Archivio Topcon RE-2

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Topcon RE-2

ARCHIVIO 19 6 8 - 2 018


Testo:Memoria e archivio nella ricostruzione di un album di famiglia Autore: Beatrice Zerbato Fotografie: Archivio Topcon RE-2


INDICE Introduzione I. L’archivio come pratica e genere nell’arte contemporanea II. La fotografia come pratica sociale II.I Effetto medio II.II L’album di famiglia: fotografia e memoria II.III Il complesso della mummia

III. Il digitale III.I La rivoluzione documediale, come Internet ha cambiato l’economia delle immagini III.II La found photography e l’estetica dell’appropriazione

IV. Archivio Topcon RE-2 Conclusione Bibliografia


INTRODUZIONE

Questo breve studio si propone di raccontare alcune tematiche del fotografico, prendendo in analisi soprattuto l’utilizzo sociale che è stato fatto del mezzo e in che modo questo sia cambiato in seguito all’avvento della tecnologia digitale. Questa ricerca ha preso forma in seguito a un lavoro di archiviazione di fotografie private che è stato per me fonte di rivelazioni e motivo di interrogativi, oltre a un fondamentale dispositivo di analisi non solo del mezzo fotografico, ma del ruolo che attribuiamo all’immagine fotografica stessa. Collezionare fotografie e riportare alla luce il muto passato ha permesso, attraverso collegamenti con il presente, la creazione di immaginari in una nuova realtà parallela, rendendo così esplicita l’importanza della pratica dell’archivio nell’epoca contemporanea. Ho ritenuto quindi fondamentale per questo percorso parlare dell’archivio come dispositivo critico nei confronti delle logiche abituali di catalogazione e preservazione della memoria, andando ad analizzare l’uso che è stato fatto di questa pratica in due momenti storici diversi. Avremo modo di leggere successivamente che la pratica dell’archivio accompagna soprattutto quei momenti della Storia caratterizzati da cambiamenti sociali, culturali, politici o da crisi di conoscenze, momenti in cui servirsi di questo medium risulta quasi essere un’esigenza umana per riuscire ad afferrare e comprendere il mondo; non è un caso, infatti, che questa pratica venga rivalutata in un momento particolare come quello tra gli anni Sessanta e Settanta, in cui si assiste a un processo di “dematerializzazione”1 dell’oggetto artistico, di cui parla la critica americana Lucy Lippard.

1

C. Baldacci, Tesi di dottorato Ripensare l’archivio nell’arte contemporanea, Università Ca’

Foscari Venezia, 2010-2011


Che l’archivio sia il deposito del passato - individuale e collettivo - è solo uno dei suoi aspetti, quello probabilmente più scontato, sicuramente quello di partenza, ma è necessario chiarire la nuova concezione che il termine assume nella pratica artistica per una completa comprensione del discorso. L’archivio acquista importanza non come accumulo ossessivo di documenti e tracce del reale, dove regna quel senso di inquietudine e di perdita che Jacques Derrida ha descritto come “mal d’archivio”, ma piuttosto come luogo diffuso, dove trovare storie e immagini che possono aiutare a comprendere il presente e a immaginare il futuro. Archivio dunque non come puro esercizio della memoria, ma come luogo di attivazione del presente attraverso la memoria.2 Come si è cercato di chiarire nelle pagine che seguono, l’indagine sugli archivi ha portato alla scoperta o riemersione di momenti ed eventi dimenticati o rimossi, la cui analisi e narrazione aprono possibili nuovi percorsi. Nel caso specifico della fotografia, l’atto stesso di archiviare e collezionare dà una seconda vita a questi oggetti, una vita tutta concettuale, completamente giocata sulla dimensione affettiva e psichica. 3 Una fotografia è un frammento che, come scriveva Susan Sontag, col trascorrere del tempo, va alla deriva in un dolce e astratto passato, aperta a ogni sorta di lettura o di accoppiamento con altre fotografie; 4 ecco allora che l’atto di riesumare delle vecchie fotografie per inserirle in nuovi contesti risulta essere un’importante attività del fotografico, che scardina la sequenzialità logica e incatenante dello scorrere del tempo. Negli ultimi anni l’archivio è diventato sempre più un tema ricorrente, tanto sul piano della produzione artistica quanto su quello della trattazione teorica, soprattutto dal momento in cui l’avvento del digitale ha scatenato una 2

E. Grazioli e W. Guadagnini (a cura di), Fotografia Europea. Mappe del tempo. Memoria,

archivi, futuro, Silvana Editoriale, Milano 2017, p. 15 3

F. Muzzarelli, L’immagine del desiderio. Fotografia di moda tra arte e comunicazione,

Mondadori, Milano 2009, p.16 4

S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 2017, p.

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rivoluzione non solo all’interno della pratica del fotografare, ma anche, e di conseguenza, nella pratica dell’archiviare. La diffusione mondiale di Internet ha portato con se una sorta di globalizzazione archivistica, aprendo la riflessione a nuove questioni di carattere etico-sociale. La cultura della condivisione ha trasferito la sfera del privato in un campo di dominio p u b b l i c o , p r o d u c e n d o n u o v e p r a t i c h e f o t o g r a fi c h e f o n d a t e sull’appropriazione, come la Found Photography, di cui citeremo alcune opere rilevanti al fine di esemplificare come Internet ha cambiato l’economia delle immagini. Penso quindi che il lavoro dell’archivio sia estremamente attuale in questo momento della nostra storia, momento in cui l’affermazione di valori identitari deve necessariamente confrontarsi con nuove prospettive di sviluppo e trasformazione in ambito culturale, sociale e tecnologico. Non dobbiamo dimenticare che la coscienza dell’uomo occidentale è radicalmente fondata sul dominio della memoria, che vince l’erosione del tempo e salva dall’oblio. In linea con quanto affermato, il mio lavoro di archivio “Topcon RE-2” si presenta come un intento di ricostruire la cronaca illustrata di una famiglia, con la finalità di realizzare un volume che diventa un archivio storico visivoconcettuale in cui la fotografia si fa responsabile di un meccanismo proustiano di recupero della memoria, e la dimensione dell’album di foto da sfogliare e conservare interpreta il ruolo principale. L’archivio in questione si compone di materiale fotografico creato in un arco temporale di cinquant’anni (1968-2018), prodotto da un’unica macchina fotografica (Topcon RE-2)

attraverso il cui mirino hanno guardato tre

persone di tre generazioni diverse appartenenti alla stessa famiglia dagli anni Settanta fino a oggi. Il progetto ha preso forma grazie a una fase di recupero e digitalizzazione di diapositive e negativi, seguita da un processo di catalogazione e organizzazione del materiale raccolto, a partire dal quale si è sviluppata la ricerca di base teorica, soggetto di questa breve tesi.


La pratica familiare amatoriale è il fattore leader di tutta la produzione fotografica di questo archivio, con le sue evidenti differenze dettate soprattutto dal momento storico in cui l’individuo è inserito. I negativi ritraggono quindi la visione di tre operatori (me inclusa), che attraverso lo stesso mezzo di comunicazione ci forniscono, oltre a una documentazione storico-sociale di stili e comportamenti, una loro visione del mondo - che in seguito vedremo non essere del tutto “spontanea”, ma spesso involontariamente influenzata da norme sociali implicite. Un ultimo aspetto che ritengo importante evidenziare di questo lavoro è appunto la continuità del mezzo fotografico nella discontinuità delle epoche in cui lavora: collezionare in un unico album fotografie realizzate da un mezzo che è passato attraverso diverse mani, occhi e modi di vedere, mi permette di fermare nel tempo non solo gli scatti prodotti, ma l’esperienza di vita di una macchina fotografica che, tralasciando il suo aspetto fisico di oggetto meccanico, agisce qui come filo conduttore, come occhio imparziale che continua inevitabilmente a svolgere il suo compito di osservatore e registratore del tempo.


Le fotografie presentate in questa tesi appartengono all’archivio Topcon RE-2


I. L’ARCHIVIO COME PRATICA E GENERE NELL’ARTE CONTEMPORANEA

Gli archivi sono giganti silenziosi Urs Stahel

Come già anticipato nella nota introduttiva, l’archivio è stato per la mia ricerca, oltre a un modello formale ed espressivo, un dispositivo di conoscenza e memoria che mi ha permesso di esplorare alcune tematiche del fotografico che proveremo ad approfondire nelle pagine che seguono. Ritengo quindi importante, al fine di contestualizzare il mio lavoro, introdurre il tema dell’archivio come pratica e come genere nell’arte contemporanea. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un ritorno all’archivio, circostanza che si ripete ciclicamente quando è più vivo il sentore di cambiamenti socio-politici, culturali e tecnologici. Questo fenomeno ha acceso riflessioni tra alcuni degli intellettuali contemporanei più autorevoli, tra cui merita di essere citato Michel Foucault che, nel 1969, in un capitolo dell’Archeologia del sapere, dà una personalissima definizione di archivio quale «sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati».5 Egli smaterializza la presenza fisica dell’archivio, negandolo sia come deposito che cataloga e tramanda informazioni, dati e documenti, sia come polverosa e caotica biblioteca che preserva il sapere di una civiltà, e lo innalza invece a livello di linguaggio. Per gli artisti infatti la scelta dell’archivio è una vera e propria scelta di linguaggio, che significa, oltre a raccogliere, classificare e conservare, soprattutto ripensare, mostrare e raccontare.

5

C. Baldacci, Tesi di dottorato Ripensare l’archivio nell’arte contemporanea, Università Ca’

Foscari Venezia, 2010-2011, p. 255


In modo analogo, il critico americano Hal Foster, nel suo celebre saggio An Archival Impulse pubblicato sulla rivista October nel 2004, propone un’idea di archivio non come luogo fisico, ma come sistema che organizza le espressioni di un determinato periodo. L’”impulso archivistico”, come lui lo definisce, ha permesso lo sviluppo di un Archival art, arte che si colloca fra fiction e realtà, tra pubblico e privato, in uno spazio intermedio che corrisponde a pieno alle condizioni epistemologiche attuali, segnate da un indebolimento della storicità. L’”impulso archivistico” è un’espressione della paranoia che affligge il nostro tempo, frustrante esito di un’utopia mancata e disattesa. 6

Si tratta di una pratica il cui primo obiettivo è quello di rendere

delle «informazioni storiche, spesso perse o mal collocate, fisicamente presenti»;7 si avvicina molto all’idea di museo, in cui è centrale il concetto di collezione, e nasce dunque non come risultato di collegamenti meccanici, ma attraverso un’umana interpretazione delle cose. A questa paranoia Jacques Derrida mette il nome di “mal d’archivio”: «non c'è infatti processo del ricordare che non comporti un senso freudiano del “perturbante”», perché il rischio di una perdita di memoria, accidentale o volontaria, è sempre presente (anche in una società altamente digitalizzata come la nostra). Derrida segue il pensiero del padre della psicanalisi che parla di memoria come “notes magico” dove il susseguirsi di iscrizioni, sovrapposizioni e cancellazioni impedisce di registrare tutto ciò di cui facciamo esperienza, così la perdita di memoria diventa uno dei nostri timori più grandi. È qui che sopraggiunge quel senso di disagio, di turbamento, accompagnato da una “pulsione” quasi ossessiva per il collezionare e l’archiviare, che Derrida identifica come “male”. 8

6

F. Muzzarelli, L’immagine del desiderio. Fotografia di moda tra arte e comunicazione,

Mondadori, Milano 2009, p. 10 7

H. Foster, An Archival Impulse, in October, vol.110, The MIT Press 2004

8

C. Baldacci, Tesi di dottorato Ripensare l’archivio nell’arte contemporanea, Università Ca’

Foscari Venezia, 2010-2011, p. 258


Sull’onda del “mal d’archivio” sono nati lavori e progetti diversissimi per modalità e forme espressive, ma accomunati da una stessa esigenza di accumulare, collezionare, classificare. A questo proposito abbiamo già introdotto un momento storico rilevante per l’archivio, che è quello tra gli anni Sessanta e Settanta, quando, con l’avvento di nuove tecnologie, inizia il cosiddetto processo di dematerializzazione dell’arte e si diffondono le attitudini concettuali e processuali. Un artista che in quegli anni ha usato il potere evocativo della fotografia privata e amatoriale è il tedesco Gerhard Richter, che dal 1962 ha iniziato a raccogliere dentro a scatoloni immagini fotografiche ricavate da riviste e album anonimi mescolandole a immagini della sua storia personale, schizzi, disegni e bozzetti. Tutto ciò che Richter collezionava andava a creare ciò che poi nel tempo ha preso il nome di Atlas, termine con il quale oggi si riconosce questo enciclopedico sforzo mnemonico e visivo composto da più di 8.000 fotografie, che si configura non solo come collezione dei modelli iconografici utilizzati da Richter per i suoi dipinti, ma anche come mappatura del pensiero e, al tempo stesso, della vita dell’artista. Le immagini, tratte da contesti assolutamente distanti, provocano spaiamento e nuovi rapporti di senso. Chiarisce Richter: «La questione della composizione è poco importante e svolge un ruolo decisamente negativo quando scegli delle fotografie. Voglio dire che il fascino di un’immagine sta in ciò che ha da dire, nelle informazioni che contiene, e non in come lo dice. […] Ecco perché mi piace la fotografia diretta. Non pretende di fare nient’altro che raccontare un avvenimento». 9 Un’altra poetica interessante, e di ispirazione per il mio archivio privato, è quella del francese Christian Boltanski, che nel suo lavoro ha realizzato un omaggio senza precedenti alla fotografia come meccanismo proustiano di rievocazione sentimentale: Boltanski dichiara il suo interesse non verso la large memory raccontata nei libri di storia, ma piuttosto verso una small

9

F. Muzzarelli, L’immagine del desiderio. Fotografia di moda tra arte e comunicazione,

Mondadori, Milano 2009, p. 25


memory distillata nei piccoli oggetti, nelle reliquie, nelle tracce triviali che permettono che una memoria individuale non scompaia. È d’obbligo menzionare allora uno degli artisti più rappresentativi della contemporaneità che inaugurò un progetto di monumentale omaggio all’idea della memorizzazione del reale. È a partire dagli anni Sessanta, infatti, che Andy Warhol iniziò a conservare dentro a scatole di cartone le reliquie del suo tempo: ritagli di giornale, fotografie, lettere, cartoline, piccoli oggetti ecc. Durante un trasloco si rese conto della quantità di ricordi sedimentati nel tempo e cominciò ad archiviarli secondo un ordine preciso che dette vita a più di 600 Time Capsules. L’immagine fotografica è la protagonista di questa prova di forza che Warhol imbastisce contro l’azione distruttrice del tempo. È un po’ come se Warhol avesse intuito in anticipo che la nuova forma simbolica dell’età contemporanea, cioè dell’era dei computer, stava nel principio del database.10 Quella dell’archiviazione continua a essere infatti una pratica incredibilmente attuale se si pensa alla più grande invenzione del nostro secolo: Internet, l’archivio totale per eccellenza. Anticipando un altro momento storico fondamentale per la pratica degli archivi possiamo affermare che, con la diffusione di Internet e dei Social Network, archiviare è diventato un fenomeno globale; la svolta del digitale ha messo in discussione i vecchi sistemi di archiviazione della memoria e delle conoscenze e, al tempo stesso, ha prodotto una sorta di euforia archivistica fai-da-te, tanto che oggi noi tutti cerchiamo di archiviare noi stessi e le nostre esperienze personali con la condivisione in rete di una serie di foto, pensieri, tweet. L’entusiasmo verso i progetti di archiviazione online è dovuto principalmente alla convinzione che il sapere possa essere messo a disposizione nella sua totalità e raggiungere la massima accessibilità, oltre tutto, aspetto non secondario, al di fuori del contesto istituzionale e dei suoi sistemi di sorveglianza. 10

Ibidem, pp. 8-9


Concludiamo questa breve introduzione sugli archivi con l’aiuto delle parole di Michel Foucault che afferma: «l’idea di accumulare tutto, l’idea di costruire una sorta di archivio generale, la volontà di racchiudere in un luogo tutti i tempi, tutte le epoche, tutte le forme, tutti i gusti, l’idea di costruire un luogo di tutti i tempi che sia a sua volta fuori dal tempo e inaccessibile al suo morso, il progetto di organizzare così una sorta di accumulazione perpetua e indefinita del tempo in un luogo che non si possa muovere, ebbene, tutto ciò appartiene alla nostra modernità».11

11

E. Grazioli e W. Guadagnini (a cura di), Fotografia Europea. Mappe del tempo. Memoria,

archivi, futuro, Silvana Editoriale, Milano 2017


II. LA FOTOGRAFIA COME PRATICA SOCIALE

La fotografia è diventata l’arte quintessenziale delle società opulente, uno strumento indispensabile della nuova cultura di massa che conquistò l’Europa solo dopo il secondo conflitto mondiale.12 La fotografia ha aperto una nuova forma di libera attività, dando modo a ciascuno di manifestare la propria avida sensibilità personale.13 Susan Sontag

12

S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 2017,

p. 61 13

Ibidem, p. 78




II.I EFFETTO MEDIO Dopo aver discusso del metodo di indagine dell’archivio e menzionato alcuni artisti che ne hanno fatto uso, proviamo ad affrontare alcune tematiche del fotografico che si sono sviluppate a partire dalla visione del materiale dell’archivio Topcon RE-2. Ritengo opportuno introdurre l’argomento provando a fare una grande distinzione all’interno del dispersivo ambito dello studio delle teorie sulla fotografia, per identificare già da subito il campo dentro al quale andremo a lavorare. A questo scopo mi servirò delle parole di Claudio Marra e del suo saggio introduttivo, Effetto medio, del volume Le idee della fotografia, in cui l’autore afferma la difficoltà di pensare che tanta ampiezza e tanta diversità di applicazione del mezzo fotografico possa poi produrre una qualche identità costante del mezzo.14 Si individuano inizialmente due macro categorie, o meglio due diversi settori di applicazione, ragionando in termini di funzioni, non di essenze: la fotografia intesa come arte e la fotografia come “pratica sociale”, un’etichetta volutamente ampia ed elastica, al limite del generico, ma con l’ambizione di raccogliere fenomeni, pratiche, e conseguenti riflessioni varie ed eterogenee. Tutto quello che indichiamo sotto l’etichetta di pratica sociale ha una fondamentale caratteristica in comune, ovvero la contrapposizione all’arte, e dunque la convenzione che l’uso del mezzo preveda una qualche finalità pratica. Marra suggerisce allora un interessante spunto di riflessione riconoscendo un’unitarietà metodologica tra le diverse funzioni del mezzo, servendosi della nozione di art moyen15 utilizzata nel 1965 dal sociologo Pierre Bourdieu.

14

C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi,

Mondadori, Milano 2005, pp.7-15 15

P. Bourdieu (a cura di), La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, trad. it.

Guaraldi, Rimini 1972


L’assetto fondamentale del suo discorso era dato dal fatto che il termine moyen (tradotto in italiano con “medianità”) non fosse da lui utilizzato come aggettivo qualitativo, ma casomai determinativo, essendo chiamato a indicare non tanto uno statuto in sé della fotografia, quanto piuttosto una sua collocazione logistica. La sua idea di “medianità” va infatti intesa come funzione e non come essenza: secondo la sua analisi sociologica, la fotografia sarebbe quindi un’arte “media” perché nelle diverse pratiche d’uso risulta effettivamente collocata a metà tra differenti livelli d’identità. Prendiamo in analisi il caso più immediato e diffuso della fotografia familiare, e ci domandiamo: «si tratta di un esercizio sostanzialmente pratico, teso cioè in via esclusiva al soddisfacimento di bisogni e necessità puramente funzionali, oppure occorre riconoscere in questa tipologia di immagini la presenza di una rilevante componente estetica?» 16 Ci rendiamo conto che una volta attraversati dalla funzione fotografica, i diversi settori sembrano come risultare modellati dalla stessa impronta, che però, anziché restringere l’identità degli ambiti coinvolti, finisce per arricchirla e moltiplicarla in maniera esponenziale. Nel caso specifico della fotografia familiare, a un’analisi appena più circostanziata ci si accorgerebbe che le due funzioni (l’esercizio pratico e la componente estetica) sono entrambe presenti. L’”effetto medianità" prodotto dalla fotografia non annulla la priorità delle funzioni, ma produce un reciproco avvicinamento dei settori, che rimangono distinti ma certamente non estranei. É infatti nella pratica comune che prendono corpo quelle identità che poi l’arte utilizzerà nelle proprie ricerche: è proprio qui che prende forma ciò che, per comodità di comprensione, potremmo chiamare il linguaggio della fotografia, che pensiamo debba essere identificato, non con quei fattori solitamente proposti dalla manualistica tecnica di settore (inquadratura, composizione, luci, toni, ecc.), bensì con categorie concettuali quali la memoria, il tempo, la presenza, il possesso, ecc, che vengono utilizzate dagli

16

C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi,

Mondadori, Milano 2005, pp. 7-15


operatori, per la maggior parte delle volte, in modo ingenuo o senza piena coscienza, dando la possibilità agli artisti di servirsi di quella forma del linguaggio fotografico sperimentata e diffusa nell’esperienza comune.17

II.II L’ALBUM DI FAMIGLIA: FOTOGRAFIA E MEMORIA Nell’eterogeneo territorio che stiamo delineando con l’elastica etichetta di “pratica sociale”, la cosiddetta fotografia familiare occupa un posto di centrale importanza: non solo per quantità, ma anche per le idee e le motivazioni sottese a questo tipo di esercizio, si può considerare la pratica familiare come una sorta di base concettuale di tutto il settore, se non addirittura di tutta la galassia fotografica. Prendiamo come esempio un elemento sofisticato e letterario quale la memoria e notiamo come esso venga proposto in prima battuta dalla comunissima ed elementare fotografia familiare: l’esercizio di memoria connesso alla fotografia familiare può anche nascere da una necessità strettamente pratica, ma è poi altrettanto evidente il suo immediato slittamento verso un orizzonte più complesso, nel quale l’immagine si fa occasione di riscatto sensoriale nei confronti della quotidianità.18 L’avvento dell’era fotografica segna un punto di trasformazione nella storia dell’umanità. La fotografia ha avuto un impatto radicale su una struttura fondamentale della coscienza, e ha rappresentato una rivoluzione della maniera stessa di concepire quella complessa serie di processi - volontari e involontari - della nostra corteccia cerebrale che chiamiamo appunto memoria.19 Tramite la memoria si possono tenere in ordine i legami con il passato, non disperdere il contenuto degli eventi della vita, assicurare nel ricordo la certificazione di chi siamo e che cosa abbiamo vissuto.

17

Ibidem, pp. 23-24

18

Ibidem, pp. 14-15

19

F. Scianna, Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria, Laterza, Bari 2017, p. 75


Colgo l’occasione per ricordare un grande scrittore che con la forza e la raffinatezza di poche parole è riuscito a chiarire punti cruciali del tema che stiamo trattando: «Noi, nella misura in cui possiamo dire Io, siamo la nostra memoria. Cioè, la memoria è l’anima. Se uno perde totalmente la memoria diventa un vegetale e non ha più l’anima. Anche dal punto di vista di un credente non credo che l’inferno abbia senso se uno ci va senza memoria. Il patimento è dovuto al fatto di ricordare continuamente il male che si è fatto. Noi siamo la nostra memoria»20 – così inizia l’intervista a Umberto Eco realizzata per il Padiglione Italia in occasione della Biennale di Venezia 2015 – «senza memoria non c’è anima», ma non solo, «senza memoria non si progetta nessun futuro». Ecco allora che la fotografia diventa uno strumento utile a questo scopo perché porta con se l’esigenza di bloccare, mantenere una parvenza, un’apparizione per assicurare la preservazione del ricordo, per congelare l’esistenza in un attimo. Susan Sontag scrive: «La fotografia è l’inventario della mortalità. Basta un movimento del dito per conferire a un momento un’ironia postuma».21 Le fotografie mostrano persone che sono irrefutabilmente lì e a un’età specifica della loro vita, raggruppano individui e cose che un attimo dopo si sono già dispersi, sono cambiati, hanno continuato a seguire i loro singoli destini. Le fotografie proclamano l’innocenza e la vulnerabilità di vite che s’avviano alla distruzione, e questo legame tra fotografia e morte permea tutti i ritratti fotografici. Il fascino che le fotografie esercitano, oltre a un memento della morte, è anche un invito al sentimentalismo. Le fotografie trasformano il passato in un

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Federica Polidoro, Umberto Eco, Sulla memoria. Una conversazione in tre parti, http://

www.artribune.com/television/2016/02/video-umberto-eco-sulla-memoria-unaconversazione-in-tre-parti-biennale-di-venezia-padiglione-italia-davide-ferrario/, consultato il 30.01.2018 21

S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino, 2017.

pp. 62-63


oggetto da guardare con tenerezza, sopprimendo le distinzioni morali e disarmando i giudizi storici con il pathos generico del passato.22 Per questo gli album di foto acquistano una particolare importanza: sono la presenza inquietante di vite arrestate nella loro durata, liberate dal loro destino. Vissuta dunque come pezzo di realtà, la fotografia è percepita istintivamente, nell’immaginario collettivo, come strumento perfetto per favorirci nell’umana e psicologica necessità di conservazione del mondo e delle sue apparizioni fenomeniche e affettive. Ci è sufficiente pensare all’immagine fotografica-reliquia, dove le questioni formali passano in secondo piano, lasciando risaltare gli aspetti concettuali e le funzioni biografiche e sociali. L’album di foto di famiglia è infatti l’oggetto concettuale per eccellenza: raccogliere e custodire una foto, a cui evidentemente siamo legati, per poi inserirla in una serialità narrativa ed evocativa, è uno degli atti più impegnativi dell’identità del fotografico. Il poter conservare i propri ricordi attraverso le fotografie ci da l’illusione di avere un certo controllo su di essi e sul tempo.

22

Ivi


II.III IL COMPLESSO DELLA MUMMIA

La fotografia, concepita come transfert di realtà, ha avuto un impatto radicale sul funzionamento della memoria e ha causato una vera e propria rivoluzione all’interno delle arti plastiche. Come aveva già notato Susan Sontag, la fotografia è un’arte crepuscolare, perfetta per la nostra epoca nostalgica e affamata di memento mori che ci può aiutare a entrare in concorrenza con l’inesorabile azione dissolvente del tempo. André Bazin riconosce all’origine delle arti plastiche quello che lui chiama il “complesso della mummia”, ovvero quel bisogno degli uomini di combattere l’azione dissolvente del tempo grazie a espedienti che, come la fotografia, producano un effetto temporalmente cristallizzante. Come nell’antico Egitto si conservavano i corpi tramite complicati passaggi, cercando di salvare l’essenza mediante l’apparenza, e dunque salvare da una seconda morte


spirituale, allo stesso modo l’uomo moderno affida alla fotografia il bisogno di lasciare il proprio passaggio terreno, della sua storia e identità.23 In quanto pezzo di realtà, la fotografia è percepita nell’esperienza quotidiana, nell’immaginario collettivo, come strumento perfetto per assecondare l’esigenza di conservazione del reale. L’immagine può essere sfocata, deformata, scolorita ma essa proviene attraverso la sua genesi dall’ontologia del modello; essa è il modello. André Bazin afferma infatti che l’oggettività della fotografia le conferisce un potere di credibilità assente da qualsiasi opera pittorica: «tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo; solo nella fotografia ne godiamo l’assenza. Essa agisce su di noi in quanto fenomeno naturale».24 In modo analogo, Roland Barthes definisce la fotografia un “messaggio senza codice”, in opposizione al disegno, messaggio codificato. La fotografia agisce infatti nel campo della “registrazione”, e l’assenza del codice rafforza il mito del naturale fotografico in quanto l’oggetto viene catturato meccanicamente, non umanamente. Assicurando la presenza/recupero del corpo, come suggerisce Barthes, è come se la fotografia avesse qualcosa a che vedere con la resurrezione. Barthes insiste inoltre sull’innegabile coscienza della fotografia dell’esserci-stato: una nuova categoria dello spazio-tempo che crea un collegamento tra qui e un tempo.25 «Ogni fotografia è un certificato di presenza. Questo certificato è il nuovo gene che l’invenzione della Fotografia ha introdotto nella famiglia delle immagini».26 Possiamo quindi affermare che la fotografia - sempre facendo riferimento al campo d’indagine della “pratica sociale”, ma anche più in generale dal punto

23

F. Muzzarelli, L’immagine del desiderio. Fotografia di moda tra arte e comunicazione,

Mondadori, Milano 2009, pp. 11-12 24

A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 2014, p. 7

25

C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Mondadori, Milano 2005, pp. 125-131 26

R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003, p.87


di vista ontologico - è diventato uno dei principali meccanismi per provare qualcosa e per dare una sembianza di partecipazione. Attraverso le fotografie ogni famiglia si costruisce una cronaca illustrata di se stessa, un corredo portatile di immagini che attestano la sua compattezza. Ci si rende allora conto che la pratica sociale della fotografia ha la finalità e il compito di solennizzare ed eternare i grandi momenti della vita familiare, affermando il sentimento di gruppo e di unità. La pratica della fotografia familiare resta dunque orientata verso l’assolvimento di funzioni sociali e socialmente definite: la pratica comune è necessariamente rituale e cerimoniale, quindi stereotipata nella scelta dei suoi oggetti come delle sue tecniche espressive e si compie solo nelle circostanze e nei luoghi consacrati.27

Colgo l’occasione per riportare qui un passaggio del racconto L'avventura di un fotografo di Italo Calvino: «Con la primavera, a centinaia di migliaia, i cittadini escono la domenica con l'astuccio a tracolla. E si fotografano. Tornano contenti come cacciatori dal carniere ricolmo, passano i giorni aspettando con dolce ansia di vedere le foto sviluppate […], e solo quando hanno le foto sotto gli occhi sembrano prendere tangibile possesso della giornata trascorsa, solo allora quel torrente alpino, quella mossa del bambino col secchiello, quel riflesso di sole sulle gambe della moglie acquistano l'irrevocabilità di ciò che è stato e non può esser più messo in dubbio. Il resto anneghi pure nell'ombra insicura del ricordo». 28 La realtà vista in fotografia assume subito un carattere nostalgico, di preziosa gioia fuggita sull’ala del tempo e già prontamente storicizzata anche se si tratta di due giorni fa’. Secondo Calvino, esiste un’euforia del “fotografare tutto”, perché «il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è 27

C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Mondadori, Milano 2005, pagg. 44-48 28

I. Calvino, L’avventura di un fotografo, in «Gli amori difficili», Einaudi 1970


brevissimo». 29 Il nostro gusto per la spontaneità dell’istantanea ci porta a trovare tutto bello, perché colto sul vivo e naturale. L’album di famiglia esprime quindi la verità del ricordo sociale. Disposte in ordine cronologico, “ordine delle ragioni”, della memoria sociale, le immagini del passato evocano e trasmettono il ricordo degli avvenimenti che meritano di essere conservati perché il gruppo vede nei monumenti della sua unità passata un fattore di unificazione, pertanto niente è più decoroso, più rassicurante e più edificante di un album di famiglia. 30

In conclusione, le fotografie sono un modo per imprigionare o immobilizzare la realtà, intesa inaccessibile, oppure, ingrandiscono una realtà che si percepisce rattrappita, svuotata, caduca, remota. Non si può possedere la realtà, ma si possono possedere le immagini, come, secondo Proust non si può possedere il presente ma solo il passato. Possedere quindi il mondo in forma di immagini significa riscoprire l’irrealtà e la lontananza del reale.31

29

I. Calvino, Le follie del mirino, in «Il Contemporaneo», Roma 30 Aprile 1955

30

C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Mondadori, Milano 2005, pag.45 31

S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 2017, pagg. 140-141




III. IL DIGITALE

La fotografia digitale è una rivoluzione o un’evoluzione?32 William Ewing

Nel presente capitolo vedremo come le teorizzazioni presentate finora vengano messe in discussione dall’avvento della tecnologia digitale, che è riuscita a scatenare uno dei più grandi dibattiti tra i teorici attenti allo statuto e all’identità del mezzo fotografico. La questione riguarda appunto lo statuto profondo dell’immagine fotografica e in particolare il tipo di rapporto che questa intrattiene con il reale: l’avvento della tecnologia digitale ha effettivamente prodotto un cambio di identità nello statuto della fotografia? È possibile mettere in dubbio quel particolarissimo legame che l’immagine fotografica tradizionale intrattiene con il proprio referente? La referenzialità forte espressa dalla fotografia sembra essere messa in discussione dai nuovi processi elettronici della fotografia digitale, che hanno sostituito il principio dell’impronta proposto dalla fotografia chimica.33 Non è però su questi fenomeni, pur interessanti, che vuole soffermarsi l’attenzione di questo capitolo. Penso sia consono rimandare a letture più specifiche la questione sopra menzionata riguardante la referenzialità della fotografia analogica e il grande dibattito teorico causato dalla nascita del digitale, per poterci invece occupare delle conseguenze che questo fenomeno ha prodotto a livello sociale e culturale. Parleremo quindi della rivoluzione dell’immagine “connessa”, che si è rivelata uno strumento di comunicazione che ha promosso un’autonomia senza precedenti nelle pratiche culturali. 32

A. Gunthert, L’immagine condivisa. La fotografia digitale, trad. it. Guia Boni, Contrasto,

Roma, 2016, p. 14 33

C. Marra, Forse in una fotografia. Teorie e poetiche fino al digitale, CLUEB, Bologna 2002,

pp.61-62


III.I LA RIVOLUZIONE DOCUMEDIALE, COME INTERNET HA CAMBIATO L’ECONOMIA DELLE IMMAGINI La realtà in cui viviamo è dominata dalle immagini, il mondo contemporaneo si esprime attraverso le immagini e ha ereditato un sistema complesso di codici visuali e linguistici dalla fotografia tradizionale, senza però una piena consapevolezza. Con l’avvento del digitale, inoltre, tutti scattano fotografie grazie all’uso dei cellulari, e si preoccupano costantemente di organizzare e classificare le proprie immagini pubblicandole nei Social Network, alimentando un processo di condivisione mai visto prima d’ora nell’ambito della storia della fotografia e della comunicazione. 34 Il professor Maurizio Ferraris ha dato a questo fenomeno il nome di «rivoluzione documediale» 35, in cui definisce il Web un rivoluzionario senza padre fondatore che ha rivelato le strutture profonde della realtà sociale con un’evidenza mai prima raggiunta, e ha mostrato che la realtà sociale non ha bisogno solo di comunicazione, ma ancor di più, di registrazione. Il Web sembra essere il tutto assoluto del nostro tempo: lo studioso Lev Manovich parla di database come la nuova forma simbolica dell’epoca contemporanea. Tutto il fotografato si configura quale immenso repertorio visivo cui attingere come da un’estesa e sconfinata memoria collettiva.36 Ma ritornando al nostro specifico tema d’indagine, proviamo a pensare a come il

digitale, ma soprattutto il Web interattivo, abbiano influenzato in

profondità pratiche culturali come la diffusione della fotografia. In passato la fruizione delle fotografie passava di mano in mano, gli album fotografici passavano di generazione in generazione costituendo non solo la memoria della famiglia, ma anche del gruppo sociale di appartenenza andando a 34

E. Grazioli e W. Guadagnini (a cura di), Fotografia Europea. Mappe del tempo. Memoria,

archivi, futuro, Silvana Editoriale, Milano, 2017, p. 168 35

Ibidem, p. 38

36

F. Muzzarelli, L’immagine del desiderio. Fotografia di moda tra arte e comunicazione,

Mondadori, Milano 2009, p. 10


creare (inconsapevolmente) uno spaccato della storia sociale e della fotografia. La diffusione delle immagini attraverso la realtà virtuale ha sicuramente accelerato i processi e quindi aumentato la diffusione stessa in maniera esponenziale, andando a perdere alcuni degli elementi che raccontano molto del lavoro del fotografico, del procedimento utilizzato, delle sue varianti e scelte interpretative, come la dimensione tattile dell’immagine fotografica e il suo supporto; nonostante ciò, come aveva notato Pierre Bourdieu, gli usi della fotografia amatoriale rimangono essenzialmente sociali. In pochi anni il passaggio da un’economia di distribuzione controllata a un’autogestione dell’abbondanza ha modificato completamente il nostro rapporto con l’immagine.37 Dall’avvento delle piattaforme visive, la parte più consistente della produzione di immagini poggia sull’autoproduzione, la diffusione e la consultazione diretta da parte degli utenti. Per la prima volta nella sua storia, la fotografia è divenuta una pratica di nicchia in un universo più ampio, quello della comunicazione elettronica, inoltre, essendo presente in ogni oggetto connesso, la funzione fotografica si è resa autonoma. Semplificare la consultazione di immagini a distanza apparve fin da subito un considerevole vantaggio, sia per i professionisti che avevano la possibilità di promuovere il loro lavoro, sia per gli amatori, desiderosi di condividere la loro produzione con familiari e amici. Quella del “Web 2.0” del 2004 fu una vera e propria rivoluzione, che consentì una semplificazione del caricamento dei contenuti e la possibilità agli utenti di interagire tra loro, scuotendo così l’impianto mediatico e minacciando la tradizionale divisione tra spazio pubblico e privato. Le capacità di interazione promosse dal Web 2.0 inducono

a descrivere l’attività di pubblicazione on-line come una

“conversazione”. L’integrazione dell’immagine in questa economia rappresenta una notevole evoluzione: piuttosto che conversazioni sulle foto,

37

A. Gunthert, L’immagine condivisa. La fotografia digitale, trad. it. Guia Boni, Contrasto,

Roma, 2016, pp. 81-82


il web ha favorito le conversazioni con le foto.38 Creata nel Febbraio del 2004, la nota piattaforma di Flickr si inserisce a pieno titolo in questo contesto, favorendo una cultura della condivisione attraverso la creazione di gruppi e album collettivi.39

III.II LA FOUND PHOTOGRAPHY E L’ESTETICA DELL’APPROPRIAZIONE A tale proposito ritengo doveroso menzionare l’opera di un artista contemporaneo che attraverso il suo, verrebbe da dire, compulsivo lavoro con le immagini (sopratutto con le immagini degli altri), ci offre oggi la possibilità di sviluppare un’interessante analisi dell’utilizzo sociale del mezzo fotografico. Joachim Schmid fonda nel 1990 a Berlino un “Istituto per il riciclaggio delle fotografie usate”, un’ironica opera di sensibilizzazione nei confronti della sovrabbondanza di informazioni, in cui invita a non scattare nessuna nuova fotografia fino a che non saranno state utilizzate quelle già esistenti. La posizione di Schmid, pioniere della found photography, nasce dalla consapevolezza che la civiltà dell’immagine vede una continua e sempre crescente produzione di fotografie, in un vero e proprio processo di proliferazione, fino all’assuefazione e alla saturazione, talvolta al non-senso. Schmid decide dunque di sospendere la produzione e “si limita” a cercare, raccogliere, riutilizzare fotografie già esistenti e scattate da altri, lavorando esclusivamente con fotografie trovate nei mercati, negli archivi, negli album di famiglia, in Internet. 40 Evidente è la sua missione nell’opera Other People’s Photographs (2008-2011), dove raccoglie in novantasei volumi una serie di fotografie

38

A. Gunthert, L’immagine condivisa. La fotografia digitale, trad. it. Guia Boni, Contrasto,

Roma, 2016, pp. 143-144 39

A. Gunthert, L’immagine condivisa. La fotografia digitale, trad. it. Guia Boni, Contrasto,

Roma, 2016, pp. 82-84 40

Roberta Valtorta (a cura di), Joachim Schmid e le fotografie degli altri, http://

www.lastampa.it/2012/11/19/cultura/fotografia/mostre/joachim-schmid-e-le-fotografie-deglialtri-Pp4sHfEGjdRSC9PPAJRKNO/pagina.html, consultato il 30.01.2018


selezionate dal sito di Flickr seguendo il percorso degli upload giornalieri da diversi fusi orari. Schmid ha organizzato queste immagini in collezioni tematiche, sotto titoli neutri come “Cose”, “Scarpe”, “Cani”, “Volti nei buchi”, “Vari incidenti”, “Scollature”, affermando «questi raggruppamenti rivelano modelli ricorrenti nella moderna fotografia popolare. La scelta dei temi non è né sistematica né segue alcun criterio prestabilito: la struttura del progetto rispecchia la pratica multiforme, contraddittoria e caotica della moderna fotografia».41 Grazie all’attenzione di Schmid per la fotografia di tutti i giorni, alla quale si è dedicato a partire dagli anni Ottanta, e quindi grazie all’enorme repertorio della sua produzione artistica di cui disponiamo, è facile notare un inquietante fenomeno: in questi ultimi decenni l’estinzione della pellicola e l’avvento del digitale hanno cambiato alla radice il senso e il peso che diamo ai fermo-immagine della nostra vita. Other People’s Photographs documenta una vera e propria torsione dell’immaginario collettivo: dov’era una foto ce ne sono cento, dov’era un ricordo troviamo centinaia di istantanee che dimentichiamo un minuto dopo averle scattate. «L’invasione fotografica del mondo, con la sua produzione illimitata di appunti sulla realtà, omologa ogni cosa». 42 Inoltre, la fluidità digitale ha favorito lo sviluppo di una cultura dell’anonimato, della citazione e della condivisione, intesi come manifestazione di una proprietà collettiva, basata sulla libera circolazione delle informazioni. 43

41

Joachim Schmid, Other People’s Photographs (2008-2011), http://www.fotografiafestival.it/

portfolio_page/joachim-schmid-other-peoples-photographs-2008-2011/, consultato il 30.01.2018 42

S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 2017,

pag. 97 43

A. Gunthert, L’immagine condivisa. La fotografia digitale, trad. it. Guia Boni, Contrasto,

Roma, 2016, pag. 107


Come già anticipato nel capitolo precedente, Pierre Bourdieu parlava di come le persone fanno fotografie, analizzando, per esempio come le nostre immagini corrispondano a una certa idea del ruolo sociale. Il lavoro di Schmid testimonia come la “pratica sociale” della fotografia si sia liberata da norme e convenzioni: «la gente fa foto senza scopo. Fare foto è semplicemente parte della vita di tutti i giorni e le singole foto hanno perso quasi completamente di significato. Scattare risponde ormai a una sensazione passeggera, del tipo: sono qui, ciao. Al contrario, fino a cinquant’anni fa una famiglia avrebbe usato un rullino, o magari due, nel corso di una vacanza intera. Avrebbero scelto la situazione da fotografare con molta più attenzione, si sarebbero preparati e con un po’ di fortuna avrebbero raggiunto anche un discreto senso della composizione. Oggi tutti fanno centinaia di foto ogni giorno, perciò il singolo scatto si è completamente svalutato» 44 conferma il fotografo in un intervista di Fabio Severo su Klat Magazine. Per quanto riguarda invece i soggetti ritratti e le tematiche, Schmid afferma: «Lo scatto della famiglia in posa sta diventando un tema minore, mentre fino a pochi decenni fa era decisamente predominante. Ma probabilmente ciò è dovuto anche a una diversa attitudine sociale. La gerarchia familiare non è più al centro della nostra società, anzi, si fa fatica a trovare esempi di famiglia tradizionale con una madre, un padre e i figli – la gente vive nei modi più disparati, e questo certamente si riflette anche nella fotografia. Inoltre, l’avvento della fotografia digitale, con l’incredibile proliferazione di foto che ha generato, ha reso tutto molto più informale». Un altro esempio che vale la pena ricordare è l’istallazione Photography In Abundance (2011)45 dell’olandese Erik Kassels che rende di fatto visibile ai nostri occhi questa sovrapproduzione di immagini “invisibili” che ha colpito l’era digitale. Le fotografie ora si sono smaterializzate, nascondendosi negli 44

Fabio Severo, Joachim Schmid. Found Photography, http://www.klatmagazine.com/

interviews/joachim-schmid-interview/10886, consultato il 30.01.2018 45

Erik Kessels, 24 Hours in photos, http://www.kesselskramer.com/exhibitions/24-hrs-of-

photos, consultato il 30.01.2018


hard disk, nella “nuvola” di Internet e nei generosi server dei grandi Social Network, rendendoci incapaci di constatare in termini specifici la vera quantità di immagini che il mondo sta producendo. Erik Kessels decide quindi di stampare su carta, formato 10x15, l'equivalente dell'upload fotografico di Flickr di 24 ore, e riversa il prodotto sul pavimento della galleria Foam di Amsterdam, creando delle vere e proprie dune fatte di foto alte fino al soffitto, sulle quali si poteva camminare. Un’opera di grande impatto visivo che rende innegabile la rivoluzione delle immagini che stiamo vivendo. Con un’unica installazione l’artista rende visibile ai nostri occhi come il privato sia diventato pubblico e come si sia svalutata l’importanza di ogni singola memoria,46 ovvero due dei temi cruciali della cultura digitale. Siamo già oltre la pratica postmoderna dell'appropriazione, è una vera e propria teoria della decrescita visuale che prende piede. «Qualunque siano le pretese morali avanzate in nome della fotografia, la sua conseguenza principale è quella di trasformare il mondo in un grande magazzino, o in un museo senza pareti, dove ogni soggetto è degradato ad articolo di consumo e promosso a oggetto d’ammirazione estetica. Grazie alla macchina fotografica, diventiamo tutti clienti o turisti della realtà».47

46

Michele Smargiassi, L’inciviltà delle immagini, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/

archivio/repubblica/2012/12/09/incivilta-delle-immagini.html, consultato il 30.01.2018 47

S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 2017,

pag. 97


IV. ARCHIVIO TOPCON RE-2

Congratulations on your choice of the TOPCON RE-2 which we are sure will give you many years of unfailing service.

È evidente quindi lo sviluppo più significativo a cui mi ha portato il mio lavoro di archivio e lo studio di altri già esistenti, ovvero quello di pensare alla fotografia come a un potente medium rivelatore dei valori e delle norme che pregnano la società nella quale l’individuo è inserito, norme e valori che orientano, insieme alla presenza di reti sociali, anche l’uso che viene fatto del mezzo fotografico. Con la consapevolezza quindi che nel mondo contemporaneo l’immagine fotografica è un fenomeno sociale da studiare come usanza e salvaguardare come oggetto, propongo in ultima analisi il mio lavoro di archiviazione. L’archivio Topcon RE-2, nome della macchina fotografica a cui è dedicato, prende le sue mosse da un forte desiderio di riallacciare i rapporti con la fisicità delle cose, una vera e propria necessità di riscoprire valori e identità del fotografico, offuscati dalla tecnologia digitale che invade ogni aspetto della vita contemporanea.


Come già anticipato nella nota introduttiva a questa breve dissertazione, si tratta di un archivio di carattere personale, composto da fotografie create e custodite dalla mia famiglia a partire dal Giugno del 1968, momento in cui la camera fu acquistata dallo zio di mio padre. L’archivio può essere considerato un grande esempio di quella pratica familiare della fotografia sociale di cui abbiamo parlato precedentemente, e un omaggio alla svanita epoca degli album di foto. Topcon RE-2 si compone infatti di immagini che ritraggono in maniera molto forte quel senso di “solenizzazione” del reale di cui parlava Bourdieu, soprattuto in riferimento alle foto degli anni Settanta, portatrici di un elemento sofisticato come la memoria, in cui risulta evidente l’utilizzo prettamente documentaristico del mezzo fotografico. Le immagini di questi anni sono cariche di quel sentimentalismo che caratterizza la fotografia persa e ritrovata; il loro ritrovamento infatti, ha reso possibile la creazione di un immaginario che mi ha consentito di entrare all’interno di un mondo che non ho mai vissuto. Un immaginario che può essere allo stesso tempo privato e collettivo, in cui è facile riconoscere un certo senso di appartenenza. Le immagini di questo archivio agiscono come appunti sul tempo, simbologie, metafore, osservazioni dei fenomeni che circondano la vita quotidiana; le fotografie sono ricche di segnali che sollecitano in modo diverso la nostra percezione e il nostro immaginario. Le immagini sono segni che trasmettono delle scelte e dei giudizi sulla realtà, diventando esse stesse una realtà totalmente diversa.48 È importante dunque riconoscere la fotografia come l’arte del doppio per eccellenza, e cercare oltre l’apparenza dell’immagine una natura filosofica degli oggetti. Nell’universo delle fotografie il tempo è frammentato, il passato appare lontano, e il presente è intrinseco di storia, mettendo il lettore nella

48

Mario Cresci. L’immagine effimera. Dal catalogo: ”L’archivio della memoria Torino 1980,

”http://www.virtualgallery.it/virtual_gallery/opere/masters/cresci_mario/reviews/ita.htm, consultato il 30.01.2018


condizione di creare nuovi collegamenti che aprono a nuovi spazi e percorsi personali. Propongo le foto di questo archivio come stimolo a un’ulteriore analisi del reale, e del significato che le immagini possono assumere qualora si estraggano dal contesto, evidenziandone i contenuti. La fotografia non vuole agire qui come un semplice strumento di documentazione, bensì un mezzo di conoscenza e costruzione dei rapporti tra tempo e spazio reale. Esprimo allora la mia fiducia nel potere espressivo e comunicativo della fotografia attraverso alcune proposte visive, lasciando in parte al lettore il compito di decodificare i contenuti che sono all'interno delle immagini. Concludo questo breve percorso avendo la consapevolezza che il passato stesso, con la continua accelerazione del cambiamento storico, è diventato il più surreale degli oggetti, rendendo possibile, come disse Benjamin, di vedere una nuova bellezza in ciò che sta scomparendo».49

49

S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 2017,

pp. 67-68



‘70s







‘80s






2000







CONCLUSIONE

Questo breve studio mi ha portato a riconoscere l’importanza della costruzione di un archivio personale ai fini di creare nuove traiettorie di pensiero che modificano l’ordine delle cose, creando una molteplicità e un’eterogeneità che rende leggibili le relazioni sottostanti a ogni singola immagine. Il processo di creazione dell’archivio è stato occasione di diverse riflessioni sul fotografico, e mi ha permesso di occuparmi di due grandi temi che la cultura digitale si trova a dover affrontare, ovvero quello della digitalizzazione e della catalogazione di un numero immenso di fotografie analogiche, e quello della sovrapproduzione di immagini. È proprio da qui infatti che prende le sue mosse l’idea di Topcon RE-2, un archivio così personale, in cui, allo stesso tempo, è facile riconoscere una sorta di identità collettiva; un archivio così caratteristico, che fa rincontrare delle fotografie che sono il prodotto di un’unica macchina fotografica, strumento versatile che ha saputo registrare le visioni dei suoi operatori nel corso di epoche diverse. La mia scelta di utilizzare un mezzo analogico in un’epoca digitalizzata è stata influenzata proprio dalle riflessioni in merito alla sovrapproduzione di immagini. Appartengo a una generazione che è stata travolta dalla rivoluzione del digitale, dalle logiche del web e dalla pratica dell’immagine condivisa, cambiamenti che hanno avuto importanti conseguenze a livello etico e sociale. Da quando è scomparsa la pellicola nell’uso comune e soprattutto dal momento in cui il mezzo fotografico si trova all’interno di dispositivi alla portata di tutti come i telefoni cellulari, la facilità di produzione di fotografie ha causato un’overdose di immagini da cui veniamo costantemente bombardati senza ormai rendercene conto, facendo così perdere valore alla singola immagine, oltre ad annientare la sfera dell’intimo e del privato. È allora che è stata chiara per me la necessità di ritornare a


una pratica del fotografare più “lenta” e consapevole al fine di creare, o avere l’illusione di farlo, qualcosa che fosse pregno di una qualche identità. Colti da una produzione e condivisione ossessive di immagini, sembra che ci siamo dimenticati che fino a pochi anni fa, le fotografie, sempre facendo riferimento alla dimensione amatoriale, erano legate a un concetto di memoria, mentre quelle che si fanno oggi (in grande quantità) non lo sono affatto. Non servono più per un ruolo futuro, ma accompagnano la vita quotidiana. Attraverso il mio lavoro di archiviazione ho voluto quindi recuperare il carattere effimero della fotografia del passato attraverso la riabilitazione di materiali che stanno alla base del fotografico, con il fine di rendere visibile il dissolversi di identità, e allo stesso tempo creare un contrasto consapevole con la comune tipologia di archiviazione online. Le foto che compongono questo archivio, alcune delle quali ho avuto occasione di presentare in questa sede, agiscono come testimoni involontari dei quali ci serviamo come stimolo immaginativo attraverso il quale provocare una sorta di reminiscenza collettiva. L’intento infatti non è solamente quello di recuperare il passato tale e quale, nella sua dimensione fisico-oggettiva, ma quello di causare un vero scatenamento estetico-concettuale. È importante allora riconoscere la potenzialità dell’archivio come strumento di decodificazione del presente attraverso l’interrogazione del passato.

Vorrei aggiungere infine che l’impulso archivistico, il bisogno di classificare, ovvero ricondurre “una molteplicità di oggetti a un certo numero di tipi gerarchicamente ordinati”50, è da collegare, in questo caso specifico, a un bisogno di orientamento all’interno di un eccesso di conoscenza, oltre a una (sempre presente) necessità di “lasciare tracce”, affinché la testimonianza di

50

C. Baldacci, Tesi di dottorato Ripensare l’archivio nell’arte contemporanea, Università Ca’

Foscari Venezia, 2010-2011


una certa pratica della fotografia familiare, non più in uso, non venga dimenticata. Per concludere mi sembra opportuno citare le parole di Urs Stahel, riportate sul catalogo dell’edizione 2017 del festival di Fotografia Europea (Mappe del tempo. Memoria, archivi e futuro), scritte in occasione della mostra La forza delle immagini. Una selezione iconica di fotografie su industria e lavoro, dove definisce gli archivi dei giganti silenziosi, che «si svegliano e cominciano a parlare solo quando poniamo loro domande dirette, quando li scuotiamo dal torpore», riportando così il loro potenziale nel presente e rendendo possibile la ricerca di altre prospettive e punti di vista particolari.

Vorrei ringraziare la mia famiglia per avermi concesso di utilizzare dei ricordi privati al fine di creare una testimonianza visiva di questo breve studio.

Beatrice Zerbato


Because I know that time is always time
 And place is always and only place
 And what is actual is actual only for one time
 And only for one place. T. S. Eliot


BIBLIOGRAFIA

E. Grazioli e W. Guadagnini (a cura di), Fotografia Europea. Mappe del tempo. Memoria, archivi, futuro, Silvana Editoriale, Milano 2017 S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 2017 F. Muzzarelli, L’immagine del desiderio. Fotografia di moda tra arte e comunicazione, Mondadori, Milano 2009 F. Scianna, Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria, Laterza, Bari 2017 A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 2014 R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003 C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Mondadori, Milano 2005 C. Marra, L’immagine infedele. La falsa rivoluzione della fotografia digitale, Mondadori, Milano 2006 C. Marra, Forse in una fotografia. Teorie e poetiche fino al digitale, CLUEB, Bologna 2002 P. Bourdieu (a cura di), La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, trad. it. Guaraldi, Rimini 1972 H. Foster, An Archival Impulse, in October, vol.110, The MIT Press 2004 I. Calvino, Le follie del mirino, in «Il Contemporaneo», Roma 30 Aprile 1955 I. Calvino, L’avventura di un fotografo, in «Gli amori difficili», Einaudi 1970 A. Gunthert, L’immagine condivisa. La fotografia digitale, trad. it. Guia Boni, Contrasto, Roma 2016


C. Baldacci, Tesi di dottorato Ripensare l’archivio nell’arte contemporanea, Università Ca’ Foscari Venezia, 2010-2011

SITOGRAFIA Cristina Baldacci, L’archivio nell’arte: nuovo genere contemporaneo?, https:// www.festivaldellamente.it/it/1020#, consultato il 30.01.2018 Federica Polidoro, Umberto Eco, Sulla memoria. Una conversazione in tre parti, http://www.artribune.com/television/2016/02/video-umberto-eco-sullamemoria-una-conversazione-in-tre-parti-biennale-di-venezia-padiglione-italiadavide-ferrario/, consultato il 30.01.2018 Roberta Valtorta (a cura di), Joachim Schmid e le fotografie degli altri, http:// www.lastampa.it/2012/11/19/cultura/fotografia/mostre/joachim-schmid-e-lefotografie-degli-altri-Pp4sHfEGjdRSC9PPAJRKNO/pagina.html, consultato il 30.01.2018 Joachim Schmid, Other People’s Photographs (2008-2011), http:// www.fotografiafestival.it/portfolio_page/joachim-schmid-other-peoplesphotographs-2008-2011/, consultato il 30.01.2018 Fabio Severo, Joachim Schmid. Found Photography, http:// www.klatmagazine.com/interviews/joachim-schmid-interview/10886, consultato il 30.01.2018 Erik Kessels, 24 Hours in photos, http://www.kesselskramer.com/exhibitions/ 24-hrs-of-photos, consultato il 30.01.2018 Michele Smargiassi, L’inciviltà delle immagini, http://ricerca.repubblica.it/ repubblica/archivio/repubblica/2012/12/09/incivilta-delle-immagini.html, consultato il 30.01.2018 Mario Cresci. L’immagine effimera. Dal catalogo: ”L’archivio della memoria Torino 1980, ”http://www.virtualgallery.it/virtual_gallery/opere/masters/ cresci_mario/reviews/ita.htm, consultato il 30.01.2018


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