IL LUPO ED ALTRI RACCONTI
Image by Hermio
BYRON Corremmo all'impazzata sul calèche, sulle strade deserte di Genova, in quella calda mattina dell'11 luglio 1823. Senza cappello e spettinato come un barbone, giunsi trafelato al porto, rischiando di perdere più volte una ruota durante il tragitto. Mia sorella Vittoria, eccitata come una bambina, nel suo nuovo abito verde smeraldo, scese velocemente a terra e si diresse verso l'"Hercules", una grossa nave inglese ormeggiata da qualche giorno. Alcuni marinai erano intenti alle ultime operazioni di carico. A un lato, tre signori stavano parlottando animatamente. Uno di costoro si volto' di scatto sentendo venire mia sorella, le disse qualcosa e si presento' in modo ossequioso. Era abbigliato in maniera disordinata ma in un certo senso elegante. Il suo aspetto rivelava un che di sofferto, gli occhi brillavano vivacemente nel bel volto abbronzato. Mia sorella fece un profondo inchino, ridicolmente demodé e farfuglio' qualcosa molto imbarazzata. Fecero alcuni passi insieme, l'uomo zoppicava in modo vistoso. Non c'erano dubbi: era Lord George Gordon Byron. Si apprestava a salpare per raggiungere la Grecia ottomana. Vittoria gli consegno' un sacchetto, contenente monete d'oro e gioielli di famiglia, destinati alla causa della libertà dell'Ellade. Byron ringrazio' con un galante baciamano. Quando osai avvicinarmi, l'"Hercules", libero dagli ormeggi, stava placidamente allontanadosi dal molo. Osservai mia sorella, rossa in viso, gli occhi fissi verso di lui. Col fazzoletto saluto' il poeta guerriero e mi accorsi che stava piangendo. "Viva l'Italia e la Grecia libere!" grido' verso la nave. Byron rispose con un saluto festoso, gridando qualcosa. Poi afferro' il suo cappello e lo lancio' tra i flutti. Restammo sulla banchina fino a che la nave divenne un punto lontano. Un forte vento si stava levando, un gabbiano volo' sopra le nostre teste, seguii distrattamente le sue evoluzioni. Intanto Vittoria era già salita sul calèche. La guardai, mi sorrise. Ora mi sentivo orgoglioso di lei.
IL RATTO DI KORE Lei coglieva narcisi nel grande prato, ne coglieva a grandi mazzi, mentre Helios osservava placidamente dall'alto dei cieli. Lei era Kore, figlia della grande Demetra, dea delle messi e della fertilità, e figlia di Zeus, padre degli dei, sovrano del cosmo. Lei era bella, molto bella, tanto bella da essere desiderata anche da chi non era in grado di amare. Zeus annui' pensieroso quando Hade espose le sue ragioni. Zeus non poté opporsi alla richiesta pressante del dio degli inferi. Kore era sua, poteva rapirla, prelevarla in qualsiasi momento, aveva la sua solenne approvazione. Il carro di Hade emerse dal nulla, gli zoccoli dei suoi neri destrieri calpestarono i bei narcisi in fiore. Hade si avvento' con furia sulla sua bella preda, le sue compagne di giochi si fecero da parte, impaurite. Helios radioso si ottenebro' dietro una coltre di nubi. Tutto si oscuro' intorno a Kore, vide solo i due occhi di brace del dio degli inferi. Senti' il suo braccio forte stringerla alla vita e sollevarla da terra, senti' il suo respiro affannoso sul collo, senti' la sua voce forte incitare i cavalli nella folle corsa. Svanirono nel nulla, davanti agli occhi increduli delle ninfe, allo sguardo attonito della natura tutta. Riemersero in un mondo ostile, oscuro, tra acque ribollenti e grida strazianti, un mondo incomprensibile alla povera Kore abituata alla beltà, alla pienezza della vita, ai colori e ai profumi delle terre superiori. Entro' nel palazzo di Hade, le piacque nonostante tutto. Le ancelle l'accompagnarono nelle sue stanze, la liberarono dei suoi abiti, la rivestirono da regina in un lungo abito rosso fuoco, la condussero al suo trono, al fianco del suo sovrano. Hade le poso' la corona sulla sua bella testa, le dono' lo scettro del comando, la bacio' sulle labbra. Ora si chiamava Persefone, regina degli inferi, sposa del nobile Plutone, re dell'Ade. Forse si senti' felice ma calde lacrime rigarono il suo volto. Poi lui la condusse al suo talamo, le sue braccia forti la strinsero a sé, le sue mani l'accarezzarono, le loro bocche si fusero. Il loro amplesso fu profondo, intenso, appassionato. Restarono uniti a lungo, in un tenero idillio amoroso. Ma nelle terre superiori la natura sfioriva, il dolore di Demetra per la perdita dell'amata figlia, inaridiva le terre degli uomini, rendeva precaria la vita. Zeus preoccupato volle che Kore tornasse da sua madre, volle che la vita tornasse a scorrere serena. Persefone pianse di gioia, consolo' Plutone, lo condusse nei giardini per l'ultima passeggiata, per l'ultimo momento d'intimità. Lui le offri' una melegrana, lei la mangio' avidamente, gli occhi di Plutone brillarono sinistri. Il carro del ritorno era infine giunto, Hermes lo conduceva. Volarono sul mondo che rifiori' rapidamente, volarono fino a un piccolo tempio. Demetra corse verso sua figlia, l'abbraccio', le rivolse parole gentili, si sedettero e parlarono a lungo. Kore sentiva ancora il sapore dei chicchi della melagrana, sapeva bene che il legame non era completamente sciolto. Sarebbe tornata negli inferi per un periodo di quattro mesi l'anno, questi erano i patti. La legge di Zeus non si discute, il ciclo vitale deve avere il suo normale corso.
DITIRAMBO Ricordi. Ricordi di un tempo lontano, remoto. Quando il mondo era ancora giovane e gli dei agivano secondo i loro piani più bizzarri, le loro capricciose voglie. Ricordi di montagne e di grotte, di oscure foreste e di fragorose cascate, di torrenti pescosi e di animali da cacciare. Ricordi che s'intrecciano in un susseguirsi di eventi cantati poi dagli aedi alle generazioni successive. Ricordi di tre splendide ninfe, del loro affettuoso prodigarsi alle cure del piccolo capro, odiato da Hera ma amato da Zeus, il suo grande padre. Zeus affido' ad Hermes il piccolo orfano, nato dai suoi amori illeciti con la bella Semele, morta carbonizzata dopo averlo procreato. Hermes lo condusse sul monte Nisa dove Macri, Nisa ed Erato lo allevarono come un figlio, sotto lo sguardo attento di sua nonna Rea. Dioniso crebbe atletico e vigoroso, bello come sua madre Semele, forte come il suo potente padre, astuto come Hermes, nobile come il divino Apollo, ma anche insolente e beffardo come Pan, il suo compagno di giochi.
Macri e Nisa divennero ben presto le sue prime amanti mentre Erato, offesa per essere stata rifiutata, torno' sul monte Elicona dalle sue sorelle, le Muse. Poi comincio' il lungo peregrinare di Dioniso in ogni angolo del mondo, con il suo ebbro seguito, con le sue ninfe invasate. Porto' ovunque la coltura della vite, la sfrenata vitalità e la disinibizione, ma anche il caos, la morte e la distruzione, finché non venne richiamato sull'Olimpo dall'irato Zeus. Una spiaggia assolata e deserta sull'isola di Nasso in un tempo lontano e remoto. Due figure, due corpi teneramente abbracciati, passeggiano sul bagnasciuga. Un uomo e una donna molto giovani, dalle forme perfette, dalla pelle abbronzate e profumata. Il gran vociare dei gabbiani e il rumore della risacca riempiono il silenzio del loro idillio.L'uomo si ferma, abbraccia la donna, si accasciano sulla sabbia molle, si baciano e si accarezzano, si prendono con foga. Ma ben presto un suono lontano, un rumore di tamburi e di percussioni, voci, grida, canti a squarciagola, fanno trasalire i due amanti. Il loro sguardo si sposta verso la boscaglia da dove stanno emergendo strane figure di uomini mai visti. Anzi nono sono uomini, non possono essere creature normali. Appaiono mostrusi, con gambe pelose e zoccoli al posto dei piedi e con un paio di cornetti che emergono dalle teste irsute e bestiali. Alcuni zufolano con le siringhe, altri battono allegramente dei tamburelli, altri suonano cetre. Poi giungono altri personaggi: donne scarmigliate e vocianti, uomini corazzati ed altri ancora. Poi un enorme animale, un grande massa scura e rugosa, con grandi zanne che fuoriescono dalla bocca, grandi orecchie e un lunghissimo naso che ciondola mollemente. In groppa al mostro un uomo, vestito magnificamente, con un scettro in mano e un turbante giallo in capo, bello come un re, come un dio. Il giovane innamorato si scaglia verso il corteo, brandendo minaccioso un nodoso bastone. I satiri ridono di lui, uno si avvicina troppo e viene colpito al capo, violentemente. Alcuni guerrieri avanzano verso di lui ma il principe li richiama all'ordine, con voce ferma e decisa. Scende con un gran balzo dalla sua cavalcatura e, facendosi largo tra la folla inferocita, si pone davanti al giovane temerario. La ragazza le si stringe addosso, fissando impaurita e curiosa quell'uomo bellissimo, dagli abbaglianti occhi azzurri. "Io so chi sei e tu sai chi sono io. Quindi questa disputa è inutile e inopportuna. Teseo, tu sei destinato a grandi imprese e non a finire i tuoi giorni su quest'isola." Dioniso, il dio dal turbante giallo e dagli occhi brillanti, osserva a lungo il volto dai perfetti lineamenti della ragazza. Teseo, dolcemente la allontana da sé e la offre al dio. "Prendila, è tua. Ora devo andarmene, devo tornare nella mia Atene. Addio Arianna, addio figlio di Zeus, addio a voi tutti..." Teseo se ne va, senza voltarsi, senza ripensamenti. "Perché sei qui Arianna? Quale destino ti ha spinto su questo scoglio? Perché hai abbandonato la tua bella Creta, la tua bella dimora, il tuo saggio padre Minosse?" "Perché ho amato un uomo bellissimo e coraggioso, un uomo saggio che mi ha premiato donandomi a te..." Arianna chiude gli occhi e si abbandona tra le braccia di Dioniso. Quando li riapre, si ritrova stretta a lui, in groppa all'animale rugoso dalle grandi orecchie. Dioniso solleva lo scettro, il corteo si muove.
L'ULTIMO SPETTACOLO L'ascensore esterno scorre veloce, verso l'alto, verso la cima del grattacielo. Dai vetri bagnati dalla pioggia, la donna osserva il panorama sottostante, le luci intermittenti della sterminata metropoli insonne, le alte torri che sovrastano antiche e intricate architetture e i bagliori di lampi lontani che rischiarano il cielo buio. Poi si volge verso il suo giovane compagno, le accarezza i morbidi capelli chiari, lo stringe a sé e lo bacia con trasporto. Lui sembra dolce e sensibile, eccitato e ansioso per la notte che si prospetta lunga e laboriosa. Pensa che tutto si sia svolto in troppo poco tempo, una rapida occhiata, un cenno d'intesa, poche e
frammentarie parole. Quegli ampi occhi blu, tra le ciglia allungate, continuano a guardarlo con fredda ostinazione. Marzia proveniva dai sobborghi di Napoli, figlia della miseria e della necessità. Era cresciuta in un clima ostile e brutale. Sua madre, Maria Elena, alla quale era molto legata, scomparve misteriosamente quando lei era ancora una bambina. Divenne l'unica donna di casa, serva del dispotico padre e dei tre famelici fratelli. Costretta a tutti i lavori più umili e degradanti, a molte privazioni, a violenze fisiche e verbali, anche alle attenzioni morbose dei suoi familiari. Crebbe come una pianta selvatica tra le dure pietre e tuttavia, divenne molto bella, alta e robusta come la sua perduta mamma, con una foresta di capelli irsuti e nerissimi, la pelle di colore ambrato e i gelidi e malinconici occhi azzurri. Marzia comincio' a cantare, per non udire i rumori molesti che l'attorniavano. La sua voce, cristallina e modulata, venne notata per caso e segnalata a chi di dovere. Un facoltoso nobile mecenate la prelevo' dalla sua prigione, senza non poche difficoltà, e le permise di studiare canto e di divenire una stella della canzone napoletana. Molto richiesta nei vari Café Chantant della città partenopea, la sua precoce carriera fu subito costellata di successi e soddisfazioni. Il ricco matrimonio con il giovane figlio del ricco mecenate fu il culmine della sua esistenza, la consacrazione del suo successo e la certezza di un futuro brillante ed agiato. Ad appena venticinque anni, Marzia aveva ottenuto tutto quello che desiderava, e per accontentare il gelosissimo e possessivo marito, decise infine di abbandonare le scene, con grande disperazione dei suoi numerosi ammiratori. Il concerto di addio si tenne in un gremitissimo Teatro San Carlo la notte di Natale dell'anno 191... Gli applausi durarono a lungo e furono eseguiti parecchi bis, con l'entusiasmo degli spettatori alle stelle. Pero' verso la fine dello spettacolo, Marzia non poté non notare, tra la folla plaudente, una strana coppia, molto distinta e signorile, attenta allo spettacolo ma assolutamente immobile e poco contagiata dall'entusiasmo circostante. I festeggiamenti proseguirono al vicino Caffè Gambrinus, tra ammiratori estasiati e commossi. Marzia dovette eseguire ancora alcuni brani della tradizione napoletana e soavi arie di opere liriche. Tutto il suo entusiasmo, pero', si placo', appena fecero la loro comparsa nel locale la strana e silenziosa coppia che si accomodo' poco distante dal gremito e vociante tavolo. Marzia chiese curiosa se qualcuno avesse notizie dei due personaggi, ma nessuno seppe dare una risposta precisa. La donna, molto bella e slanciata, elegantissima in nero, non smise di osservarla. Marzia tento' di contraccambiare con un largo sorriso ma la donna sembro' quasi turbata, spaventata. L'uomo, apparentemente anziano, anche lui molto distinto ed elegante, con bianchi capelli impomatati e baffi all'insu', la osservo' sovente, anche in maniera poco educata. Alla fine della serata, quando molti ammiratori si erano già dileguati e il suo possessivo marito l'attendeva fuori dal locale, la misteriosa donna le si avvicino' e in un modo cortese ma deciso, le consegno' un biglietto bianco. Su quel biglietto, Marzia lesse il nome di un noto Hotel nei paraggi, e sul retro, un nome straniero scritto a penna. Passarono alcuni giorni, Marzia tento' di dimenticare l'episodio, ma la sua curiosità non faceva che aumentare. Dopo non poche esitazioni, si fece condurre in gran segreto sul luogo prescritto e annunciare pomposamente da un domestico ai suoi ospiti. "Io non vi conosco, signor Eckart. E non ho il piacere di conoscere neanche lei, signora?" "Maria Elena..." La mente di Marzia fu come percorsa da un fulmine, una scossa elettrica che la fece sobbalzare. Non solo era il nome di sua madre ma quella voce, quella voce proveniva dal suo cuore, dalla sua memoria, un'eco lontana, un ricordo mai sopito. Dovette sedersi, finse di essere ancora molto stanca dopo l'ultimo spettacolo. Ma noto' con stupore il sorriso malizioso dell'uomo e quegli occhi chiari, giallastri, che la possedevano intimamente. Maria Elena rimase immobile, quasi assente, guardando a lungo la spaurita Marzia. "Cosa vi succede, signora?" A Marzia parve di osservarsi in uno specchio, uno specchio che rimandava la sua immagine, molto simile ma con sottili differenze. Maria Elena era evidentemente identica a Marzia, se non fosse per
la pelle emaciata e gli occhi d'un grigio chiaro che emanavano sinistri bagliori ferini. Il signor Eckart si avvicino' con un bicchierino di vermouth, che Marzia bevve avidamente, quasi cercasse un appiglio per ritrovare un decoroso contegno. Se ne fece versare un altro, ed un altro ancora. "Ora vi sentite meglio?" La voce dell'uomo era lontana, remota. Tutto si annebbio', i suoi sensi scemarono, le palpebre cedettero ad un sonno profondo e inesorabile. Tuttavia quella voce, un tempo cara e adorata, ora profonda e cupa, le parlo' a lungo all'orecchio. Una voce che le narro' una storia incredibile e spaventosa. La storia di una giovane donna, fuggita dalla sua casa e dai suoi doveri, corrotta da un uomo affascinante e misterioso. la storia di una donna libera e coraggiosa, molto bella e sensuale, vittima di un uomo, o forse di un demone, o forse di un dio, che la rese immortale ed eternamente giovane. La storia di sua madre, Maria Elena, letale e sanguinaria vampira. Il tempo è corso via come un treno in una lunga e interminabile galleria. Un tempo lungo due secoli ed anche più. Un tempo costellato di soprusi, di omicidi e di crudeltà inenarrabili. L'umana pietà per Marzia è svanita in quella suite d'albergo a Napoli, tanto tempo fa. Nulla è stato risparmiato dalla sua ferocia animalesca. Uomini, donne, bambini, animali: tutta la linfa possibile per mantenere il suo corpo giovane e sano, per continuare ad essere bella e desiderata. Marzia ora guarda verso l'esterno, attraverso i vetri bagnati dalla pioggia, il vasto panorama della metropoli notturna. La camera da letto sembra aver subito un cataclisma tanto è sconvolta e arruffata.L'ingenuo e giovane amante la osserva con gli occhi spauriti, immobile e nudo sul letto, con profondi segni sul collo e sui polsi, tra le lenzuola imbrattate di sangue. La sua vita sta per finire, respira a fatica, la sua flebile fiamma si sta spegnendo, è solo l'ennesima vittima sacrificale immolata all'altare della sanguinaria dea. Marzia sorride rilassata e annoiata, mentre si riveste lentamente. Prima di andarsene getta ancora un'occhiata allo specchio vicino all'uscita. Marzia vede l'immagine riflessa di una giovane donna, dai capelli neri e riccioluti, dalla candida pelle vellutata e dagli occhi chiari, gelidi e malinconici.
NORA Le guerre erano terminate da pochi anni e l'eterna lotta tra il presunto bene e l'avversato male era ormai archiviata. Mi ero congedato con onore dalle armate napoleoniche ed ero tornato alla mia vita privata. Ma per i vinti non è semplice accettare una pace ingiusta e frustrante. Ebbi molte difficoltà e reinserirmi nella vita normale, molti pretesero che confutassi le mie teorie rivoluzionarie, addirittura qualcuno oso' attentare alla mia vita. Per fortuna le acque, ben presto, si chetarono, trascorsi un lustro noioso e incolore, poi conobbi il nobile Camillo de... Egli possedeva una bella magione tra le verdi colline liguri, meta dapprima delle mie lunghe cavalcate solitarie, poi luogo di delizia e conforto per i miei mai sopiti interessi culturali. Camillo si riteneva un modesto poeta, e probabilmente aveva ragione. La fornita biblioteca che possedeva era la sua grande passione e volle condividere con me questo suo tesoro. Era molto portato nello studio delle lingue classiche e pressoché perfetta era la sua conoscenza dei moderni idiomi europei. Una sua bella cugina, Eleonora, orfana e nullatenente, venne un giorno ad abitare da lui. Era una giovane donna, leggiadra e malinconica. La conobbi una sera, mentre io e Camillo eravamo intenti a declamare i solenni versi britannici del grande Lord Byron. Eleonora ci fece ascoltare alcuni brani al clavicembalo, eseguendoli in maniera superlativa. Vivace conversatrice e affabulatrice intrigante, non tardai ad innamorarmene perdutamente. I suoi capelli nerissimi contrastavano con la pelle vellutata del volto, diafana e perlacea; gli occhi scuri come pozzi profondi e insondabili; la bocca larga e turgida, con una vaga espressione di disgusto. Le sue lunghe dita sottili non smettevano mai di agitarsi quando parlava, come se continuasse a suonare lo strumento o disegnasse arcane traiettorie nell'aria. Era bella, di una bellezza particolare, dai lineamenti irregolari, molto
mediterranea, quasi orientale nonostante l'aristocratico pallore. Mi ricordava le lunari donne egizie, affascinati e misteriose. Il nostro matrimonio fu sfarzoso, il nobile Camillo profuse parte delle sue cospicue ricchezze per la nostra felicità, ma pretese che la nostra vita in comune proseguisse presso la sua lussuosa magione. Vivevamo di ozi e di letture, con pochi amici fidati, in una sorta di dolce e volontario isolamento. Le uniche parentesi che ci concedevamo erano delle gite fino a un vicino specchio d'acqua. Remare tranquillamente, sotto lo sguardo amorevole della mia Nora, era un momento di grande distensione. Un idillio che prosegui' per anni, ebbri della nostra amicizia e dei nostri svariati interessi culturali. Ma è destino che il paradiso non sia luogo per noi povere creature mortali. Cominciai a sospettare, anzi ad avere la chiara sensazione di essere di troppo nel nostro ménage. Il sospetto divenne certezza, quando venni escluso, per futili motivi, dalle nostre comuni letture. Cercando di comprendere questo atteggiamento, durante un'alba insonne venni a conoscenza del'esistenza di una sezione segreta della vasta biblioteca, riservata alle scienze occulte, alla magia nera, all'alchimia e a tutte le altre sciocche credenze e superstizioni medievali che i nobili filosofi illuministi francesi dello scorso secolo avevano osteggiato con grande determinazione. Tutto quello che io avevo combattuto aspramente, si ergeva ora, come un muro, fra me e i miei cari. In breve tempo, divennero depositari, secondo loro, di un sapere misterioso e arcano che, con la mia ostinazione, continuai a contrastare in ogni modo possibile. Ma tutto fu vano. Dovetti arrendermi all'evidenza e cominciai ad evadere dal nostro comune isolamento. Trascorsi più tempo presso le mie tenute, e frequentai nuove amicizie, non solo maschili. Le cose migliorarono sensibilmente quando Camillo rese improvvisamente l'anima a Dio. Un colpo apoplettico, dissero i medici. Nora, disperata e distrutta dal dolore, si chiuse per lunghi giorni in un tetro mutismo. Poi, senza preavviso, torno' al mio fianco. Ricominciammo a frequentare lo stesso letto. Ma durante una notte tempestosa e carica di elettricità, che rendeva Nora insonne e nervosa, mi confesso' il suo amore non soltanto intellettuale per il cugino Camillo. Disse che il frutto proibito della loro relazione fu un bimbo mostruoso, un aborto che venne soppresso in gran segreto. Dapprima incredulo, dovetti poi cedere all'evidenza, dopo avermi mostrato prove inconfutabili. I nostri rapporti s'incrinarono di nuovo, divenimmo estranei, separati in casa. Tornai ai miei amati studi, alle mie passioni umanistiche. Nora viveva appartata nelle sue stanze, proseguendo i suoi esperimenti alchemici e negromantici. Sospettavo che la sua mente ormai contorta, anche per via dell'abuso dell'oppio, escogitasse qualcosa di grande e sublime, l'opera al nero, come lei sosteneva con enfasi. I suoi begli occhi neri, brillavano di lucida follia, e il suo volto, sempre più pallido, era percorso da un'indefinibile malinconica consapevolezza. Una notte ventosa accadde l'inevitabile. Un rumore strano, poi un grido, una tetra risata, mi destarono di soprassalto. Dopo aver vagato per le innumerevoli camere uscii e raggiunsi la torretta isolata che Nora utilizzava per i suoi esperimenti. Provai a chiamarla, la cercai a lungo ma era scomparsa, svanita nel nulla. I suoi alambicchi e i suoi filtri erano abbandonati e inutilizzati. Scorsi un grosso pentacolo disegnato sul pavimento e strani simboli e disegni tutt'attorno. Uscii tremando di paura, vagai a lungo nel nostro parco alberato con in mano la lanterna che emetteva sinistri bagliori. Urlai il suo nome a pieni polmoni, contro la buia notte e il vento impetuoso. La vidi, infine. Ancora oggi faccio fatico a ripensare a quella scena. Nora giaceva rannicchiata, appoggiata al largo fusto di una quercia. Nuda e sporca, con i capelli sciolti e scarmigliati, con gli occhi fissi verso la pallida luna. Quando avverti' la mia presenza, mi rivolse il suo sguardo febbrile e tremante, ridendo sguaiatamente. La sua voce era terribile, sembrava che mille bocche parlassero con lei. Compresi a fatica, da quello che diceva, che aveva ottenuto quello che si era prefissata, che una misteriosa e infernale entità era penetrata nella sua anima, che una fiamma ardente riscaldava ora il suo forte cuore, che i suoi sensi erano sviluppati all'inverosimile. Restai a lungo silenzioso e timoroso, contemplando la pazzia totale che si era
impadronita della mia Nora. Provai a calmarla, mi avvicinai ma lei mi spinse lontano, con una forza davvero insolita. E fuggi' via, corse verso la cancellata che delimitava la nostra proprietà e con un salto prodigioso, animalesco, disparve alla mia vista. L'agghiacciante risata con cui si congedo' da me, risuona ancora nelle mie orecchie. Tentai in ogni modo di ritrovarla, la cercai ovunque battendo le strade più disparate, in un vicino convento di suore, nei bordelli di Genova, ma tutto fu inutile. Oggi che sono vecchio e stanco, con la mia penna d'oca in mano, davanti a questi fogli bianchi sto cercando di ricostruire il mio e il suo lontano passato. Nora è sempre davanti ai miei occhi, con i suoi fluenti capelli, i suoi grandi occhi di cerbiatta, il suo corpo sinuoso, le sue lunghe gambe magre e nervose. La sua bella bocca e i suoi denti brillanti mi sorridono ancora nei miei sogni, mentre io remo tranquillo sulle placide acque lacustri.
PASIFAE NEL LABIRINTO Continuo a girare, a spostarmi da un luogo all'altro, a cercare una via d’uscita. Ma le pareti bianche del Labirinto sono tutte uguali. E sono molto alte e turrite, impossibili da valicare. Mio padre Helios, il sole, mi guarda dall'alto e mi percuote con i suoi raggi. Non ha pietà di me, anche lui ha deciso di punirmi. Sono anni, credo, che vivo rinchiusa in questo inferno. Il mio nutrimento sono solo piccoli uccellini, lucertole e insetti. Mi disseta raramente l'acqua piovana. Minosse, il mio reale consorte, mi rinchiuse nel Labirinto con il frutto della mia follia, Asterio il "Minotauro". Non sento più da qualche tempo il suo passo pesante e i suoi grugniti bestiali. Credo che sia morto, credo che sia un cadavere putrefatto abbandonato in qualche angolo del Labirinto. Dedalo, l'architetto di corte, fu molto abile nel realizzarlo: un'infinita teoria di pareti e passaggi, lunghi corridoi e mura invalicabili. Mi sembra di percorrere questi lunghi passaggi da sempre, sono diventata ormai come quelle lugubri bambole meccaniche, che con i loro movimenti sgraziati, divertivano tanto la corte del mio signore. Ma io non ho colpa! Lo stolto Minosse si rese inviso al grande Poseidone e il vendicativo dio del mare s'impossesso' della mia anima, facendomi compiere quell'atto osceno e ributtante! Solo quando riemersi dalla vacca di legno, nuda e sporca, dopo la bestiale monta, compresi il grande potere di Poseidone ed ebbi la consapevolezza di essere stata toccata dal dio vivente. Provai in tutti i modi a spiegare le mie ragioni, a giustificare il mio atto, ma tutto fu inutile. E la mia ingiusta condanna fu quella di vivere eternamente nel Labirinto di Dedalo. Neanche la benefica morte mi ha soccorso, al contrario, la mia vitalità s'è accresciuta. La mia pelle è tesa e abbronzata come quella delle schiave nubiane e i miei muscoli sono solidi e forti come quelli dei danzatori libici. Se usciro' di qui uccidero' Minosse e i miei figli maschi che mi hanno abbandonata e tradita. Ma temo che questa cosa non accadrà mai. Ora mi siedo stanca e sfinita presso un cono d'ombra, ascolto il canto degli uccelli e la lontana risacca del mare. Ripenso alla mia lunga storia, alla mia difficile infanzia, ai miei fratelli Eeta e Perse, a mia sorella Circe e soprattutto a mia madre Perseis. La vidi poche volte, fummo allevati dai modesti monarchi della lontana e selvaggia Colchide. La ricordo alle mie nozze, appartata e silenziosa, con un cappuccio calato sul volto. Mi avvicinai e ci guardammo a lungo. I suoi occhi grigi e giallastri splendevano tra le ciocche scomposte dei suoi capelli chiari. I suoi denti famelici brillarono quando mi consegno' come dono di nozze, una splendida collana d'oro. Poi se ne ando' e non la rividi mai più. I miei fratelli Eeta e Perse si massacrarono per uno stupido e inutile trono in un regno oscuro e selvaggio. Mia sorella Circe vive e non vive su un'isola presso la terra di Hesperia, tra i suoi amori fasulli e le sue cupe stregonerie, frutto della sua mente contorta. Dei miei tanti figli non so più nulla, forse sono re o regine, o sono morti da tanto tempo.
Ora la luna risplende nel cielo buio, Selene mi guarda, forse vuole dirmi qualcosa. Ma qui tutto è silenzio, angoscioso ed eterno silenzio. Mi stendo sulla nuda terra, le mie stanche membra rabbrividiscono al solo contatto. Provo a chiudere gli occhi, a dormire, spero per sempre. Avverto un impercettibile sibilo, un'aria leggera, un fruscio come di vesti. Sobbalzo dal terrore: una figura umana nella penombra, appoggiata al muro, mi guarda sorridendo. E' un uomo alto e forte, bello come un dio, con indosso una corazza lucente e un mantello rosso. Sotto l'elmo piumato fuoriescono i ribelli riccioli biondi e i suoi occhi azzurri brillano nell'oscurità. Mi tende la mano, mi aiuta ad alzarmi, mi stringe a sé. Mi sussurra parole rassicuranti, mi accarezza mentre piango, tremando tra le sue forti braccia. Credo che finalmente la mia prigionia sia terminata, credo che Hermes mi condurrà verso i Campi Elisi, credo che presto potro' riposare e ascoltare le dolci melodie celesti.
HAKON Hakon guarda verso l’orizzonte, verso le foreste oscure e i grigi rilievi, verso le nuvole minacciose che si concentrano ad ovest. Le mura della sua fortezza sono solide, alte e turrite. Non cederanno facilmente agli assalti dei nuovi invasori. Egli è il signore di quel luogo, si fa chiamare re, ma sa che i titoli ormai non hanno più molta importanza. Roma è caduta da decenni, travolta dai popoli impauriti ed affamati, in fuga da oriente. Dicono che i demoni chiamati Unni stiano arrivando, i piccoli uomini dagli occhi allungati, che vivono perennemente sui loro cavalli, che combattono con ferocia e crudeltà come mai si era visto dall’alba dei tempi. Hakon ha spedito un gruppo di uomini in avanscoperta, oltre il fiume Elba, e attende con impazienza il loro ritorno. Con loro, c’è anche suo figlio Harald, poco più che un ragazzo, ma di grande temperamento, forte e indomito. Non sembra conoscere la paura, sentimento che invece è sempre albergato nel suo cuore. Hakon ha combattuto da giovane, molto spesso nascondendosi dietro il suo spietato padre e i suoi audaci fratelli. Ma lui è ancora vivo, è un anziano re di quelle terre, un comandante tattico dell’esercito e osserva da lontano il corso degli eventi. Vive rinchiuso nella sua fortezza, sulle rive del gelido Mare del Nord, ascoltando le grida dei gabbiani, mangiando e bevendo in abbondanza. Non ha più moglie né concubine, gli altri figli sono periti nelle guerre o sono fuggiti verso il caldo sole del sud. Hakon stringe gli occhi per vedere meglio, ma dalle grida di giubilo delle sentinelle, capisce che suo figlio sta tornando. Un gruppo di cavalieri cavalca da est, sono molti, qualcuno si è unito ai suoi uomini, qualcuno che bisognerà sfamare ed alloggiare. Ora li vede bene, nota con stupore che una donna cavalca al fianco del suo Harald, una donna dalla bellezza vertiginosa, una guerriera dalla folta chioma bionda, vestita di cuoio e metallo, armata fino ai denti. Hakon si stringe nel suo mantello foderato di pelo, un brivido improvviso lo ha percorso. La cena è stata lauta e soddisfacente. I cinque nuove arrivati sembrano aver gradito molto la carne di porco, l’idromele e la birra. Dicono di essere Goti, un gruppo di sbandati in cerca di avventure. Il loro capo si chiama Gunder, sono razziatori di cavalli e stupratori, forse in combutta con l’orda di demoni che si sta espandendo da oriente con la forza di mille cicloni. L’ingenuo Harald ha permesso loro di sedere alla sua tavola, di mangiare e bere, di spassarsela con qualche servetta indaffarata. Ma i loro occhi sono mobili e vivaci come quelli della lince e le loro mani, robuste e nerborute, maneggiano con disinvoltura i coltelli affilati. La donna invece non siede con loro, non parla, i suoi gelidi occhi scrutano ogni movimento nella grande sala, come se temesse un agguato. La sua ampia fronte è percorsa da una sottile vena azzurra, il suo volto è atteggiato a grande dignità, i suoi movimenti sono studiati ed aggraziati. Non è certo una popolana, forse nasconde un segreto inviolabile. L’uomo chiamato Gunder si alza dal suo scranno e propone un solenne brindisi al suo nobile padrone di casa. Hakon risponde e ringrazia gentilmente. La notte prosegue tra abbondanti bevute e canti stralunati degli aedi. Infine, quando tutto sembra degenerare in un’orgia collettiva, Hakon si ritira dignitosamente nelle sue stanze.
“Mi chiamo Mist, buon re. Sono figlia dei potenti Svea della Scania. Fui catturata da predoni giunti da sud e venduta come schiava nella lontana e ricca Bisanzio. Fui fortunata, il mio padrone Niceta si rivelò un uomo buono e giusto, vissi a fianco della sua giovane figlia, Ermione. Mi fecero studiare i loro complicati volumi, conobbi la sapienza greca e lessi i sofisti arabi e persiani. Imparai anche l’importanza dell’uso della spada, le legge brutale dell’acciaio e la cura severa del proprio corpo. Infine m’insegnarono l’arte dell’amore fisico, le mille posizioni del loto e le raffinate tecniche erotiche del lontano Oriente. Ma, un triste giorno, il mio padrone Niceta venne accusato di eresia monofisita e fu imprigionato. Dopo aver condotto in salvo la dolce e fragile Ermione a Smirne, da facoltosi parenti, decisi di riprendere la via del nord. Ho rischiato di morire molte volte, poi mi sono unita a questo gruppo di selvaggi Goti. In breve tempo sono diventata la loro guida, dopo averne ammazzati un paio dei più insubordinati. Quelli che vedi sono solo un distaccamento, il resto della truppa attende accampata lungo il fiume. La tua fortezza ci è necessaria, re Hakon” La lama appuntita della bella Mist preme sul flaccido collo del re. Egli è prono sul proprio talamo, non sembra rendersi conto di cosa stia accadendo. Ma comprende che il suo mondo sta lentamente svanendo, che le sue fragili certezze non sono ormai che foglie secche sbattute dal vento. Fa un cenno di assenso, si dice pronto a collaborare, rivela la sua intenzione di resistere ad oltranza all’imminente invasione dell’orda di Attila. “Attila è il nostro signore e padrone, Hakon…” La lama di Mist penetra con facilità nella morbida carne. Hakon muore senza accorgersene, continuando a sognare.
EUROPA Come tutti ben sapete, Europa venne rapita durante una radiosa mattina di tanto tempo fa, sulla spiaggia di Sidone in Fenicia. Europa, fanciulla dalla bellezza classica e statuaria, dalle forme amabili e rigogliose, dagli occhi limpidi come il cielo sempiterno, dai biondi capelli come spighe di grano, dai modi gentili ma degni di una principessa discendente di antica e nobile schiatta. Assieme ad un gruppo di fanciulle, festose per la primavera imminente, raccoglievano narcisi, violette, iris e rose. Ma lo sguardo di Europa si volse ben presto ad una strana bestia, un toro bianco apparso dal nulla, con ghirlande di fiori attorcigliate fra le corna. Nessuna delle sue compagne sembrò avvertire la sua presenza, solo Europa si avvicinò al toro bianco che brucava indisturbato l’erbetta. Era grande e possente, mai vista prima una bestia simile. Si muoveva con grazia, nonostante la mole. Europa, per nulla intimorita, lo accarezzò. Il toro s'inginocchiò, offrendole la groppa. Europa lo cavalcò senza indugio, lei stessa stupita della sua incosciente sicurezza. Caracollò per alcuni istanti sulla molle sabbia, poi con impeto, prese la via del mare. Europa dovette sorreggersi alle grandi corna, per non cadere in acqua. Non ebbe tempo di gridare perché la riva era già lontana, le voci concitate delle sue compagne erano solo acuti stridii che si confondevano col fragore delle acque. Il toro cavalcò senza tregua sul mare azzurro, per ore interminabili, con la sua bella preda sulle spalle, con il suo prezioso tesoro, con la fanciulla chiamata Europa. Figlia di Telefassa e di Agenore, era cresciuta nella dorata reggia di suo padre, con i suoi fratelli, in attesa che qualche facoltoso principe la scegliesse come sposa. Aveva compiuto quindici anni e il suo corpo era forte e rigoglioso come quello di una dea. Non avrebbe mai immaginato di perdere la sua verginità in un’isola lontana, col suo bizzarro rapitore, in maniera così strana e insolita. Tutto avvenne in una giornata, tutto quello che aveva conosciuto e amato svanì da mattino a sera. Il sole era ancora alto quando giunsero a destinazione. Europa non sapeva che quella terra era l’isola di Creta, che quella era la spiaggia di Gortina. Il mondo era ancora giovane, gli uomini poveri animali impauriti, avvezzi a ignorare ciò che non comprendevano. Un gruppo di pescatori notò la strana scena che si presentò davanti ai loro occhi: un toro bianco, emergere dai flutti, montato da una fanciulla seminuda. Pensarono bene di allontanarsi da quel luogo, pensarono bene che fosse meglio non indugiare oltre, di lasciare quel luogo magico e misterioso. Europa si guardò attorno, impaurita e curiosa. Il cuore le batteva forte, eppure sentiva di non essere mai stata così sicura e protetta come in quel momento. Il toro divenne aquila e forse uomo quando la prese con forza sull’erba fresca, tra gli alberi. Europa si aggrappò
alle forti spalle del toro-aquila, gridò dal dolore, poi mugolò di piacere. Comprese che un dio l’aveva appena stuprata, ma aveva anche l’assoluta certezza che da questa unione sarebbe venuto un figlio che sarebbe divenuto un re famoso, un guerriero imbattibile, un grande personaggio. Poi venne la notte, la solitudine e l’angoscia. Lui se ne andò, sparì come era venuto. Non una parola, un gesto, un saluto. Tutto si svolse come fosse stato scritto da tempo, come un noioso copione ripetuto tante volte. Europa sapeva di essere stata usata per fini superiori, usata e poi abbandonata come gli dei vanagloriosi facevano spesso. Raccolse i suoi abiti laceri e s'incamminò lungo la spiaggia, senza direzione, alla ricerca di un luogo per ripararsi dalla notte umida e fredda. Ma dalla foresta vicina strani rumori la fecero trasalire. Un gruppo di uomini, alcuni armati, altri con torce fiammeggianti. Poi un gruppo di dignitari con al centro una figura maestosa, probabilmente un re. Le parlarono in una lingua sconosciuta, ma Europa comprese che le loro intenzioni erano buone, che quegli uomini e il loro re erano giunti lì per condurla alla loro città, a quella che sarebbe divenuta la sua nuova patria. Asterio era il nome di quel re silenzioso, che fece di Europa la sua regina, sovrana di quell’isola grande e lussureggiante, accarezzata dai soavi venti del sud, bagnata dal mare profondo e pescoso, e protetta dal gigantesco Talos. Costui, giunto misteriosamente sull’isola, venuto chissà da dove, forse il dono di nozze del dio stupratore ad Europa, percorreva ininterrottamente il perimetro dell’isola, mattina e sera, senza mai stancarsi, solitario custode dell’isola di Creta in Europa. Agenore convocò i suoi figli: Cilice, Fineo, Cefeo, Taso e Cadmo. Comandò loro di ritrovare Europa, la loro sorella. Non dovevano tornare senza averla ritrovata. Errarono a lungo e inutilmente, dimenticando, infine, il vero motivo del loro peregrinare. Fondarono città e regni fiorenti, sposarono ambiziose regine, procrearono una nuova stirpe. Una nuova era cominciava, era l’alba degli eroi.
LIVERPOOL La notte scura come pece incombe sulla gelida città di Liverpool. Un fredda e sottile pioggia che infastidisce non poco e non permette un’adeguata andatura. Mi sto aggirando a vuoto da diverse ore, quando finalmente giungo al porto. Vedo gli spettrali bastimenti ancorati alla banchina con i loro pennoni lugubri e rinsecchiti come rami d’alberi autunnali. Le lampade ad olio delle taverne, riflettono i loro bagliori sulla pavimentazione lucida e scivolosa. Sono pochi giorni che mi trovo in questo strano posto, inseguendo i miei folli e perversi sogni. Il mio nome è Arcadio, provengo da una famiglia patrizia veneziana di antico lignaggio. Vivo di rendita e passo gran parte del mio tempo lontano dalla mia famiglia e dai miei interessi. La mia perfetta conoscenza di molte lingue mi ha permesso di essere pagato profumatamente per i miei servigi nelle diplomazie e nelle corti europee. Un vita vagabonda, costellata di amori fugaci, gioco d’azzardo, fumerie d’oppio e pericolosi duelli. Mi trovavo a Parigi, mesi fa, in compagnia di un gruppo di allegri amici. La fresca estate del Nord Europa confaceva molto ai miei bollenti spiriti. Frequentavo un noto bordello nella capitale francese, praticamente passavo le mie notti in quel luogo delizioso. La piccola Lisette era molto carina e docile, con lei riuscivo a sfogare tutte le mie perversioni. Si, sono un violento, non mi vergogno ad ammetterlo. Una sera, dopo aver ottenuto un netto rifiuto per una mia audace richiesta, picchiai la ragazza selvaggiamente. La titolare, madame Sophie, mi redarguì in modo plateale e nonostante avessi pagato molto di più di quello che dovevo, continuò a dirmi che dovevo abbandonare per sempre il suo esercizio. Dissi che ero una persona importante e che non poteva trattarmi in quel modo. Intervenne un signore, si pose tra me e madame Sophie, mi schiaffeggiò. Il duello fu inevitabile. Il mattino successivo ci affrontammo in campagna, presso una fattoria. Il cavalier Fabrice de…, cadde trafitto dalla mia lama. Lo vidi spirare tra le braccia dei suoi secondi. La fuga verso Londra e l’Inghilterra fu per me necessaria. Ripresi quindi la mia vita fatta di intrighi e soperchierie. Anche qui trovai un gruppo di balordi compagni di baldorie notturne. Ma qui
conobbi Rowena. La rossa Rowena aveva il fascino aristocratico tipico della razza celtica britannica. Mi disse che discendeva da un’antica famiglia scozzese, decaduta irrimediabilmente. Il suo corpo magro e candido era diventato la mia ossessione, la sua bocca esperta sapeva ridurmi alla più totale remissività. Mi ero apparentemente dimenticato di Lisette e di quel fastidioso duello. Ma una sera, il demone della follia perversa tornò a visitarmi. Rowena morì fra le mie braccia dopo aver subito la mia furia animalesca. L’abuso di oppio fu probabilmente la causa di questa mia ennesima disavventura. Comunque, fui costretto di nuovo alla fuga improvvisa, solo come un cane e braccato dai gendarmi. La taverna, qui a Liverpool, è sommersa dal fumo spesso delle pipe e dei sigari e dal fastidioso vociare dei clienti. Sto aspettando questo capitano Barlow, mi hanno detto che la sua nave salpa domani mattina per le Americhe. Sono riuscito a nascondermi, a sfuggire ai miei ossessivi inseguitori. Ma ora è giunto il momento di salutare definitivamente l’Europa, Arcadio Morosini non esiste più. Un uomo dal volto rubizzo, dai baffi spioventi e dai modi sicuri e spigliati si siede di fronte a me. Il capitano Barlow biascica un inglese incomprensibile, colgo qualche parola, capisco che il viaggio mi costerà molto. Ha intuito che sono in fuga da qualcosa e non mi nasconde che rischia molto nel portarmi con sé. Dopo aver ascoltato altre di queste sciocchezze, pago una parte del dovuto e il capitano Barlow si allontana tutto felice in compagnia di una bottiglia di Rum gentilmente offerta. L’indomani la nave salpa puntualmente, guardo il pontile che si allontana e la spuma del mare verdastro. Dicono che New York sia una città in espansione, dal grande futuro. Cercano mercenari per combattere i coloni ribelli, sono convinto che sarò molto utile alla Corona Britannica. Il Signore dà e il Signore prende. Sparge sale sulle ferite che dovrebbe curare.
OLTRE CONFINE Ero stato invitato a pranzo dai…, ed avevo accettato. Avevo bisogno di uscire, non me la sentivo più di stare in quella casa gremita dalle ombre dei morti. Mi stanno intorno, procurandomi un certo disagio. La morte deve essere brutta, come per certi aspetti la vita. Giunsi prima del tempo ed attesi qualche minuto sul marciapiede, guardando distrattamente qua e là. Le strade erano poco animate, malgrado la bella stagione. Un amico di famiglia mi salutò cordialmente e lo seguii senza indugi. Decisi però di salire a piedi, una sorta di ansia mi prese senza motivo, cosa che non passò inosservata al sorridente invitato. Arrivato al pianerottolo suonai e mi fu aperto. Durante il pranzo fu evidente che quella gente sapeva che stava per succedere qualcosa ma nascondevano bene la loro ansia senza rivelare timori alcuni. I padroni di casa si astennero signorilmente da esprimere ogni loro opinione, lasciando la parola agli invitati. La guerra era evidentemente perduta e presto gli alleati sarebbero arrivati. Roma era stata appena invasa dalle truppe anglo americane. Da Salo’ intanto giungevano voci discordanti, difficilmente credibili. Si parlava di una imminente riscossa e dell’arrivo di Mussolini qui a Milano. Ero stanco, deluso e provato da questi folli e lunghi anni. Mi ero allontanato lentamente dal potere, l’entusiasmo dei primi anni era scemato irrimediabilmente. Sapevo tuttavia che per me non ci sarebbe stato scampo. Mi ero macchiato di tre orrendi delitti, per favorire proprio loro, i … E i familiari delle vittime non avevano certo dimenticato. Durante i processi farsa che mi avevano assolto, ricordo i loro occhi carichi di odio, i loro volti tirati, le loro mandibole serrate. E ricordo il volto di Elena. Lei era la giovane vedova di una delle mie vittime. Sembrava assente, lontana da tutto quel'orrore. La incontrai qualche giorno dopo, pallida e in gramaglie, la seguii fino alla porta della sua casa, la spinsi con violenza verso la parete. La sua voce tremava quando la strinsi a me, baciai quella bocca sdegnata, affondai il mio volto sul suo seno prosperoso, la violentai per ore sul suo ampio letto. Me ne andai confuso e insoddisfatto. Ma dopo qualche giorno, fu Elena a cercarmi. “Gradisce un caffè?” La voce della padrona di casa, la signora Lena, mi risvegliò dal torpore. Le sorrisi rispondendo che era tardi e che me ne sarei andato subito perché mi ero dimenticato di un impegno. Salutai con deferenza ed uscii velocemente. Camminai per ore credo, senza una meta
precisa, con i miei ricordi travagliati e il mio senso di colpa. Nicolino era il figlio di Elena, aveva appena cinque anni. Non so perché lo feci, ancora oggi rabbrividisco al pensiero. Ci sorprese a letto, affannati e nudi. Mi guardò con odio, come se già comprendesse l’orrore del nostro atto. Lo afferrai saldamente al collo e strinsi fino a farlo soffocare. Elena cercò di fermarmi, gridò disperata, mi ferì con un coltello. Dio mio, perdonami! La disarmai e affondai con ferocia la lama tra le sue belle costole. Mentre rantolava, la possedetti per l’ultima volta! Dio mio, perdonami! Sfogai la mia libidine sul corpo morente di Elena con il cadavere del figlio ai piedi del letto. Infine cancellai abilmente tutte le mie tracce e il delitto restò impunito, l’ennesimo omicidio compiuto da ignoto. Restai per un’altra ora davanti alla porta della mia casa, poi all’imbrunire entrai a malincuore. Non potevo trascorrere l’ennesima notte con le voci delle mie vittime martellarmi i timpani. Tentai il suicidio, ma non ebbi il coraggio di farlo. Il colpo della pistola sfiorò la mia tempia e si conficcò nel muro. Avevo anche del veleno in casa ma mi accorsi con orrore che dopo tanto tempo, aveva perduto il suo letale potere. Sono qui, seduto al tavolino del bar, con una tazzina di caffè. Il lago è calmo e tranquillo, come la vita in questa specie d’Italia oltre confine. La Svizzera è la mia nuova patria, qui bastano pochi lingotti d’oro per avere la cittadinanza. Non credevo che la mia anima potesse ritrovare la pace, non credevo che potessi dimenticare così velocemente i miei misfatti. Ora tutto mi sembra di nuovo possibile, forse me ne andrò in Sudamerica per ricostruire la mia vita. Non sono affatto vecchio. Ho ancora diritto di pretendere il meglio. In fondo nessuno sa nulla, nessuno sospetta. Un uomo si siede di fronte a me e mi sorride nervoso. Afferra la tazzina e beve il mio caffè. “Chi siete?” domando spaventato. I suoi occhi hanno qualcosa di familiare, il suo volto l’ho già visto. “Sono Mario, il fratello di Elena …” Impallidisco al solo sentire quel nome. Non faccio in tempo a muovermi. I colpi della sua pistola rimbombano tra le anguste pareti del locale. Cado sul pavimento trascinando il tavolino con me. Vedo la schiena dell’uomo che mi ha sparato, mentre rapidamente si dilegua. Sento delle voci concitate, guardo le persone che mi stanno attorno, vedo il volto di un bambino stupito che viene allontanato prontamente. Poi è solo buio.
IL LUPO prima parte “Sediamoci a terra; e tu, Pietro, che sei il capo, vieni qui: siedi alla mia destra e metti la mano sinistra sulla mia spalla. E tu, Andrea, fa la stessa cosa dalla parte sinistra. E tu, invece, virgineo Giovanni, stringiti al mio petto. E tu, Bartolomeo, poni le ginocchia contro la mia schiena e premi le mie spalle, cosicché, quando comincerò a parlare, le mie ossa non si dissocino.” Vangelo di Bartolomeo L’ora del lupo è l’ora tra la notte e l’alba. L’ora in cui molte persone muoiono, quando il sonno è più profondo e quando gli incubi sono più reali. E’ anche l’ora in cui gli insonni sono tormentati dalle loro più profonde paure, quando i fantasmi e i demoni sono più potenti. Mi sveglio come sempre, prestissimo. Dalla porta mezza aperta traspare un’immagine nitida, complice la luce che arriva dal bagno. Qualcuno sta in piedi nel mio corridoio, vedo l’ombra ben stagliata, di tre quarti, percepisco appena il profilo destro del volto. Porta un cappello a larghe tese, e sembra molto interessato alla mia biblioteca. Aguzzo lo sguardo, e vedo che il notturno visitatore è assorto nella lettura. Dico qualcosa per sorprenderlo, ma lui non si scompone. Rimette lentamente il volume sullo scaffale e si volta, sempre lentamente, verso di me. Lo riconosco, è un mio parrocchiano, il signor Vitangelo Venanzi. Provo a chiedere delle spiegazioni, ma dopo non aver ottenute risposte, lo invito a seguirmi nel salottino. Noto con spavento che la porta d’ingresso della mia abitazione è chiusa a chiave. Provo a pensare di aver lasciato il portone della chiesa sbadatamente aperto e che Vitangelo si sia introdotto, attraverso il refettorio, nel mio corridoio. Ma quando ci sediamo uno di fronte all’altro, capisco subito che quest’uomo non è Vitangelo Venanzi.
Il cappellaccio nero calato sugli occhi e il suo ghigno beffardo, mi spaventano non poco. Le sue mani sono agitate, pallide e ossute. Parla con una voce strana, afona e lontana, ha quasi un accento del Nord Europa, credo tedesco. Poi, uno strano gelo sembra scendere sulla stanza, e dire che siamo a maggio inoltrato. “Don Nino, tu sei un uomo giusto e pio. Sei un ottimo pastore, il tuo gregge ti segue con interesse e abnegazione. Eppure hai lasciato indietro alcune tue pecorelle… La ragazza che si chiama Bettina, molto bella, a cui tu pensi spesso, in modi non molto paterni, non nasconderlo… Ebbene Bettina, o Tina, come la chiamano le sue amiche, ha compiuto un’azione disdicevole. Ha letto un libro, che non doveva leggere, soprattutto lei, non doveva leggere. La ragazza ha grandi capacità medianiche, e tu dovresti averne avuto sentore. E a volte accade, devo dire assai raramente, ma talvolta accade, che si apra un varco, un varco poco profondo e di breve durata. Ma qualcosa da questa fenditura può uscire, e tu sai bene di cosa parlo. Qualcosa di molto pericoloso, che ora sta masticando con molto gusto la povera anima della giovane Tina…” “ Dov’è il povero Vitangelo? Che cosa ne hai fatto?” “Vitangelo dorme sonni tranquilli, non ti preoccupare. Io sono qui per aiutarti, Nino, non hai capito? Devi aiutare la povera Bettina, e devi farlo subito… Quando questi varchi si aprono, quando la tela, su cui è intessuta la materia, si lacera, noi dobbiamo essere pronti ad intervenire. Noi siamo preposti a questi controlli, noi vigiliamo perché il cosmo non si trasformi in caos, perché l’armonia regni sovrana in tutto il creato. Tina ha commesso un grave errore, ma può essere ancora salvata… Ora vai a vestirti Don Nino, e raggiungi senza indugi la casa dei genitori di Bettina Gala. Loro non sanno che tu sai, e ciò produrrà un effetto benefico su quei due poveri disgraziati…” “Il libro gliel’ho dato io, lo sai benissimo, chiunque tu sia. Il “VANGELO DI BARTOLOMEO” è un testo apocrifo, non riconosciuto dalla Chiesa. Ma non è sicuramente un “Grimorio”, o qualche altro libro arcano... La ragazza è molto curiosa, troppo curiosa, e mi chiedeva spesso di queste cose. Non avrei mai immaginato… ” Il sorriso maligno di Vitangelo mi crea una forte agitazione, un totale senso di smarrimento. Il mostro che è di fronte a me, legge nella mia mente. Vede Tina, quando tre giorni fa è giunta qui, nel mio appartamento. Lui la vede e dovrebbe capire, comprendere il mio disagio. La sua molle andatura, il suo modo di parlare, la sua voce chiara e modulata, il suo sguardo limpido e fresco. I suoi lunghi capelli ondulati che sfiorano le mie mani, quando le indico dei passi interessanti, che lei legge con sincero entusiasmo. Il suo respiro calmo e rilassato, che quasi sfiora le mie gote arrossate, producendomi un turbamento incontrollabile. La sua mano fragile e ossuta che stringe decisa la mia, la sua risatina sommessa che risponde alla mia bonaria ammonizione, il suo rapido saluto mentre si congeda da me. Resto inebetito a guardare il suo fondoschiena, visibile sotto il vestitino leggero. Dopo pochi minuti, debbo chiudermi nel bagno, per placare la mia sfrenata voglia, ma soffro troppo, come se Tina si opponesse anche ai miei audaci sogni, e rinuncio a malincuore. La risata sguaiata di Vitangelo mi fa tornare in me. Si alza e se ne va, continuando a ridere. Svanisce come un fantasma. L’aria non è più gelida, la calda primavera siciliana si fa sentire. Il caldo è opprimente, l’estate al suo culmine. Tina Gala sta bene, ha superato questa dura prova, il lupo famelico ha abbandonato la sua anima pura. Padre Jacob, un gesuita irlandese, obeso e sporco, semi alcolizzato, è stato all’altezza della situazione. Si è rivelato un ottimo esorcista, il migliore, come mi avevano promesso. Tina non ricorda niente, e questo è molto importante. Con i suoi genitori ha lasciato il paese, questi fatti non possono essere condivisi con il popolo crudele e meschino. Vitangelo Venanzi è stato ritrovato, in stato di incoscienza, tra le campagne qua attorno. Non l’ho più visto, credo che mi stia evitando. Forse lui ricorda qualcosa. Non so ancora con chi parlai in quell’alba di tre mesi fa, chi era colui che muoveva quella bocca oscena e quel corpo dinoccolato, come una marionetta. Passo le mie ore notturne in chiesa, appoggiato all’altare, sotto il grande crocefisso, che sembra guardarmi misericordioso. Non sono più riuscito a dormire, ho paura che qualcuno torni a trovarmi durante l’ora del lupo.
IL LUPO seconda parte “Quali male arti?” domanda loro Pilato. Gli rispondono:" E’ un mago, e in nome di Beelzebul, principe dei diavoli, egli espelle i demoni, e ogni cosa è a lui soggetta.” Dice loro Pilato:” Questo di espellere i demoni, non è opera di uno spirito immondo, ma virtù del dio Asclepio.” Vangelo di Nicodemo “Grazie per avermi ricevuta, Cardinale. Il mio vero nome non ha molta importanza, ho usato uno pseudonimo, uno stupido nomignolo per farmi ricevere da lei. Avrei potuto utilizzare altri mezzi, ma non sarebbe stato giusto. Ho urgenza di informarla di un imminente evento di non trascurabile importanza. Come saprete, il vostro padre Jacob, abile ed esperto esorcista, ha sconfitto un pericoloso nemico, un nemico che si era insidiato nella giovane Bettina Gala, di M… in Sicilia. Tutto sembrava essere andato per il meglio, tutto sembrava essersi appianato. Fino a pochi giorni fa. La fanciulla ora risulta chiaramente gravida, e dichiara di non essersi unita carnalmente ad alcuno. Le posso assicurare che non mente. Il mostro ha evidentemente depositato il suo seme nel ventre della fanciulla. E’ chiaro che bisogna intervenire immediatamente, con soluzioni drastiche. Noi dobbiamo mantenere l’ordine sociale, il mondo deve essere protetto contro queste forze negative. Dobbiamo combattere queste contaminazioni che possono pregiudicare l’esistenza dell’intera umanità.” La donna fuma nervosa, seduta di fronte all’anziano prelato. Nel Vaticano, il vecchio cardinale L… è una sorta di autorità assoluta nel campo dell’invasamento demonico. Egli appartiene a quella minoranza di religiosi che crede profondamente nell’esistenza di creature ultraterrene, annoiati abitanti del Multiverso, che anelano mescolarsi alla sporca e sostanziosa materia, l’unica vita che valga la pena di essere vissuta. Bramano la carne e il sangue come degli assetati in mezzo al deserto sabbioso. Il Cardinale L… è un uomo di grande esperienza, ma ora ha paura. La donna che le sta di fronte, al primo calar delle tenebre, nel suo elegante ufficio semi buio, lo spaventa non poco. Parla veloce, sembra italiana, anche se ha uno strano accento. I suoi movimenti sono rapidi e scomposti. Le mani ingioiellate, appaiono bianche e ossute, con vene bluastre in evidenza. Gli occhialoni neri, nascondono il suo sguardo febbrile. L’ampia scollatura, lascia intravedere forme perfette. Un gualcito impermeabile, di taglio maschile, è appoggiato negligentemente sulle sue fragili spalle. L’anziano cardinale vorrebbe congedarla il prima possibile, assicurandole che si occuperà personalmente del caso, ma la donna non sembra essere intenzionata ad andarsene. Uno strano gelo è sceso nella stanza, provocando all’anziano prelato dei brividi incontrollabili. “So che Padre Jacob è qui, nella Città del Vaticano. Lo faccia venire, non perda tempo…” Qualcosa lampeggia dietro le grandi lenti affumicate, qualcosa di disumano. La bocca rossa si è deformata in un ghigno diabolico, e la sua voce, ora è quasi un rantolo animalesco. Lo spaventato Cardinale L… esegue prontamente l’ordine, convocando, tramite linea telefonica interna, il Padre Gesuita Jacob Kennedy di Cork, Irlanda. L’ attesa è lunga e il prelato è sempre più a disagio. Quando sta per formulare la domanda fatale, cioè chiedere la vera identità alla sua interlocutrice, la porta si apre ed entra un prete, grassoccio e sudato, appestato dalla puzza del sigaro appena spento. Si stringe nella leggera e lisa giacca, i suoi occhi mobili guardano sorpresi la donna seduta di fronte al cardinale. “Sei tu?” dice prontamente padre Jacob. La donna non si scompone e comincia a parlare una strana lingua, forse l’antico gaelico. La sua voce risuona tra le ampie pareti, assume diverse tonalità, a volte sembrano due o più voci che si mescolano e si alternano. Il volto del prete ora è pallido e preoccupato, mentre il Cardinale L… vorrebbe allontanarsi, lasciare in tranquillità i due interlocutori. Ma lo sguardo minaccioso della misteriosa donna, lo fa desistere subitamente. Intanto la luce della lampada sulla sua scrivania, getta inquietanti ombre verso la parete, ombre che non sembrano corrispondere all’esile figura della donna. Poi, di scatto, lei si alza e se ne va, lasciando i due religiosi in stato confusionale. Padre Jacob sospira a lungo, poi si siede senza chiedere il permesso.
“Vostra eccellenza, richiedo umilmente alla vostra Santa Autorità, il permesso di adempiere al mio necessario e incombente ufficio: eliminare il mostro che nutre in seno la fanciulla di nome Bettina Gala. Ciò, temo, comporterà il sacrificio della puerpera. Non riesco a considerare altra soluzione. Ritengo di dover agire immediatamente, senza tralasciare alcun particolare…” “Chi era quella donna, Jacob?” dice tremante, il Cardinale L… “Beh, non si tratta certo di una donna, eccellenza… Credo sia uno dei tanti guardiani preposti ad ostacolare ogni tentativo di intromissione. Devono assicurarsi che il cosmo sia sempre in ordine. Essi pretendono che il tutto si sviluppi in modo armonico, senza deviazioni. Comunque conosco costui da molto tempo, fin da quando ero un giovane diacono. Non credo di avergli mai chiesto il suo vero nome. Mi disse che era come un lupo rabbioso, alla ricerca delle sue succulente vittime. Ha richiesto spesso i miei servigi e avverto la sua presenza quando opero i miei esorcismi. Ma non riesco a liberarmi dell’angoscia che mi produce, ho una paura fottuta del Lupo… Io non so più quale sia il vero confine fra il bene e il male. A volte penso che…” “Che cosa pensi, Jacob?” “Le creature possedute sono marionette manipolate da menti potenti e soverchianti. Eppure, avverto una certa predisposizione in certi soggetti, come se qualcuno di costoro, anelasse inconsciamente ad una evoluzione soprannaturale, a farsi consapevole veicolo per queste entità che…” “Basta così, Jacob! I tuoi dubbi non m’interessano! Noi siamo il bene, non dimenticarlo! Ed ora vai, hai la mia benedizione, figliolo. Che Gesù Cristo t’aiuti…” Questa ragazza non è Tina. Quindi Tina non è morta. Gli occhi acquosi di Padre Jacob, guardano disperati il corpo senza vita della giovane donna ai suoi piedi. I suoi sicari hanno agito veloci, senza lasciare tracce. I genitori di Tina giacciono in un lago di sangue, nella camera di fronte. “Era necessario farlo”, continua a ripetersi questa frase, Jacob, come un mantra. Ma Tina non è qui. Questa ragazza forse è sua sorella, è molto somigliante, ma non è lei. Jacob si avvicina alla finestra e guarda fuori. Respira a fatica, sa che non ha molto tempo. E’ stato precipitoso, i genitori di Tina dovevano essere prima interrogati, torturati se necessario. Ora tutto diventa complicato. E teme che il Lupo si faccia vivo di nuovo, teme per la sua stessa vita. Sa bene che i fallimenti non sono ammessi. E’ un mondo assai difficile il suo…
IL LUPO terza parte “Dio è un divoratore di uomini” Vangelo di Filippo Sono giunto in un piccolo caffè, fuori dal centro di Parigi, in una via rumorosa. Entrando, vedo un uomo di mezz’età, dalle fattezze orientali, con grandi baffoni neri, che mi guarda con i suoi occhi penetranti. Non sembra essere per nulla al suo posto in un luogo simile e con questa atmosfera. Col suo cappotto nero e la curiosa bombetta, infilata sul cranio rasato, sembra essere giunto al momento sbagliato, nel posto sbagliato. Ma nessuno lo degna di uno sguardo, come se non esistesse. Mi invita a sedere di fronte a lui. Parla con la solita voce cupa e lontana, le mani irrequiete e uno strano tic agli occhi. Non so chi sia questo signore che mi siede di fronte, ma so chi mi sta parlando in questo momento. “Mi hai deluso, Don Nino. E’ un grave errore quello che hai commesso, tu e il tuo amico Vitangelo. Le vostre ridicole vite sono nelle mie mani, questo lo sapete, vero? E la vita della tua amata Tina, ora, vale meno di prima. Lo so che hai pensato di nasconderla in quel piccolo convento qua vicino. Oh, non temere, il Cardinale L… sta già provvedendo alla sua cattura. Tutto rientra nella normalità, caro Don Giovanni… La tua partita è persa in partenza, senza alcuna speranza. Perché lo hai fatto, perché hai voluto avvelenare la tua esistenza per questo atto insulso? Sono curioso, voglio capire, voglio sondare la tua mente….” Ha ragione, è tutto inutile. Ma dovevo farlo, anche per restare accanto a lei, alla mia Tina. Ripenso agli ultimi, concitati giorni. La visita inattesa in canonica di Vitangelo Venanzi, le sue incredibili
parole, la conferma dei miei sospetti, il suo pianto inconsolabile e la sua voglia di farla finita. Poi il nostro viaggio verso Roma, l’incontro con i poveri signori Gala, la fuga verso Parigi con la stupefatta Tina, le varie peripezie e il mio cuore in tumulto. Infine la consapevolezza di avercela fatta, la calma apparente e il desiderio di tornarcene a casa. Ma il Lupo è tornato, e ora desidera tormentare le nostre anime. Lo guardo fisso negli occhi, ora una strana calma è scesa in me. “Perché temete tanto questo bambino?” “Non solo lui, anche sua madre. Tina venne adottata in giovanissima età, non è certo quello che sembra. Discende da creature semi immortali che un tempo popolavano numerose la Terra. La sua trisavola era una Driade, una custode delle foreste di querce dell’Ellade. Sua nonna venne bruciata come strega nel ‘600 in Spagna. Sua madre vive ancora, nascosta tra i ghiacci del Circolo Polare. La folle Lydia continua ad accoppiarsi con entità di bassa risma e a procreare esseri mostruosi, dai cuori di pietra. A parte la bella Tina, ovviamente. Lei è una creatura davvero speciale… Si, hai capito bene, anche se non mi credi, o cerchi di non credermi . Lo spazio temporale, per costoro, non ha la stessa dimensione in cui siete intrappolati voi umani…” Il Lupo mi guarda con i suoi occhi torbidi, sfila dal taschino un lungo sigaro e se lo infila tra i baffi spioventi. Sorride divertito al mio sbigottimento, anche se avevo sempre sospettato qualcosa. Gli occhi di Tina nascondono qualcosa, come una sorta di recondita consapevolezza, di una malcelata sapienza arcana. Mi alzo e me ne vado, non aspetto che il Lupo concluda la sua predica. Del resto, non mi trattiene. Sono stanco e deluso, voglio solo riposarmi e dormire. C’è stato un grosso incendio nella notte, presso il convento di Sainte…, a Parigi. Nessuno si è salvato. Tina credo sia perita nel sonno, spero non abbia sofferto. Io sono qua, in questa fredda mattina, nella camera del mio albergo, e sto osservando il cadavere di Vitangelo Venanzi che dondola davanti a me, appeso al lampadario. Lui ha avuto il coraggio di farlo, ma io sono un uomo di chiesa, non posso suicidarmi. Posso solo stare qui e attendere il mio destino. Ripenso alle ultime parole che il mio povero amico mi ha detto in questa notte insonne. Tra le frasi sconnesse e distorte, ho potuto cogliere il vero nome del Lupo. Vitangelo sostiene che si tratta di Lecabel, un arconte al servizio delle Gerarchie Superiori, uno dei tanti sorveglianti preposti al controllo dell’ordine supremo. Credo che Padre Jacob avesse ragione riguardo al bene e al male. Difficile capire chi combatte chi, è solo una guerra tra mostri affamati, e noi mortali siamo solo delle prede indifese. Presto busseranno alla mia porta, forse entrerà una finta donna delle pulizia, spero che svolga il suo lavoro con rapidità e precisione. Che Gesù Cristo mi perdoni.
VODA (Acqua) Il viaggio era stato lungo e interminabile. Due anni, chiuso in quell’immensa scatola di metallo lanciata nello spazio nero, nel profondo e angosciante silenzio. Michail Ivanovic non era un uomo molto sociale, e quel viaggio, impostogli dall’università di Volgograd, come “premio” per le sue capacità e conoscenze, lo aveva umiliato non poco. Era un antropologo e archeologo di larga fama, nonché grande esperto di ritualità e pratiche religiose primitive. Anche se la sua popolarità era dovuta, soprattutto, alla fortunata edizione di un poderoso tomo, uno studio approfondito sui comportamenti sociali degli oranghi e dei gorilla, ultimi rappresentanti delle scimmie antropomorfe semi-estinte. Comunque sia, il professor Michail Ivanovic Lezkov era appena sbarcato su Voda, un pianeta quasi completamente coperto da oceani inquieti, fragile avamposto del morente Impero Russo. Il venticinquesimo secolo si stava chiudendo con la sconfitta ormai inesorabile della Madre Russia nei confronti della potente e subdola Cina. I vasti possedimenti si erano sempre più assottigliati fino a comprendere solo la parte europea, aldiquà degli Urali. Più rare colonie extra mondo, tra cui il curioso pianeta Voda: identico alla Terra per ampiezza, atmosfera e gravità, ma sommerso dalle acque. Con l’eccezione di un gruppo di grosse isole, picchi di una catena montuosa, che emergevano ostinati dalle scure profondità, sparsi nell’emisfero nord. Su una di queste, la più grande, chiamata senza fantasia Ostrov (isola), alcuni scienziati, inviati sul posto un decennio
prima, avevano compiuto una scoperta sorprendente. Erano venuti in contatto con una razza di ominidi, dall’aspetto scimmiesco, di natura irosi e scorbutici ma estremamente intelligenti. Era la prima volta che l’uomo veniva in contatto con creature extraterrestri d’intelletto superiore. Lo spazio, nel corso delle conquiste e delle colonizzazioni, si era rivelato desolatamente disabitato, fatta eccezione per le creature vegetali e rari insetti e rettili di piccole dimensioni. Ma su Voda, gli scienziati russi avevano visti premiati i loro sacrifici. Il professor Lezkov, dopo i convenevoli di rito, venne subito condotto in una grande cella dov’erano custoditi due esemplari di questa misteriosa razza. “Come vede, esimio collega, si tratta di scimmie antropomorfe di grossa stazza. Sono piuttosto asociali e vivono in piccoli gruppi di tre o quattro individui. Abbiamo stimato che la popolazione di questi primati qui sull’isola di Ostrov, si aggiri attorno alle settanta, ottanta unità, non di più. Sulle altre isole non abbiamo rilevato la presenza di queste creature…” La professoressa Olga Ivanovna Zosimova, parlava spedita e decisa, quasi agitata e nervosa. L’attenzione di Michail, dopo l’ovvio stupore dovuto al contatto con le due creature aliene, si era rivolta alla bella Olga. La donna era in evidente stato di avanzata gravidanza e respirava a fatica. La cosa non era sorprendente in sé per sé, quanto per il fatto che non vivevano uomini sull’ intero arcipelago da diversi anni! Le supposizioni del professore furono le più svariate, ma la terribile rivelazione le venne confidata qualche ora dopo, durante la frugale cena di benvenuto, in compagnia delle due assistenti della professoressa. Olga non mangiò quasi nulla, bevve molta vodka e continuò ad osservare Michail. “E’ chiaro che le debbo delle spiegazioni, Michail Ivanovic. Il suo sguardo è inequivocabile. No, non arrossisca, comprendo la sua curiosità. E apprezzo il suo riserbo. Dodici anni fa ero detenuta nelle carceri di Smolensk. Su cosa verteva la mia condanna non credo che le interessi molto. Condividevo la mia cella con queste due amiche, Lizaveta e Nikita. Dato che ero stata, in passato, un’autorità in campo scientifico, il governo imperiale, dopo pochi mesi di detenzione, mi consentì di tornare in libertà. Senza spiegarmi a quale libertà avevo diritto… Ci spedirono quindi, su questo fottuto buco della galassia conosciuta, non dopo aver ottenuto la libertà anche per le mie amiche. Credo che dopo la prima euforia, loro mi abbiano maledetto in segreto, anche se non l’hanno mai ammesso esplicitamente… Comunque giungemmo qui, costruimmo il nostro laboratorio con l’aiuto dell’equipaggio. Dopo pochi giorni, ci abbandonarono su Ostrov, nella solitudine più totale. Cominciammo a lavorare alacremente, a studiare questa strana flora e le piccole e innocue creature anfibie e i volatili che popolano numerosi queste isole. Il tempo scorreva veloce, c’integrammo a meraviglia con questo strano mondo. Fino a che, un bel giorno, scoprimmo gli ominidi, i Krot-Nu, come loro si autodefiniscono con le loro voci gutturali. E’ chiaro che il nostro interesse si riversò completamente su di loro. Studiammo attentamente le loro vite, i loro comportamenti, la loro frenetica attività sessuale… Continua tu, Lizaveta.” “Era dura vivere qui, professore. Eravamo tutte ancora giovani, con le necessità tipiche della nostra età. Scoprimmo, tra l’altro, una razza di funghi che nascono copiosi su queste terre. Constatammo che erano commestibili. Ci accorgemmo che erano anche estremamente allucinogeni. Le nostre menti eccitate e contorte, furono ben presto preda dei più bassi istinti… Un maschio dei Krot-Nu, possente e virile, che avevamo catturato e studiato a lungo, mi si affezionò come un cagnolino. Mi piacquero il suo odore pungente e le sue moine. Mi possedette durante una notte di follia. Il bestiale rapporto quasi mi uccise, l’enorme membro della scimmia sconquassò il mio ventre e la mia mente sempre più malata! Anche loro due, ben presto si presero i loro bestiali amanti. A lungo andare, avvenne ciò che non sarebbe dovuto accadere. Io partorii un bel maschietto, rischiando di morire, dopo atroci sofferenze. Anche Nikita rimase in cinta dopo circa un anno, ma abortì spontaneamente. E come vede, qualche mese fa, pure Olga…” “Sono molto passionali, e il loro vello morbido ricorda in parte quello dei gatti. Le assicuro che, dopo le prime esitazioni e incomprensioni, divennero per noi degli splendidi amanti… Lo so, per lei è difficile comprendere ciò che è avvenuto qui… Dopo un paio di passaggi di un Cargo per i rifornimenti, l’impero ci abbandonò completamente. I nostri strumenti radio smisero così di
funzionare, e rimanemmo completamente isolate. Fino al suo arrivo, stamane. Siamo ormai bestie fra le bestie, professore. Per giorni e giorni ci capita di non parlare più la nostra lingua, ci siamo anche abituate a nutrirci degli arbusti e delle bacche che prosperano su quest’isola. Questa sera indossiamo questi abiti per lei, ma noi viviamo nude e in promiscuità con la nostra tribù…” “Si, ha capito bene Michail Ivanovic. I due Krot-Nu che ha visto poc’anzi, fanno parte del nostro gruppo, della nostra comunità. Tre maschi, sette femmine e dodici cuccioli in tutto. Più noi tre, che siamo considerate le loro guide spirituali, le loro divinità incarnate… Borok, il loro capo branco, è il padre della creatura che porto ora in grembo. E’ un maschio forte e autoritario, ma con me è sempre stato dolce e premuroso... Ed ora parli lei, se vuole, caro collega…” “Non ho nulla da dire sui vostri comportamenti. Questo disumano e immotivato esilio è la causa di tutto. La miopia e la crudeltà dei nostri governanti, in questo caso, è stata davvero emblematica. Comunque, posso solo dirvi che le cose sono molto cambiate durante i due lunghi anni di viaggio che ho dovuto sopportare. Mosca ora non ha più alcuna autorità su Voda. Tra meno di un mese giungerà qui un velivolo militare, che ci condurrà verso la stazione orbitante Verskaija, nel sistema della stella Kiprian. Da lì ripartiremo per la nostra madrepatria. Il vostro duro lavoro è terminato, le vostre condanne sono ormai archiviate.” La reazione immediata delle tre donne fu dapprima di sconcerto e dolore, poi di angoscia mista a terrore. Le loro voci cambiarono, parlarono tra loro emettendo bizzarri suoni gutturali. Anche i loro volti sembrarono mutare, deformati in orribili ghigni. Michail Ivanovic osservò sempre più stupito le sue interlocutrici. La piccola e minuta Nikita, gridando come una pazza, si strappò il vestitino leggero, mostrando il corpo ossuto, percorso da graffi e lividi. Poi corse fuori, gridando in maniera disumana. Michail teneva stretta con la mano, l’impugnatura del suo revolver. Grosse gocce di sudore imperlavano la sua fronte. Temeva l’arrivo improvviso di qualcuna di quelle bestie. Anche Lizaveta si denudò, disse qualche parola incomprensibile e corse fuori verso l’intricata foresta. Olga bevve l’ennesima vodka, non mostrando, invece, alcuna reazione. Poi si udirono rumori forti, di vetri rotti e mobilio sfasciato. “Non abbia paura, Michail Ivanovic. Nessuno le farà del male, fintanto che sarò io a comandare. I Krot-Nu hanno un rispetto e una venerazione assoluta per le femmine gravide. Si figuri per me, che sono la loro guida. Lizaveta ha appena liberato i due maschi imprigionati, stanno distruggendo, dalla rabbia, tutto quello che trovano, ma non verranno qui… Ed ora mi ascolti attentamente. Noi non possiamo più lasciare questo posto, lo avrà capito dai nostri discorsi e dalla loro reazione. Nessuno ci aspetta in Russia, non abbiamo né mariti né figli. Ci lasci in pace e riparta da solo, quando verranno a prelevarla.” “Dov’è il figlio di Lizaveta?” “Morto. Massacrato da Borok e dagli altri maschi. Era troppo diverso… Avverrà sicuramente anche per il figlio che porto in grembo, forse uccideranno anche noi un giorno…” Il parto di Olga, avvenne dopo circa un mese dall’arrivo di Michail Ivanovic. La neonata era praticamente umana, a parte la solita protuberanza occipitale, tipica dei Krot-Nu. Intanto il velivolo militare non faceva la sua comparsa e il professor Lezko temette di essere stato anche lui abbandonato. Trascorse dell’altro tempo, le sue speranze si affievolirono sempre più. Le tre donne sparirono un bel giorno, nascondendosi nel fitto della foresta, con la loro tribù. Michail visse a lungo solo nella sua camera, abbruttito dalle ultime bottiglie di vodka, nell’edificio fatiscente e abbandonato. Poi le provviste si esaurirono e i suoi abiti laceri e sporchi dovettero essere bruciati. Doveva essere passato almeno un anno, o forse più. Cominciò ad uscire, a nutrirsi delle erbe e dei piccoli anfibi. Poi cominciò a pescare e a conoscere l’ambiente circostante. Con il caldo opprimente e la solitudine, si concesse una nudità totale, inconcepibile fino a poco tempo prima, per le sue convinzioni morali. Si costruì un arco e cominciò a cacciare gli uccelli piumati che volavano sopra la sua testa. Usava riposarsi all’ombra, sotto un grande albero da frutto, adagiato su una logora sdraia. Una sera, all’imbrunire, si accorse che qualcuno lo guardava. Sparò un colpo in aria, con il suo revolver. Credette di aver sortito l’effetto desiderato sulla creatura. Ma si sbagliava. Era una
femmina di Krot-Nu, probabilmente allontanatasi dal proprio clan per propria decisione. Si riavvicinò, Lezko cercò di allontanarla, ma lei si sdraiò veloce ai suoi piedi e cominciò a sfiorare le sue gambe nude, con la sua peluria morbida e vellutata. Era bella, con la piccola coda pelosa sopra le natiche, e i seni turgidi. Gli occhi scuri e lacrimosi, guardavano Michail, con tenerezza e compassione. Il suo dorso era maculato e una folta chioma circondava il suo bel ovale. Dai suoi versi gutturali comprese che si chiamava Sadras o qualcosa del genere. Si convinse, ben presto, di non poter più vivere senza di lei. Quando udì il rumore del velivolo militare, dopo molto tempo vissuto felicemente, Michail Ivanovic Lezko si nascose nella fitta foresta e scomparve per sempre, con la sua amata Sadras.
INCUBUS Elena aveva una figura alta e slanciata, ma priva di curve, di forme robuste, quasi maschili ma stranamente molli. Mollezza forse data dal suo incedere lento e distratto, dalla fragilità dei suoi polsi, dalle sue dita lunghe e sottili, dalla voce cantilenante e sonora, e tuttavia piacevole. Nel bel volto pallido ed oblungo, s’intravedeva un’innata stanchezza; nei begli occhi neri una luce vivace risplendeva tra le ciocche scure e disordinate. Era vedova da circa un mese, senza figli e con un discreto capitale a disposizione. Piangeva continuamente, coprendosi il volto con le mani nervose, presso i vetri appannati o nascosta negli angoli scuri della sua grande casa. L’inaspettata solitudine le pesava. Non che avesse amato molto il suo Pierpaolo, un facoltoso rappresentante di liquori e champagne, ma la sua rara presenza, discreta e silenziosa, le assicurava quella sorta di tranquillità domestica, quell’agiatezza borghese di cui aveva estrema necessità. Elena, durante i frequenti viaggi del marito, per combattere la noia, si dedicava alla pittura, sua grande passione. Una grande sala era stata adibita a suo privato atélier. Amava dipingere nudi, sia maschili che femminili. Si considerava una ritrattista di valore, ma le sue tele non avevano mai avuto quella celebrità che lei tanto sperava. Tuttavia pensava, a volte, che era meglio così. Il suo carattere schivo e indolente, non le avrebbe permesso di gustare appieno il successo. In un appiccicoso e noioso giorno d’estate, ebbe comunque l’ardire di proporre al suo bel giovane vicino, di posare nudo per lei. Con ancora il lutto addosso, si chiese poi, se non fosse diventata pazza o isterica. Dopo il primo imbarazzo e qualche esitazione, il diciottenne Klaus si convinse. Si spogliò lentamente, ed assunse la posa eroica richiesta. Elena le fornì un elmo piumato di acciaio lucente, per poter interpretare il divino Achille. Con le mani tremanti, cominciò a tracciare ampie e morbide pennellate sulla tela, ma dopo pochi minuti si accorse che il suo lavoro non la soddisfaceva. Si scusò con Klaus e tentò velocemente di congedarlo. Ma il giovane, oscenamente eccitato, si avvicinò all’agitata e insicura pittrice. Il suo corpo giovane e sportivo, emanava un odore buono, pulito, di doccia e bagnoschiuma recente. Elena vide la pelle dorata di Klaus, sfiorare il suo abito nero e leggero. Si presero con ferocia e violenza. O forse no? Elena si risvegliò, nuda e sola. Cercò di comprendere ciò che era accaduto, chiamò ad alta voce Klaus più volte, ma nessuno rispose. Eppure il suo profumo era ancora nell’aria e sulla sua pelle. Osservò a lungo la tela imbrattata, con delle linee senza forma. L’elmo d’acciaio era posato sul tavolino adiacente, nella solita posizione. L’indomani incontrò Klaus, che le sorrise imbarazzato, e la salutò appena. Notò che i genitori di Klaus la guardavano con sospetto. Ma Elena non ricordava con precisione, tutto era svanito come un sogno. L’inattesa telefonata di sua sorella, la distolse dai suoi dubbi e dalle sue angosce. Suor Evelina le disse di raggiungerla presso il suo ritiro, un piccolo e ameno convento posto tra le cime appenniniche. Sembrava ansiosa e preoccupata per lei ed Elena accettò senza indugi. Il viaggio fu lungo e per niente piacevole. Ma il caldo opprimente dell’estate, si dileguò subitamente, non appena la Mercedes cominciò a percorrere le erte salite per raggiungere la sua meta. Suor Evelina la tenne a lungo tra le sue braccia robuste, ed Elena pianse tutto il suo dolore. Anche se il ricordo sfuggente di Klaus e della sua prorompente virilità, s’intrometteva nei suoi pensieri più pii. Evelina le presentò la Madre Superiora, Suor Adriana. Accolse benevolmente Elena, e le mostrò il suo modesto alloggio. Elena pensò che era molto bella, assomigliava ad una nota attrice americana anni ‘50, e i suoi occhi
scuri e mobili, attenti e vivaci, contrastavano con la sua postura rigida e monacale. Conobbe poi, a cena, anche la altre tre consorelle, pallide e frustrate da quella vita nascosta e insincera. Quando raggiunse la sua camera, Elena si sentiva triste e sola. Non aveva intenzione di restare a lungo in quel posto, era infastidita anche dalle premure di Evelina, dalla sua voglia di piacerle a tutti i costi. Non si erano mai molto amate, lei e quella strana sorella minore. Quando prese i voti, non le dispiacque vederla partire e allontanarsi per sempre. Elena si abbandonò sul letto, e chiuse gli occhi. Si assopì per pochi minuti, poi si ridestò, e decise svogliatamente di spogliarsi. Cercò nella valigia la sua veste da camera, ma poi, a causa della nuova e improvvisa sonnolenza, si infilò velocemente sotto le coperte, col suo corpo nudo e infreddolito. Ma era sveglia o dormiva? Qualcosa si era infilato con lei sotto le coperte. Ma non riusciva a distinguere se fosse reale. Il forte torpore le impediva di muovere un solo muscolo. Le era già capitato di fare sogni erotici in passato. Ma quello che provò durante gran parte della notte, fu davvero insolito per lei. I giorni successivi, trascorsero tranquilli e sereni. Le consorelle continuarono a fare la loro vita laboriosa e a svolgere le loro funzioni religiose . Elena si guardò attorno, e ne approfittò per variare i suoi soggetti, dipingendo i morbidi e boscosi rilievi che la circondavano. L’ultimo giorno prima della partenza, decise di ritrarre il bel ruscello che scorreva a poche decine di metri dal convento. Sotto un sole forte, con un cappello a larghe tese, con indosso un bell’abito bianco ricamato, si avviò verso il luogo. Cominciò a dipingere, in compagnia del rumore della corrente e del cinguettio degli uccelli. Poco dopo, la flebile voce di Suor Lucilla la fece sussultare. La piccola e giovane suora si scusò e chiese il permesso di sedere accanto a lei. Parlarono del più e del meno, ridendo a volte come due amiche. Suor Lucilla si rivelò molto simpatica, ed Elena si meravigliò di non averla notata prima. Si accorse che non portava sandali, e che aveva tatuati due gigli bianchi alle caviglie. Suor Lucilla le chiese se le piacevano, e li mostrò con orgoglio, sollevando un poco la veste. Elena rispose che era sinceramente sorpresa di vedere una suora con dei tatuaggi disegnati sul corpo. Suor Lucilla sorrise, ma il suo sguardo, ora, era sarcastico. “Suor Adriana non apprezza molto queste cose, lo so, come non apprezzerà vedere la nostra bella ospite girare nuda con solo un vestitino trasparente addosso…” Elena si fece rosso fuoco, tentò una spiegazione insincera, smontò velocemente la sua tela dal cavalletto e fece per allontanarsi. “No, resti qui Elena. Devo farle una proposta, e so che non me la rifiuterà. Sono venuta qui a tal proposito. Qualche notte fa ha avuto una visita gradita, non è vero? Non menta, l’ho sentita mugugnare nel sonno. Ho il mio alloggio accanto al suo. Non so di cosa si tratti, so soltanto che questo fenomeno accade da moltissimo tempo, e tutte possiamo confermarglielo. Tra noi sorelle, è sorta una specie di rivalità, per ottenere queste attenzioni notturne… Attendo con pazienza che ogni notte l’entità torni a farmi visita. Attendo nuda nel mio letto, masturbandomi a lungo, per evocarlo. Come del resto ha fatto lei, l’altra sera…” “Che cosa vuoi da me, Lucilla?” “Questa notte verrà, lo sento. Questa notte sarò sua. E tu sarai con me, nella mia camera. Nascosta nell’ombra. E dipingerai tutto quello che i tuoi occhi riusciranno a vedere…” Elena osservò la piccola Suor Lucilla allontanarsi velocemente. Si disse convinta, che non avrebbe accettato la bizzarra proposta notturna della suora. Ma qualcosa, invece, le diceva di compiere questo passo verso il mistero e l’ignoto. L’attrazione era troppo forte. E così fu. Si sedette nel piccolo alloggio di Suor Lucilla in un angolo oscuro, attendendo silenziosa, davanti alla sua tela. Lucilla, con indosso solo il velo monacale, con il suo corpo magro e nervoso, percorso da numerosi simboli arcani tatuati, cominciò il suo rito osceno. Parlava una lingua misteriosa, una sorta di mantra ripetuto ossessivamente. Sulla stanza, improvvisamente, calò come una caligine, una nebbia innaturale, che lentamente, avvolse tutte le cose. Suor Lucilla ora sembrava lontana, e le sue parole arrivavano ovattate. Elena intravide tra la foschia, Lucilla stringere qualcosa o qualcuno su di sé, e cominciò a dipingere veloce, senza esitazioni. Tratti rapidi e decisi, colori accesi e innaturali. Poi, tutto si offuscò, tutto divenne impalpabile, come un sogno o un incubo. Le parve di volare, mentre
nelle sue orecchie risuonavano parole audaci. Mani robuste la cinsero i fianchi e labbra di fuoco percorsero il suo corpo. Quando la forte luce del mattino, penetrò decisa dalla finestra, i due corpi nudi sul piccolo letto si illuminarono magicamente. Elena e Lucilla si ridestarono assieme, si sorrisero frastornate, mirandosi compiaciute. Poi si avvicinarono alla tela e Suor Lucilla emise un sospiro prolungato, ammirando l’opera. Era quello che sperava di vedere, e abbracciò forte la stupita pittrice. Elena si rivestì velocemente, e raccolte le sue cose, fece per andarsene. Salutò sua sorella Evelina, e la bella e misteriosa Badessa. Suor Adriana sorrise appena e la salutò freddamente. Così pure le altre consorelle. Poco dopo, stringendo il volante della sua Mercedes nera, nel silenzio dell’abitacolo, Elena si chiese che cosa avesse visto Lucilla di tanto magnifico, tra quei segni scomposti e insignificanti. Se lo chiese a lungo, senza trovare una risposta.
KUNDALINI Non pretendo di essere compreso, né tanto meno compatito. So di aver sbagliato, ma non riesco ad essere pentito. La vera vittima sono io, sono sempre stato io. I suoi occhi spenti sembrano guardarmi ancora, increduli e atterriti, tra le lenzuola imbrattate di sangue. Si chiamava Dafne, era bella, troppo bella per non essere notata. Sono un docente universitario, insegno in un noto ateneo nel meridione. La mia vita è sempre stata tranquilla, con un’ottima moglie e due affezionati figli. Una vita borghese, senza slanci, piatta e regolare, comunque soddisfacente. Ma quando la vidi la prima volta, quando mi avvicinai a Dafne, quando scoprimmo che eravamo fatti l’uno per l’altra, compresi che tutto quello che era avvenuto prima, la famiglia, il lavoro, i piccoli passatempi, i rari amici, non contava più nulla per me. Ero ancora un uomo attraente e lei non aveva neanche vent’anni quando la conobbi, quasi come mia figlia. I suoi occhi chiari mi scrutavano curiosi tra la folla degli studenti assiepata nell’aula. All’epoca le mie lezioni erano molto seguite, soprattutto quelle sul neoplatonismo. Lei era tanto scontrosa e chiusa con gli altri, quanto era, con me, affabile e spiritosa. C’intendemmo subito su quali erano i nostri comuni interessi. Cominciò così la mia maledizione, in breve abbandonai la mia famiglia e i miei figli, spazzai via tutto come se la mia vita passata non fosse contata nulla. Non compresi mai perché Dafne fosse così attirata da me, a parte una certa predisposizione agli studi umanistici in cui lei era indubbiamente vocata. Dafne apparteneva ad un’antica e nobile famiglia siciliana, composta da raffinati intellettuali ed eleganti cultori del bello. Ma era anche una creatura corrotta e io caddi nella sua rete volontariamente, subendo il suo nefasto fascino. Mi abbassai ad ogni perversione e depravazione. Provammo ogni sorta di eccitanti e di droghe artificiali per prolungare o modificare i nostri amplessi, i nostri orgasmi spossanti. Lei sosteneva che il corpo è un sofisticato strumento, che, se ben utilizzato, può produrre melodie che risuonano a lungo nella nostra psiche. Ma questo strumento deve essere conosciuto, studiato, accordato al punto giusto. Mi parlava spesso della Kundalini, cioè del risveglio del serpente che dorme in noi, dell’energia divina che giace alla base della colonna vertebrale, che si attiva con la pratica sessuale. Sosteneva che solo con il rapporto anale, si poteva riattivare questa sorta di coscienza sopita. Dafne era anche una profonda conoscitrice delle pratiche occulte, della magia e della stregoneria. Diceva che sua nonna Costanza, era stata una medium molto famosa ai suoi tempi, una donna di grande sapienza. Ma anche spregiudicata e corrotta, con pericolose amicizie nella malavita siciliana. La nonna Costanza era stata la sua severa maestra durante l’infanzia e le aveva trasmesso l’arcana sapienza, come la definiva lei. Ma l’energia misteriosa che si era liberata, che si era incanalata nel corpo di Dafne, cominciò, in seguito, a rivelarsi pericolosa. Il “serpente” si muoveva in modo sempre più scomposto, provocandole una stimolazione abnorme delle passioni e degli istinti più bassi. Evidentemente non compresi mai se ciò era dovuto all’uso frequente di psicofarmaci piuttosto che alla strana ritualità a cui lei si sottoponeva. Ben presto i rimorsi e la nostalgia per la mia vita passata cominciarono a farsi
sentire. Con Dafne non c’era più nessun tipo di dialogo; ai miei rifiuti sempre più decisi, rispondeva con grida isteriche e atteggiamenti sconcertanti. Decisi di abbandonarla e di provare ad ottenere il perdono dei miei familiari. Non fu facile, ma infine mia moglie cedette. Tornai anche al mio lavoro e alla solita routine quotidiana. Tutto sembrò appianarsi, ogni tassello tornò faticosamente al suo posto. Ma, ovviamente, Dafne non si arrese e dopo neanche un anno si rifece viva. O, meglio, quell’abietta creatura che era ormai divenuta Dafne. Mi disse che aveva un assoluto bisogno di me, per un rito magico di sua concezione. Poi non mi avrebbe più assillato. Tornai in gran segreto alla sua dimora, ormai divenuta una sorta di tempio pagano. Compresi subito che la sua follia aveva raggiunto livelli inimmaginabili. Tuttavia Dafne riusciva ancora a procurarmi una sorta di morbosa attrazione, era bella come mai l’avevo vista prima e la sua voce risuonava melodiosa nella mia anima, come un potente balsamo. Disse che era convinta di poter evocare un potente spirito degl’inferi, una nera entità, figlia della colpa e del peccato mortale. Parlava concitata, come se avesse una terribile fretta, come se temesse di perdere il momento propizio. Preparammo il lungo e laborioso rituale, con tutti i crismi del caso. Il grande pentacolo dipinto sul pavimento avrebbe dovuto contenere le forme evanescenti della misteriosa creatura. Noi due ci sedemmo, tra le linee disegnate raffiguranti un magico triangolo, che avrebbe dovuto proteggerci. L’attesa fu lunga, continuammo a ripetere le monotone litanie della “Clavicola di Salomone”, sorta di grimaldello per l’apertura di queste pericolose porte. Quando ormai stavo per perdere la pazienza, qualcosa nel pentacolo si mosse. Un leggero e sottile fumo apparve dal nulla, si creò una forma oblunga, che ben presto assunse caratteristiche antropomorfe. Ma nulla di più, lo strano fenomeno svanì, probabilmente qualcosa non aveva funzionato. Cancellammo tutto, velocemente. Dafne non parlava, sembrava abbattuta e preoccupata. Provai a consolarla, ma mi respinse sdegnata. Me ne andai senza salutarla. Ma non mi sentivo tranquillo, temevo che ci saremmo rivisti molto presto. Dafne è morta, l’ho dovuta pugnalare. Qualcosa di orribile, di terrificante si era ormai impossessato della sua anima. Qualcosa che ho visto, proiettato in uno specchio. Un volto che ho già visto nei miei incubi, anzi nei nostri comuni incubi. Occhi diabolici, iniettati di sangue e odio. E un ghigno mostruoso, e denti famelici e gocciolanti. Dafne non mentiva, era veramente una medium potente, come la sua nonna Costanza. Il suo rito magico ha funzionato, ha catturato qualcosa, ma è il suo corpo che ne è diventato il contenitore, non il pentacolo disegnato sul pavimento. Non c’era altra scelta, solo la lama affilata di un coltello poteva mettere fine a questo abominio. Dafne non ha neanche reagito, forse era rimasto in lei qualcosa di umano. Ora devo bruciare questa casa, cancellare ogni traccia. Sento che il demone dello specchio è qui presente, e vorrebbe possedermi, ma non mi avrà. Solo il fuoco può purificare questo luogo. Le porte dell’inferno devono essere richiuse, risigillate. Poi tutto sarà finito, tutto tornerà a posto, lo sento. Tornerò alla mia vita, alla mia famiglia, ai miei studi. Dafne resterà solo un lontano ricordo, un incubo svanito alle prime luci dell’alba.