delle merengues (Llull, Fernandez, Reyes, Rodri-
guez), l’ingaggio di Maciulis è costato poco più di mezzo
milione, quelli di Nocioni e Bourousis un “testone” secco
pro capite. Va comunque sottolineato come comunque a
fine stagione, i due club spagnoli, ossia Real e Barcellona,
chiuderanno entrambi in disavanzo, alla voce costi-ricavi, di trentasei milioni di euro ciascuno, un deficit che verrà
coperto in parte dalle sezioni calcio ed in parte dai soci
azionisti dei due club.
Sulle stesse cifre del Real viaggia il Fenerbahce (circa
27/28 milioni di euro) mentre interessante è anche rilevare il budget messo sul tavolo quest’anno dai vincitori dell’Eurocup del Khimki Mosca (15 milioni di euro) e
quello dei finalisti del Gran Canaria (6,7 milioni).
Infine un dato aiuta meglio a capire l’incidenza del potere economico sui risultati sportivi: dal 2002 ad oggi soltanto
sei squadre diverse hanno vinto l’Eurolega, ossia le quat-
tro che hanno giocato la Final Four di Madrid più Maccabi
Tel Aviv e Panathinaikos; l’Italia, rimasta inevitabilmente
al palo, dal 2005 ad oggi ha partecipato all’atto finale
della manifestazione soltanto in due occasioni con il Montepaschi Siena e la coppa è rimasta sempre e solo una chimera.
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SUPERDINO E L’ A Z Z U R RO PER RIPARTIRE MAGGIO 2015
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di Francesca Riva
mpossibile parlare di pallacanestro senza partire dalle sue basi e non parlare di Dino Meneghin sarebbe come costruire un edificio senza fondamenta. Non serve raccontare delle sue tante vittorie, degli scudetti, dell’oro, delle coppe internazionali, per comprendere chi è ma soprattutto chi è stato Dino Meneghin, è sufficiente leggere le sue parole, percepire l’umiltà, farsi travolgere dalla grandissima personalità che contraddistingue generalmente tutti coloro che campioni lo sono nella vita ancor prima che nello sport. Dino, c’è un ricordo della Sua carriera che porta nel cuore e che ancora oggi suscita emozioni? «Sicuramente lo scudetto vinto con Varese nel ’69. Avevo solo 18 anni. Tutti a inizio campionato pensavano che la squadra sarebbe retrocessa, nessuno credeva nel gruppo e alla fine abbiamo vinto lo scudetto. Ricordo oggi con una certa emozione l’invasione dei tifosi in campo a fine partita, il loro grande entusiasmo misto a incredulità per l’obiettivo raggiunto». E invece con la maglia azzurra cosa Le è rimasto impresso nella memoria? «Pochi giorni fa una persona mi ha fatto ricordare un avvenimento che mi ha portato in superficie ricordi molto emozionanti. Partecipavo al torneo internazionale Mannheim, in Germania, con la nazionale giovanile, una manifestazione molto importante che si tiene ancora oggi. L’Italia lo vinse per la gioia di tutti gli emigranti italiani presenti alla partita. Al suono della sirena scesero tutti in campo acclamandoci come eroi e il giorno seguente ci accompagnarono alla stazione, ci dicevano “Salutateci l’Italia, ci manca molto”. Da quel momento ho compreso cosa significasse davvero indossare la maglia italiana, ho capito
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l’importanza della Nazionale anche per tutti coloro che vivono all’estero. Così, ogni volta che scendevo in campo in un paese straniero, cercavo in tribuna un tricolore, e se lo vedevo giocavo per loro». Ha avuto una carriera strepitosa, tra i Suoi tanti compagni c’è qualcuno con cui ha avuto e ha tuttora un rapporto speciale? «Sia a Varese che a Milano ho avuto la fortuna di giocare all’interno di gruppi meravigliosi. È molto difficile riuscire a dire un solo nome. Direi però che a Va40 ©RIPRODUZIONE RISERVATA
rese, Ottorino Flaborea è stato il mio punto di riferimento. Mi ha insegnato molto sia a livello tecnico che umano. È stato un maestro per me e ancora oggi nutro per lui una stima enorme. Un grande giocatore ed una persona ottima. Anche con Giulio Iellini ho stretto una grande amicizia e quando ancora oggi ci vediamo, purtroppo più raramente, sembra che sia passato un solo giorno». Chi è stato invece l’avversario più difficile che ha affrontato? «Sicuramente mi ricordo di Cosic, un
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centro come me, con una tecnica pazzesca. Era un giocatore estremamente intelligente, quasi un secondo play in campo. Probabilmente il giocatore più forte contro cui abbia giocato anche nei campionati europei». Nel 1970 è stato il primo italiano ad essere chiamato nell’NBA dagli Atlanta Hawks, come mai scelse di rimanere in Italia? «Ricordo della chiamata dell’allora general manager degli Atlanta Hawks, fu solo una proposta. L’estate stessa, dopo avermi contattato, cambiò team e non si
parlò più di un mio eventuale trasferimento. Nel ’74 poi ricevetti la chiamata dei New York Knicks per partecipare alla Summer League ma rifiutai. Stavo così bene a Varese in quel periodo che non ho avuto la minima intenzione di andarmene. A questo si univa poi il fatto che in Italia noi eravamo considerati dilettanti, loro professionisti e se avessi giocato anche una sola partita in NBA non avrei più potuto giocare nella Nazionale italiana e da “straniero” nel campionato». Ha dei rimpianti per questo? 41 ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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«Rimpianti assolutamente no ma nella prossima vita alla prima chiamata faccio le valigie e parto!» Dopo avere appeso le famose scarpe al chiodo, nel 2008 è stato eletto presidente della Federazione italiana di pallacanestro, com’è stata questa esperienza? «È stato un percorso molto difficile ma intensamente costruttivo. Essere presidente FIP vuol dire tener conto di problemi di tutte le squadre, di tutte le categorie della pallacanestro italiana. Non solo problemi ma bisogna riuscire a gestire le loro esigenze, comprese quelle di arbitri, dirigenti, settori giovanili, allenatori e altro. In questo mi sono accorto di come spesso molti guardassero “al proprio giardino” ma quando si ha un ruolo così importante bisogna gestire tutto nel modo migliore, prendere decisioni per il bene di tutti anche se inevitabilmente qualcuno lo scontenti». Oggi come vede il mondo del nostro basket e cosa crede sia possibile fare per risolvere alcune situazioni negative? «Credo che come ogni ambito della società italiana anche la pallacanestro risenta della crisi economica in atto. Le sponsorizzazioni sono fondamentali per una squadra e in mancanza di denaro le difficoltà si fanno sentire. Una soluzione possibile in cui credo molto è quella di lavorare su ciò che si produce in casa, sui giovani italiani che le società sono in grado di crescere e for-
mare, ovviamente questo è un compito più oneroso in termini di fatica e lavoro ma sono certo che darebbe dei grandi risultati». E per ridare maggiore visibilità alla pallacanestro su cosa bisognerebbe puntare? «Il movimento in Italia è sempre molto forte, abbiamo un minibasket numeroso e un settore giovanile altrettanto consistente. Probabilmente per fare in modo che le televisioni in giornali possano parlare di basket sarebbe necessario che la Nazionale riuscisse a vin-
cere le competizioni più importanti, che i nostri club vincano coppe prestigiose. È così che funziona oggi». Per quanto riguarda la presenza dei tanti stranieri in campo, cosa ne pensa? «Penso che nel corso degli anni siano cambiate molte cose. Oggi un giocatore della comunità europea a scadenza di contratto può trasferirsi liberamente da un club all’altro, prima tutto era molto più rigoroso. Ai miei tempi un giocatore era effettivamente proprietà della società per cui
militava e il trasferimento comportava anche un pagamento a volte oneroso per permettere la sua cessione. Oggi è molto più semplice ed è normale che in qualsiasi ambiente i tifosi vogliono vincere, così come i presidenti e gli sponsor ed è per questo che i giocatori in qualche modo diventano “vittime del sistema”. Ritorno al discorso precedente, credo si debba puntare, come fanno le leghe minori, sui giovani talenti italiani, serve più determinazione e più lavoro da parte degli atleti per i quali niente è servito ma ogni cosa bisogna saperla conquistare con fatica». Nel 2003 è stato il primo giocatore italiano ad essere inserito nella “Basketball Hall of Fame” americana, come ci si sente ad aver ricevuto un simile riconoscimento? «Considerando che la Hall Of Fame è un celebre sistema che premia i migliori giocatori di basket a livello internazionale mi sento davvero onorato. In quella americana ci sono anche gli allenatori Sandro Gamba e Cesare Rubini, io sono anche inserito nella “FIBA Hall of Fame” oltre che in quella italiana. Per me è davvero importante ma amo sempre ricordare che se sono arrivato a livelli molto alti e se ho raggiunto grandi vittorie è stato merito dell’intera squadra in cui ho giocato, di tutti i compagni con cui ho raggiunto eccellenti obiettivi. Insieme a me su quel famoso treno ci sono tutti!».
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L
MEO
MARA.. .
di Eugenio Simioli
’immagine che resta nella mente è quella dell’abbraccio all’amico Charly Caglieris nella notte del trionfo
azzurro agli Europei di Nantes ’83. Meo Sacchetti, 62 anni, guardia corpulenta di 199 cm, anagraficamente nato ad Altamura ma piemontese doc, ha colto anche l’argento olimpico a Mosca ’80.
Per lui 15 campionati di A con 6.333 punti in 456 gare spese tra Saclà Asti, Gira Bologna, Berloni Torino e Di Varese Va-
rese (ben otto stagioni), prima del ritiro a seguito della rottura del tendine di Achille, nella disgraziata serata di Masnago
contro Trieste, il 9 novembre del ’91.
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Passato in panca, ha avuto esperienze a Ca-
lega (girone molto duro con il Real poi lau-
gere l’A1 con la Capo d’Orlando del Poz e di
cesso in Coppa Italia nel febbraio di
stelletto Ticino e Fabriano, prima di raggiunC.J. Wallace con cui, nel 2007, ha colto i pla-
yoff (0-3 vs Avellino). Dopo una parentesi,
nel 2008, a Udine (al posto di Attilio Caja),
reatosi campione), prima di bissare il sucquest’anno.
Dopo un momento non proprio esaltante sul finale della regular season - in cui latitavano
l’approdo in Sardegna dove ha contribuito a
gioco e risultati e Sosa era stato, di fatto, già
dotto in serie A (è anche coach dell’anno nel
eliminando nei quarti la rivelazione Trento,
La corsa tricolore si ferma in semifinale con-
contro Milano.
scrivere la storia di Sassari che prima ha con-
2012) e poi al trionfo nella Coppa Italia 2014.
tro i futuri campioni dell’EA7, che sono però
tagliato – la sua Dinamo ha invertito la rotta
guadagnandosi il remake della semifinale
Molti alti e bassi in questa stagione della Di-
costretti alla resa nella Supercoppa italiana
namo: problema tecnico, fisico o mentale?
sua storica, qualificazione in una breve Euro-
ciacchi, e mentali, soprattutto dopo la Coppa
giocata in casa. Il Banco coglie comunque la
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«Direi più problemi fisici, dovuti a molti ac-
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Italia. Probabilmente ci credevamo più forti
dopo le Final Eight e invece siamo stati pre-
suntuosi non giocando di squadra, con la giu-
sta intensità».
Siete l’anti-Milano?
«Non credo che siamo gli unici. È vero, l’abbiamo battuta due volte in stagione, però
una squadra che vince 20 partite di fila è
molto difficile da affrontare».
Il raffronto tra il basket in cui giocavi e
quello di oggi? E’ troppo forte l’impatto degli degli stranieri?
«Il basket, del periodo in cui ero giocatore,
era totalmente diverso: si viveva molto di più
la partita. Adesso tutto è cambiato rispetto
alla mia epoca. Riguardo la questione stra-
nieri, penso che ora si trovano giocatori stra-
nieri che sono più italiani di qualche italiano.
Del resto ciò accadeva anche in passato:
Oscar, ad esempio, era più italiano di tanti giocatori nostrani».
Hai avuto la fortuna di essere allenato da santoni come Toth e Guerrieri...
«Si, ma quello che mi ha fatto vedere il ba-
sket visto dal lato del giocatori e non dagli al-
lenatori è stato Zuccheri a Bologna».
Dove sarà Sacchetti l’anno prossimo?
«Sto bene a Sassari, del resto ho ancora tre anni di contratto».
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IL CONDOR DI CREMONA
È
di Michele De Francesco
da poco terminata la regular season quando incontriamo Andrea Conti, già bandiera del basket cremonese (soprannominato “Il Condor ”, per le notevoli capacità offensive), oggi G.M. della Vanoli Cremona a cui è stato attribuito il 2° premio al “Lega Basket Award” nella classifica dei General Manager. Cosa significa questo riconoscimento, ottenuto al primo anno effettivo da G.M. in serie A? «Fa indubbiamente piacere, perché significa il riconoscimento che qualcosa di buono è stato fatto qui a Cremona. Lo vedo più che altro come un punto di partenza, sicuramente gratificante: sono un tipo che tiene molto i piedi per terra e credo di dover ancora imparare molto, soprattutto da chi ha più esperienza, anche se mi piace confrontarmi quotidianamente con tutti, perché penso che ci sia da imparare da chiunque, anche dal semplice tifoso».
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Quanto conta il fatto di aver calcato il parquet fino alla stagione scorsa? «Non più di tanto; ovvero, il fatto di conoscere bene certi ambienti può aiutare a gestire meglio certe criticità, per esempio un periodo negativo di qualche giocatore. Sicuramente può avvantaggiare per quel che riguarda la chimica necessaria a creare il “gruppo” tra i giocatori, però non sempre questo avviene». Qual è stato il momento più bello e
allestita col budget paradossalmente più basso dei sei campionati di Serie A disputati da Cremona. Ci sono stati una serie di momenti difficili da gestire: il secondo infortunio capitato a Marco Cusin (frattura del metatarso della mano), nonché la rocambolesca sconfitta con Reggio Emilia in casa. Aggiungerei anche la gestione dell’infortunio di Kenny Hayes, che ci è costata la sconfitta interna con Roma, ma non solo, dato
quello più difficile nella stagione della Vanoli? «Il momento più bello è stato “il primo giorno di scuola”: il giorno del raduno è stato molto stimolante, avendo potuto vedere tante facce nuove, giovani tutti carichi per la nuova avventura. La ciliegina sulla torta è stata - ovviamente - la storica qualificazione alla Final Eight di Coppa Italia: un traguardo impensabile, considerato il fatto che quest ’anno la squadra è stata
che il suo procuratore avrebbe voluto che Kenny non giocasse più. Il nostro giocatore è stato encomiabile, continuando a giocare “sul dolore” sino alla fine del campionato, pur avendo un problema serio che ora risolverà». 30 novembre 2013: cosa ha significato questa data nella carriera di Andrea Conti? «E’ la data in cui ho smesso di giocare: una decisione che - forse - è arrivata un po’
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tardi, perché in cuor mio avrei voluto già smettere il 10 maggio 2013, poi - complici un po’ Gigio Gresta, un po’ la società - mi sono rimesso le scarpe da basket. In seguito, però, a causa di vicende societarie, si è deciso insieme che io smettessi quel giorno, per indossare i panni di Team Manager. L’ho fatto col sorriso sulle labbra: alla fine, dopo vent ’anni di basket, uno può anche smettere di giocare… (sorride, n.d.r.)» A proposito, potrebbe spiegarci la differenza tra il ruolo di Team Manager e quello di General Manager? «Qui alla Vanoli, non credo ci sia una grandissima differenza: bisogna essere disponibili a fare un po’ di tutto, dallo svuotare gli appartamenti dei giocatori all’aiutare gli americani alle prese con le visite mediche, dal fare trattative con i procuratori allo scouting. Logicamente, in un’ottica di miglioramento della società, serve che tutti questi ruoli siano ricoperti magari da figure distinte. Nel frattempo, è bello anche così: tutto fa scuola». Quanto è difficile oggi essere G.M. in una società che dispone di un budget limitato? «E’ molto difficile: andare a prendere i
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“nomi” sarebbe abbastanza semplice, potendo. Ben altra cosa è andare a pescare nel sommerso, è un lavoro molto più lungo e scrupoloso; d’altra canto però è anche molto stuzzicante. Quest ’anno le scelte fatte si sono rivelate quasi tutte azzeccate mentre in passato, con budget più elevati, si sono fatte scelte sbagliate. Ci vuole comunque sempre un pizzico di fortuna». Quanto brucia la mancata qualificazione di Cremona ai play-off? «Abbastanza. Si dice che l’appetito vien mangiando, adesso però mi vien da dire che forse i play- off sarebbero stati troppa cosa per la so-
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cietà. Ci sarebbero stati da gestire tutta una serie di fattori, anche “esterni”, in chiave di programmazione futura e si sarebbero generate delle aspettative da parte della piazza, fuori dalla nostra portata. Ripeto, sarebbe stato bellissimo qualificarci alla post season, ma forse è stato meglio così; potrà essere un sfida pensarci in chiave futura». Come immagina il prossimo mercato della Vanoli? «Sicuramente legato al discorso degli italiani ma direi molto più difficile. Credo che diverse società si orienteranno verso il “5+5”. Inoltre, essendo un mercato già “drogato” dai procuratori, credo
che sarà ancora più difficile muoversi, disponendo di un budget “sostenibile” (limitato, n.d.r.). Bisognerà essere bravi a prendere le persone giuste, adatte per Cremona». Questione diritti-tv: qual è il Suo pensiero? «Sicuramente è un aspetto da migliorare, Rai o altra tv che sia. Per il movimento, va migliorato il prodotto, il gap qualitativo tra pay-tv e servizio in chiaro è notevole. Per il bene delle società, l’ideale sarebbe offrire in chiaro - per un pubblico molto più ampio - telecronache e servizi di elevata qualità». Andrea Conti: un sogno futuribile ed uno immediato… «Un sogno immediato è sicuramente quello di dare continuità a quello che stiamo facendo, quindi un discorso di crescita, di giovani, di italiani e - soprattutto - di entusiasmo a Cremona. Nel futuro, il mio sogno è portare Cremona in Europa: disputare una qualunque coppa europea sarebbe bellissimo».
Parole dirette, idee chiare, umiltà e voglia di accettare nuove sfide, tutto sommato si t r a t ta d i q u a l i tà c h e d a s e m p r e h a n n o co ntra d d istinto “ Il C o n d o r ” An d rea C o nti.
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NBA
AFRICA TIME 1 agosto 2015, la NBA sbarca in Africa. Sotto l’egida dell’Associazione e della FIBA, parte del programma Basketball Without Borders, una gara Africa’s Team vs World’s Team si svolgerà all’Ellis Park di Johannesburgh. Capitani delle due squadre: Luol Deng e Chris Paul. L’Africa e la NBA si corteggiano da tempo e un paio dei più grandi di sempre sono africani. Parliamo di Hakeem “ The Dream” Olajuwon e Dikembe Mutombo, senza dimenticare il leggendario Manute Bol. Guardando più da vicino i giocatori africani attualmente presenti nella NBA, pensando anche ai tre giocatori citati, storicamente sono i lunghi africani ad interessare le franchigie americane: questo trend è confermato dall’attualità. Si comincia però a trovare qualche small forward, anche se la prima guardia africana nella NBA si fa attendere. Serge Ibaka, naturalizzato spagnolo, è nato a Brazzaville, Re-
di Enrico D’Alesio
pubblica del Congo. E’ il più in vista e il più forte africano della NBA: 15 + 8 le sue cifre quest’anno, condite da 2,4 stoppate.
Giocare con Durant e Westbrook non agevola le statistiche e per questo i suoi numeri sono ancora più impressionanti. Quel che però rende meglio l’idea del carattere di Serge è la percentuale ai tiri liberi: 63% al primo anno (2009),
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83% in questa stagione. Conterraneo di Ibaka, ma di Lubumbashi, è Bismack Biyombo, ala/centro di Charlotte, entrato nella NBA a 19 anni, al quarto anno con gli Hornets. Giocatore di enorme impatto fisico, è un lavoratore silenzioso che in carriera raggiunge a stento i 3,5 tiri tentati a partita: realizza con continuità (61% nel 2014, 54% quest’anno) ma non gli danno mai la palla e sarà da testare su minutaggi e possessi maggiori di quelli attuali; in 21 minuti è uomo da 5 punti, 6 rimbalzi e quasi 2 stoppate. Nigeriano è Festus Ezeli, 25enne di Golden State: nonostante l’età è come fosse in pieno rookie year, perché, entrato a 23 anni, ha perso tutta la scorsa stagione e metà di quest’anno per un infortunio. Gioca inoltre in un team che pratica spesso uno smallball estremo e non riesce a vedere molto il parquet: proiettate su 40 minuti, le sue cifre direbbero 10 punti, 10 rimbalzi, quasi 3 stoppate. Un
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giocatore molto influente e reputato è Luol Deng, ala, capitano del team africano nella partita del prossimo agosto. Uno dei favoriti del Presidente Obama quando evoluiva a Chicago, ora Deng gioca negli Heat. Viene da Waw, Sud Sudan, uno dei posti con il più alto tasso di tragicità del pianeta ed è al suo undicesimo anno nella NBA: grande difensore, le sue cifre in carriera dicono 13 + 6 tirando con il 46% generale e il 33% dall’arco. Sono numeri che raccontano di un grande giocatore ultimamente frenato da qualche guaio fisico. Gorgui Dieng è senegalese, gioca centro a Minnesota ed è quello di maggior upside: 25enne, è solo al suo secondo anno e ha giocato alla pari con tutti i grandi centri al Mondiale in Spagna nell’estate 2014. Le cifre al secondo anno sono raddoppiate, come i minuti: 10 + 8, con 3,1 rimbalzi offensivi che ne fanno il 12° migliore di tutta la lega. In tema di promesse, sempre dal Senegal proviene Ilimane Diop, ala/centro del Laboral, segnalato come ottavo miglior prospetto internazionale classe 1995, lanciato verso il Draft 2016. Nei disgraziati Sixers ha
giocato un uomo al 7° anno NBA: Luc-Richard Mbah a Moute ha chiuso con 10 + 5 e la fama di ottimo difensore. Negli ultimi 2 anni ha girato quattro squadre e si sa quanto sia difficile rendere quando si entra nel pernicioso giro delle trades NBA, ma si tratta in ogni caso di un solido role player. A proposito di Yaoundè e 76ers, siamo curiosi di vedere che impatto avrà Joel Embiid, centro, terza scelta assoluta al Draft 2014. Persa questa stagione per infortunio si è distinto come divertente/irriverente star di Twitter, dileggiando LeBron James e corteggiando Rihanna, ma sono quasi tutti pronti a scommettere su un suo ingresso tonante nella NBA. 10 dei primi 150 prospetti delle annate 1994, ‘95 e ‘96 sono africani, solo uno gioca come guardia, si tratta di Jules Akodo, camerunense. Si continua quindi a considerare l’Africa come serbatoio di incredibili talenti fisici da sviluppare (c’è anche un 2.19 senegalese, Youssoufa Fall), ma prima o poi vedremo una pg africana in quintetto: forse anche per questo la NBA inizia, con l’amichevole di Johannesburg, ad approfondire la relazione con il Grande Continente.
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MOCK 2015 a cura di Enrico D’Alesio
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Nel Mock di Maggio l’ordine effettivo di scelta, dopo la Lottery del giorno 19. Abbiamo invertito Okafor e Townes: Townes, anche se non è un centro puro, sembra più adatto a raggiungere la banda di ragazzi alla conquista della NBA in Minnesota. E Okafor pare fatto apposta per i Lakers. Segnaliamo poi l’ingresso di Robert Upshaw; si tratta di un ragazzone di 2.13 dotato di buon talento, che supera la tonnellata di una ventina di chili. Il suo problema è la testa. E’ stato espulso, in backto-back, da Fresno State e da Washington University e la cosa non può lasciare tranquillo nessuno scout. Tuttavia squadre affamate di lunghi come i Mavs potrebbero tentare l’azzardo. Nei giorni in cui stiamo scrivendo si tiene la Combine dei prospetti al Draft 2015: segnaliamo alcuni tra i dati di maggior rilievo emersi dalle prove fisiche e atletiche dandovi una lista di uomini non inseriti tra le nostre prime 30 scelte ma sensibili di potervi entrare. Quest’anno, oltre a misurazioni e prove fisiche, la Combine si è dotata di uno showcase di 5vs5 a rotazione continua, molto utile per vedere i giocatori all’opera sotto una certa pressione. Tra i giocatori presenti nel nostro Mock, segnaliamo che Stanley Johnson non è 6.7 nemmeno con le scarpe, e nemmeno Jerian Grant arriva a 6.5; D’Angelo Russell è sensibilmente più pesante di quanto aspettato (193 libbre contro le 180 della scheda collegiale) mentre Rozier, una point guard dal fisico non eccezionale
quanto a misure, ha rivelato un’apertura alare mostruosa per un piccolo (“wingspan” di 6.8) ed è risultato nella top 10 generale in salto, velocità ed agilità, aggiungendo notevole appeal alle sue quotazioni. Sam Dekker è più leggero del previsto ma per un’aletta che dovrà giocare sulla rapidità di passo e di esecuzione non è una brutta notizia e più di un commentatore ha individuato in lui e Oubre le due migliori small forward alla Combine. Montrzell Harrell ha rivelato una “Standing Reach” mostruosa di 9.4, lui che non arriva a 6.8, mentre nelle prove di 5vs5 hanno sorpreso in positivo Bobby Portis, lungo dal gran tiro, capace di “poppare” con continuità e entrato nelle mire dei Celtics e anche Gemello Andrew (Harrison), mentre Gemello Aaron resta un po’ nell’ombra e, per entrambi, sono in parecchi a domandarsi se passare quest’anno nella NBA sia la scelta giusta. Anche due internationals si son fatti valere nel 5vs5: si tratta di Mouhammadou Jaiteh, lungo francese (Nanterre) che ha impressionato per atletismo e George Lucas De Paula, guardia brasiliana. Ecco quindi i nomi più “caldi” in prospettiva: Rakeem Christmas, senior da Syracuse, piccolo per giocare centro nella NBA, ma ottimo pf con 7.5 di wingspan e 9.1 di standing reach: punto debole, ha 24 anni. Cameron Payne, piccolino da Murray State, ma la Combine ne ha rivelato l’apertura alare e la velocità, che si aggiungono al
grande QI cestististico. Larry Nance jr: giocatore di culto a prescindere, figlio del vincitore dello Slam Dunk Contest 1984 con la prima schiacciata con due palloni. Ala da Wyoming con serie possibilità di fare la NBA, è un duro: affetto da morbo di Crohn, si cura ogni 6 settimane con particolari iniezioni e terapie. TaShawn Thomas maestro di doppie-doppie ad Oklahoma, non alto (6.8) ma grandi apertura alare e altezza totale (7.2 e 9). Dez Wells come guardia ha grande fisico e se riesce a giocare in quel ruolo la NBA lo aspetta. George DePaula: Brasiliano, guardia completa di quasi 2 metri, alcuni lo predicono addirittura attorno alla 20 scelta; ha impressionato nel 5vs5. J.P. Tokoto: guardia oversize, con poco tiro ma terrificante atletismo, ben usato anche in difesa. Al 5vs5 ha mostrato progressi nel gioco dal perimetro. Molti consigliano un anno in più a North Carolina, ma verrà scelto. Chris McCollough: pf a Syracuse, si sta facendo strada nelle grazie di ogni scout. Paragonato a Abdur-Rahim, il che è sia un bene che un male. Marcus Thornton: pg, il primo nelle prove di velocità e agilità alla Combine, forse una chance di NBA se la è presa. Jordan Mickey: altro nome in fortissima ascesa, apertura alare di 7.3, fisico da sf e attitudini da pf, sa tirare da fuori e al 5vs5 ha giocato un match da ben 8 stoppate.
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#
TEAM
Name
Ht
Wt
Pos
270
C
1
T'Wolves
KA Towns
7.0
250
3
Sixers
E. Mudiay
6.5
5
Orlando
K.Porzingis
7
Nuggests
9
FROM
C
Kentucky, Fr
190
PG
Congo, Intl
6.11
220
PF/C
Let., Intl
M. Hezonja
6.7
215
Hornets
W.Cauley-Stein
7.0
240
11
Pacers
F. Kaminsky
13
Suns
T.Lyles
6.10
Hawks
M. Harrell,
6.8
Bucks
K.Looney
19
Wizards
D. Booker
21
Mavs
R. Upshaw D.Johnson
2 4
6 8
10
12
Lakers Knicks
Pistons Heat Jazz
Thunder
16
Celtics
17
18 20
22
J.Winslow
Kings
14
15
J. Okafor
D. Russell
S.Johnson
Raptors
Duke, Fr
180
PG/SG
Ohio St., Fr
245
SF
Arizona, Fr
SG
CRO, Intl
C
Kentucky, So
C
Wisconsin, Sr
SF
Kentucky, Fr
Texas, Fr
C/PF
K. Oubre
6.7
200
SF
6.2
190
PG
Luoisville, So
PF
Arkansas, So
PG
Notre Dame, Sr
SF
Wisconsin, Jr
225
SF
Virginia, Jr
7.0
240 250 240
B. Portis
6.10
240
J.Grant
6.5
205
S.Dekker
6.9
230
6.9
SF
220
SF/PF
185
SG/PG
6.11
260
C
7.0
255
6.5
Kansas, Fr
Louisville, Jr UCLA, Jr
Kentucky, Fr Espulso
Bulls
J.Anderson
Cavs
C.Wood
6.11
225
PF
T.Jones
6.1
190
PG
6.5
185
SG
Georgia St., Jr
6.11
225
PF
UNLV, So
25
Grizzlies
M. Jaiteh
27
Lakers
R.Hollis Jefferson
Nets
J.Martin
Spurs
28
Celtics
30
Warriors
29
6.7
SF
243
Blazers
26
6.5
229
6.11
23
24
6.6
Duke, Fr
M. Turner
T. Rozier
Rockets
7.0
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RJ Hunter C.Wood
6.6
6.10 6.7 6.9
245 220 240
C
Kentucky, So
C
Intnl
SF
PF
UNLV, So Duke, Fr
Arizona, So LSU, So
MAGGIO 2015
VALUTATION
Coordinazione superiore, primo 7’slamdunk champ?
Tecnico, veloce, atletico, coordinato.
Stazza, attacco, già esperienza pro in Cina. Piccolo Jabari Parker, più incostante.
Mani, piedi, tiro; leggerino.
Leadership, tiro, NBA ready.
Tiro, tecnica, visione, bella stazza per il ruolo. Intrigante mix di Artest e Barkley, in potenza.
Buone mani, intimidatore, attaccante da attivare. Più difesa che attacco, mobile più che atletico.
Fondamentali tanti, atletismo poco, grinta a quintali.
Atleta, con tiro; enorme apertura alare (7.2) per il ruolo
Ottime mani e piedi, deficit di atletismo, giovanissimo. Atleta, tira bene, decisionmaking da migliorare.
Nba ready, animale da rimbalzo e schiacciate.
Tiro ok, mobile, forse debole intorno al ferro. Ottimo upside, ma forse è un tweener.
Stazza, leadership, cervello, non un attaccante nato.
Da pg ha stazza, da sg ha tiro; atleta medio.
Stazza per il ruolo, ottima testa, non troppo atleta.
Scommessa
Underdog, ha tiro,ok a rimbalzo, sf pura in NBA.
Acerbo ma enorme e cresce ancora, intrigante. Ottimo al ferro, discontinuo ma grande upside.
Ottima impressione alla Combine
Pg naturale, penetrazione, difesa; piccolino, poco tiro.
Atleta, contropiedista, grande difensore.
Lavoratore, gran tiro, dovrà crescere fisicamente
Solido, futuro in NBA probabile.
Ottimo al ferro, discontinuo ma grande upside. 57 ©RIPRODUZIONE RISERVATA
IL BASKET N E L D N A di Alessandro Coco
MAGGIO 2015
C
i sono famiglie in cui la palla a spicchi entra prepotentemente senza più uscirne e, con un pizzico di fortuna (oltre alle indubbie qualità tecniche), può capitare di ritrovarsi più di un componente a disputare il massimo campionato. È successo in passato di vedere il duello in casa Meneghin, con Dino a sfidare il figlio Andrea quando questi muoveva i primi passi a Varese e papà spendeva a Trieste gli ultimi anni di una carriere favolosa. Sfide in famiglia ancora d’attualità nella nostra serie A, succede con Luca e Michele Vitali, Alessandro e Stefano Gentile e con i fratelli Cinciarini. Daniele, 32 anni tra qualche settimana, ha chiuso anticipatamente la stagione sfiorando con Pistoia i playoff, conquistati invece in carrozza dalla Reggiana di Andrea. 59 ©RIPRODUZIONE RISERVATA
MAGGIO 2015
Come nasce la sua passione per il basket? «La mia passione nasce sin da piccolo, a 4 anni, quando i miei genitori (anche essi cestisti senza dimenticare il nonno materno!) mi misero la palla in mano e subito si creo un certo feeling. Così fu pure per mio fratello. Era nel DNA ma è anche vero che non sempre è sufficiente, occorre qualcosa in più, appunto la passione». Com’è il suo rapporto con suo fratello Andrea? «Abbiamo un bel rapporto, fin da quando eravamo piccoli, siamo cresciuti supportandoci a vicenda, qualche breve screzio dovuto alla competitività che ci contraddistingue al campetto nelle sfide estive ma mai tale da compromettere il nostro bel legame. Colgo l’occasione per fargli le congratulazioni, il grande Andry, diventerà papà!» Quale è stato il coach più importante per la sua carriera? «Quando hai la fortuna di essere allenato da un coach di una tale caratura quale è Charlie Recalcati,
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un vincente, ti rendi conto di quale bella persona hai di fronte e quanto conosca il basket! L’intesa fu immediata, con lui ho raggiunto il top nella mia carriera, nessuno ha la sua capacità di capirti e conoscerti e farti rendere al meglio delle tue possibilità». Quale è il suo il quintetto dell’anno? «Il mio quintetto dell’anno è composto da Andrea Cinciarini, Alessandro Gentile, Mitchell, Polonara e Samuels» Chi vincerà secondo lei il campionato? «Sarà una bella lotta in finale, ma credo che anche questo anno alla fine trionferà Milano, superando Venezia». Dove pensa possa arrivare la nazionale ai prossimi europei? «La nazionale, se sarà al completo con gli italiani d’America e saprà valorizzare il collettivo, potrà fare davvero bene, nonostante abbia di fronte squadre difficili e temibili da affrontare». Segue anche il campionato Nba? Quali sono le squadre e i giocatori che più la entusiasmano? «Non si può non seguire il basket
Nba, a mio modo di vedere, il più bello nel mondo quando si tratta di playoff! Fuori i Clippers ed i San Antonio Spurs, che esprimevano un bel gioco, tutto può succedere, ma penso che alla fine Cleveland sia la favorita al titolo. Quanto ai giocatori James è una “forza della natura “, inoltre mi hanno stupito Harden e soprattutto Curry, che ha raggiunto livelli altissimi». Come proseguirà la sua carriera? Giocherà ancora a Pistoia? «Il momento che va da fine stagione in poi, per almeno un mese, è la parte con meno movimento Soprattutto per i giocatori. In più ci sono i playoff quindi la metà delle squadre sono ancora impegnate. Le società tracciano bilanci, fanno i conti col budget a disposizione, si valutano tutte le componenti poi verrà l’impostazione dei nuovi roster. Non so quale sarà il mio futuro, se ancora a Pistoia o altrove, come detto è prematuro. Adesso è il momento buono per recuperare energie e rilassarsi un po’ per farsi trovare pronti nella prossima avventura».
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M O Z A R T, D I A V O L O O SEMPLICEMENTE...
DRAZEN
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ozart, lo chiamavano. Forse perché ogni sua partita sembrava una sinfonia perfetta composta da un genio, forse perché la retina frusciava ad ogni suo canestro come accarezzata dalle mani di un pianista. Forse semplicemente perché era un assoluto fuoriclasse della palla a spicchi come Wolfgang Amadeus lo era stato per la musica.
di Alessandra Rucco
Ne aveva anche un altro di soprannome Dražen Petrović: “il diavolo di Sebenico”, per la sua provenienza, Sebenico appunto, e per quel lampo diabolico che gli attraversava lo sguardo quando decideva di vincere da solo una partita. Chiedere ai protagonisti dell’epica finale di Coppa delle Coppe dell’89 ad Atene contro la Caserta di Oscar e Gentile, quando da solo ne mise 62 con
addosso la maglia del Real Madrid in una delle partite più intense e combattute dell’ultimo trentennio di storia del basket. Non era nuovo ad exploit balistici del genere, anzi. Nel suo primo anno al Cibona Zagabria, stagione ‘84-’85, ne segnò 112 (centododici!) all’Olimpija Ljubljana. Una furia. Pura stoffa del campione? Genio e sregolatezza? Non proprio. Di certo quando distribuivano talento e
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coordinazione lui era ai primi posti nella fila, ma le sue prestazioni erano impastate di tanti altri ingredienti.
Innanzitutto una passione folle per il Gioco, rigorosamente con la maiuscola, per citare “the voice” Flavio Tranquillo. Dražen pensava al basket, parlava di basket, sognava il basket, giocava a basket. Ventiquattrore su ventiquattro. Un amore maniacale e ossessivo, roba che se l’avesse fatto con una donna sarebbe stato condannato per stalking senza possibilità d’appello.
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E poi l’ambizione alla perfezione, una parola che aveva trovato cittadinanza nella sua vita fin da bambino, quando ogni mattina rubava tempo al sonno per potersi allenare, almeno 500 tentativi da 3, prima di raggiungere i suoi compagni a scuola. Così aveva sviluppato una meccanica di tiro impressionante, il braccio piegato a 90° e la frustata del polso che terminava con le dita della mano chiuse e tese ad accompagnare la palla che quasi sempre finiva in fondo alla retina.
E ancora il piglio, quello del vincente, che lo ren-
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deva un personaggio non propriamente simpatico a giocatori e tifosi avversari per quella sfrontatezza quasi irrisoria che aveva nell’umiliare cestisticamente chi si trovava di fronte. Non ultimo, infine, il contesto unico e irripetibile in cui si trovò a crescere e a giocare. Dal punto di vista squisitamente tecnico, quella scuola jugoslava fucina di campioni leggendari tra cui Divac, Kukoč, Radja, Paspalj che produsse, a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, una classe di atleti irreale e un modo di giocare a basket destinato ad ampliare in maniera determinante i confini e le regole del gioco. L’unica reale alternativa, in termini di qualità e tecnica, al dominio straripante dei “mostri sacri” del Dream Team di quegli anni irripetibili. Dal punto di vista emotivo e personale, un paese che stava cambiando radicalmente e che si apprestava ad affrontare una delle guerre più sanguinose e fratricide che il mondo occidentale abbia vissuto negli ultimi cinquant ’anni. Una guerra capace di modificare per sempre anche la geografia del basket, sbriciolando quella che, senza timore di smentita, può essere considerata una delle nazionali più forti di tutti i tempi e spezzando anche legami di amicizia che in quella nazionale si erano creati, in barba a etnie e provenienze sulla carta inconciliabili. Potere dello sport, che fino ad un certo punto era riuscito perfino a tener fuori quella guerra dal campo di gioco; che aveva permesso che un serbo, Vlade Divac, e un croato, Dražen Petrović appunto, diventassero amici quasi fraterni, condividendo successi in campo e confidenze quando entrambi si ritrovarono ad avere a che fare con quel mondo e quel sogno americano così distante da loro e così ostico da affrontare, almeno all’inizio. Ed è curioso e straziante che fu proprio il festeggiamento di un successo, la vittoria ai mondiali in Argentina del ‘90 contro gli Stati Uniti, a scrivere la parola fine su questa amicizia. Divac strappa una bandiera croata dalle mani di un tifoso du-
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rante l’invasione di campo, i media cavalcano quel gesto, le pressioni della famiglia, degli amici che in patria combattevano quella guerra ogni giorno e la sensazione, per Dražen, di non poter più considerare fratello chi era nemico per statuto. Era e rimane una delle storie più struggenti di quel periodo straordinario e buio allo stesso tempo, raccontata e quasi certamente un po’ romanzata dallo stesso Divac nel documentario “Once brothers” prodotto e trasmesso da ESPN. Già, proprio la rete americana interamente dedicata allo sport. Perché anche l’America aveva dovuto accorgersi dell’esistenza di un mondo oltre l’NBA, oltre i confini nazionali. Vi era stata costretta proprio da lui, Dražen, 195 cm di testarda determinazione e talento cristallino, ball handling da mal di mare e tiro mortifero. Anche quelli che storcevano il naso di fronte ad un europeo, un piccolo per giunta, anche quelli che non volevano farlo giocare avevano dovuto alla fine arrendersi al “diavolo” da tutti ormai considerato la guardia numero 2 al mondo, dietro al marziano col numero 23 sulla schiena.
Ma se emergi troppo, se diventi troppo visibile, mitologia insegna, scateni l’invidia degli dèi. E Dražen visibile lo era diventato veramente tanto. Aveva in tasca offerte dai suoi Nets, dai Knicks e dal Panathinaikos per un clamoroso ritorno in Europa quel maledetto 7 giugno 1993, quando imboccò ostinatamente il lato sbagliato delle sue sliding doors. Prima scegliendo di giocare una partita di qualificazione che avrebbe anche potuto evitarsi, ma che volle fortemente giocare,
per la vera e propria devozione che nutriva nei confronti della sua nazionale. Poi scegliendo di non proseguire in aereo con i compagni dopo lo scalo a Francoforte, ma in auto con Klara, la sua fidanzata dell’epoca. Il resto è, purtroppo, storia nota. La storia drammatica di un fuoriclasse entrato di diritto nell’epica della palla a spicchi, eroe sportivo di una nazione che ha proclamato il 7 giugno lutto nazionale e che ha partecipato al suo funerale con oltre centomila persone.
Non sapremo mai come sarebbe andata a finire la sua storia, dove l’avrebbe condotto il suo talento, quali altri traguardi la sua straordinaria caparbietà e la sua tensione naturale al successo gli avrebbero permesso di raggiungere. Citando Sandro Veronesi, premio Strega 2006 con “Caos Calmo”, “il tempo non è palindromo: partendo dalla fine e risalendolo all’indietro tutto sembra assumere significati diversi, inquietanti, sempre, e non bisogna farsi impressionare da queste cose”. Il gioco perverso del “e se…” non ci darebbe in ogni caso risposte certe. Dražen ha attraversato il cielo di tutti gli amanti del Gioco come una cometa, lasciando una scia che in pochi saranno in grado di ripercorrere perché, come le comete, uno così passa ogni tanti, ma tanti, anni.
L’unica certezza che possiamo abbracciare trova alloggio in una frase che mamma Biserka si sentì bisbigliare da uno dei tanti ragazzi intervenuti al funerale del suo Dražen, brutale nella sua semplice verità: “ Tu l’hai messo al mondo, ma lui ora appartiene a tutti noi”. 67 ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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A
UN POSTO P E R D U E servizio a cura di Francesco “Ciccio” Ponticiello (*)
lzi la mano chi aveva previsto una finale Torino – Agrigento…? Ma no, non lo scorso ottobre, quando i siciliani erano solo una neopromossa. Sarebbe veramente troppo pretendere che qualcuno potesse prevedere allora per Franco Ciani ed i suoi un cammino così lungo e proficuo nei playoff. Mi riferisco piuttosto ai giorni che precedevano il 1° turno dei playoff. Ad aprile non era solo la Moncada a godere di scarso credito, la stessa Torino, malgrado il suo organico stellare, suscitava non poche perplessità. Bello, bellissimo quando poteva correre e mostrare il talento di cui dispone, il team di Luca Bechi pareva invece molto meno a suo agio quando gli altri mettevano a nudo la congenita discontinuità. Poco più di un mese dopo tutto questo scetticismo, sia verso Torino che verso Agrigento, pare spazzato via dall’evidenza di come queste due squadre hanno dimostrato d’essere, per motivi diversi ma coincidenti, le compagini meglio calate nel clima dei playoff. La cosa ha significato per entrambe la capacità di prevalere nei turni in cui erano agevolate dal poter disporre della bella in casa, Torino nella serie contro Ferentino, Agrigento nel turno preliminare con Tre-
Esperto e navigato allenatore prestato a Baskettiamo Magazine, ma si potrebbe dire anche sagace penna prestata alla panchina, presenta la finale per la promozione in serie A.
(*)
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viso. Più importante è stato però prevalere nelle serie in cui erano obbligate a capovolgere il fattore campo. La Manital escludendo dalla finale Brescia, Agrigento addirittura per due volte, in semifinale contro Casale Monferrato e soprattutto nei quarti, quando è stata capace di eliminare la dominatrice della regular season, la grande favorita per il salto in A1, ovvero la Tezenis Verona.
Face to Face – Da un punto di vista generale, come strategia di allestimento dell’organico e connotazione generale, le due squadre paiono davvero molto, molto diverse tra di loro. Torino in estate ha cambiato tanto. Un nuovo allenatore, Luca Bechi, che eredita la panchina che era stata per un biennio di Stefano Pillastrini, e con lui due giocatori con eguali trascorsi livornesi, l’asse play-pivot, ovvero Iacopo Giacchetti e Tommaso Fantoni. Ed ancora Guido Rosselli, Davide Bruttini, più i due americani, Ronald Lewis e Ian Miller, quest’ultimo arrivato in inverno da Jesi – con Stefano Mancinelli e Lorenzo Gergati a fare da collante tra il recente passato ed il presente. Il tutto per una connotazione complessiva da autentico dream team di categoria. D’opposto Agrigento ha lo stesso allenatore dal 2011, Franco Ciani, che aveva preso le redini della squadra addirittura in DNB, ed ha vinto ben due campionati in tre anni. Ad Agrigento da quattro anni è pure Albano Chiarastella, invece dal 2012 è in organico il filiforme Quirino De Laurentiis, dal 2013 il play tascabile Alessandro Piazza. Insomma Agrigento è un organico rodato, che ha inserito, anno dopo anno, pezzi sempre perfettamente compatibili con il sistema del suo tecnico. Ultimi in ordine di tempo, la scorsa estate Marco Evangelisti, Andrea Saccaggi, Mattia Udom, ed i due americani Williams e Dudzinski.
Into the Court – In tanti potrebbero essere indotti a banalizzare il confronto come uno scontro tra il talento dei piemontesi e l’organizzazione dei siciliani. Ovvio constatare che la Manital abbia davvero tanto, tanto talento, e così pure che la Moncada mostri solidi equilibri tecnico/tattici, oggettivamenterodati dalla stessa modalità progressiva con cui la compagine è stata allestita e si è evoluta nel corso delle ultime stagioni. In realtà Torino ha però dimostrato durante il corso dei playoff di aver aggiunto una concretezza, una capacità di confrontarsi in maniera risolutiva rispetto ai limiti mostrati in regolar season. Evidente come il lavoro di Bechi si stia vedendo in forma compita e diretta. E così
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pure che Agrigento, aldilà del suo saper esprimersi come squadra, mostrare un basket indubbiamente “di sistema”, possieda giocatori capaci di interpretare ogni match, anche individualmente, a livelli altissimi. Anche perché le qualità tecniche e di personalità di elementi come Piazza, Evangelisti, i due americani, tanto per fare solo degli esempi, non possono essere certo sottovalutate. E così anche le doti di giocatori come Chiarastella o Saccaggi, a torto o a ragione considerati “solo” di categoria. Più giusto guardare allora in modo più analitico le attitudini delle due compagini, e guardare la sfida a partire da parametri diversi, molto più relativi allo specifico del confronto. Ed allora vengono fuori altri aspetti, fuori da stereotipi giornalistici ed inerenti invece alle attitudini delle due squadre.
Un primo aspetto potrebbe riguardare la scelta dei ritmi, ovvero l’evidenza di come Torino possa avere vantaggi evidenti dal giocare a mille all’ora. Ma le attitudini in tal senso di Giacchetti e soci cozzano con la conclamata capacità in tal senso di Alessandro Piazza, playmaker che ama imprimersi in campo con continue accelerazioni, potrebbe far concludere la valutazione con un criterio “complesso”, ciò che possa essere decisivo per entrambe “il controllo dei ritmi” dell’avversario. In altri termini, che conterà forse più di tutto impedire all’avversario di correre.
Un secondo elemento di valutazione può essere quello della fisicità, per tanti versi a favore di Torino. Ci pare estremamente significativo, per tanti versi esplicativo dell’intera serie, il confronto nel ruolo di ala forte – Stefano Mancinelli vs Albano Chiarastella. È evidente come il nazionale ex Fortitudo Bologna possa avere un grado di fisicità, sia in post-up che più genericamente in avvicinamento al ferro, anche in 1vs1 frontale, oggettivamente di altra categoria. Ma che ciò si esprima proprio nel ruolo di ala forte, in cui l’atipicità offensiva e difensiva del poliedrico giocatore biancoazzurro potrebbe creare non poche difficoltà al Mancio, rende la sfida molto meno prevedibile di quanto si possa pensare. Perché fattori apparentemente poco incidenti in una serie playoff, a maggior ragione se di finale, come mestiere, energia, attitudine al sacrificio tattico, potrebbero avere un enorme peso.
From the bench… ancora una volta poco preventivabile, sfuggente ad analisi dall’orizzonte troppo ristretto è lo scontro tra le due panchine. L’impiego di Ian Miller come sesto uomo, con relativo investimento, in starting 5, da parte di Bechi sulla grande duttilità tattica e concretezza di Guido Rosselli, fa in modo che i piemontesi possano disporre di una formidabile arma tattica offensiva come microwave. L’attitudine di Miller a produrre punti, la sua capacità di prendere, mantenere e concretizzare vantaggi offensivi, anche in pochi attimi di gioco, consente di girare a proprio favori momenti di partita, altrimenti “difficili”. Ma personalmente non siamo così sicuri che la perfetta mentalizzazione dei vari Saccaggi, Odom e De Laurentiis di svolgere i compiti che Ciani gli assegna, e che loro stanno portando a compimento dallo scorso ottobre, possa risultare meno decisivo. Forse è più giusto dire l’ex jesino abbia davvero poca necessità di essere guidato in tal senso, mentre invece la panchina siciliana non può di certo derogare dall’assoluta precisione nello svolgimento del compito, Miller può semplicemente giocare “a fare il Miller”.
Ed allora… forse la serie si deciderà nei momenti in cui, poco conta se in attacco o in difesa, le due squadre saranno chiamate a confrontarsi con i loro limiti. Chi riuscirà a gestire meglio i passaggi a vuoto, le fasi in cui il piano partita avversario costringerà a fare il cosiddetto passaggio in più, non semplicemente come extra-pass (anche, peraltro…), piuttosto come necessità di mostrare qualità cognitive, tecniche e caratteriali, molto probabilmente porterà a casa la promozione.
Detto questo, sviscerati i dubbi, i momenti a nostro parere cruciali, non ci si esime dalla espressione di un pronostico – che a ragion veduta non può che essere per Torino. Non solo o non principalmente per il fattore campo a favore in una ipotetica gara 5. Il punto chiave è che, per ognuno dei punti decisivi che sono stati rilevati, e posti in grassetto nella nostra analisi, Torino pare avere la chiave risolutiva, “the key of the match”, per far pendere a proprio favore la bilancia della serie. Il tutto senza dimenticare che, come è legge assoluta dello sport, di questo in particolare, i pronostici sono fatti per essere smentiti (o confermati).
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Presentato a fine maggio presso la Libreria Arion Monti di Roma, il libro di Andrea Barocci “Un Italiano di nome Kobe” non è una biografia del campione dei Los Angeles Lakers ma qualcosa di totalmente diverso. Ne racconta la formazione come uomo e come giocatore negli anni trascorsi in Italia al seguito di suo padre Joe, che ha giocato molti anni nel campionato italiano di serie A fra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Il lungo reportage è anche un modo per ripercorrere quella che è stata la pallacanestro italiana di fine novecento, una “fabbrica” che produrrà, tra gli altri, maestri come Ettore Messina, non a caso autore della prefazione del libro. Un racconto inedito, documentato, ricco di episodi raccontati anche dai compagni di squadra, i coach, gli amici di allora. Si legge di un Kobe bambino con il pallone sempre in mano, che a sette anni si calava dal balcone della villetta dove viveva per correre verso il campetto all’aperto dei padri Stimmatini di Rieti. Quello che non la passava mai, che costruiva canestri improvvisati in un parcheggio di Pistoia e andava a scuola dalle suore a Reggio Emilia. Come un qualsiasi bambino italiano insomma, anche se era nato a Philadelphia. Nel nostro Paese, per sua stessa ammissione, ha imparato i fondamentali del basket e pochi anni dopo sarebbe diventato un mito dello sport mondiale, con cinque titoli NBA e due ori olimpici in tasca, traguardi raggiunti anche grazie al fatto di aver assimilato la cultura italiana fino ai 13 anni. Curioso il suo approccio con quello che sarebbe diventato l’amore della sua vita: «Mi faccia “giohare”, io “fo” canestro», implorava al suo allenatore con marcato accento toscano. Era vero. Non ha più smesso. L’AUTORE Andrea Barocci, giornalista professionista dal 1989, è il responsabile del basket per il Corriere dello Sport – Stadio. Nella sua decennale carriera ha raccontato anche di boxe, atletica e pallanuoto oltre ad aver puntualmente riferito dei principali avvenimenti cestistici. Premio Reverberi nel 2011 quale miglior giornalista italiano di pallacanestro dell’anno, l’autore è anche un grande appassionato di musica jazz, genere nel quale predilige “campioni” del calibro di Ella Fitzgerald, Miles Davis e Pat Metheny.
LA QUIETE DOP
O L A T E M P E S TA
U
di Gianpaolo Capozzi
na stagione da 10 per la Vuelle secondo il grazie all’opportunità offerta per pochi spiccioli dall’altra
parere di coach Paolini nel dopopartita
del match salvezza decisivo contro Ca-
parte dell’oceano.
Fino a dicembre la stagione della Consultinvest è stata di-
serta, un altro anno di fatica e sacrificio per Pesaro, dopo
screta, 3 vittorie nelle prime 10 giornate dopo lo 0-4 ini-
Anche per la stagione 2014/2015 la fabbrica dei miracoli
ritocco all’organico. La striscia negativa di Caserta (0-14)
dalle sole riconferme di capitan Musso e coach Del-
lontana la zona retrocessione. L’infortunio muscolare di
la salvezza all’ultimo respiro della stagione precedente.
di Costa e Cioppi ha ricominciato quasi da zero, si ripartiva
ziale, segnali di crescita incoraggianti, magari con qualche
inoltre dava tranquillità all’ambiente pesarese, tenendo
l’Agnello che però non è riuscito a far suo il nuovo gruppo
Myles a metà dicembre, che lo ha tenuto fuori due mesi,
per la mancanza di certezze tecniche e di una guida in
fino ad allora oltre ogni aspettativa per rendimento e da
di giovani americani, consumandosi giorno dopo giorno
campo. Si partiva dal ritorno sulle maglie pesaresi di uno
ha privato la Vuelle di uno dei principali terminali offensivi,
quel momento qualcosa non ha più funzionato. Dopo l’il-
sponsor, il primo del dopo Scavolini, che faceva sperare
lusione della vittoria a Cremona è arrivata la prima striscia
vece la Vuelle si è trovata ancora una volta con il budget
serta, che dopo mille traversie era diventata la diretta con-
nella possibilità di qualche piccolo investimento in più, in-
negativa di 6 sconfitte consecutive, tra cui quella di Ca-
più basso della serie A e l’unico obiettivo di restare nella
corrente nella lotta salvezza, e l’esplosione di Dell’Agnello
americani senza esperienza, aggrappati al professionismo
sioni. Un brutto finale di girone d’andata per la Vuelle in-
massima serie. Difficile far capire tutto ciò a un gruppo di
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con la bestemmia in diretta radio e le conseguenti dimis-
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capace di reagire alle prime vittorie della Pasta Reggia.
fensivi, con Wright molto più accentratore del suo prede-
Frank Gaines, preso a gettone proprio da Caserta per so-
cessore, il gioco si è spostato sull’asse play-pivot ed è cre-
a un punto di non ritorno.
coinvolto. A risentirne maggiormente sono stati Myles, in-
stituire Myles è un flop annunciato, la squadra era arrivata
La serie di sconfitte senza lottare ha spinto la società a
prendere le poche decisioni possibili con le poche risorse
sciuto il rendimento di Judge, fino a quel momento poco
voluto e insicuro dopo il rientro dall’infortunio, e Ross, la
variabile impazzita della Consultinvest, solista e “mangia
disponibili per salvare la stagione, Wright, subito al centro
palloni” ma anche unico talento offensivo capace di se-
ha colpito ma che non gli ha impedito di continuare a gio-
marcatori e in quella delle palle perse.
dell’interesse della stampa per la sclerosi multipla che lo
care da pro-
gnare in tanti modi diversi, terzo assoluto nella classifica
fessionista, al
Capo
d’Orlando la
posto di Williams
Dopo
Consultinvest
nel
ha avuto un
e Lorant al
spiegabile
ruolo di play
nuovo e in-
posto di Red-
crollo con 7
Bologna,
secutive, fino
dic, girato a dare
sconfitte con-
a
espe-
alla sfida de-
canestro. Al
Caserta, ca-
rienza sotto posto
cisiva contro
di
pace di met-
Dell’Agnello,
tere paura ai
ormai dele-
pesaresi gra-
gittimato nel suo
Costa
zie
ruolo,
cardo Paolini, pesarese doc, uomo di palestra e di espe-
rienza nelle serie minori, al debutto in serie A. Questi tre
una
serie di vitto-
ha
chiamato Ric-
a
rie che erano valse il sor-
passo in classifica. Grazie ad un calendario beffardo che
aveva “previsto” la partita decisiva per la permanenza in
tasselli hanno restituito il sorriso e qualche vittoria alla
seria A proprio all’ultima giornata, la Vuelle è arrivata
passo falso con Avellino, una doccia fredda, le vittorie con
mentale e compattezza dell’ambiente per l’ultimo
Vuelle, capace di espugnare il campo di Varese. Dopo il
allo scontro diretto con Caserta ritrovando forza
Reggio Emilia, Roma e a Capo d’Orlando nelle successive
sforzo. Ora davanti ora c’è un’estate che sarà utile
fosse a portata di mano.
nomico e tecnico, chiedere il terzo miracolo sarebbe
4 partite hanno fatto pensare troppo presto che la salvezza
I nuovi arrivi hanno spostato gli equilibri soprattutto of-
per non ripartire di nuovo da zero, sul fronte ecoprobabilmente troppo.
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E P O R T A G E Alla scoperta dei... talenti Viaggio nei settori giovanili italiani
di Enrico D’Alesio
BIANCOROSSI E LINEA VERDE 78 ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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4ª tappa: PALLACANESTRO REGGIANA
P
alestra di via Cassala, Reggio Emilia, il
cui parquet Alessandro Frosini ha ci-
tato come una delle possibili cause dei
tanti infortuni che hanno colpito la GrissinBon. E’ qui
che incontriamo Andrea Menozzi, responsabile del
settore giovanile di Reggio Emilia. La prima domanda
allora non può che riguardare proprio l’impianto in-
criminato: dalla sua risposta arriva la conferma che ci sono stati problemi di infiltrazioni che sono in via
di risoluzione e che la Società sta studiando il pro-
blema, dal momento che, comunque, la palestra è il
punto centrale dell’attività sia giovanile che di prima squadra. Durante l’intervista almeno un paio di ri-
sposte sono state particolarmente interessanti: la prima riguarda la “separazione delle carriere” tra al-
lenatore di prima squadra e allenatore del settore giovanile. Il primo deve preparare le partite tenendo
conto, anche, dei difetti della squadra avversaria: in
un campionato maggiore si trovano molteplici livelli
di competitività che in un campionato giovanile si in-
contrano meno frequentemente; ai livelli più alti, e
tenuto conto che lo scopo dei campionati giovanili è quello di costruire e migliorare i giocatori, i con-
fronti hanno bisogno di meno preparazione tattica
perché è più difficile trovare difetti di competitività negli avversari.
Per motivi di opposta origine, dunque, e fatte le pro-
porzioni, allenare una formazione giovanile al suo
massimo livello è più simile ad allenare una squadra
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di Eurolega, competizione in cui si affronta un par-
nile. Menozzi si è detto contrario alle misure pro-
sta ha in parte separato il concetto di “fare settore
derivanti dall’impiego dei giocatori provenienti
terre di avversari livellato verso l’alto. L’altra rispo-
tezionistiche, anche se favorevole agli incentivi
giovanile” da quello di “usare gli Italiani”, aspetti
dal settore giovanile. E’ inoltre dell’opinione che
munare. Reggio Emilia, come altre società, ha un
fisso il concetto del dilettantismo, non si possa
mentre altre realtà, come ad esempio Cremona,
giovani giocatori italiani, europei ed extracomu-
che il mantra mediatico tende di solito ad acco-
settore giovanile particolarmente florido e attivo
non hanno un vero e proprio vivaio, eppure la Vanoli è una delle formazioni più italiane della no-
stra serie A perché si è data un determinato
obiettivo sia di budget che di mission societaria.
in un mondo come quello attuale, rimanendo
fare differenza, con vincoli di tesseramento, tra
nitari. Secondo Menozzi, oggi che i giovani pos-
sono viaggiare e spostarsi con estrema facilità,
nonostante le difficoltà congiunturali, è antisto-
rico dover esser obbligati a rinunciare a tesserare
E’ stato facile da questo argomento scivolare sul-
un diciassettenne camerunense ma residente in
come questa influenzi e condizioni l’attività giova-
stione è ancora più chiara se trasformata in do-
l’organizzazione generale del basket italiano e di
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Germania che viene a studiare in Italia. La que-
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manda: perché quel ragazzo do-
non sarebbe adatto alla gestione
struttura, tradizionalmente fornisce
Molte volte Menozzi ripete “nel
gresso nella formazione maggiore è
vrebbe scegliere tra venire a studiare
sportiva, ma è comunque un fatto.
il suo percorso di miglioramento ce-
mondo di oggi”, per evidenziare
in Italia o interrompere per un anno
stistico?
Un discorso molto sentito da parte di coach Menozzi è anche quello con-
cernente il trattamento dei giovani
anche le difficoltà economiche nel
mantenere un settore giovanile di
alto livello (sempre esistite in effetti
ma rese più acute dalla attuale con-
giocatori alla prima squadra e l’inun indubbio stimolo, un richiamo
utile al reclutamento. Il responsabile
delle giovanili biancorosse si dice in-
fine favorevole allo sbarco televisivo
di alcune partite giovanili di cartello,
giocatori: tra le voci di spesa che ren-
giuntura economica), sottolineando
sono quelle relative all’accoglienza e
rispetto a realtà come quella bolo-
strutturata,
giana si è dotata di una foresteria,
renti sul territorio, il bacino di utenza
in modo che i Mussini della situa-
e nei comportamenti quotidiani, ali-
non è tanto popolato, soprattutto nei
surdo, qualcuno volesse agire da
attualmente giocano ragazzi da Ve-
dono un settore giovanile costoso ci alla sistemazione dei ragazzi. La Reg-
preziosa per seguire i ragazzi a scuola
mentazione compresa: se, per as-
moderno Scrooge dickensiano, am-
massando talenti su materassi in un
capannone, potrebbe farlo, perché non esistono standard di controllo.
Ovviamente è un discorso assurdo,
perché un simile comportamento
contestualmente come se è vero che,
gnese, esistono meno società concor-
della Reggiana, pur essendo vasto, comuni montani della provincia. Qui rona e Mantova, ma a volte basta po-
chissimo per perdere un giocatore, soprattutto nelle età più giovani: può
purché si tratti di un’innovazione con
commentatori
esperti di basket “under” e facendo
zione siano presenti a referto. Per
chiudere, qualche numero del vivaio
reggiano: le formazioni giovanili
hanno roster standard, quindi anno-
verano un numero oscillante tra i 60 e i 70 ragazzi, mentre la Scuola Basket
essere anche una sciocchezza, come
per i piccoli, contando anche le so-
vaio reggiano ha una solida e storica
sti in erba.
una corsa di corriera soppressa. Il vi-
cietà collegate, alleva circa 150 cesti-
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MAGGIO 2015
di Andrea Ninetti
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TIME OUT
tufi di assistere a sterili finali di stagione in cui, a salvezza raggiunta, molte squadre smettono di giocare, rovinando (falsando?) di fatto il torneo, in molti nel Belpaese si domandano se non sia più corretto rivoluzionare le regole, istituendo una Lega sul modello americano: via quindi il concetto del merito sportivo, un diritto già calpestato dall’Eurolega con l’arrogante regola della concessione delle licenze, e largo ad un campionato in cui le partecipanti dispongano di una rosa di requisiti più ampia, che dia la possibilità di prendere parte ad un campionato chiuso, senza più promozioni e retrocessioni. Un concetto semplice e rivoluzionario, orientato verso criteri aziendalistici basati su profitti e perdite, senza lasciarsi influenzare dal risultato del campo, un giudice a cui verrebbe ridotto il potere della sentenza. Un altro dato dal peso non irrilevante sarebbe senza dubbio quello relativo al bacino d’utenza delle città coinvolte e, ipotizzando una Lega di 32 squadre (divise in Conference), la pallacanestro italiana si vedrebbe restituire piazze importanti, da troppi anni lontane dalle luci della ribalta. Certo, sarebbe dura rinunciare alla “storica” lotta per la salvezza, specie se, come negli ultimi anni, è diventata una battaglia quasi più avvincente di quella che riguarda le prime posizioni; il sacrificio sarebbe però compensato dalla nascita di una Lega forte, magari più grande numericamente ma a patto di avere regole certe fin dal principio, con criteri economici di ammissione decisamente più rigidi degli attuali, e qualcuno potrebbe ironizzare dicendo che non ci vorrebbe poi molto ad esser più severi. Lega e Federazione dovrebbero far fronte comune cercando di approfondire quella che, allo stato attuale, è solo un’ipotesi affascinante, magari rendendola appetibile attraverso degli incentivi economici più corposi che vadano a premiare, come già accade, l’utilizzo degli italiani o ipotizzarne degli altri, tanto per impedire il citato “rilassamento” di fine
anno. Non ultimo, in ottica sviluppo, è il tema legato alla diffusione sui media del prodotto basket: con il calcio padrone incontrastato delle attenzioni degli sportivi, le società dovrebbero curare maggiormente la comunicazione, ad esempio senza snobbare ottusamente il web, che rappresenta in questo senso il presente e il futuro. Si potrebbe poi cercare una soluzione che non sia necessariamente dicotomica fra la televisione in chiaro e quella a pagamento, abbinando quantità e qualità, magari offrendo un anticipo al sabato e un posticipo la domenica sera sulla tv di Stato e un’offerta completa delle restanti partite sui canali satellitari, mutuando quel che avviene da oltre vent’anni per il calcio. Come da buona tradizione italiana però, su questo nevralgico interrogativo ci si divide. Da un lato si cavalca l’onda della novità sostenendo che l’abolizione dell’interscambio fra le categorie sarebbe la soluzione ideale per avere finalmente la possibilità di reclutare e far crescere (giocare) nuovi talenti senza l’ansia del risultato ad ogni costo; dall’altro si manifesta l’atavica idiosincrasia al cambiamento nascondendosi dietro l’aspetto culturale di un Paese abituato da decenni alla competizione e al “dramma” sportivo proprio della retrocessione. A riprova della volontà di rinsaldare lo stato delle cose senza voler studiare formule innovative, Pietro Basciano, Presidente della Lega Nazionale Pallacanestro, in una nota ufficiale ha auspicato un ripristino delle due promozioni in serie A, la prima diretta e una seconda da assegnare attraverso i playoff, tanto per tutelare la qualità espressa nell’arco di un’intera stagione da quelle società che per organizzazione, numero di sponsor e seguito di pubblico, poco hanno da invidiare alle squadre di categoria superiore. La proposta, ufficialmente avanzata al Presidente Petrucci, si pone l’obiettivo di tutelare le esigenze e gli sforzi tecnici ed economici dei propri club facendo salvo, al contempo, il meccanismo di scambio fra le leghe senza la creazione di una “casta”.
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