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Sacro Lo spazio Sacro Sacro Sacro
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Anno 1 - Numero 1 - Ottobre 2007
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Anno 1 - Numero 1 - Ottobre 2007
Sacro Lo Sacro 9-10-2007
Antropologia I molti volti del pellegrinaggio Conoscersi e Convivere - Trimestrale di cultura interreligiosa
o spazio Sacro Lo spa copertima master:Layout 2
Architettura La Moschea, la Chiesa, la Sinagoga
LoSpazio Sacro Archeologia La percezione dello spazio sacro nella Roma antica Teologia Lo spazio di Dio
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La città della Pace
editore Comune di Roma direttore responsabile Walter Verini condirettori Benedetto Carucci Abdellah Redouane Andrea Riccardi consulente Franca Eckert Coen Consigliera delegata del Sindaco alle Politiche della Multietnicità e dell’Intercultura
in redazione Marica Di Santo m.disanto@comune.roma.it
progetto grafico e impaginazione Beecom art direction: Stefano Bruno
stampa Grafica Romana srl Via F. Bartolozzi, 13 00133 Roma
foto di copertina Roma, La chiesa Dives in Misericordia progetto di R. Meier
Intitolare il nuovo Piano Regolatore Generale a “Roma Capitale di Pace” non fu una stravaganza. Oggi, anzi, l'auspicio di quella titolazione è ancor più evidente. Volevamo una città aperta al dialogo, alle relazioni e all'incontro. Una città che interpretasse la propria identità nei termini più essenziali, come apertura, accoglienza e disponibilità. Che il senso di comunità avesse una rappresentazione urbanistica concreta, operativa, visibile. Ciò significava lavorare alla tessitura di tutte le relazioni possibili, interne ed esterne: vie di comunicazione e di trasporto (pubblico, su ferro), luoghi dell'accoglienza e del dialogo (per la “convegnistica”, la congressualità, il turismo, lo sport, l'integrazione sociale), spazi per la cultura (religiosa, civile, della formazione), attenzione verso i flussi demografici e migratori. Tutto questo, per noi, voleva dire mettere in atto un'urbanistica della “Pace”, ossia dell'incontro e delle relazioni. Il Piano apre lo spazio della città al dialogo e all'ascolto, prevedendo un'adeguata infrastrutturazione urbana. Le nuove strutture relazionali attraversano la città anche internamente, con la nascita di 18 nuove centralità metropolitane, strette in una maglia di trasporto pubblico su ferro e di nodi di scambio, che mutano l'attuale forma urbis monocentrica, avviando la città verso un moderno policentrismo. Roma diviene una città di dinamismi, di flussi, di reciprocità, esprimendo una naturale vocazione all'incontro, all'ascolto, alle relazioni. Riprendendo un'espressione che qui torna più volte, è come se noi avessimo voluto innalzare a Roma una simbolica tenda di Abramo, ampia e capace di ospitare e custodire l'intera città, trasformandola, così, in luogo di incontro e fratellanza comunitaria. Ma ben aperta sui lati per consentire l'accoglienza dell'altro (giovani, migranti, lavoratori, culture). Compito difficile, ma essenziale per costruire una modernità che non sia rigetto della diversità, ma incontro positivo e attento. Perché non c'è dubbio che Roma deve scegliere la strada della modernizzazione, della crescita, dello sviluppo. Ma è altrettanto evidente che nessuna di queste parole ha senso se non assume a punto di riferimento la cura della diversità e l'ascolto, se non si generino le condizioni per l'accoglienza. Non bastano, dunque, nuovi centri congresso, nuove università e nuovi campus, una città dello sport, una rete su ferro più efficiente, parchi, occasioni di dialogo, opportunità di integrazione, un nuovo policentrismo. Non bastano, perché una città deve anche esprimere un'anima un carattere, un'identità, una propria rappresentazione della memoria. È questo sforzo che deve accompagnare l'impegno di governo di questi anni. È questo il compito più grande per tutti noi. Roberto Morassut (Assessore all'Urbanistica)
editoriale
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Conoscersi e Convivere
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lo Spazio Sacro
6 Il luogo sacro: coniugazione tra spazio e tempo Franca Eckert Coen
8 La Casa di Abramo Giuseppe Strappa
10 Il Santuario ebraico
Benedetto Carucci Viterbi
14 Il sacro: dall'Assoluto alla diversità delle espressioni Abdellah Redouane
18 Un solo Mediterraneo: lo spazio sacro nel pensiero religioso Giovanni Cereti
24 Lo spazio della moschea Paolo Portoghesi
30 Attualità della sinagoga nell'architettura contemporanea: una presenza aniconica Alessandro Franchetti Pardo
40 Uno spazio effimero per il Sacro nella Roma contemporanea Marco Petreschi
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teologia 52 Santuari del tempo Roberto Della Rocca
58 Casa di Dio, casa degli uomini Gianni Colzani
62 L’idea di “sacro” nell’Islam ‘Ala al-din al-Ghoobashi
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antropologia 67 I molti volti del pellegrinaggio Antonio Riccio
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archeologia 72 La percezione dello spazio sacro nella Roma antica Eugenio La Rocca
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architettura 78 Al centro della mia vita Paolo Portoghesi
86 Tor Tre Teste. Dives in Misericordia Giuseppe Panieri
90 Dives in Misericodia: relazione di progetto Richard Meier
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95 Quattro volti di una chiesa Gianfranco Ravasi
96 Un padiglione per ricordare il dialogo Marica Di Santo
100 Il Tempio dei Giovani: la sinagoga “nascosta” Gianni Ascarelli
108 tavolo interreligioso di Roma 110 Presentazione
Paola Gabbrielli
112 L’arte gandharica 118 L’arte islamica 124 L’arte paleocristiana 132 L’arte ebraica
140 consulta delle religioni 140 Realizzare la pace attraverso le diversità Enzo Cursio
142 le città del dialogo 142 Spazio sacro, luoghi santi e identità collettiva a Gerusalemme Enrico Molinaro
148 storie 148 Quando i nonni dei nonni andavano alle scole Piero Di Nepi
154 viaggi di fede 154 In viaggio verso Dio Gabriele Tecchiato
160 scelti e proposti 160 Libri 162 Film
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Il luogo sacro: coniugazione tra spazio e tempo
Franca Eckert Coen Consigliera delegata del Sindaco alle Politiche della Multietnicità e dell’Intercultura
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La Casa di Abramo
Giuseppe Strappa Architetto
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Il Santuario ebraico
Benedetto Carucci Viterbi Preside delle Scuole ebraiche di Roma
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Il sacro: dall'Assoluto alla diversità delle espressioni
Abdellah Redouane
Sacro
Responsabile del Centro Islamico Culturale d'Italia
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Un solo Mediterraneo: lo spazio sacro nel pensiero religioso
Giovanni Cereti Chairman della sezione italiana della Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace
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Lo spazio della moschea
Paolo Portoghesi Architetto
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Attualità della sinagoga nell'architettura contemporanea: una presenza aniconica
Alessandro Franchetti Pardo Architetto
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Uno spazio effimero per il Sacro nella Roma contemporanea
Marco Petreschi Architetto
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lo spazio sacro
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È NECESSARIO COSTRUIRE UNO SPAZIO CHE CONSENTA IL RAFFRONTO DI EMOZIONI E DIFFICOLTÀ CON ALTRI SOGGETTI E CHE PERMETTA UN GRADO DI CONOSCENZA PIÙ PROFONDO, PIÙ COMPOSITO, PIÙ VERO e grandi religioni sono nate in aree sconfinate di paesi orientali, là dove l’essere umano si perde nella dimensione dello spazio e del tempo per l’immensità dei luoghi; la dimensione religiosa rappresenta, in qualche modo, una ricerca metafisica volta a comprendere l’incomprensibile, l’imponderabile, per creare un punto di contatto più interio-
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il raffronto di emozioni e difficoltà incontrate sul percorso, con altri soggetti ,e che permetta un grado di conoscenza più profondo e composito e più vero. Nella storia della costruzione della Torre di Babele, attraverso la quale gli uomini dercavano di raggiungere il cielo elevandosi verticalmente, il fallimento fu determinato dal fatto che la società che si era proposta di crearla era una società monolitica nella quale si parlava una lingua unica e si usavano le stesse espressioni; (Genesi cap.11, v.1), quindi una società piatta, senza confronto, senza diversità di opinioni e di idee; questo tipo di società è destinato all’omologazione, al totalitarismo e alla prevaricazione dell’uomo sull’uomo; nasce da qui l’impossibilità della comunicazione e nella bibbia è esplicitamente detto che una società nella quale sia venuta meno la capacità di comunicare è
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Il luogo sacro: rizzato e consapevole con la natura e il suo Creatore. Però, se è vero che il contatto con la natura, nel suo essere spettacolare, porta alla spiritualità e uno spazio vuoto invita alla meditazione e alla preghiera, è pur vero che questa stessa spiritualità, per estrinsecarsi, ha bisogno di uno spazio più limitato che inviti al raccoglimento. Un tipo di costruzione rivolta verso l’alto, che si innalza verticalmente verso il cielo sembra limitare la trasmissione della cultura, la comunicazione e il dialogo. È paragonabile ad uno studioso che diventa sapiente grazie ai suoi studi, ma non può dirsi maestro se non insegna ad altri le conoscenze acquisite. È necessario perciò costruire uno spazio idoneo a condividere e confrontare esperienze diverse, quindi uno spazio orizzontale più che verticale e unidirezionale, che consenta
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destinata alla distruzione… Quindi: Il Signore scese tra di loro e confuse le loro lingue, certamente per punirli del loro ardimentoso tentativo di scalare le sfere celesti, ma anche per metterli alla prova offrendo loro la possibilità di compiere uno sforzo per il raggiungimento della conoscenza e della reciproca comprensione pur parlando, discutendo in lingue diverse. La tenda di Abramo, in antitesi con la torre di Babele, con le sue tre aperture è l’esempio di una società aperta al confronto, una società che ha dimostrato di avere futuro. La casa di Abramo è il titolo del convegno tenuto a Roma presso la Casa dell’Architettura nel mese di giugno 2006. Il convegno, all’organizzazione del quale abbiamo avuto il piacere di contribuire, si proponeva di analizzare i vari aspetti dell’edi-
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ficazione dello spazio sacro come luogo di accoglienza e di valori condivisi. Beit ha-keneset, Ecclesia, Tempio o Moschea sono luoghi di incontro dove chi arriva può trovare la sua casa, se stesso, il suo linguaggio, la sua famiglia; dove è evidente un grande rispetto nei confronti dell’identità del singolo che può trovare se stesso attraverso il linguaggio appreso, che è quello familiare. Questo luogo sarà anche la cassa di risonanza della memoria; difatti, per il rafforzamento dell’identità della persona, è importante la memoria -quella del singolo e quella collettiva- degli eventi comuni. Il fatto che un evento abbia un luogo dove essere celebrato e che ciò venga compiuto da tutta la collettività rappresenta il raggiungimento di un obiettivo basilare: quello di avere una società composita e funzionante, attenta all’ascolto delle diverse istanze.
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di lontananza, purtuttavia egli riesce a trovare la sua dimensione ed è con l’apprezzamento e l’accoglienza del faraone che diviene un costruttore di abbondanza. Attraverso l’azione di Giuseppe l’Egitto diviene da terra di carestia, terra di fertilità. È interessante, poi, la realizzazione di questo personaggio come uomo con la nascita dei figli. La scelta che egli farà nel dare il nome al primo nato è quella di Menascè (dall’ebraico neshià, che significa dimenticare); la gioia provata per la nascita di questo bambino rappresenta il superamento della sofferenza del passato. Per il secondo, la scelta cade su Efraim (dall’ebraico prì, che significa frutto), frutto ricevuto nel paese dell’afflizione, simbolo di una possibilità di proiezione nel futuro, pur in terra straniera. Giuseppe passa, così, dal buio alla luce. Questa è la nostra sfida oggi: mettere in condizione gli stranieri di produrre,
coniugazione tra spazio e tempo Fra i personaggi biblici, Giuseppe incarna la fratellanza: egli deve cercarsi un fratello. Infatti la madre Rachèl lo chiama colui che si aggiungerà (in ebraico Josef, da asaf = aggiungere). Ella intende, nel dare questo nome al figlio, ringraziare Iddio perché le aggiungerà un altro figlio. È data più importanza al fatto che egli sarà fratello, quindi sarà parte di una famiglia, piuttosto che alla sua nascita come singolo uomo; inoltre, nella sua figura, è emblematica la convivenza perché, nonostante le difficoltà, egli riesce a convivere con i fratelli, ad instaurare e a mantenere, a distanza di tanti anni, un rapporto di comprensione con loro nonostante le sue vicissitudini ed il male subito. Giuseppe è inoltre lo straniero; come tale egli giunge nella terra d’Egitto, venduto come schiavo; in questa terra di sofferenza,
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anche nella terra dell’esilio e della sofferenza, mantenendo e non rinnegando la memoria del loro passato; e Roma che, come Gerusalemme, è la città spirituale per eccellenza, si pone l’obiettivo, attraverso i suoi sforzi materiali e i suoi progetti (la creazione di questa stessa rivista o di un organismo come la Consulta delle Religioni) di costruire strumenti di accoglienza e di pace, di essere come la tenda di Abramo che fa sentire a casa propria tutti quelli che vi giungono. Il destinare ai diversi culti, luoghi dove commemorare le tappe salienti della vita, dove compiere i gesti religiosi, tradizionali e culturali che accompagnano i giorni di ognuno nell’arco dell’esistenza, permetterà a tutti di esprimersi , realizzarsi e dialogare con pari dignità generando così progresso e cultura.
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ROMA RAPPRESENTA LO SPAZIO ORIGINARIO CAPACE DI ESPRIMERE LO SPIRITO RELIGIOSO E LE RADICI COMUNI DELLE CIVILTÀ CHE SI SONO AFFACCIATE SULLE RIVE DEL MEDITERRANEO
onsiderare l'architettura come linguaggio di pace, superando i rischi della retorica, è uno dei grandi temi che la Casa dell'Architettura di Roma propone da tempo. La prima iniziativa presa in questa direzione è stata l'organizzazione nel 2006 (con la collaborazione dell'Ufficio per le Politiche della multietnicità e la Casa delle Letterature) di due giornate di dibattito dedi-
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mettere in evidenza i caratteri comuni del territorio e della città mediterranee. Perché il Mediterraneo è sempre stato considerato, nel corso della storia, luogo di conflitti tra civiltà provenienti da territori lontanissimi: dalle steppe degli Altai, dalle sabbie dell'Arabia, dalle foreste del Nord Europa. Non è stato notato, invece, come l'architettura delle città mediterranee possa essere letta come espressione solare e ottimista della convivenza tra umanità diverse abbracciate da una comune cinta di mura. Queste città dello scambio e della fusione finiscono per mostrare, se si guarda oltre la differenza delle architetture alte (dei palazzi, delle sinagoghe, delle moschee, delle chiese) uno stesso carattere riconoscibile, quasi una lingua condivisa dai tanti tessuti di semplici case della quale s'intuisce, attraverso l'emozione delle forme, una radice comune.
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cate alla convivenza multietnica nel bacino del Mediterraneo: la prima incentrata sul tema dello spazio sacro nelle grandi religioni monoteiste (La Casa di Abramo, 23 giugno) e la seconda sul retroterra culturale che, per molti aspetti, accomuna le città mediterranee (Un solo Mediterraneo, 24 giugno). Gli incontri, come mostrano alcuni degli interventi svolti in quella occasione e che vengono pubblicati nelle pagine che seguono, si inserivano nel quadro di un programma della Casa dell'Architettura di Roma che mira a stabilire un terreno d'incontro non solo tra discipline, ma anche tra culture diverse in un periodo, come quello che stiamo vivendo, nel quale i conflitti tra comunità politico-religiose sembrano avere nel Mediterraneo uno dei centri focali. Ci è sembrato allora opportuno, da architetti,
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Il riconoscimento di questa impronta, evidente e concreta, è un dato assolutamente moderno: corrisponde al declino dell'interpretazione convenzionale del paesaggio mediterraneo che pittori e poeti avevano per lungo tempo identificato con l'eredità classica, idealizzata nella luminosità di trabeazioni e nella trasparenza di colonnati. Quando i viaggiatori, dopo la metà del '700, si spingono nell'Italia meridionale si rivela, quasi d'improvviso e con radiosa evidenza, la natura di un territorio organicamente antropizzato, un mondo di murature massive e di case dalle piccole finestre. Volumi puri sotto la luce, solidi, stabili, continui, diffusi sull'intera costa del Mediterraneo. Si scopre così come anche in architettura, accanto alla lingua ufficiale, esista un diffuso parlato quotidiano e come dietro l'immagine
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solenne di un tempio ionico (un lampo che rimane impresso nella retina e nella memoria proprio per la sua eccezionalità) viva una lingua plastica e muraria diffusa, trasmessa dal flusso inesauribile di pacifiche case a schiera o a corte che hanno formato l'essenza della città mediterranea. E comincia a formarsi, anche, la consapevolezza di una possibile, comune identità. Comprendere queste radici significa anche capire come la ricostruzione dei territori palestinesi, ciprioti, israeliani, libanesi massacrati da anni di guerre, partecipi non solo delle stesse tragedie, ma anche di un fecondo lascito, di un sedimento comune costituito dalla forma delle case, delle città e del territorio. In questo quadro, il tema dello spazio sacro ha un ruolo del tutto particolare per la storia stessa delle grandi religioni monoteiste che si sono sviluppate nei paesi del Mediterraneo,
lo spazio sacro
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dell'architettura dello spazio domestico con l'idea del legame che può unire uomini diversi sotto uno stesso tetto. La tenda di Abramo costituisce l'espressione religiosa comune di questa casa delle origini, raccogliendo la poesia dello spazio protetto e, insieme, aperto al diverso, al viandante. Nella Bibbia, Abramo accoglie i tre viandanti che arrivano alle querce di Mamre sotto la propria tenda, dove prepara un banchetto per gli sconosciuti ospiti. Nella Torah la casa di Abramo è il simbolo stesso della chesed, dell'amore verso il prossimo. Nel Corano, nella sura di Imran, la Kaaba eretta da Abramo è la prima casa costruita per l'uomo, destinata a divenire luogo di riunione e rifugio. Uno stesso spazio originario sembra dunque esprimere, insieme, lo spirito religioso e le radici comuni delle civiltà che si sono affacciate sulle rive del Mediterraneo.
La Casa di Abramo le quali trovano un loro punto d'incontro proprio nell'architettura religiosa delle origini. È vero che, nel corso del tempo, ognuno sembra aver letto nelle scritture della propria religione le conferme che andava cercando e la moschea, la sinagoga, la chiesa sembrano oggi, considerate nei loro esisti architettonici, espressione di gelose diversità. Eppure, se si ripercorre il processo formativo della loro architettura, espresso simbolicamente in tutte le scritture, ma evidente anche nella concretezza del costruito, si scopre la loro origine comune nella casa. Origine che esprime i valori più profondi dello spirito religioso ebraico, islamico, cristiano: la pietas e la fratellanza tra gli uomini identificate nel gesto dell'accoglienza. Dal confronto tra i diversi libri sacri si scopre una comune, appassionata identificazione
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Producendo forme murarie avvolte intorno ad una corte centrale, essenza della casa delle origini che darà vita a tanta architettura mediterranea. Proprio a Roma queste radici comuni hanno trovato una sintesi straordinaria e vitale, l'alveo condiviso dove gli infiniti contributi regionali si sono trasformati in messaggio universale. Per questo il riferimento alla casa di Abramo, evocata più volte nel corso degli incontri, per fortuna sempre più frequenti a Roma, tra le comunità ebraica, islamica e cristiana, sembra un richiamo non solo ad un patrimonio comune, a tradizioni accolte come proprie da popoli diversissimi, ma anche al ruolo di generoso spazio dello scambio, di grande Casa comune del Mediterraneo che la nostra città, ancora una volta, sembra chiamata a svolgere.
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3 Benedetto Carucci Viterbi
Il Mishkan La costruzione del Mishkan - il Santuario portatile, il Tabernacolo - viene comandata da Dio nel deserto dopo i dieci comandamenti; la realizzazione materiale segue l’episodio del vitello d’oro. L’origine della parola è di grande significato e chiarisce il ruolo del Santuario - anche di quello stabile di Gerusalemme eretto da Salomone - riconducendolo alla sua radice Il Moriah è il monte profonda. “Mi faranno un Miqdash (un dove è avvenuta la Santuario) ed Io risiederò in “legatura di Isacco”, mezzo a loro”: la radice shkn il momento di copre l’ambito semantico dell’abitare, del risiedere, delmassima dedizione l’immanere. Il Santuario pordi Abramo a Dio e tatile è ciò che testimonia il merito l’immanenza, la vicinanza, la fondamentale che presenza di Dio in mezzo al popolo. Non è la Sua dimora: egli ha lasciato in il testo non dice infatti “e risieeredità alle derò in esso”, ma “in loro”. generazioni dei Il Santuario è l’ultimo gradino della vicinanza tra Dio e l’uosuoi discendenti mo, non il presupposto. Solo dopo la rivelazione dei dieci comandamenti ne viene ordinata la costruzione; quando il popolo ha preso su di sé il giogo del Cielo, attraverso l’accettazione della Torah e delle mizvot, Dio risiede realmente in Israele, che è Suo testimone. Diventa chiaro in questo senso perché i sacrifici si offrano proprio sull’altare che è nel Mishkan : una frattura tra l’uomo e Dio, pur se
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involontaria, può esser ricomposta nel luogo testimone del legame, comunque assicurato, tra coloro che hanno stretto il patto sul Sinai. Il Qorban - sacrificio nel senso più generale è ciò che si presenta a Dio ma è anche ciò che, nella consapevolezza della frattura, riavvicina a Dio. Questo è il senso della radice qrv. E questo è probabilmente anche il senso dell’ Aron ha qodesh, l’arca Santa - anche Aron ha Edut, arca del patto - che conteneva proprio gli elementi più concreti della vicinanza di Dio al popolo: la manna e le tavole con incisi i dieci comandamenti, sia quelle intere che quelle rotte, per affermare la fedeltà di Dio verso il popolo anche dopo la trasgressione del vitello. Sopra l’arca erano due cherubini fatti di un’unica colata d’oro: si volgevano reciprocamente la faccia ed erano uniti per le ali. Secondo un midrash questi cherubini, nei momenti di distacco degli uomini da Dio, si voltavano le spalle. Ma restavano comunque un unico pezzo d’oro unito per le ali. L’arca doveva sempre mantenere incastrati i bastoni che servivano a trasportarla, quasi a sottolineare da una parte la sconnessione tra essa ed un luogo specifico dello spazio fisico e dall’altra il legame simbolico con il suo contenuto: la Torah. Se l’Arca rappresenta lo studio e l’applicazione della Torah, deve essere sempre e comunque trasportabile e attuabile dall’uomo. In un solo luogo riesce, dopo generazioni di spostamenti, a fermarsi per qualche secolo. Nella città dove sono raccolti i nove decimi di bellezza e di santità del mondo, Gerusalemme, e su un monte dalla storia particolare ed illustre, il Moriah.
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lo spazio sacro
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Quando anche il secondo Santuario sarà distrutto dai romani, nel 70, il popolo ebraico nella dispersione avrà comunque il suo eterno Santuario portatile: la Torah e il suo studio.
Il monte Moriah Il luogo dove viene costruito il Bet ha Miqdash, il Santuario, è oggetto di una profonda riflessione nella letteratura midrashica. Il posto non nasce dal nulla, è piuttosto un ricorrente punto di incontro tra l’uomo e Dio. Su questo monte Adamo ha offerto il primo sacrificio, così come hanno fatto i figli Caino ed Abele. Noè vi ha presentato il suo ringraziamento uscito dall’arca, alla fine del diluvio. Ma soprattutto il Moriah è il monte dove è avvenuta la “legatura di Isacco”, il momento di massima dedizione di Abramo a Dio e il merito fondamentale che egli ha lasciato in eredità alle generazioni dei suoi discendenti. È grazie a questo che, anche quando trasgredisce, il popolo di Israele può confidare nella Rachamim di Dio, nella Sua misericordia. Il luogo è il punto in cui l’uomo sale, è il correlativo del Sinai - in alcune tradizioni midrashiche i due monti vengono identificati - su cui Dio è “sceso” per parlare con il popolo. Non è un caso che il maggior commentatore della Torah, Rashì di Troyes, indichi il Moriah, con una spiegazione apparentemente ardita che
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egli deriva dalla tradizione dei Maestri, come il posto su cui giacque Giacobbe mentre sognava la scala con gli angeli “che salivano e scendevano”. Il punto dove viene costruito il primo Santuario da Salomone, nel quale fu eretto anche il secondo dagli ebrei tornati dall’esilio babilonese e dove sorgerà il terzo, del tempo messianico, è il ponte tradizionale - nel quale si incontrano le prime generazioni con tutte le successive - tra il mondo del basso e quello dell’alto, è l’ombelico del mondo e la porta del cielo. Il senso di testimonianza della presenza divina del Mishkan, il senso di avvicinamento del Qorban sono riassunti nella storia simbolica del monte Moriah. Solo su questo potevano, una volta costruito il Santuario, essere offerti i sacrifici e verso di questo si volgevano, e si volgono, gli ebrei quando pregano, ovunque si trovino. Su questo monte, dentro una sala del Bet ha Miqdash, risiedeva il Sinedrio, la massima istanza giudiziaria di Israele, il consesso di Maestri che, secondo la tradizione interpretativa, attualizzava in ogni generazione la Torah cioè rinnovava continuamente, con lo studio, la rivelazione del Sinai. L’apparente immobilità spaziale del Bet ha Miqdash, che sembra distinguerlo dal Mishkan, è qui superata dalla forte mobilità nel tempo del contenuto fondamentale del Santuario e dell’arca Santa, la Torah.
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Israele, Gerusalemme. Moschea di al-Aqsa
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Il Santuario, l’uomo e il mondo
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Secondo un midrash Dio creò il primo uomo nel luogo dove sarebbe sorto il Bet ha Miqdash, il Santuario, il punto più sacro di tutta la terra. Un’altra interpretazione rabbinica insegna invece che l’uomo fu creato con la polvere tratta da tutti i luoghi del globo. I due approcci integrati mostrano, tramite l’uomo, il rapporto che esiste tra il mondo e il Santuario. Adamo è creato come
entrato nel paradiso terrestre, così dopo la trasgressione passa dal Tempio per entrare nella storia. E sarà il terzo Tempio che segnerà l’era messianica, l’ultima tappa, extrastorica come la prima - nella letteratura profetica è definita con l’espressione acharit ha jamim, il “dopo dei giorni” - della vita dell’umanità reintegrata nella sua dimensione coerente con l’idea divina originaria. Nell’opera della creazione Dio ha utilizzato, secondo una tradizione midrashica più volte ricorrente, una sorta di progetto archi-
un puzzle di terra perché nessuno dei suoi discendenti possa vantarsi di fronte all’altro ed ha in sé la sacralità del Santuario, uno degli elementi pensati e creati da Dio prima del mondo. C’è dunque affinità, parentela profonda, legame ab origine tra uomo e Santuario: lì viene creato e lì, alle porte dell’Eden, viene rimandato dopo aver mangiato dall’albero della conoscenza del bene e del male. Come dal Santuario Adamo, ricco di una dimensione esistenziale incommensurabile con quella successiva, era
tettonico. Ha guardato la Torah - un altro degli elementi preesistenti alla realtà - e con essa ha creato il cosmo. In un modo simile, seguendo il modello che Dio ha mostrato a Mosè sul monte Sinai, il Mikdash viene costruito da Bezalel, capo degli artigiani. Il nome di quest’uomo è all’ombra di Dio ed ha un’assonanza incredibile con l’espressione biblica che indica la più forte parentela tra uomo e Dio: Bezelem Elohim significa infatti ad immagine di Dio. Sembra in un certo senso che l’architetto del Tabernacolo
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sia la quintessenza dell’essere uomo. È forse in quanto tale che una tradizione talmudica gli attribuisce la capacità di combinare le lettere con cui furono creati il cielo e la terra. Come c’era connessione tra l’uomo e il Santuario così emerge un legame di omologia di fondo creazione e costruzione del Mishkan, quasi quest’ultimo fosse una sorta di mondo in piccolo. Un famoso midrash, collegando il primo capitolo della Genesi con vari punti della Torah in cui si enumerano gli elementi del
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concretamente vivibile la corrispondenza profonda tra Tabernacolo/Santuario e cosmo pur restando essi stessi al di fuori delle regole del Sabato. Come il mondo, con i suoi meccanismi, procede nel suo corso, così nel Mishkan e nel Bet ha Miqdash si possono, anzi si debbono compiere tutte le azioni necessarie perché la sua funzione abbia luogo: se per l’uomo è proibito accendere il fuoco, nel Santuario i sacerdoti dovevano utilizzarlo per i sacrifici specifici di quella giornata.
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Tabernacolo, stabilisce in questo modo che il Mishkan è equivalente alla creazione del mondo. Tale equivalenza è poi ribadita in uno dei momenti centrali della vita ebraica, forse quello che lega con più forza la creazione e, in un cerchio significativo, l’era messianica: lo Shabbat, il Sabato. Le azioni proibite all’uomo in questo giorno, cessazione di ogni attività creatrice così come fu per Dio il settimo giorno, sono proprio i trentanove lavori previsti per la costruzione del Miqdash. In questo modo si rende tangibile,
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Il mondo, l’uomo e il Santuario si trovano all’interno di una fitta serie di rapporti e di rimandi che reciprocamente danno significato. Il popolo di Israele non ha più da duemila anni il Bet ha Miqdash ma mantiene con sé il suo contenuto, ciò che era trasportato dall’Arca: la Torah. Studiandola, studiando anche tutte le parti riguardanti il Mishkan e il culto che lì si svolgeva, guardando cioè nel grande progetto del cosmo nel quale è contenuto anche il piano del Santuario, è come se quotidianamente lo ricostruisse.
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Israele, Gerusalemme. Veduta panoramica della moschea di al-Aqsa
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IL SACRO: DALL’ASSOLUTO ALLA DIVERSITÀ DELLE ESPRESSIONI
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irò subito che mi ha molto colpito, naturalmente nella maniera più positiva, il titolo che si è dato a questo incontro, “Lo Spazio del sacro, dell’accoglienza, della condivisione”, poiché la nostra religione ben si riconosce in tutti e tre i termini e la moschea è per eccellenza il luogo in cui il consesso dei credenti si ritrova non solo per pregare, ma per Entrando in una mettere in condivisione, appunmoschea si è to, in spirito di fratellanza, le proprie esistenze. avvolti da un Allo stesso tempo, con l’aiuto silenzio carico di che si dà attraverso l’elemosina e spiritualità: gli l’assistenza ai fratelli più sfortunaampi spazi ti, e non ultimo col farli sentire parte integrante di una collettività – illuminati o in seguendo l’esempio del nostro penombra invitano Profeta Muhammad – la moalla meditazione e schea diviene anche il luogo dell’accoglienza. l’udire la Affrontando il tema dell’idea di recitazione del moschea è necessario partire diCorano intenerisce rettamente dall’etimologia del termine. La lingua araba si strutil cuore tura per radici di base da cui si diramano varie sfumature di significato. Così da una radice sajada, prosternarsi, abbiamo il termine masjid, luogo in cui ci si prosterna in atto di adorazione. È lampante che il termine non descrive il luogo, dandone connotati ben precisi o paradigmatici, ma l’azione che vi si svolge. Già questo può
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far riflettere mostrando, in linea di massima, che in origine la preponderanza non è data alla spazialità, quanto piuttosto alla gestualità. Mi è caro chiarire subito un dubbio che spesso ricorre all’udire le parole “ovunque può essere moschea”: con questo non si intende la volontà di fare del mondo una moschea, ma anzi il suo contrario, ovvero che, fatti salvi alcuni requisiti minimi ogni luogo, persino quattro sassi che temporaneamente delimitano uno spazio, possono diventare moschea. Non siamo in presenza di un luogo consacrato o sacro, dove insiste il divino, ma – nel paradosso – di un non luogo. Recita il Corano: “A Dio appartiene l’oriente e l’occidente, e ovunque vi volgiate ivi è il volto di Dio.” (Cor., 2:115) ed ancora “volgi dunque il volto verso il Tempio Sacro, rivolgetevi tutti, ovunque voi siate, verso quella direzione” (Cor., 2, 144). Ho accennato, en passant, al concetto di sacralità, sul quale ritengo opportuno soffermarmi per dare alcune delucidazioni: la moschea, intesa come luogo di culto non è, strictu sensu, la casa di Dio che pure, agli occhi dei musulmani, esiste. È necessario a questo punto fare brevemente ritorno al nobile Corano, data per assodata la consapevolezza che per noi esso è più di un testo ispirato e rivelato: è il testo fatto discendere materialmente da Dio all’uomo e che ne racchiude la diretta e testuale parola. Il termine masjid-moschea è presente in maniera copiosa nel nobile Corano e ben ne mostra i tratti salenti. Ce ne siano di esempio due
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versetti, il primo dei quali ci rimanda ad Abramo, la cui casa dà il titolo a questo incontro: “Rammenta quando facemmo abitare Abramo nel recinto della Casa di Dio dicendogli: ‘Non associarMi oggetto alcuno, ma purifica la Mia Casa per quei che l’aggirano pii, per i ritti in preghiera, per chi s’inchina e si prostra!’” (Cor., 22:26). Con questo termine - la Mia Casa - Iddio indica il Sacro Luogo di Mecca e il suo santuario, vero e proprio sancta sanctorum dell’Islam. Da un lato dunque la Casa di Dio, dall’altro i luoghi di preghiera, come recita il Corano: “Ritiratevi in preghiera nei luoghi d’orazione” (Cor., 2:187) e qui l’arabo utilizza masajid, moschee, nell’accezione a noi nota. Si potrebbe pensare che ogni moschea, in quanto orientata verso Mecca, abbia il suo Santuario a modello. Tuttavia, pur essendo il modello celeste, Mecca si caratterizza per la sua unicità e difatti compito delle altre moschee non sarà quello di mitare o riprodurre il modello celeste, bensì quello di volgersi spiritualmente a lei trovando il modello in un altro edificio, in quella che sarà - storicamente - la prima moschea dell’Islam, ovvero la casa del Profeta Muhammad, luogo dove Egli fu inoltre sepolto e su cui sorse, in questo caso sì, la moschea intesa come edificio-istituzione per eccellenza di tutto l’Islam. Difatti fu necessario attendere che il Profeta giungesse a Medina per avere un luogo che avesse carattere di pubblicità e si configurasse per possedere tutte quelle caratteristiche che oggi noi ritroviamo in una moschea. Se
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è naturale che la preghiera, anche in forma collettiva, fosse già praticata a Mecca, le persecuzioni colà subite dai musulmani resero pressoché impossibile avere un luogo ufficiale destinato al culto. So che sto parlando ad un pubblico essenzialmente composto da esperti e tecnici in materia di architettura, come so che seguirà un intervento di Paolo Portoghesi; non intendo, pertanto, dilungarmi in argomenti che saranno certo meglio affrontati dopo di me. Non posso tuttavia esimermi dal dire che insisto sul termine modello, con una duplicità di fini. Senza dubbio da un lato la casa del Profeta sarà un modello architettonico, poiché già vi troviamo tutti quelli che saranno gli elementi delle prime moschee classiche a pianta araba: il cortile interno, in cui una delle sue parti – in questo caso un semplice spazio sormontato da una pergola – diverrà in seguito vera e propria sala di preghiera, o ancora uno scranno di legno di palma, vero progenitore del minbar, il pulpito da cui si tiene il sermone del venerdì. Ma accanto alle tematiche architettoniche, per le quali necessiteremmo di un convegno ad hoc, non possiamo dimenticare che già in questa idea di proto-moschea e dalla vita quotidiana che vi brulicava, fosse essa vita religiosa o meno, possiamo leggere un aspetto religioso, uno sociale, uno culturale, uno politico e, certamente, uno estetico e architettonico. L’Islam avverte profondamente il senso della storia e della sua continuità e possiamo pen-
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Arabia Saudita, Medina. Sacra Moschea del Profeta
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sare che ciò che un musulmano viva oggi quando entra in una moschea sia assai simile alle pulsioni che hanno animato i suoi confratelli in quindici secoli di civiltà islamica. Dall’emozione di giungere in vista dei Luoghi Santi, alla consapevolezza di trovarsi in uno spazio che per convenzione chiamiamo sacro, recitando sacri testi e compiendo movimenti che, in quello stesso luogo, sono stati compiuti - pregando Iddio e venerandoLo - generazione dopo generazione. Parimenti, seppur nella diversità delle aspettative, possiamo Con le parole immaginare che la moschea “ovunque può essere continui ad assolvere, agli occhi della comunità, alle medemoschea” non si sime istanze. intende la volontà di Entrando al suo interno si è avfare del mondo una volti da un silenzio carico di moschea ma il suo spiritualità: gli ampi spazi illuminati o in penombra invitacontrario, ovvero no alla meditazione; l’udire la che, persino quattro recitazione del Corano intenesassi che delimitano risce il cuore. L’assenza di ogni immagine concentra l’animo uno spazio possono umano sulla riflessione del diventare una mistero di Dio. moschea Ed è giusto qui spendere un breve cenno per dire che non si tratta di rifiuto iconoclasta dell’immagine, ma di rispetto per il divino miracolo della creazione, che certo l’uomo non può imitare o riprodurre con i poveri mezzi fallibili di cui dispone. Ma la moschea è non solo il Luogo dove si adora Dio e dove ci si rifugia per meditare e ritrovare se stessi. È luogo in cui la comunità si riunisce, in cui passa le notti del sacro mese di ramadan in attesa di una nuova alba e di un nuovo digiuno offerto a Dio, senza dimenticare tutte le moschee che divengono anche meta di vero e proprio pellegrinaggio o di devozionale visita, come - olIsraele, tre ai Luoghi Santi di Mecca e Medina - ad Gerusalemme. esempio la Moschea di al-Aqsa a GerusalemLa cupola nera della moschea di me da dove il nostro Profeta Muhammad saal-Aqsa rebbe asceso in cielo. La moschea è anche luogo di trasmissione del sapere e, ad esempio, nella civiltà classica islamica sesso i grandi complessi religiosi raggruppavano, quando l’insegnamento non era impartito nello stesso luogo di culto, la madra2
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sa. Questa trasmissione del sapere avveniva sia attraverso l’insegnamento, non necessariamente a connotazione teologica, sia attraverso la salvaguardia del patrimonio intellettuale manoscritto; e qui non possiamo, in virtù di questo senso di continuità, non volgere la mente al Profeta dell’Islam che, raccolto con i suoi compagni nel cortile della sua casa, provvedeva serenamente alla loro educazione e alla loro istruzione. Disse il Profeta dell’Islam: “Devo essere per loro come un padre ed istruirli su tutto”. Ulteriore aspetto è quello della dimensione sociale della moschea, attraverso un duplice frangente, collettivo ed individuale. Non è un caso che storicamente, nel mondo musulmano, la moschea abbia spesso rappresentato il fulcro della vita collettiva della città o di qualsivoglia insediamento abitativo. Lungi dall’essere una sorta di polverosa cristalliera, la moschea nasce per essere vissuta appieno e alcuni esempi di risvolti urbanistici possono essere esplicativi: è attorno alla moschea che si insedia il mercato, centro principe della vita cittadina. Anzi le corporazione di mestiere, in maniera non differente dall’occidente medievale e rinascimentale, arriveranno ad avere moschee di propria pertinenza. Non dimentichiamo inoltre nella sfera del sociale, come accennavo in apertura, il ruolo della moschea come istituzione caritatevole, che si fa carico del più debole come oggi, in terre d’immigrazione, si fa carico di tenere unita la comunità, cercando di dare risposta a quelli che sono i suoi problemi, i suoi drammi, i suoi interrogativi. Per concludere, ritornando a quel senso di continuità che è stato il mio filo conduttore: che cosa rappresenta oggi la moschea per un musulmano a Roma? Indubbiamente è un luogo di preghiera, ma è anche il luogo in cui si cerca di ritrovare se stessi, come si era prima di lasciare il proprio mondo, cercando di colmare un vuoto fatto di distacco e nostalgia, riaggregando attraverso la fede - ma andando anche oltre la fede - quel comune tessuto di relazioni umane senza il quale nessun individuo sarebbe in grado di sopravvivere. Dovunque, l’uomo volga il suo volto in cerca di Dio: là troverà Dio e, attraverso questa consapevolezza, sarà in grado di salvare anche se stesso.
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UN SOLO MEDITERRANEO: LO SPAZIO SACRO NEL PENSIERO RELIGIOSO Tratto dal convegno “La Casa di Abramo”, Roma - Casa dell’Architettura, giugno 2006
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ono stato invitato a essere fra voi, pur non avendo la competenza desiderabile nel campo di cui vi occupate, nella mia qualità di responsabile per l’Italia di questa organizzazione internazionale delle “Religioni per la Pace”, un’organizzazione che ha sezioni in decine di Paesi, interviene per la composizione di conflitti locali allorché esiste anche una componente religiosa Credo che si possa alla base dello stesso conflitto e si autodefinisce come un dire che la diffusione movimento “formato da rapdella diaspora ebraica, presentanti di tutte le relicome del primo gioni, che provengono da cristianesimo, come tutte le regioni del mondo e che si occupano di tutti gli forse la diffusione aspetti della pace” (e quindi dello stesso Islam non solo di pace, ma anche sono state facilitate, di giustizia, rispetto dei diritti umani, superamento di ogni nel corso dei secoli, forma di razzismo, pieno dalle vie di rispetto e armonia con la comunicazione aperte natura e la creazione). Anche a livello italiano abnel Mediterraneo biamo diversi gruppi di lavoro intorno al tema della convivenza pacifica e della multiculturalità e per questo motivo sono molto lieto del tema di questo convegno. Infatti il nostro movimento è animato dalla convinzione che, contrariamente all’idea molto diffusa nell’opinione pubblica per cui le religioni sarebbero soIl Buon Pastore prattutto fonte di divisioni e di conflitti all’in1
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terno dell’umanità, nella realtà esse conservano nelle proprie Scritture insegnamenti di amore e di pace e possiedono al proprio interno riserve inesauribili di intelligenza e di bontà in innumerevoli persone che sono consacrate all’amore, al servizio del prossimo e alla ricerca di una convivenza pacifica nella nostra umanità. Sono invece proprio alcune ideologie che avevano rifiutato una visione religiosa del mondo ad aver provocato nel secolo ventesimo i più atroci conflitti e le stragi più abominevoli, fra tutte quelle che l’umanità ha conosciuto nel corso della sua storia. Poiché sono stato invitato anche nella mia qualità di teologo cattolico, dopo avere ascoltato il contributo di parte ebraica e quindi di parte islamica, mi permetterò di dare il mio contributo esponendo tre riflessioni che esprimono un punto di vista cristiano. Con la prima vengo a completare il panorama che è stato tracciato in precedenza a proposito dello spazio sacro esponendo la prospettiva cristiana. In realtà questa distinzione tra sacro e profano, il sacro riservato alla divinità e il profano proprio della nostra esistenza quotidiana, è una distinzione di origine piuttosto pagana e che non appartiene di per sé alla tradizione cristiana, per la quale si deve insistere sull’aspetto della santità che pervade la vita quotidiana di ciascuno. Dio infinitamente Santo, tre volte Santo, partecipa la propria santità agli uomini, nei quali c’è una presenza di Dio – santa e santi-
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California, Northridge. Chiesa ortodossa di St. Nicholas. Ritratto di Giovanni Battista. Mosaico
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ficante – e tutta l’esistenza umana, in tutte le sue dimensioni, in tutti i suoi aspetti, è trasformata da questa presenza della santità. Nel vangelo di Giovanni ascoltiamo la Samaritana che interroga Gesù: ”Signore, vedo che sei un profeta. Ora i nostri padri hanno adorato Dio su questo monte, ma voi dite che è in Gerusalemme il luogo in cui si deve adorare”. Ad essa Gesù di Nazareth risponde: “Credimi, donna, è venuto il tempo in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… è venuta l’ora in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità… Dio è spirito e vuole adoratori in Spirito e Verità” (Gv. 4, 19-24). Tuttavia il tema dello spazio sacro lo ritroviamo nella tradizione cristiana quando si parla, ad esempio, del tempio. Ora il tempio ha una valenza simbolica molto ampia, come ha ricordato Jean Daniélou nella sua lettura delle diverse forme di tempio esistenti. Vi è innanzitutto il grande tempio
della creazione, che dà gloria a Dio e nel quale lodiamo e ringraziamo il Creatore e il Signore che chiama all’esistenza l’universo e l’umanità. C’è poi il tempio formato dal popolo di Dio della prima alleanza, legato con un patto di amore con il suo Signore. C’è il tempio di Gerusalemme, luogo simbolico nel quale si può rendere il vero culto a Dio, la Gerusalemme che nella tradizione ebraica e cristiana ha, come sappiamo, una molteplicità di simbolismi. Quando però Gesù dice: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”, egli fa riferimento al tempio del suo corpo, in quanto per la fede cristiana Dio si rende presente proprio nella persona di Gesù di Nazareth, che per il mistero dell’incarnazione è presenza di Dio in seno alla nostra umanità. “Ma come, obiettano gli interlocutori, ci sono voluti quarantasei anni per costruire questo tempio – si tratta del terzo tempio, il tempio fatto ricostruire da Erode e che è quello che
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esisteva all’epoca di Gesù – e tu dici che lo farai risorgere in tre giorni?”. E l’evangelista annota: “In realtà Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv. 2, 19-21). Il corpo del Cristo risorto è il tempio nel quale sono chiamati a raccogliersi tutti i discepoli, membra dello stesso corpo. Questo tempio, nel quale si raccoglie tutto il popolo di Dio, ma che nella prospettiva è chiamato ad accogliere l’umanità intera, chiamata a formare una sola famiglia di Dio che con una sola voce rende lode a Dio e prepara sulla terra la pienezza della Gerusalemme celeste: “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, discendere dal cielo, da Dio, bella come una sposa adorna per il suo sposo… Non vidi alcun tempio in essa, perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio” (Ap. 21, 2. 22). Esistono tuttavia sulla terra gli edifici sacri, e sono quelli di cui vi occupate: ed ecco la seconda riflessione. Gli edifici sacri, secondo la tradizione cristiana, non sono come i templi greco-romani nei quali abitava il dio e c’era solo lo spazio per il dio. Gli edifici sacri della tradizione cristiana sono edifici destinati ad accogliere al proprio interno il popolo di Dio, la comunità cristiana locale anche se possono rappresentare simbolicamente il segno di quel tempio più grande di cui si è parlato prima. In essi, soprattutto nelle epoche passate, in maniera analoga a quanto accade ancora oggi nelle moschee, la comunità dei credenti si incontrava anche per ragioni di conversazione, di amicizia, per trattare i propri affari. Essi costituiscono un punto di riferimento per la comunità locale anche dal punto di vista spaziale e richiamano ad una dimensione spirituale e religiosa, che può offrire un’anima a un intero quartiere. Molti di questi edifici sono stati eretti sul luogo in cui esistevano edifici sacri pagani e questo accade, in particolare, proprio nel nostro mondo mediterraneo. Personalmente leggo in questo fatto non solo una ‘inculturazione’ particolarmente riuscita, ma anche il riconoscimento del valore delle altre religioni da parte della comunità cristiana. Per la preghiera della comunità si sceglie lo stesso luogo in cui nelle generazioni passate avevano pregato i fedeli
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di altre religioni. Ciò significa un riconoscimento implicito del valore che le diverse religioni della nostra umanità possono avere davanti a Dio, il valore della preghiera e del culto offerto da altri e in altre forme nelle generazioni passate. Ciò giustifica la scelta di una continuità anche nel luogo. Ci sono stati edifici sacri della religione mesopotamica, egizia, greco-romana, che ci offrono la testimonianza della ricerca religiosa, dell’esperienza religiosa di queste popolazioni che ci è stata conservata proprio grazie ai segni architettonici che abbiamo riscoperto e che consentono di tramandare la memoria di questa spiritualità e di questa esperienza religiosa al di là del volgere delle generazioni. In alcuni casi, questi templi della religione mesopotamica, egizia, greca e romana, sono stati riutilizzati come edifici di culto cristiani. Soprattutto in Italia accade spesso, mentre andiamo per le montagne, o anche quando visitiamo antiche città, di trovare santuari o altri luoghi di culto cristiani che si riconoscono edificati sopra luoghi di culto dell’epoca pre-cristiana, le cui tracce restano spesso nelle fondamenta o nel sottosuolo. Questa riutilizzazione costituisce la prova del riconoscimento spontaneo, non riflesso ma certamente realizzato sotto l’azione dello Spirito, del valore delle diverse espressioni della religiosità umana, interpretate come preparazione di quella pienezza di verità e di amore che il cristiano crede di ritrovare nella rivelazione evangelica. Questo riconoscimento del valore dei segni religiosi lasciati da coloro che ci hanno preceduto e che porta a salvaguardare la continuità e a riutilizzare luoghi sacri di altre religioni non si realizza solo per quelle religioni che oggi non esistono più. Essa ha luogo anche nei confronti di religioni che sono ancora viventi anche se in quella regione i loro fedeli non sono attualmente presenti perché sono stati scacciati o perché hanno aderito alla nuova fede. Anche questo ha caratterizzato il nostro mondo mediterraneo: pensiamo alla riutilizzazione di S. Sofia a Costantinopoli (Istanbul) come moschea o alla ripresa della moschea di Cordoba come chiesa. Nei rapporti fra credenti delle diverse religioni abbiamo questi segni che
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potremmo definire architettonici e che ci testimoniano attraverso la riutilizzazione degli stessi edifici religiosi il rispetto e l’accoglienza di altre tradizioni religiose: qui altri hanno pregato e sentendoci in qualche modo in comunione con quella preghiera ora possiamo pregare noi. Questo rispetto e accoglienza di altre tradizioni religiose si manifesta infine, proprio intorno al nostro Mediterraneo, con lo scambio di forme architettoniche, con l’emulazione e la condivisione fra tradizioni costruttive diverse, con quella contaminazione incessante per cui gli edifici sacri che troviamo nelle diverse regioni del Mediterraneo li riconosciamo come edifici che hanno subito l’influenza di altri stili e di altre tradizioni architettoniche, in un gioco continuo di influenze e di arricchimenti reciproci. Questo è avvenuto in tutte le epoche e continua ad avvenire ancora oggi grazie a quella che potremmo definire un’emulazione positiva tra le religioni quando i loro fedeli sanno incontrarsi, dialogano fra di loro, accettano di imparare gli uni dagli altri, creando un nuovo stile di accoglienza reciproca e di convivenza fraterna. Terza e ultima considerazione. Si è visto come si possa continuare a parlare nella prospettiva cristiana di edifici sacri, comprendendoli nel senso sopra ricordato, ma forse la nozione di sacro, o meglio di santo, la dovremmo estendere ben al di là di quello che si intende abitualmente. La santità riguarda ogni figlio di Dio e proprio questo rende sacro e santo il luogo che gli uomini hanno abitato nel corso della loro vita, i luoghi che essi hanno percorso, le memorie che essi hanno lasciato. In particolare vorrei sottolineare, dal momento che si sta parlando di Mediterraneo e dell’architettura come linguaggio di pace intorno al mar Mediterraneo, come questo nostro mare lo dovremmo sentire di più come uno spazio sacro per tutti i popoli che si affacciano su di esso. Esso è stato un luogo di scambi sin dall’antichità ed è grazie al Mar Mediterraneo che era possibile traversare da una parte all’altra anche quando la mancanza di strade rendeva difficili le comunicazioni per via di terra, che sono fiorite civiltà straordinarie come l’egizia, l’etrusca, la fenicia, la
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greca, la romana, civiltà che si sono mescolate e hanno influito le une sulle altre dando origine alla nostra civiltà mediterranea – e qui vorrei ricordare l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, che ci invitano a riconoscere l’importanza capitale che questo mare ha avuto per lo sviluppo di questa nostra civiltà. Credo che si possa anche dire che la diffusione della diaspora ebraica, come la diffusione del primo cristianesimo, come forse la diffusione dello stesso Islam sono state facilitate nel corso dei secoli anche dalle vie di comuni-
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cazione aperte nel Mediterraneo. E’ stato soltanto dopo il tramonto dell’impero romano e bizantino, dopo le cosiddette invasioni barbariche e dopo gli eventi che hanno visto contrapposti cristiani e musulmani che il Mediterraneo – da luogo di incontri fecondi e di scambi culturali tra le popolazioni rivierasche – è diventato un luogo in cui ci si difendeva gli uni dagli altri, temendo lo sbarco di popolazioni estranee e nemiche. In Italia ce lo ricordano anche i canti popolari che riecheggiano antiche dif-
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fidenze e antiche paure: “… A tocchi a tocchi la campana suona, i turchi son sbarcati alla marina…”. La crescente diffidenza e inimicizia verso coloro che venivano da un mare lungamente infestato anche da “saraceni” e pirati ha reso più difficili i commerci e ha separato i diversi popoli delle diverse sponde del Mediterraneo costituendo, a mio avviso, una delle ragioni della decadenza di tanta parte dell’Italia nel corso di certi secoli, perché gli scambi interumani sempre fecondi di civiltà si erano trasferiti altrove. Nelle epoche più recenti, tuttavia, il Mediterraneo ha potuto tornare ad essere luogo di incontro e di scambio: dal Settecento e soprattutto nell’Ottocento gli italiani hanno sciamato attraverso il Mediterraneo prendendo casa in tutte le regioni e la lingua italiana era diventata lingua franca in tutto il Mediterraneo orientale. Adesso invece sentiamo che vi sono altre popolazioni che cercano di attraversare il mare e di giungere sulle nostre coste per poter essere accolti nel nostro Paese e fra di noi. Il Mediterraneo torna ad essere luogo di scambi e sembra sia vicino il tempo in cui può tornare a fiorire tra i popoli che vi si affacciano quella sintonia, quella fraternità, quella cordiale accoglienza reciproca al di là delle diversità religiose e culturali di cui sono testimonianza proprio i modi di costruire e di abitare così simili lungo le coste del Mediterraneo. Nel cuore del Mediterraneo, la città di Roma può essere considerata all’avanguardia in questa ricerca di una convivenza fraterna. In essa, intorno al fiume Tevere, troviamo chiese cristiane, sinagoga e moschea; in essa si sperimenta un’accoglienza e una valorizzazione delle diverse culture, ma anche delle diverse tradizioni religiose, che mostra come si possa convivere pacificamente e fraternamente al di là di tutte le nostre diversità culturali e spirituali. L’auspicio è che grazie a una migliore conoscenza delle nostre comuni tradizioni mediterranee, espresse anche attraverso l’architettura, si possa contribuire a far crescere quella comprensione e quella accoglienza reciproca fra persone di culture e di fedi diverse che sono indispensabili se vogliamo assicurare un futuro di pace alle generazioni che verranno.
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itagliato in mezzo alla terra come una fessura che sembra sul punto di richiudersi – i geologi sostengono appunto che esso sia nato dalla deriva dei Continenti – il Mediterraneo ha sempre avuto il ruolo di distinguere, con un punto di riferimento fisso, le terre che lo circondano ma non quello di separarle attraverso l’ignoto Il Corano non e l’incommensurabile come avviene per gli oceani. definisce i caratteri Piuttosto, con la sua forma della Moschea, ma sinusoidale continua, appene parla direttamente. na interrotta da varchi otticamente colmabili, esso ha Come del resto la svolto la funzione di un Chiesa cristiana, grande anello, rendendo anche la Moschea possibile, con la navigazione, non può essere il congiungimento diretto di due punti qualsiasi del suo considerata un contorno. Intorno a quetempio, ma una st’anello, negli ultimi millencasa, una casa di ni, si è svolto un flusso incessante di energie umane in preghiera cui squilibri di natura politica ed economica hanno agito come le differenze di potenziale in un circuito elettrico, inducendo una corrente di civiltà in cui unità e differenza coestistono come Roma. fattori di un ciclo vitale. È ancora possibile in La Grande un’epoca in cui l’uomo, o almeno qualche Moschea suo intimidito rappresentante, ha varcato le 1
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soglie del pianeta terra continuare a considerare significativa un’area geografica che comprende meno del 10% della popolazione mondiale e che un tessuto fittissimo di relazioni collega al resto del mondo e in particolare ai centri più influenti del potere politico ed economico? La convinzione che sia ancora interessante e produttivo osservare in modo unitario i processi di trasformazione e le eredità culturali dei Paesi che gravitano intorno al Mediterraneo nasce da una coscienza drammatica del presente: dalla constatazione che intorno a quest’anello, fino a cinquant’anni fa immerso in una sorta di assopimento e divenuto appena tangenziale rispetto ai luoghi in cui si decidevano le sorti del mondo, ha ripreso a passare una corrente sempre più intensa e la stagione della decolonizzazione, della nascita di Paesi nuovi o totalmente rinnovati ha ridato a quello che era il triste monologo dell’egemonia occidentale, almeno la parvenza di un dialogo. La condizione però perché questo interesse per l’area mediterranea non diventi un atteggiamento evasivo, all’inseguimento di un’impossibile autarchia, sta nella capacità di analizzare i problemi del suo sviluppo, del suo riequilibrio politico, economico e culturale nel loro contesto reale, in un quadro che metta in luce i rapporti che legano ogni fenomeno all’intero sistema, o meglio alla molteplicità di sistemi che regolano e condi-
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zionano la vita dell’uomo sul nostro pianeta. Dialogo tra civiltà e culture diverse, dialogo alla scoperta di una nuova condizione che rinuncia alle gerarchie e ai complessi di superiorità, che riconosca la necessità di confrontare i punti di vista diversi, le diverse storie narrate dalle due parti per conoscere e interpretare vicende comuni. Un dialogo che sancisca, anche nei rapporti tra i popoli, quella rivoluzione copernicana che dovrebbe sostituire al sistema monocentrico della cultura occidentale, il sistema policentrico della cultura dell’uomo. Le Moschee costruite sulla crosta terrestre, distribuite ormai in ogni parte del mondo, costituiscono un sistema tenuto insieme da una legge ferrea alla quale nessun componente può sfuggire: l’orientamento verso un unico punto della terra. Una fotoIl Mediterraneo, grafia ripresa da un satellite con la sua forma collocato sull’asse verticale sinusoidale continua, della Caba consentirebbe di vedere in parte questo sisteha sempre avuto ma di elementi isoorientati il ruolo di distinguere che apparirebbero dall’alto le terre che lo come i grani di limatura di ferro attirati dal polo di una circondano, ma non calamita. Questo grandioso quello di separarle sistema di luoghi di preghieattraverso l'ignoto e ra si è costituito a partire dalla casa di Maometto, a l'incommensurabile Medina, nel VII sec. dell’era come avviene per cristiana e continua ad gli oceani accrescersi, giorno per giorno nei più lontani e diversi angoli della terra, con edifici che oltre all’orientamento si distinguono per poche caratteristiche comuni: la presenza di un minareto, perché l’ora della preghiera venga segnalata a distanza dal canto del muezzin; la presenza di un muro che indica la direzione della Mecca; di una nicchia sullo stesso muro, forse legata al ricordo del Profeta e di un pulpito, per consentire all’Imam di intonare la preghiera. Il Corano non definisce i caratteri della Moschea, ma ne parla indirettamente: …in case che Dio ha permesso vengano elevate e vi si menzioni il suo nome – si legge nella Sura della Luce – cantino le sue lodi all’alba e al tramonto uomini che né commerci, né vendite distolgano dalla meditazione di Dio, dal com-
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piere la preghiera, dal pagare la decima. Uomini che paventano un giorno in cui verranno sconvolti i cuori e gli sguardi perché Iddio li possa ricompensare per quello che di meglio avranno fatto e accresca loro il suo favore”. La Moschea, quindi, come del resto la Chiesa cristiana, non può essere considerata un tempio, ma una casa, una casa di preghiera in cui i fedeli si riuniscono per compiere insieme uno dei principali doveri del musulmano, quello di recitare in coro la preghiera d’obbligo: Salat…, che viene pronunciata in cinque momenti cruciali della giornata – all’alba, a mezzogiorno, al termine del lavoro, al tramonto e prima di andare a dormire. Nata sul modello della casa di Medina, costruita da Maometto, la Moschea, in arabo il luogo di prosternazione al quale talvolta si aggiunge jami, che significa che raccoglie in sé svolse all’inizio dell’Islamismo la funzione di luogo di ritrovo e di scambio per poi assumere le caratteristiche di un insieme di spazi collocato nel tessuto della città in cui, accanto alla celebrazione della preghiera collettiva si amministrava la giustizia, si insegnava la religione, si celebravano i matrimoni. La preghiera, però, nel mondo islamico non richiede per la sua validità lo svolgersi all’interno di un edificio. Un detto attribuito allo stesso Maometto affermava: Là dove ti raggiunge l’ora della preghiera, quello è un Masjid. Di questa concezione immateriale del luogo della preghiera sono testimonianza commovente quei recinti di pietra orientati verso Mecca che si trovano talvolta lungo i sentieri maggiormente battuti nel deserto. Il ricordo di preghiere pronunciate in solitudine, ma nella consapevolezza di una stabile appartenenza. Protagonista dell’organismo della Moschea è lo spazio nella sua pienezza indifferenziata e dello spazio, le forme delle arcate, adottate nelle diverse regioni, esprimono le potenzialità dinamiche, allontanandosi dal modello del semicerchio: ora dilatandosi a ferro di cavallo come nel Maghreb, ora imitando al rovescio la sagoma della carena delle navi nell’area persiana, con una sagoma che evoca la quieta fiamma di una lucerna ad olio protetta dal vento. L’identità più profonda e segreta dello spazio della Moschea
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sta nella nozione di unità (tawid) che permea ogni aspetto dell’edificio, dalla configurazione geometrica al minimo dettaglio decorativo. L’unità dell’uomo con Dio, fine supremo della preghiera, si manifesta come aspirazione in una serie di metafore eloquenti: la ripetizione ritmica, la centralità della cupola, il valore simbolico del mirhab e, in modo particolare, la materia costruttiva che cerca in ogni modo di trasformarsi in vibrazione luminosa. Dio è la luce del cielo e della terra, simbolo della sua luce è una nicchia in cui si trova una lampada e la lampada è di cristallo e il cristallo è come stella lucente e la lampada arde dell’olio di un albero benedetto, un olivo né orientale, né occidentale il cui olio per poco non brilla senza che lo tocchi il fuoco. Dio è luce su luce. È evidente nelle parole di Maometto, in questa Sura della Luce, una sequenza di immagini che si sviluppano una dentro l’altra: la luce, la nicchia, la lampada, il cristallo e di nuovo la luce. La luce è divina in quanto è già all’interno della materia; la materia dell’olio che forse simbolizza l’uomo è come predisposta a impregnarsi di luce, ma ha bisogno del fuoco che ne suscita la tensione verso la luce divina e l’olio proviene da un olivo che non è né orientale, né occidentale perché Dio è uno solo e la sua parola è universale. E riflettendo su questo bellissimo brano che esprime nel modo più universale e direi ecumenico il rapporto tra Dio e l’uomo che ho studiato il tipo di illuminazione nella Moschea di Roma che sfrutta in modo complementare la luce riflessa e quella incidente, secondo una strategia basata sulla metafora, componendo il flusso luminoso dall’alto verso il basso e quello dal basso verso l’alto ottenuto con una fonte nascosta, una luce che esprime l’amore divino e l’azione della preghiera. In tutti i luoghi della terra in cui la religione islamica si è diffusa, l’architettura delle Moschee ha utilizzato le tradizioni locali rinnovandole profondamente in funzione di una sensibilità estetica e costruttiva inscindibile dalla fede e dalla sua elaborazione filosofica e mistica. Sappiamo da una descrizione di un certo Abdullah Id Iazid che la casa di Maometto, a Medina, era fatta di mattoni di argilla e rami di palma impastati con il fango, tecnica tipica della peni-
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sola araba che ancora nel secolo scorso fu adoperata in Africa nelle splendide Moschee del Mali. Nel suo diffondersi la civiltà islamica entrò in contatto con l’eredità ellenistico-romana, con quella bizantina, con quella persiana e indiana e in ognuna di queste occasioni l’assimilazione delle conquiste estetiche e delle tecniche costruttive fu accompagnata da un rinnovamento creativo e da un adattamento alle esigenze del culto e dell’organizzazione sociale. Quattro sono le tipologie storiche della Moschea: la sala ipostila, con la sua selva di colonne racchiuse in un recinto, di cui è capostipite quella di Kairouan e che nel Maghreb, in Iraq e in Spagna si è espressa in insigni esemplari di chiarezza compositiva. Oggi il dialogo Poi il modello persiano con i grandi ivan, che derivano con la cultura dalla tradizione locale e reaislamica è un lizzano un’affascinante conelemento nessione tra spazio interno ed esterno. La sala rettangofondamentale lare senza sostegni al suo della cultura della interno che ha nella MoPace, un modo per schea Verde di Bursa la sua più persuasiva applicazione. sconfiggere le E infine l’organismo centradegenerazioni lizzato, derivato da Santa terroristiche che Sofia, sperimentato dal grande Sinan in una serie di hanno trovato varianti creative. I rapporti terreno fertile della civiltà islamica con nell’ostilità quella occidentale hanno preconcetta della avuto nel campo dell’architettura la loro espressione cultura occidentale più clamorosa e tangibile. Se l’architettura islamica non sarebbe comprensibile senza l’innesto sul ceppo dell’architettura greco-romana, l’architettura occidentale, almeno a partire dal gotico non sarebbe comprensibile senza le grandi innovazioni operate dagli arabi sull’eredità tardo-antica, come l’estroflessione delle nervature, l’intreccio delle forme geometriche, il paradosso statico creato dall’alleggerimento delle strutture e dal gioco chiaroscurale delle decorazioni. Anche l’architettura barocca guardò alle tradizioni islamiche con interesse, come dimostrano la cappella borrominiana del Collegio di Propaganda Fide a Roma e la cupola guari-
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gnana della Chiesa di S. Lorenzo a Torino, che ripropone le nervature intrecciate del Mirhab della Moschea di Cordoba. Se nello storicismo ottocentesco il ricorso ai repertori stilistici più svariati era solo passiva rievocazione o meccanica traduzione di forme in cui il piccolo margine creativo era affidato alla contaminazione, al fraintendimento, per gli architetti dell’Art Nouveau, invece, e per i pionieri del movimento moderno il riferimento alla tradizione islamica diventa un grande stimolo creativo per una riforma che sconfigga definitivamente il classicismo accademico e apra un campo di ricerche in cui sia possibile utilizzare le nuove disponibilità tecniche emerse dalla trasformazione dei processi produttivi. Anatole De Baudot, il primo Nelle parole architetto che abbia usato in di Maometto modo architettonico la tecuna sequenza nica del cemento armato, di immagini per la sua chiesa di St. Jean de Montmartre e in una serie che si sviluppano di progetti rimasti sulla carta, una dentro si ricollega esplicitamente l'altra: la luce, alla tradizione dell’architettura islamica e non è un la nicchia, caso, giacché proprio nel la lampada, repertorio islamico, la sepail cristallo e razione degli elementi costruttivi, la loro permeabilità di nuovo alla luce e la riduzione del la luce guscio continuo al suo scheletro ha trovato coerenti applicazioni in una serie di esempi di grande qualità: dalla Moschea di Cordoba, a quella di Tlemcen. Nella spregiudicata novità delle forme architettoniche di Hector Guimard, il più importante degli architetti francesi dell’Art Nouveau, elementi islamici riaffiorano spesso come incisi nella filigrana delle sue immagini naturalistiche: l’arco acuto ribassato, l’arco a ferro di cavallo, gli archi intrecciati, le sagome a buco di serratura sono altrettante allusioni ad un repertorio fiabesco, ad un mondo di forme che interessa l’architetto per la loro componente onirica. Roma, particolare Ma è nel rapporto tra interno ed esterno e dell’interno della nella capacità di dare al tema della finestra Grande Moschea le soluzioni più diverse e sensibili, che si 2
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coglie in modo più costruttivo la lezione insostituibile dell’architettura minore in legno e in pietra della Turchia e dell’Egitto. Non meno significativo, alle origini dell’architettura moderna, l’interesse per il Vernacolo mediterraneo da parte della cultura tedesca ed austriaca da Olbrich, a Loos e Hoffman e più tardi da parte di Mendelsohn e dei razionalisti italiani. Nonostante però questa iniziale connessione con l’architettura moderna, così come si andava definendo negli Anni Trenta del Novecento, in quanto stile internazionale, ben poco conservava della sua originaria ricchezza e la sua diffusione capillare nel dopoguerra ebbe come conseguenza, anche nel mondo islamico, la perdita delle identità locali e l’adozione acritica del nuovo linguaggio o l’accettazione di formule compromissorie. Solo negli ultimi decenni è nata, per merito di una generazione sensibile all’esempio di Hassan Fathi, una nuova tradizione che cerca di conciliare l’eredità storica con l’innovazione e la sensibilità moderna. Oggi il dialogo con la cultura islamica è nel mondo occidentale un elemento fondamentale della cultura della Pace, un modo per sconfiggere le degenerazioni terroristiche che hanno trovato terreno fertile nell’ostilità preconcetta, nella deformazione e differenza della xenofobia più intransigente della cultura occidentale. Aver costruito a Roma, nella capitale del Cristianesimo, una grande Moschea strenuamente voluta e difesa da un grande Sindaco di questa città, come Giulio Carlo Argan, mi ha dato la gioia di aver dedicato 20 anni della mia vita ad una delle architetture del secolo scorso che meglio simbolizzano la volontà di Pace e di comprensione reciproca. Proseguendo nella stessa direzione, ho progettato all’inizio di questo secolo, la grande Moschea di Strasburgo, che sorgerà sulla riva del canale che unisce il Reno al Rodano. Anche in questo caso l’iter per la costruzione si è allungato per le difficoltà sorte dopo l’11 Settembre ed è stato necessario battersi perché non venisse negato alla comunità islamica locale il diritto di pregare in una casa “in cui Dio ha permesso che si menzioni il Suo nome e si cantino le Sue lodi dall’alba al tramonto”.
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i è soliti affermare che l’architettura della sinagoga non possieda caratteri architettonici propri: in quanto, nel tempo, non ha sviluppato quegli elementi del linguaggio riconoscibili che la identifichino in quanto tale. Questa affermazione, tuttavia, fa riferimento ad una lettura solo esteriore dell’architettura, legata in certo modo ancora ad un retaggio culturale ottocentesco, secondo cui l’architettura si riduce alla sola espressione formale e stilistica. A differenza di quanto avviene in Italia, e in particolare a Roma (dove di recente non si è realizzato nulla in materia), in molti Paesi del mondo la sinagoga costituisce invece un tema architetLa sinagoga, tonico vitale e ricco di realizzazioni interessanti. Nel quale come luogo di si esprimono, peraltro, alcune culto, è prima di delle ricerche più avanzate tutto luogo dell’architettura contemporanea attraverso interpretazioni d'identità religiosa che colgono l’essenza autendi una comunità tica dell’edificio religioso: riche si riconosce nei cordandoci così come l’architesti sacri della tettura sia ancora capace, pur in un mondo globalizzato e Torah e che in dominato dalla logica dello qualche modo star system, trasmettere valori esprime la memoria che, al di là della sua immagine, spesso la riducono a semdel Tempio plice icona. di Gerusalemme Molte delle sinagoghe realizzate di recente dimostrano infatti di essere in grado di esprimere in profondità i temi e i significati della religiosità ebraica travalicando la pura espressione formale, di cui lo spazio architettonico si fa interprete. Per comprendere a fondo il senso di tali archi-
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tetture sarà opportuno, quindi, chiarire innanzitutto a quali significati esse si riferiscano. La sinagoga è luogo di culto, ma prima di tutto luogo d’identità religiosa di una comunità che si riconosce nei testi sacri della Torah; e che, pur non sostituendosi al Tempio distrutto di Gerusalemme, in qualche modo lo ricorda e ne esprime la memoria.
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Questa sua essenza la distingue dai luoghi di culto della religione cristiana, in quanto la sinagoga non è il luogo dove, nel rito, si manifesta la presenza del divino e, per quanto sia espressione dell’identità religiosa ebraica nel suo complesso, essa è comunque riferita ad una comunità relativamente ristretta e determinata: della quale rappresenta la storia, i costumi ed i caratteri. La sinagoga è, quindi, anche luogo della memoria della collettività a cui appartiene, la cui storia la caratterizza profondamente. Ciò peraltro avviene all’interno delle più generali distinzioni legate alle diverse matrici culturali precisatesi nei secoli a seguito della Diaspora (comunità sefardite, askenazite, tradizionali, riformate, ecc.). Altro elemento peculiare della sinagoga risiede nel fatto che la sua sacralità è data dalla presenza dei Sefarim, i rotoli della Torah che vi
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vengono custoditi, contenenti le Sacre Scritture lasciate in eredità da Dio al popolo ebraico; che qui vengono lette, studiate e commentate. È quindi la parola scritta, e poi letta, il centro intorno al quale ruota tutto il rito e quindi il culto. Tale centro è rappresentato da due elementi fondamentali che costituiscono altrettanti poli intorno La sacralità della ai quali è costruita la sinagoga: l’Aròn (Aròn Ha Kodesh), sinagoga è data l’armadio sacro dove sono dalla presenza dei custoditi i Sefarim, posto Sefarim, i rotoli sulla parete rivolta verso Gerusalemme e la Tevah (o della Torah che vi Bimah), la pedana sulla quale vengono custoditi, vengono lette le preghiere. contenenti le Sacre La differente posizione tra questi due poli, il loro rapScritture lasciate in porto reciproco all’interno eredità da Dio al dello spazio dell’aula di prepopolo ebraico, ghiera, esprime e caratterizza le diverse declinazioni e che qui vengono varianti del rito ebraico. lette, studiate e Tutto ciò ha delle conseguencommentate ze importanti nella definizione spaziale ed architettonica della sinagoga: e tale definizione la individua come tipo edilizio autonomo, differente da qualunque altro luogo di culto, il quale possiede caratteri propri ben definiti e riconoscibili. Indubbiamente, durante i lunghi secoli della diaspora, specie in quei Paesi dove le comunità ebraiche erano sottoposte a rischi di periodici assalti o persecuzioni, le sinagoghe tendevano a mascherare la loro presenza mediante un aspetto che non le rendesse immediatamente identificabili: confondendosi spesso con il tessuto delle case d’abitazione. Altrove invece, e in periodo di convivenza pacifica, la sinagoga come ogni altra espressione architettonica, ha risentito delle influenze proprie dell’area culturale nella quale sorgeva; sviluppando caratteri locali la cui testimonianza però è stata spesso cancellata dalle distruzioni subite: come nel caso Frank Lloyd delle molte sinagoghe dell’est Europa. In altri Wright, Sholom termini il dato connotativo della diaspora, Beth Synagogue, proprio della storia del popolo ebraico, ha Elkins Park, pesantemente condizionato la formazione di Pennsylvania, un peculiare linguaggio architettonico della USA,1953-’59 1
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sinagoga. In quanto esso non poté mai svilupparsi in un’unica o prevalente area culturale, a differenza di quanto avviene per i luoghi di culto predominanti in alcune regioni del mondo quali chiese, moschee, ecc. Così anche quando, come nel XIX e agli inizi del XX sec., in molte parti d'Europa agli ebrei “Il dato fu possibile testimoniare liconnotativo della beramente la propria presendiaspora, proprio za attraverso un’espressione della storia del architettonica finalmenteben riconoscibile, invero mancanpopolo ebraico, ha za di un riferimento chiaro ad pesantemente un linguaggio architettonico condizionato la consolidato, nella costruzione delle nuove sinagoghe si ricorformazione di un se spesso all’utilizzo di stilemi linguaggio già esistenti, che facessero in architettonico della qualche modo riferimento alla storia ebraica. Ciò avvenne in sinagoga” particolare in seguito alla formazione degli stati nazionali e alla conseguente progressiva fase di assimilazione della popolazione ebraica nella vita delle metropoli di massa. In esse la sinagoga tendeva a perdere il proprio e peculiare legame con una comunità ristretta per divenire espressione di una comunità Disegno di più ampia, definita a scala metropolitana: Louis Kahn del come avvenne nelle grandi città europee e staTempio di Edfu in tunitensi. Sorsero così molte sinagoghe in stiEgitto, 1951 le eclettico, scegliendo tra i vari stili quelli che non fossero riferiti ad altri luoghi di culto, quaDisegno del li ad esempio le chiese cristiane. Nascono così Tempio di in questo periodo le sinagoghe in stile neobaSalomone bilonese, neoclassico, neomoresco, ecc. In linea, secondo James peraltro, con il più generale dibattito architetFergusson nella tonico, sviluppatosi al sorgere degli stati naziosua “History of nali, sugli stili rappresentativi di un'identità Architecture” collettiva. del 1883 L’identità architettonica della sinagoga fu così demandata piuttosto alla sua rappresentazioMinoru Yamasaki, ne esteriore, mentre lo spazio dell’aula di preThe Congregation ghiera si modificava profondamente adattanIsrael Synagogue, Glencoe, Illinois, dosi alle esigenze della nuova cultura della società di massa. Divenne, dunque, spesso USA 1964 molto grande risultando per buona parte occupata dalle sedute disposte ai lati di un Philip unico asse centrale; mentre i due poli della Johnson,Tifereth Israel Temple, Tevah e dell’Aròn tendono a riunirsi in un Port Chester, New unico punto, venendo così ad assumere un York, USA, 1954 impianto simile a quello delle chiese cristiane.
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Anche la tradizionale separazione tra uomini e donne tende spesso a sparire, sotto la spinta del neonato movimento degli ebrei riformati. Tali cambiamenti dell’impianto però, come sempre nell’architettura, non avvengono senza modificarne anche il significato. Riunire i due poli abolendo la distanza che li separa significa infatti eliminare quello spazio che è la distanza spirituale tra la parola scritta e quella parlata: vero centro della sinagoga e non a caso da sempre lasciato vuoto; uno spazio quasi mistico rappresentante in qualche modo l’ineffabile distanza tra Dio e l’uomo. La tragedia dell'Olocausto e la nuova diaspora che ne è seguita ha posto nuovamente al centro il tema dell’identità ebraica, divenuto più urgente in seguito alla nascita dello stato di Israele. Le sinagoghe costruite dal dopoguerra ad oggi tendono perciò a rinnovare, attualizzandoli, i temi legati al suo significato religioso e simbolico; ed è da qui che nasce la forte vitalità del tema. Nelle sinagoghe contemporanee (ad eccezione di quelle riformate) l’impianto prevalente torna, dunque, ad essere quello organizzato con le sedute raccolte attorno ai due poli, ben distinti dallo spazio vuoto tra loro. Ma anche i significati simbolici, il riferimento al Tempio di Salomone, al Tabernacolo nel deserto e alla storia del popolo ebraico, trovano rinnovate espressioni. Nel secondo dopoguerra, dopo alcune interessanti realizzazioni razionaliste degli anni ’20, prevale infatti una tendenza espressionista in grado di evocare tali simboli. La sinagoga Beth Sholom ad Elkins Park (Pennsylvania) di Frank Lloyd Wright (1953’59) allude al Monte Sinai o forse all’Arca di Noè, mentre la cupola è l’elemento caratterizzante la Park Synagogue di Mendelsohn (1950-’54) o la Ruhrallee Synagogue ad Essen di D. Knolbauch e H. Heise (1959); la tenda, altro elemento che ricorda la peregrinazione del popolo ebraico nel deserto, è il tema della Sinagoga al Givat Ram Campus a Gerusalemme costruita da H. Rau e D. Reznik (1957), del Kneses Tifereth Israel Temple di Philip Johnson a Port Ghester, New York (1954-56), della Congregation Israel Synagogue a Glencoe nell’Illinois, di M. Yamasaki del 1964, nonché della molto discussa nuova sinagoga di Livorno, costruita da Angelo Di Castro nel
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Erich Mendelsohn, Park Synagogue, Cleveland, Ohio, 1952 7
Dieter Knolbauch, Heinz Heise, Ruhallee Synagogue, Essen, 1959 8
Heinz Rau, David Reznik, Sinagoga al Givat Campus, Gerusalemme, 1957 9
Angelo Di Castro, Sinagoga di Livorno, 1962 10
Sidney Eisenstat, Mount Sinai Synagogue, El Paso, Texas, USA, 1962 11
Zvi Hecker, Sinagoga del Military Academy Campus a Mitzpeh Ramon, deserto del Negev, 1969-’71
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1962. Altre sinagoghe presentano a volte forme inusuali, mai viste prima, stranianti, in grado di segnare la distanza ed il distacco con la tragedia della storia recente, come la Mount Sinai Synagogue a El Paso, nel Texas di Sidney Eisenstatd o la Sinagoga di Zvi Hecker del 1969-‘71 nel deserto del Negev per il Military Academy Campus. Queste tendenze espressioniste appartengono d’altra parte ad un’epoca fortemente caratterizzata dalla volontà di affermare la propria presenza e sopravvivenza nel mondo dopo l’Olocausto. Oggi, tali temi non sono più demandati ad immagini forti o evocative; essi tendono, piuttosto, a realizzare legami più intimi e profondi con l’architettura, con le sue ragioni costruttive determinate dai materiali, dalla struttura e dalla distribuzione dello spazio, a dispetto della più generale tendenza dell’architettura contemporanea ad imporsi prima di tutto come immagine. Ciò avviene, per esempio, nella Sinagoga Hurva di Louis Kahn, progettata per Gerusalemme tra il 1967 ed il 1974 (non realizzata) dove l’intera costruzione, concepita come un organismo composto da due edifici inseriti uno dentro l’altro, secondo un crescente grado di sacralità dall’esterno verso l’interno, stabilisce un riferimento diretto al Tempio di Salomone e al Tabernacolo. Il volume esterno, composto da 16 grandi piloni cavi, definisce uno spazio nel quale - al piano superiore si trova il matroneo, circondato da una serie di ambienti minori collocati all’interno dei piloni. Il volume interno è definito invece da quattro grandi pilastri, anch’essi cavi, che reggono la copertura, costituita da elementi a tronco di piramide rovesciata e che delimitano l’aula vera e propria, raccolta intorno al fulcro della Tevah e dell’Aròn. Qui i riferimenti simbolici sono molteplici ed evidenti: i quattro grandi pilastri centrali sono un esplicito richiamo alle quattro colonne del Sancta Sanctorum del Tempio di Salomone, così come Kahn l’aveva potuto osservare nella ricostruzione di James Fergusson del 1883, che appare circondato come la sinagoga di Kahn - da una serie di ambienti minori quadrati a servizio della sala principale. Anche il rapporto con la luce, che penetra filtrando dall’alto attraverso le fessure lasciate aperte dalla copertura, costituisce un esplicito rimando al tema della copertura del
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Tabernacolo, laddove peraltro il suo diretto precedente architettonico è da individuarsi nell’edificio per la sede della Johnson Wax di F. L. Wright. Nell’insieme l’intera struttura, caratterizzata dall’uso della pietra di Gerusalemme e dalla massività degli elementi rastremati verso l’alto a ricordo dell’antica architettura egizia, stabilisce un legame diretto con la cultura costruttiva locale e con la storia del popolo ebraico. Il tema del doppio edificio, esplicito riferimento al numero due, di grande importanza nella religione ebraica, ricompare spesso nelle più recenti ed importanti sinagoghe. La Cymbalista Synagogue, realizzata da Mario Botta tra il 1996-98 per il Campus dell’Università di Tel Aviv, imposta l’intero progetto sulla dualità. Due grandi “torri” a sezione variabile dal cerchio al quadrato, rivestite in pietra di Verona, accolgono due distinte sale, collegate tra loro da un foyer al piano terreno. La
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Mario Botta, Sinagoga Cembalista, University Campus, Tel Aviv 1996-’98. Pianta sotto le delle coperture 18
Mario Botta, Sinagoga Cembalista, University Campus, Tel Aviv 1996-’98. Pianta al piano terra
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Mario Botta, Sinagoga Cembalista, University Campus, Tel Aviv 1996-’98. Interno della sinagoga ortodossa
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sala contenuta nella torre est è concepita come sinagoga per il rito ortodosso, disposta con la Tevah al centro e l’Aròn collocato in una piccola abside rivolta verso Gerusalemme. L’aula è distribuita, secondo la tradizione sefardita, con le sedute posizionate in file parallele lungo le pareti laterali. Qui è collocata anche la sezione per le donne, la cui separazione dal resto dell’aula è demandata solo ad un leggero salto di quota, rappresentato da un gradino, allo scopo di preservare l’unità dello spazio interno. L’altra sala, contenuta nella torre ad ovest, è concepita come Beth Midrash (luogo di studio della Torah), ma anche come aula per il rito riformato o con-
servatore. Lo spazio delle due sale è identico e, in entrambi i casi, ha proporzioni cubiche, in riferimento allo spazio cubico del Sancta Sanctorum, divenuto infatti tradizionalmente un tema architettonico di molte sinagoghe medievali. Il soffitto cassettonato quadrato stabilisce, come nella Sinagoga Hurva, una serie di riferimenti riconoscibili, realizzando complessi rapporti con la luce filtrante dall’alto in grado di evocare il tema del baldacchino; infine, il numero due compare ancora nelle due colonne all’ingresso, esplicito riferimento alle due colonne bronzee Jachin e Boaz poste all’ingresso del Tempio di Salomone. Anche in questo caso è dunque la
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Wandel Hoefer Lorch + Hirsch, nuova Sinagoga di Dresda, 1997-2001. Volume esterno della Sinagoga
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struttura stessa dell’impianto a definire i riferimenti alla tradizione ebraica; riferimenti che, non demandati all’espressione formale, sono viceversa tutti interni alle ragioni dell’architettura. Pur essendo relativamente piccolo, e riferito solo alla comunità di un campus universitario, questo edificio testimonia la vitalità del tema: tanto più in quanto l’autore, non appartenendo alla religione ebraica, ragiona evidentemente in maniera specifica sul significato dell’architettura. Questi complessi rapporti tra riferimenti simbolici, religiosi, storici e architettonici hanno poi trovato di recente, in Germania, un’ulteriore importante realizzazione nella nuova Sinagoga di Dresda, costruita dallo studio Wandel Hoefer Lorch + Hirsch, nel 1997-2001. Essa sorge sul luogo di una precedente sinagoga costruita da G. Semper nel 1840, brucia-
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ta dai nazisti nella notte dei cristalli tra il 9 ed il 10 novembre 1938 in una zona del centro urbano poi distrutta dai bombardamenti del 1945. Si tratta, dunque, di una doppia ricostruzione (della sinagoga e del centro urbano) dal forte valore simbolico, dove il progetto assolve il suo ruolo realizzando un recinto ai margini del quale sono posti, anche in questo caso, due volumi: quello della sinagoga vera e propria e quello del centro culturale, ospitante anche la casa del rabbino. Ritornano qui molti degli elementi già visti nei precedenti di Kahn e di Botta, ad iniziare dalla sua conformazione ad impianto doppio. Qui, però, i due volumi sono separati da uno spazio inedificato. Tale spazio vuoto, nel punto esatto in cui sorgeva la sinagoga distrutta, è di per sé uno spazio simbolico e testimonia, attraverso il vuoto, la presenza dell’assenza, la
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memoria della distruzione. Esternamente, la sala di preghiera si presenta come un volume compatto che, nella sua elevazione, ruota verso l’alto indicando la direzione che assume la sala nel suo volgersi vero oriente. All’interno, lo spazio dell’aula, è costituito da un secondo volume determinato da una tenda metallica in maglia dorata che la avvolge e la definisce. L’idea della tenda ha un forte valore simbolico, riferendosi direttamente alla tenda che nel Tempio e nel Tabernacolo celava il luogo dell’Arca, oggi perduta, contenente i Testi Sacri. L’uso di un materiale contemporaneo di origine industriale, la maglia metallica, diventa così linguaggio per esprimere significati antichi. L’impianto della distribuzione interna è quello tradizionale askenazita con la
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Wandel Hoefer Lorch + Hirsch, nuova Sinagoga di Dresda, 1997-2001. Interno della Sinagoga
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Tevah al centro e le sedute rivolte verso est. Il senso della circolazione antinodale attorno alla sala, caratteristico di ogni sinagoga tradizionale è espresso con grande suggestione nel deambulatorio: un ambiente fortemente evocativo costituito da un vuoto che si apre tra la massa muraria del volume esterno (memoria del Tempio) e la tenda dorata (memoria del tabernacolo). È questa forse una delle realizzazioni più significative degli ultimi anni che, insieme agli altri esempi proposti, testimonia la vitalità di un tema in grado di restituire all’architettura la dignità di valore civile, culturale e religioso senza ridursi a mera icona della modernità: e ciò, non a caso, avviene proprio all’interno di una cultura come quella ebraica, che nel rifiuto dell’idolatria trova uno dei suoi fondamenti più profondi.
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UNO SPAZIO EFFIMERO PER IL SACRO NELLA ROMA CONTEMPORANEA 8 Marco Petreschi
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a quanti anni a Roma non si costruiscono più luoghi o spazi effimeri per il sacro? Intendo quei grandi apparati teatrali o quelle caratteristiche scenografie per le canonizzazioni o i grandi dipinti dentro le chiese per le macchine delle quaranta ore? Questa domanda me la posi nel 1999 quando mi trovai a progettare assieme a Paolo Marciani e Diana Petti una soluzione architettonica per l’allestimento, nella spianata di Tor Vergata, per il grande apparato scenografico per la XV GMG, in occasione del Giubileo per il 2000. La tenda è Aiutandomi con alcuni testi, l'archetipo della in specie quelli curati da Marcello Fagiolo1, eminente casa: qui l'uomo studioso delle vicende romatrova rifugio. ne, rivisitai, studiandole, quelÈ lo spazio dove le fantastiche costruzioni effimere erette per i più imporesplica le sue tanti eventi della città. I teatri funzioni sociali all’aperto, le strutture per le e religiose che lo canonizzazioni nonché le macchine delle quaranta ore accompagneranno di cui, nella nostra città, si per tutto sono perse non solo la tradiil percorso zione ma, per la maggior della sua vita parte della gente, la memoria. Prima dunque di illustrare il significato del progetto, vale per un attimo tratteggiare alcuni cenni storici di questi apparati, che mi furono estremamente utili per la soluzione finale.
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Cominciai dagli apparati scenografici teatrali effimeri che per comprenderli bisognava leggerli prima di tutto come strumenti del potere peculiari dell’epoca nella quale venivano realizzati. Oggetti per l’instrumentum regni. Erano di fatto architetture provvisionali composte di cartapesta, tele dipinte e legno alle quali le città facevano da cornice. Le piazze erano i luoghi deputati per queste manifestazioni. A Roma, in particolar modo, piazza San Pietro, piazza di Spagna e piazza Navona, che si usavano per l’avvento di un nuovo Pontefice come pure per la nascita, la visita o i vari genetliaci di principi, re e regine. Come pure piazza della Cancelleria, o lo slargo davanti all’edificio di Propaganda Fide. A Torino le manifestazioni si svolgevano a piazza Castello, mentre a Firenze sulla piazza della Signoria e così via. Solo alla fine del ‘700, specie in Francia, c’è un’inversione di tendenza poiché l’occasione sacra e profana viene
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mutata modificando la sua motivazione per celebrare, introducendo simbologie massoniche di tutt’altro tipo, la Ragione intesa come nuova divinità. Campo di Marte a Parigi diviene il luogo dell’utopia realizzata, il luogo delle feste floreali per i matrimoni fino a divenire i luogo della ghigliottina2. Per non citare le manifestazioni dei regimi totalitari che, specie nel secolo che ci ha preceduto, hanno visto il loro evolversi nella Berlino del III Reich, nell’Italia fascista e nella Mosca dei Soviet, sviluppando tematiche e simbologie che in questa sede tralascio di descrivervi, ma che sono ancora ben presenti negli occhi di molti di noi. Dunque, in ogni epoca, queste strutture si sono manifestate come elementi di propaganda, sia politica che sacra, i cui impianti peraltro avevano l’obbligo di operare una strategia di controllo sociale e al contempo dello spazio urbano e del proprio tempo.
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E’ bene ricordare ancora quanti autori, grandi artefici dell’imaginifico, abbiano operato in tale settore, da Pietro da Cortona a Bernini, da Carlo e Domenico Rainaldi a Ferdinando Fuga, da Nicolas Poussin a Fisher von Erlach, come pure De Renzi, Libera, Speer, Narducci, Moretti e molti altri eccezionali artisti che sapevano manipolare la finzione scenografica con le più disparate simbologie, che dovevano essere decriptate dallo spettatore in base alla propria cultura, spesso divenendo dei veri e propri messaggi esoterici. Non a caso il progetto di Tor Vergata, come a seguito illustrerò, sarà connotato da molti valori iconici, a volte un po’ criptici, che molte più persone di quanto io non pensassi nel progettarli, riuscirono a cogliere. Come non ricordare poi gli eventi spontanei e privi di organizzazione, che riaffiorarono nei primi anni 50 come espressioni sperimentali ed innovative dei sistemi della comunicazio-
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Roma, Tor Vergata. XV Giornata Mondiale della Gioventù. Veduta aerea dell’evento
1. Marcello Fagiolo (a cura di), La festa a Roma dal rinascimento al 1870 2 voll., U. Allemandi, Roma, 1997 2. Marcello Fagiolo, Ibidem
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Cerimonia notturna
3. Eric Holding, Mark Fisher Staged Architecture, Architectural Monographs n. 52, WileyAcademy
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ne, totalmente contrarie ed opposte nelle loro intenzioni, a quelle verificatesi nei regimi totalitari? Manifestazioni che, partite in maniera spontanea e prive di organizzazioni (Woodstock), arrivano ai nostri giorni ad interessare problematiche che investono la ricerca di materiali innovativi in continua evoluzione e di conseguenza cariche di nuovi valori iconici e simbolici (si pensi ai megaconcerti dei Pink Floyd a Berlino con la scenografia di Mark Fisher, denominata The Wall)3. Altro capitolo quello che riguarda i teatri per le canonizzazioni che si svolgevano in gran parte in San Pietro e generalmente si ispiravano alla Gerusalemme Celeste intesa da Dante come una sorta di grande anfiteatro; anche qui grandi apparati scenici intorno al baldacchino di San Pietro con lo sfondo collocato nell’abside, ove veniva posto il ritratto del futuro Beato esattamente dove è raffigurato lo Spirito Santo, sopra la cattedra di San Pietro. Manifestazioni, queste ultime, che sono durate sino al pontificato di Pio IX o quantomeno, che io ricordi, fino alla fine dell’800. Infine la macchina delle quarant’ore, la cui tradizione molti studiosi fanno risalire in epoca medioevale, con l’obiettivo di celebrare
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aspetti penitenziali e di devozione nell’ambito della liturgia cattolico-romana. Il 40 poi è un numero simbolico che rivela chiaramente una funzione di catarsi per il credente. Gesù digiunò nel deserto per 40 giorni. 40 sono le ore in cui il suo corpo è rimasto nel sepolcro. 40 giorni durò il diluvio universale, come pure sono 40 i giorni che gli Ebrei dovettero attendere prima di ricevere le tavole della legge. Va da sé che tali macchine per migliorare l’effetto scenografico di stupore e meraviglia che le connotavano, si ornavano di danze spettacolari, musiche, colori, fuochi d’artificio e coreografie delle più disparate, in cui la luce artificiale e naturale giocava un ruolo importantissimo. Interessante l’osservazione di Marcello Fagiolo - a proposito di tali apparati - che ci riferisce, tra l’altro, che Antonio Gramsci coglie tali meccanismi, inventati dai Gesuiti, come tentativi propagandistici di unire le religioni delle classi elevate a quelle del popolo.
Pochi architetti recentemente si sono interessati a queste problematiche in quanto, fatta eccezione per il già citato Mark Fisher, Paolo Portoghesi, Christian de‘ Portzamparc e ovviamente chi scrive. La gran parte di queste Una tenda strutture oggi è affidata a accompagna la imprese che poco hanno a Chiesa nella sua che fare con l’architettura ed operano solo nell’ottica di evoluzione storica: una domanda e di un’offerta è la presenza di Dio in del mercato dal punto di vista mezzo agli uomini e funzionale e solo raramente la Bibbia la connota fanno sì che queste strutture assolvano al grande potenziacome nube luminosa le massmediatico che da seo tenda del deserto, coli era stato loro affidato. che allarga i suoi Da queste riflessioni nasce il progetto di questa immensa pioli per accogliere macchina teatrale per due un popolo nuovo milioni di spettatori, in occasione del Grande Giubileo del 2000, che diverrà una sorta di grande chimera scenografica “neoplastica”, come amo definirla ironicamente, costruita Studio per la sulla memoria degli apparati sopra descritti sistemazione con lo scopo di ricongiungere, attualizzando- della grande nel campus la, la tradizione degli eventi effimeri sacri che croce universitario di si erano svolti per secoli a Roma. Sarà anche Tor Vergata questa, come le altre macchine del passato, a ricordo del corredata da un sottile gioco di allusioni, invi- Grande Giubileo ti e rimandi dal valore simbolico ed iconico, del 2000 come in seguito descriverò. 3
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Il progetto Il lavoro è consistito nella costruzione di una macchina teatrale che doveva ospitare circa 1600 persone ed esattamente 900 posti a sedere per vescovi e prelati, un palcoscenico per orchestra e coro di 300-400 elementi, uno spazio per la celebrazione della liturgia per circa una dozzina di officianti e vari addetti alla sicurezza che controllassero percorsi di diversa natura tra loro non sovrapponibili. Nel backstage spazi per vestiboli e camerini, servizio catering, servizi igienici, macchinari ed elevatori nonché vani per tecnici della radio e televisione, pubblica sicurezza e vigili del fuoco. Bisognava inoltre predisporre una platea sottostante per un milione di persone, parcheggi e viabilità, sistemi di illu-
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minazione ed amplificazione e torri per le riprese televisive e cinematografiche. Tutto sotto il vincolo del sistema costruttivo modulare provvisionale a tubo giunto, con l’impegno che nulla dovesse essere prodotto fuori opera. La proposta progettuale, che avrebbe configurato una delle più grandi platee mai viste fino a quel momento, concepita all’interno di un reticolo di vincoli urbanistici e territoriali, doveva essere risolta in un tempo ristrettissimo per essere presentata al committente. Ed infatti uno dei massimi problemi fu quello di interloquire con una molteplicità di autori dell’intera operazione che andavano dal Il muro rappresenta Comitato Nazionale per la XV un argine visivo GMG al Provveditorato alle nella campagna, Opere Pubbliche, dal consorzio di imprese all’unità di crisi, un fondale agli dalla Croce Rossa alle emitaccadimenti sui tenti televisive e radiofonipalchi, una che, dall’Università Tor Vergata al Comune di Roma e spalliera al corpo dalle autorità varie agli addetdei servizi, ti stampa nazionali ed interun contrappunto nazionali. Tutto ciò, durante i vigoroso alla levità lavori, sembrò ad un certo punto rendere impossibile la della grande riuscita di una macchina di tal copertura fatta. A questo va aggiunto l’impegno del progettista di controllare, oltre ad un’infinità di imprese incaricate dell’esecuzione del lavoro, la miscela esplosiva delle committenze, i cui desiderata mutavano di giorno in giorno. Controllo inoltre e governo finalizzato a trasformare questa infinità di problematiche in un’opera di architettura che mettesse in proporzione, senza sprechi di costo e di materiali, un insieme degno di un sì grande evento. La prima operazione è stata quella di tracciare un muro lungo quanto la dimensione media dei grandi vuoti nel continuum urbano della città di Roma. Misura questa ricavata analizzando le dimensioni di piazza San Pietro del Bernini, di piazza Navona, di piazza della Repubblica e di piazza del Popolo. Misure variabili tra i 160 e i 180 metri. Questo al fine di fondare il primo tracciato della costruzione atto a configurare un fronte che contenesse un fondale per uno spa-
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zio smisurato di visibilità. Seconda operazione è stata quella di studiare e ricercare la giusta altezza dal suolo del piano di calpestio del palco per ottimizzare la visuale di quelli che inizialmente dovevano essere un milione di spettatori che poi, come tutti sanno, divennero il doppio. Tramite lo studio della curva di visibilità la quota ricadde a 8,40 metri dal piano di campagna formando, rispetto alla quota di seduta degli spettatori delle prime file, un enorme distacco visivo in altezza di pari entità. Fu necessario pertanto trovare un sistema di raccordo con il terreno che non poteva essere banalmente una parete verticale alta circa nove metri, come avrebbe fatto qualunque mestierante del settore, ma doveva essere un sistema di raccordi ascensionali in armonia con l’andamento morbido e flessuoso del paesaggio circostante. E così nacque il sistema delle rampe, che è un sistema di mediazione tra la linea verticale del muro e il piano orizzontale di calpestio del palco. Qui ancora ritorna la memoria dell’architetto come strumento del progetto traendo spunto dal tempio della dea Ascepsut in Egitto, con quel lento digradare delle rampe, che conducono lentamente e in modo processionale verso il luogo sacro della cerimonia. La grande distesa di oltre 350 ettari del paesaggio circostante, priva di riferimenti della città costruita divenne elemento di dialogo con questa struttura, che non poteva che assumere una dimensione scalare di grande respiro, come pure la dimensione della grande croce, che veniva ad essere eretta nella sua posizione ad indicare non solo il significato simbolico e sacro dell’evento, ma anche il punto di richiamo per le centinaia di migliaia di pellegrini, che a distanza si potevano orientare per raggiungere il luogo della cerimonia. Ed infine la grande tenda che non doveva ostacolare, con gli elementi di supporto verticale, la visibilità. E poi la città di Roma con la sua Chiesa, con i tanti esempi del passato che dovevano essere in un certo qual modo presenti e richiamati per dare identità a quel sito ove si sarebbe svolto l’evento. Così nacque l’ornamento cosmatesco della scala che riecheggiava la chiesa primitiva; così la scalinata centrale che rievocava la chiesa nel
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suo massimo fulgore; come pure la tenda con i suoi pilastri inclinati che ricordavano il movimento processionale dei baldacchini per le grandi feste. L’enorme muro o pecile testimone della presenza dell’antica Roma attualizzata ai nostri giorni, frammento di una storia passata ancora presente. Tutti questi significati simbolici e iconici sono stati stratificati nel progetto in un unico complesso architettonico per ricavarne una figura simile a quella prodotta da un teleobiettivo che schiaccia in un’unica immagine epoche, tracce e segni distanti tra loro in continuità. Questa la storia di questo progetto, che si compone di tre grandi elemen-
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ti assemblati in un unico organismo architettonico, ovvero: il muro, i luoghi e i percorsi e la tenda, di cui accennerò solo alcuni significati simbolici.
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Il Muro, fondale del grande raduno della XV Giornata Mondiale della Gioventù
Le attribuzioni simboliche del progetto
Il muro Il muro è la struttura portante di tutto il complesso. Quinta architettonica che si estende per 160 metri lineari ad abbracciare lo sguardo dei partecipanti all’assemblea della XV Giornata Mondiale della Gioventù. Questa parete solitaria che nasce in obliquo
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Luoghi e percorsi
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dalla terra ed alle infinite variazioni di questa contrappone l’orgoglio della linea retta, cifra della razionalità, rappresenta la storia dell’uomo. Questa, edificata per strati, quasi il sedimento di civiltà succedutesi nella costruzione della scena umana, pare scaturita da un’origine incerta a rappresentare l’inizio di un Bisognava cammino insicuro sospeso tra predisporre una realtà e mito, all’interno di uno spazio terreno del tutto platea sottostante modificabile ed uno in moviper un milione mento ignoto ed agognato di persone, che ancora non gli appartieparcheggi ne. Su questo spartito della storia e viabilità, sistemi umana così ideato all’improvdi illuminazione viso cala, conficcandovisi in e amplificazione, profondità, la Croce di Cristo. Questo impatto nella storia torri per riprese dell’uomo è rappresentato televisive e dallo sbrecciarsi del muro, cinematografiche penetrato dall’asta della Croce. Ciò che radica strutturalmente al muro la Croce sono quattro crociere metalliche che ne Sostegni affiancano la base, memoria dei quattro e volute della Evangelisti, un tempo sempre presenti tenda come icone all’estremità dei bracci delle croci, motori dell’annuncio della Buona Notizia alle quattro direzioni del mondo. Infine questa parete rappresenta: un argine visivo nella campagna, un fondale agli accadimenti sui palchi, una spalliera al corpo dei servizi, un contrappunto vigoroso alla lievità della grande copertura. 5
Lavori di costruzione delle rote cosmatesche
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L’avvento della Croce nella storia dell’uomo ha attirato moltitudini. Cosicché il muro della storia che prosegue la sua corsa, si dilata ad ospitare luoghi e a creare percorsi che in questi 2000 anni assumono infinite forme che sono visualizzate dalla compresenza di molte scene, fisicamente accolte di fronte al muro in differenti palchi, situate in connessioni gerarchiche, legate da rampe processionali che salgono o da precipizi di gradini che scendono come torrenti, descrivendo la vitalità e la laboriosità del Popolo di Dio. E proprio da questi luoghi una scalinata centrale scende a sua volta verso la grande assemblea ad esprimere, con la sua discesa verso il mondo, la diffusione del Verbo. Ai suoi fianchi due piani inclinati la bordano, decorati a bassorilievo, con rote cosmatesche, citazioni quest’ultime del pavimento della Scala Santa e di San Giovanni in Laterano, sede del Vescovo di Roma.
La tenda La tenda, archetipo della casa, è un paradigma del costruire. Qui l’uomo trova rifugio, non solo dalle intemperie, ma adatta e connota tale luogo protetto come spazio ove esplicare le sue funzioni sociali e religiose che lo accompagneranno per tutto il percorso della sua vita. Qui formula le regole della convivenza e delle azioni quotidiane che si manifestano nella vita materiale attraverso la misura del corpo e nella vita spirituale attraverso le esigenze dell’anima nel rispetto di Chi, a sua immagine e somiglianza, gli ha donato sia l’uno che l’altra. Una tenda accompagna la Chiesa nella sua evoluzione storica. La tenda è la presenza di Dio in mezzo agli uomini. La Bibbia la connota come “nube luminosa”, come “tenda del deserto” che allarga i suoi pioli per accogliere un popolo nuovo. Nel progetto, utilizzando la tecnologia contemporanea, si è disegnata la tenda come una copertura di forma lieve ed ampia, ma di struttura poderosa che il vento, in questa grande spianata, non potrà travolgere. Gli elementi di articolazione strutturale che la connotano traggono ispirazione da volute dinamiche, quasi l’espressione di una eco barocca. La tenda è dunque un segno di
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4. ”….Quando con mio grande diletto nella bellezza della casa di Dio - l'incanto delle pietre multicolori mi ha strappato alle cure esterne e una degna meditazione, mi ha indotto a riflettere, trasferendo ciò che è materiale a ciò che è immateriale, sulla diversità delle sacre virtù: allora mi sembra di trovarmi, per così dire in una strana regione dell'universo che non sta del tutto chiusa nel fango della terra né è del tutto librata nella purezza del Cielo; e mi sembra che, per grazia di Dio, io possa essere trasportato da questo mondo inferiore a quello superiore per via analogica… E allora quando in queste pietre percepisco tali cose superiori, l'anima piange, di gioia commossa, e non per vanità terrena o amore delle ricchezze, ma per amore della causa prima non causata.” Tratto da Erwin Panofsky, Abbot Suger on the Abbey Church of Saint Denis and its Art Treasures, Princeton 1946.
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protezione e nello stesso tempo il baldacchino cerimoniale, un connotato regale, il coronamento di una festa. Fino a questo punto ho esposto il lavoro attraverso le funzioni, le strutture e i significati simbolici che lo hanno configurato. Il progetto però non si capirebbe completamente se non si esponesse un ultimo obiettivo insito nel lavoro, ovvero quello di perseguire una finalità che del resto ogni architettura nel suo compiersi dovrebbe manifestare, vale a dire la capacità di creare uno spazio che, una volta ideato attraverso la sua geometria, sia in grado di infondere un’atmosfera e un carattere consoni alla funzione alla quale è stato destinato. Intenzione questa difficilmente definibile ed inscrivibile in un piano cartesiano o nel dato tecnico e tanto più ardua da trasmettere se non forse attraverso l’esplicitazione di un’idea forte che sia tale da far vibrare i materiali di per sé inerti acché questi, accostandosi e componendosi, vadano a configurare lo spazio adatto di cui si parlava, vale a dire in questo caso il luogo ove l’uomo sia condotto ad avvicinarsi alla sfera emotiva e spirituale. Orbene, il suggerimento per cogliere quel carattere che ricercavo, al fine di riversarlo in questa architettura, mi è stato dato dalla lettura di un brano del XII secolo che ripropongo in nota, scritto dall’abate Suger quando questi, ultimata la cappella di Saint Denis nell’Ile de France si raccolse in contemplazione nell’abside.4 Suger, per quanto riguarda il progetto, ha dato una mano a salutare la bellezza materiale intesa come veicolo di beatitudine spirituale anziché rifuggire da essa come tentazione. E tale intendimento si è umilmente tentato di ripercorrere lavorando con i materiali poveri e precari dell’allestimento per il palco papale. Ecco dunque l’idea forte, il carattere, l’atmosfera che volevo infondere nei materiali della “fabrica” che alla fine mi auguro siano serviti a rappresentare il compimento ultimo del lavoro. Finito l’evento giubilare, su quella spianata è rimasta solo la grande Croce di corten. In una sorta di dissolvenza delle sue strutture di legno, subito dopo scomparse e in gran parte forse utilizzate da chissà quanti cantieri dell’abusivismo delle borgate circostanti, poco è
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rimasto della memoria di quel giorno, affida5 - L. Lombardi, Gli ta ad una solitaria targa stradale. Mi fu chiesto architetti di Dio, in di progettare una sistemazione per il recupe- “Selezione Reader's ro della grande Croce, al fine di recuperare da Digest”, un lato la memoria del raduno e dall’altro dicembre 2004. - AA.VV., Dal futuriproporre un elemento architettonico di arre- smo al futuro possido urbano dell’area. (foto 3 pag. 42) bile nell'architettura Tutto ciò nasceva da un’iniziativa del con- italiana contemporaSkira, Milano, sorzio di imprese che aveva realizzato il nea, luglio 2002. palco, dall’università di Tor Vergata, che - M. Costanzo, aveva addirittura promosso un sondaggio Il palco di Tor dagli esiti positivi per tale progetto, con il Vergata per il dei beneplacito del Provveditorato alle OO.PP. Giubileo Giovani, e del Comitato Nazionale per la XV GMG, in “Parametro”, nonché un timido accenno di partecipazio- n. 238, marzo-aprile 2002. ne della Banca d’Italia situata nei pressi. - F. Purini, Palco per Si consideri, inoltre, che gli stessi abitanti dei il Giubileo dei giovaquartieri circostanti l’avevano adottata ni a Tor Vergata, come simbolo o segno di riconoscibilità del Roma: tre archetipi luogo e ne andavano molto orgogliosi e una figura, in “L'industria delle dicendo che era la Croce più alta del mondo, Costruzioni”, n. 353, cosa peraltro vera. Del resto Roma è una marzo 2001. città ove gli eventi giubilari hanno sempre - M. Fagiolo, scena della rappresentato nel corso dei secoli un’occa- La Instant City a Tor sione di ristrutturazione e innovazione urbana. La renovatio urbis di ben nota meCosì nacque moria, ancora oggi può essel'ornamento re intesa come strumento di cosmatesco crescita per la città. Il progetto, nella mia intendella scala, zione, era quello di lasciare la che riecheggiava la Croce dove era, rimodellando chiesa primitiva; così il suo intorno con un grande teatro sull’acqua in arenaria e la scalinata centrale, travertino, circondato da un che rievocava la orto e da un parco, anch’essi chiesa nel suo dagli evidenti significati simbolici, che avesse il duplice massimo fulgore scopo di conservare il ricordo dell’evento e allo stesso tempo farlo diventare la quinta architettonica di Vergata, Roma, in un vuoto urbano connesso ad un’ottica di “L'Architettura, cronache e storia”, sviluppo futuro del campus di Tor Vergata, n. 548, giugno 2001. foss’anche la città del Nuoto. Ma di tutto ciò - O. La Rocca, ne è rimasta traccia su qualche quotidiano, La Grande Croce in Campus, come notizia di cronaca o, al più, su alcune Piazza in “La Repubblica”, riviste di architettura con genorosi commen- 2 gennaio 2001. - S. Hanson Pierce, ti critici del progetto... ma niente più. Questa, in sintesi, la storia di questo lavoro How to Stage a for a Million realizzato per essere distrutto e vivere, Party Youths, in “Herald appunto, per quaranta ore il rammarico Tribune”, August 12-13, 2000. dell’effimero.
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Santuari del tempo Roberto Della Rocca Rav, Direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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Casa di Dio, casa degli uomini Gianni Colzani Ordinario di Missiologia presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma
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L'idea di “sacro” nell'Islam 'Ala al-din al-Ghoobashi Imam del Centro Islamico Culturale d’Italia, Roma
Attraverso la rivelazione dei testi e la natura del tempio lo spazio, oltre ad esprimere la sacralità dei luoghi diviene, per l’uomo, strumento di salvezza
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el corso dei secoli, accompagnato dalla memoria e dalla speranza messianica, l’ebreo ha individuato nella tradizione orale il punto di riferimento della sua storia, lo spazio sacro entro cui collocare la propria dimensione esistenziale. La tradizione orale intesa come il momento
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privilegiato per l’innesto in un tempo che è simultaneità, un tempo la cui dimensione particolare si riferisce contemporaneamente al presente, al passato e al futuro; si tratta di una dimensione dove non c’è solo l’attimo che fugge via e che non è più afferrabile, ma anche un tempo che diventa fusione, prolungamento, coesistenza e quindi memoria. Il ricordare quindi non è un semplice
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rievocare un evento passato, poiché la catena della trasmissione del ricordo non solo custodisce l’evento stesso, ma lo riattiva in forma potenziata, lo restituisce ad una nuova vita nel momento in cui viene rimesso nel circolo della narrazione e della celebrazione. Grazie a questo rapporto sempre rinnovato con il tempo, il popolo ebraico itinerante nello spazio, lontano dalla Terra di Israele e in particolare da Gerusalemme e dal suo Santuario, ha sviluppato una profonda coscienza storica e un forte senso di memoria collettiva creando alcune province della sacralità temporali, che possono essere osservate e celebrate dovunque. È proprio l’osservanza di questi santuari del tempo, come vengono definiti dal filosofo A.J. Heschel (1907-1972), ha permesso all’ebraismo di preservarsi dall’estinzione e di non essere assorbito completamente dalle culture dominanti. A differenza delle civiltà impegnate a costruire nello spazio, come quelle egiziane, greche e romane, che esprimevano in magnificenze architettoniche le loro forme di culto e di identificazione, nell’ebraismo è prevalsa nel corso dei secoli, la santificazione del tempo. Sulla base di tali premesse anche la storia cambia la sua sostanza, cessando di essere come per gli antichi greci, un’oggettiva registrazione dei tempi passati, una data collezione di aneddoti suscettibili di interesse e di ricerca. I saggi ebrei sembrano giocare a proprio piacimento con il tempo, espandendolo e contraendolo come una fisarmonica; la precisa coscienza del tempo e del luogo, la specificità della storia cede il passo al più sfacciato anacronismo. Le comuni barriere del tempo vengono rimosse, addirittura ignorate e le varie epoche possono intessere un dialogo l’una con l’altra con assoluta disinvoltura. Il Talmud appare come un’antologia del subconscio ebraico che guarda sì alla Bibbia come fonte di ispirazione continua, ma con quel suo caratteristico metodo analogico e interrogativo che ricorre ai più strani espedienti interpretativi, a distorsioni, a capovolgimenti di epoche e di episodi sulla base di quel principio ermeneutico, che indica che nella Toràh “non c’è né un prima, né un dopo”.
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Si può così ben comprendere come, nel vocabolario ebraico, la parola storia non abbia diritto di cittadinanza. Al suo posto troviamo “toledot” letteralmente genealogie, o divrè ajamim, cronache, avvenimenti. Eventualmente, talvolta la si prende a prestito dalle lingue greca e latina. Ma il significato della parola historia (che esso riprende direttamente da tali lingue) è fedele all’approccio di queIn contrasto con le ste due civiltà agli eventi: ricerca, indagine. altre grandi culture Nella tradizione ebraica la dell'antichità parola chiave per fissare gli legate alle eventi è zachor, ricorda che ha un significato molto costruzioni in diverso dalla parola historia. pietra, il paradosso Ci si trova di fronte ad una del Hurban storia della memoria in cui sono i flashback e le libere (la distruzione del associazioni a dominare il Tempio) sembra campo e dove l’approccio aver consentito tematico appare sicuramenla straordinaria te privilegiato rispetto a quello cronologico. È prosopravvivenza prio una tale memoria individel popolo ebraico duale e collettiva, talvolta confusa e sede di connessioni e associazioni di date e di avvenimenti, che vede episodi tragici richiamare alla mente altri episodi tragici, momenti di gioia richiamare alla mente altri momenti di gioia. La letteratura rabbinica è cosparsa così di simili ancronistiche confusioni. Il ricongiungersi al zecher liziat mitzraim - il ricordo dell’esodo dall’Egitto - è sempre associato al zecher lemaasè bereshit - il ricordo della creazione del mondo - così come al dono della Toràh e alla permanenza del popolo ebraico nel deserto nelle capanne. A un punto tale che la Toràh rende noi stessi, che viviamo ai giorni nostri, protagonisti dell’uscita dall’Egitto e del patto del Sinai, tanta è l’intensità di una simile congiunzione con il passato proiettata verso il futuro. Il tempo non è più colto come un insieme di momenti frammentati e staccati tra loro, per diventare continuità e attualità. Il fatto è che, come scrive Elie Wiesel nel suo libro Celebration Biblique, la storia ebraica si svolge al presente; negando in un certo
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senso la mitologia, essa viene a influire sulla nostra vita e sul nostro ruolo nella società. “…Giove è un simbolo, ma Isaia è una voce, una coscienza. Zeus è morto senza essere vissuto, ma Mosè resta vivo… La lotta di Giacobbe è la nostra stessa lotta e parlare di Mosè significa seguirlo in Egitto e fuori dall’Egitto… Tutti i personaggi biblici si esprimono attraverso ognuno di noi perché essi sono dei degli esseri viventi e non dei simboli, persone e non dei… Tutte le storie riferite dalla Bibbia ci riguardano, non dobbiamo fare altro che rileggerle per constatare la loro attualità sorprendente… Nella storia ebraica tutti gli avvenimenti sono collegati, è raccontandoli al presente, alla luce di certe esperienze di vita e di morte, che si possono comprendere… Le storie che noi raccontiamo non iniziano con la nostra; si inseriscono nella memoria, che è la tradizione vivente del popolo ebraico… Le storie che noi raccontiamo sono quelle che noi stiamo vivendo…”. L’ebraismo appare come il solo grande culto che considera una rovina come il più sacro dei luoghi. Questo è un elemento essenziale nella struttura del pensiero ebraico. In contrasto con le altre grandi culture dell’antichità legate alle costruzioni in pietra e quindi inesorabilmente sprofondate in una
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dimensione puramente archeologica, il paradosso del Hurban (distruzione del Tempio) sembra aver consentito la straordinaria sopravvivenza del popolo ebraico. Proprio questa soprannaturale e paradossale capacità di sopravvivenza ha suscitato innumerevoli interrogativi. La caduta di quello che poteva equivalere al concetto del nostro Santuario ha determinato la scomparsa di tutte quelle culture coinvolte in un processo storico apparentemente ineluttabile. Se l’ebraismo ha potuto sfuggire a questa sorte è perché un edificio invisibile si è sostituito a quello di pietra, come se l’edificio di pietra non fosse stato altro che l’immagine manifesta e la dimensione tangibile di un Tempio spirituale che non può essere né misurato, né distrutto sulla base dei criteri conosciuti dall’uomo. La prima metamorfosi in questo senso si può riscontrare nel periodo che seguì il primo esilio, quello in Babilonia, sotto l’impulso energico di Esdra (IV sec. a.e.v.), un Maestro che seppe trarre dalla catastrofe babilonese una lezione decisiva; nonostante l’esilio, la nazione ebraica poteva essere ricostruita riconducendo il popolo a rivivere gli insegnamenti della Toràh. Nell’accettare l’entità semi-statale offerta da
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Ciro, semplice protettorato persiano, Esdra non ristabilisce tanto la monarchia, ma istituisce delle strutture molto flessibili articolate intorno alla Keneset Ha-ghedolàh, la Grande Assemblea dei Saggi. Anche se Ezrà ricostruisce il Tempio, questo sarà molto più modesto del primo, quello costruito dal Re Salomone. Forse questo avvenne per mancanza di fondi e di mezzi, ma probabilmente anche per diminuirne gradualmente lo speciale ruolo religioso. Esdra, la guida di questo ritorno, conserva il culto precedente dei sacrifici animali ma vi affianca un secondo rito, la lettura settimanale e lo studio della Toràh dando inizio così ad un’arte nuova ed essenziale per l’ebraismo, quella del Midrash e dello studio. Nessuno più di Esdra si è impegnato nell’edificazione del Tempio invisibile. È proprio in questo contesto di distruzione e di grande sconvolgimento che si sviluppa e si delinea, quindi, il passaggio dal Bet Ha-Miqdash, il Santuario, al Bet Ha- Midrash, la Casa di Studio. Il Midrash, inteso nella sua accezione più ampia, diviene quindi lo studio ebraico per eccellenza, rappresentando quello sforzo ripetuto generazione dopo generazione per la realizzazione del Tempio invisibile, una sorta di Tempio semovente, capace di seguire gli ebrei ovunque. Un tentativo di attutire e contenere attraverso una tradizione orale la ferita inguaribile della distruzione del Tempio. Il compito di trasformare il ricordo in memoria viva e trasmetterlo alle generazioni future è assegnato dall’ebraismo alla tradizione orale che, anziché essere isolata e decontestualizzata in un monumento, è inserita nella continuità di un sistema culturale. Nella tradizione ebraica anche la scrittura non è fissità, non è rigido dogma; è invece convivenza e confronto delle contraddizioni ed è punto di partenza e stimolo per una ricerca di nuovi significati. Per questo impegno costante e quotidiano la tradizione orale continua ad essere definita Toràh shebeal pèh (Toràh che è sulla bocca), nonostante i Maestri l’abbiano messa per iscritto diversi secoli fa. Come evitare che l’oblio prenda il sopravvento nella prospettiva storica, come è accaduto per le Crociate, per l’Inquisizione, per i progroms? La storia istituzionalizza il ricordo ma, quasi sempre come il monumento, sottrae la memoria
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alla sua appartenenza individuale per consegnarla alla collettività universale. La commemorazione del passato, i monumenti ai caduti, i musei, sono tutte forme di memoria collettiva istituzionalizzata e, di fatto, sottratta alla coscienza individuale. Certo, la terra di Israele si chiama Terra santa o meglio Terra della santità, Gerusalemme è una città santa, il Tempio di Gerusalemme è un Santuario, gli oggetti utilizzati nel servizio del Tempio sono chiamati santi o sacri. Il solo enunciato di questa terminologia suscita un interrogativo: come può la santità qualificare dei luoghi, degli edifici, degli oggetti? Non è contestabile attribuire un carattere sacro a realtà spaziali e materiali? Non vi sarebbe in questo già uno scivolare verso una sorta Lo spazio sacro di idolatria? non è un luogo La ricerca della santità ha desolato. Una vita condotto spesso a ogni perversione, la protezione del vi si svolge, delle sacro ha giustificato ogni cerimonie vi sono orrore; sulle tracce del sacro organizzate, delle si incontrano mistificazione e violenza spinte al loro offerte sono portate. parossismo. In queste condiDue condizioni zioni non bisogna rinunciare devono essere alla nozione stessa di sacro, eliminarla dal nostro vocaindicate: la pace e bolario e dai nostri schemi di il rispetto poiché la pensiero? Nonostante tutto santità e la guerra si può, in un’ottica che resta da definire, conservare uno sono, per definizione, spazio all’universo del sacro? incompatibili C’è ancora un terzo modo dì porre la questione. La terra di Israele è santa, Gerusalemme e il suo Tempio sono dei luoghi santi, ma di una santità che non si enuncia nelle categorie della causalità, della sostanza e dell’utile, santità senza fragore né brivido, santità accompagnata e tradotta subito in un sovrappiù di obbligo e di responsabilità, una santità che si definisce come separazione. La santità (kedushà) è una nozione di base della tradizione ebraica. Ma cosa significa? Qual è il suo contenuto se ci si mantiene nel quadro di questa tradizione e più precisamente nella linea talmudica–rabbinica? In via generale si può osservare che la definizione stessa del sacro non è un compito agevole. Al sacro e al santo si ricollegano
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le idee di perfezione e di bene dipinte di pienezza, ma si percepisce agevolmente che non si raggiunge là un senso primo. Davanti alla difficoltà si ricorre spesso a un modo di definizione formale per relazione: il sacro è ciò che si oppone al profano; non esiste che in relazione ad esso. In questo approccio il sacro, l’universo del sacro, non ha un senso intrinseco; è ciò che si trova al
precisamente, è sottratto all’utilizzazione. Ma se il Santuario non ha una funzione nel senso corrente del termine l’uomo, nella sua cerchia, ha un ruolo da giocare, un compito da realizzare. Nello spazio sacro una vita è organizzata, delle istituzioni funzionano. Un dubbio può allora sfiorare. Forse il carattere sacro del luogo è funzionale, forse è legato a questa organizzazione?
di là delle frontiere del profano. Sacro significa allora separato o distinto. Questa definizione ha il merito della chiarezza e permette effettivamente di rendere conto di una grande varietà di fenomeni. Essa soffre tuttavia di un difetto, che è di ridurre il sacro a una categoria logica, alla categoria della differenza. Certo, questo spazio è sacro e sarebbe incongruo domandarsi a cosa serve poiché,
Uno spazio è estratto dal gioco dell’essere. Questa separazione porta alla sua pura spazialità; nessun calcolo, nessuna riserva può intervenire. La logica dell’utilità è congedata senza restrizione. Come dice ancora il Talmud: “la presenza divina non abbandona mai il Muro Occidentale”. I rischi della storia, della politica, anche della liturgia organizzata, non potrebbero entrare in relazione con la santità, separazione incondizionata del gioco dell’essere.
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Bisogna tuttavia osservare un punto essenziale. Nei buoni periodi, sulla montagna c’è un Tempio, dei sacerdoti, un’attività. Lo spazio sacro non è allora un luogo desolato. Una vita vi si svolge, delle cerimonie sono organizzate, delle offerte sono portate. La santità del luogo è, abbiamo detto, incondizionata. Ne va altrimenti dell’attività che vi si svolge. Il culto reso al Tempio ha delle condizioni di
zioni pacifiche con i popoli stranieri. Nessuna cerimonia al Tempio di Gerusalemme è prevista per celebrare una vittoria militare: la santità e la guerra sono, per definizione, incompatibili. Seconda condizione preliminare sulla quale insiste in particolare il profeta Isaia: il rispetto del diritto civile e la solidarietà sociale. Se l’istituzione giudiziaria non funziona in
validità. Non è giustificato, non ha senso se dei dati preliminari non sono recepiti e i profeti hanno sempre insistito su questo fatto. Tra le altre, due condizioni devono essere specialmente indicate. La prima è la pace. David, uomo di guerra, non ha potuto edificare il Tempio. È occorso attendere, per questo, il regno di Salomone, delle istituzioni politiche stabili all’interno e soprattutto lo stabilirsi di rela-
modo conveniente, o quando il sostegno ai più sfavoriti non è assicurato, ogni liturgia organizzata perde senso. L’attività del Santuario viene solo a premiare una società fraterna dalla quale sono state sradicate la violenza e la spoliazione e questo suppone, come preliminare, la messa in opera di una società civile in cui il tribunale gioca il suo ruolo e di istituzioni efficaci di solidarietà sociale.
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CASA DI DIO, CASA DEGLI UOMINI
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uogo di intense e multiformi relazioni, la città offre luoghi o spazi che rendano possibile questa vita; vi è uno spazio domestico ed uno spazio pubblico, uno spazio commerciale ed uno spazio culturale, uno spazio di incontri ed uno spazio personale. Per questo una città non comprende solo case e condomini: comprende le piazze e i centri commerciali, le biblioteche e i musei, le palestre e i teatri: sono i luoghi nei quali è maturata la nostra coscienza collettiva. Comprende anche uno spazio sacro; lo comprende perché l’incontro con il mistero santo che ci circonda e ci avvolge appartiene ai bisogni primari della vita. La rapida evoluzione che investe oggi la città la sfida complessivamente, nella sua stessa capacità di favorire la vita. Di fatto la vecchia città storica, spesso chiusa in un sistema di mura, è esplosa sotto la spinta della nuova urbanizzazione verso forme metropolitane anonime: oggi, la città vive il disagio di periferie dalle incerte frontiere e l’angoscia di una pesante perdita di identità e di sicurezza. Le metropoli odierne hanno perso credibilità e autorità in quell’irraggiamento simbolico di modelli di vita che ne costituiva la forza nel passato. Si fa strada l’impressione di un’incompiutezza che impoverisce la proposta della vita cittadina e ne problematizza ogni aspetto, anche quello religioso. È possibile inserire spazi sacri in un contesto
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cittadino segnato da questo profondo disagio? Non rischiano di essere monumenti di un passato lontano, senza rapporti effettivi con una vita che persegue valori diversi? Ritengo di no. Ritengo di no, perché un disagio segnala un cambiamento ed una evoluzione che, insieme ad elementi problematici, porta con sé anche delle autentiche opportunità e perché sono convinto che l’elaborazione di un progetto di vita complessivo non può mai prescindere da Dio. Una cosa dobbiamo sottolineare subito, ed è che gli spazi sacri di una città corrispondono alla sua storia e, soprattutto, al suo presente; per questo non si può prescindere
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dalla storia di Roma che l’ha vista come sede del papato e che la vede come centro della cristianità, ma bisognerà pure riconoscere il carattere multireligioso della Roma attuale. Riconoscere questa molteplicità è riconoscere le diverse funzioni che le religioni attribuiscono ai loro spazi sacri: una chiesa cristiana è cosa diversa da una sinagoga ed entrambe sono altro rispetto ad una moschea. Per questo In una società non basterà illustrare gli elementi comuni: occorrerà secolarizzata precisare anche le diverse come la nostra è specificità di questi luoghi e, certamente un'impresa soprattutto, bisognerà chiedersi come inserirli nel tessusconcertante to vivo di una città. pretendere Per questo va detto che cerdi costruire uno spazio care di rispondere alle esigenze della casa di Dio signiin cui la precarietà fica, per chiunque voglia dell'esistenza umana prendere sul serio la fede, e la presenza ripensare la casa dell’uomo, luminosa, significa disegnare uno spazio architettonico che permisericordiosa di Dio, metta alle persone di dare ai siano date insieme loro sentimenti e alle loro emozioni, ai loro progetti e alle loro attività la forma propria di un incontro con il mistero santo di Dio. L’incontro spetta alla fede, ma all’architettura spetta predisporre un ambiente di forme e di trasparenze, di luce e di simboli, in grado di incontrare le attese e i cammini della fede. Quando questo avviene, l’architettura riesce a parlare a chi crede: introduce ad una profondità che, eliminando il peso murario delle costruzioni contingenti, rende possibile l’indicibile cammino dell’animo con Dio. Abitato dalla sua santa presenza, lo spazio sacro spalanca la profondità di questo incontro. Appartiene alla cultura architettonica saper creare uno spazio che miri alla preghiera e cioè alla meditazione e alla proclamazione, al silenzio e al canto, alla soggettività comunitaria e a quella individuale, all’invocazione e al grido. In ogni caso, all’incontro della vita con il suo Signore. In una società secolarizzata come la nostra che si riconosce nell’Urlo di E. Munch o nelle provocazioni di Turchia, Istanbul. avanguardie che azzerano i tradizionali La Moschea blu 1
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codici stilistici, è certamente un’impresa sconcertante pretendere di costruire uno spazio in cui la precarietà dell’esistenza umana e la presenza luminosa, misericordiosa di Dio siano date insieme. L’importanza dei nostri luoghi di culto è tutta qui: sta nella convinzione che l’abbondanza dei beni di consumo per la vita se questa si impoverisce ogni giorno di più di capacità di relazioni, di incontro, di cammini solidali. Per questo abbiamo bisogno di Dio e, per questo, appartiene al genio creativo dell’architetto saper affrontare questa sfida e saper dar vita ad una città dove le persone lo possano incontrare.
Ho detto che vi sono differenze, e differenze non annullabili, tra le varie fedi; per questo vi sono differenze nel modo di concepire la casa di Dio, il luogo del culto. Pur condividendo con altre religioni la convinzione che la storia umana è, alla fin fine, nelle mani di Dio ed è per questo lo spazio di una storia di salvezza, la religione cristiana indica il cuore di questa storia nella figura di Gesù e nel suo vangelo. Il luogo di culto cristiano dovrà esprimere il mistero di questa figura unica e singolare che ci ha insegnato a rivolgerci a Dio come Abbá e a ritrovare fiducia nella vita sulla base della certezza che il Padre ci segue come figli e ci ha lasciato il dono dello Spirito come forza e come guida per la nostra esistenza.
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Almeno all’inizio il luogo di preghiera non era uno spazio sacro: ci si trovava nelle case e lì si lodava Dio e si celebrava la “cena del Signore”. Nella sua prima lettera ai cristiani di Corinto, Paolo parla così: «quando vi radunate in assemblea…» ed è proprio per designare l’assemblea che usa il termine ecclesía. La “chiesa” innanzitutto non è un edificio, ma una comunità costruita da pietre vive e raccolta attorno alla presenza del Signore: è la famiglia che siede a mensa con il suo Signore e salvatore. Non per niente, parlando di coloro che crederanno in lui, Gesù userà il termine «i miei fratelli». Qui non posso sviluppare la storia dei luoghi cristiani di culto ma va detto che, dopo aver abbandonato la casa, il luogo di culto assumerà dal mondo romano la forma basilicale propria dei luoghi di incontro del popolo. Allo stesso modo assumerà da ogni polo qualcosa delle sue forme espressive. Nonostante questo, ridurre la chiesa a un tempio di mura, a un monumento artistico magari, è un colossale fraintendimento; non è il culto ad essere un capitolo dell’arte ma è l’arte, la bellezza ad essere una componente indispensabile del culto rivolto a Dio. Per questo una chiesa cristiana va pensata in modo che una comunità vi si possa realmente ritrovare. Aperta al pubblico, ha in se stessa il suo significato: è il luogo in cui la comunità si ritrova per fare memoria dei gesti del suo Signore e, interiorizzandoli, imparare a praticare la sua lezione di vita. È il luogo in cui la comunità prega e invoca il suo Signore; come i primi discepoli ne ascolta la Parola trovandovi luce e conforto per le sue scelte. È il luogo in cui la comunità comunica con il suo Signore e, mentre da Lui impara la volontà di Dio e il valore del regno, a Lui confida le sue necessità e affida i suoi timori e le sue debolezze. Attraverso le sue celebrazioni, la comunità impara a fare della sua vita una vita orientata all’amore. Proprio perché questi sono i gesti fondamentali della comunità, una chiesa ha al suo centro un altare che richiama come Cristo si faccia presente nel sacrificio o offerta della sua vita e nella cena che lo esprime religiosamente e simbolicamente; insieme all’altare, un posto particolare spetta poi all’ambone o pulpito per la proclamazione della Parola e alla cattedra o
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sede del presidente. L’insieme di queste tre cose esprime la profondità dei gesti di Cristo e dice come egli lo faccia servendosi sacramentalmente di persone e di realtà umane. Chiunque celebri il sacramento della presenza di Cristo in mezzo alla sua comunità prolunga la sua presenza nella vita delle nostre città. L’originalità della chiesa sta nel fatto che, mentre molto spazio pubVi sono differenze blico – tradizionalmente nel modo di luogo di relazione e di incontro – è diventato concepire la casa luogo di disagio e di conflitdi Dio, il luogo ti, la chiesa è spazio di di culto. comunione. Lo è per la presenza del Signore al quale La chiesa non è un tutti, cristiani compresi, debedificio, ma una bono convertirsi; lo è perché comunità costruita la comunione cattolica è da pietre vive e luogo di sintesi e di valorizzazione delle differenze; lo è raccolta attorno perché i bisogni di identità alla presenza ed efficienza, di sicurezza e del Signore privacy trovano una singolare risposta che, prima di essere rassicurante, è impegnativa nella linea dell’amore. Una chiesa è anche luogo di preghiera personale e privata. L’importanza della comunità è fuori dubbio, ma la comunità non esaurisce tutte le dimensioni della vita personale: vi sono momenti intimi, esigenze personali, desideri segreti, sofferenze mai condivise. Sono pensieri ed emozioni che vengono espressi solo in un a tu per tu davanti al Signore, al tabernacolo. Una volta dominante nella chiesa, oggi ha invece trovato una collocazione diversa; per lo più è collocato nella cappella del Santissimo Sacramento. La differenza tra chiesa e cappella serve a precisare la differenza tra ciò che è comunitario e ciò che è intimo e personale. In conclusione, mi pare importante ciò che dovrebbe essere ovvio ma non sempre lo è: la fede non è un tavolo di discussioni su Dio ma è, prima di tutto, un modo di vivere e di interpretare la vita. Gesù è venuto, infatti, perché «gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». Per questo, pur restando una scelta libera e personale, la fede è un valore che una città deve saper coltivare.
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L'IDEA DI “SACRO” NELL'ISLAM 3 'Ala al-din al-Ghoobashi
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a lode a Dio, Signore dell'Universo, la preghiera e la pace su tutti i Profeti e gli Inviati e su coloro che li seguono, sino al Giorno del Giudizio. Discorrere del concetto di “sacro” (muqadIran, Isfahan. das in arabo) nell'Islam richiede da parte Particolare della nostra di definire innanzitutto il senso del cupola della termine linguistico, così come richiede di moschea di Sayh Lutfullah spiegare in che termini, oggi, gli uomini ne conoscano il significato e come lo utilizzino nei loro scritti, nei loro discorsi o nella lingua parlaVi sono poi i Libri ta. In ultimo, è necessario riflettere sul legame che celesti, ovvero intercorre tra questi due i Libri che Iddio ha aspetti. rivelato attraverso In una prospettiva semantica, la definizione di “sacro” i Suoi inviati racchiude in sé quella di affinché fossero “puro” (tahir) e di “benedetcodice, guida to” (mubarak). Da qui deriva e modello di vita l'odierna concezione che gli uomini hanno del termine e potessero “sacro” e di cui possiamo indirizzare dare la seguente definizione: l'umanità verso 'quanto non è permesso violare, mortificare o umiliare in la retta via ogni aspetto della vita sia con azioni, con parole, o con qualsiasi altro mezzo'. Quanto al legame che si instaura tra il senso del termine linguistico e il senso che ne colgono oggi gli uomini nell'utilizzarlo, esso è rappresentato da 'qualcosa di puro, di bene2
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detto, che non è permissibile contaminare ed insozzare, o ancora sminuire nel valore ed anzi non si deve neanche lontanamente pensare di profanare'. Possiamo ora discorrere del concetto di sacro nell'Islam, alla luce di quanto abbiamo sopra affermato. Nell'Islam, Sacro è, in primissimo luogo Iddio, gloria a Lui, Egli è l'Altissimo; tuttavia sacro può definirsi anche quant'altro tragga la sua sacertà da Iddio, gloria a Lui, Egli è l'Altissimo. I termini “sacro” e “santissimo” (quddus) sono due parole dal significato univoco. Tra gli asma' Allah al-husna, i Nomi Bellissimi di Dio, Egli è l'Altissimo, troviamo proprio alQuddus, vale a dire il Puro, il Benedetto, e il nome al-Quddus ci viene proprio dal Nobile Corano, dove l'Altissimo dice: “Egli è Iddio, Colui all'infuori del Quale non c'è altra divinità, il Re, il Santissimo, la Pace” (Cor., 59:23). Ibn Manzur, autore del famosissimo dizionario Lisan al-'Arab (La lingua degli Arabi), così ha scritto: 'il termine quddus indica il puro, colui che è immune da ogni bassezza, difetto e vizio'. Ha detto Ibn al-Kalbi: 'con il termine quddus si intende il puro, e la parola di Dio “Il Re, il Santissimo” è da intendersi come Il Puro, con riferimento alla qualità intrinseca di Dio, Egli è Potente ed Eccelso'. L'Islam stabilisce quindi che tutto quel che Iddio, gloria a Lui, Egli è l'Altissimo, ha ordinato di glorificare e di onorare, o in cui ha ordinato di aver fede, tutto ciò si trova all'interno della sfera del “sacro”, di qui il divieto di violazione e di disprezzo.
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Della sfera del sacro fanno parte, ad esempio, gli angeli. Ed essi sono puri e immuni da ogni difetto; l'Islam impone di aver fede in loro e vieta di sminuirne l'importanza. Ed essi sono gli angeli di Dio, gloria a Lui, Egli è l'Altissimo. Troviamo quindi i Profeti e gli Inviati, ed essi sono la parte migliore tra le creature di Dio e coloro che Egli ha nominato Suoi ambasciatori di fronte al creato, inviandoli alle proprie nazioni, affinché facessero da guida, per farle uscire dalle tenebre dell'ignoranza e dell'idolatria, conducendole verso la luce della sapienza e dell'Unicità di Dio, chiamandole a percorrere il retto cammino di Dio. Non è inoltre permissibile sminuire il loro ruolo, né disprezzarli, né ingiuriarli, o persino metterli sullo stesso piano della gente comune, con qualsiasi mezzo o in qualsiasi circostanza. Vi sono poi i Libri celesti, ovvero i Libri che
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Iddio, Egli è Potente ed Eccelso, ha rivelato attraverso i Suoi Inviati - su di loro la preghiera e la pace - affinché fossero codice, guida e modello di vita e potessero indirizzare l'umanità verso la retta via, attraverso la loro luce, applicando i loro comandamenti, ed astenendosi da quanto hanno proibito. Vi è inoltre l'Ultimo Giorno, ovvero il Giorno del Giudizio, allorché gli uomini si leveranno in piedi al cospetto del Signore dell'Universo, per prendere coscienza della ricompensa delle azioni compiute in vita. E colui che avrà avuto timor di Dio, adorandolo e ubbidendogli, avrà come premio il Paradiso, ma colui che si sarà comportato come un depravato, diffondendo vizio e degrado sulla terra troverà ad attenderlo l'inferno, a ripagarlo del suo peccato. Certo non è pensabile che il concetto di “sacro” nell'Islam possa differire da quello delle altre fedi. Certo non è possibile che
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Iddio si mostri munifico con chi Lo ha tenuto in disprezzo, come certo non accresce in virtù colui che Gli ha associato altre divinità. Allo stesso modo non è possibile che Iddio invii un Profeta, o un Inviato, che con la sua missione corregga e riformi l'umanità nella sua religione e nella sua vita terrena, e poi ordini loro quanto ha loro proibito, in virtù della Sua sapienza di Verità, del Suo onore e della Sua sacertà. Stesso discorso vale per la sapienza dei Suoi Inviati, per l'onore di cui essi sono portatori e per il rispetto che a loro è dovuto. Così è anche per la verità di cui sono testimoni dinnanzi a noi gli angeli di Dio, nel loro essere immuni da ogni difetto, turpitudine e male. Allo stesso modo non ci è permesso di sminuire il valore della Scrittura, poiché essa viene da Dio, gloria a Lui, Egli è l'Altissimo, ed in essa Iddio ha posto esempio di vita ed i principi fondamentali, attraverso i quali
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poter conseguire il Paradiso nell'Altra Vita, se Iddio vorrà. Allo stesso modo è impossibile pensare che Iddio, gloria a Lui, Egli è l'Altissimo, abbia ordinato ai Suoi Inviati di comandare ai loro seguaci di uccidere o spargere sangue, così come è inconcepibile che Iddio possa aver autorizzato i Suoi Inviati e i loro seguaci ad impadronirsi dei beni altrui, o ad uccidere. Ci accontentiamo, in conclusione, di ribadire che Sacro, nell'Islam, è Iddio, Egli è Potente ed Eccelso, così come sacro è quanto Egli ha ordinato di glorificare, onorare, santificare. Chiediamo a Iddio Sublime di assecondarci con il Suo aiuto nel compiacerLo, nell'onorarLo e nell'adempiere ai Suoi comandamenti, nell'astenerci da quanto ha proibito. Egli, gloria a Lui, Egli è l'Altissimo, è Colui che ascolta, Colui che è vicino, Colui che ama l'invocazione.
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I MOLTI VOLTI DEL PELLEGRINAGGIO
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Antonio Riccio Etnoantropologo Università “La Sapienza” di Roma
Che tipo di viaggio è un pellegrinaggio? È solo un'occasione di incontro tra un uomo e la sua divinità o anche il desiderio di appagare quella ricerca di mistero che ogni uomo porta con sé?
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l presente contributo sullo “spazio sacro” è tratto da una significativa esperienza di campo: la ricerca (video) etnografica sul pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Canneto, a Settefrati (Frosinone) (V. Padiglione, A. Riccio, 2002), realizzata qualche anno fa per conto dell’ufficio Musei della Regione Lazio da un’equipe di ricerca diretta dal Prof. Vincenzo Padiglione. L’occasione si è rivelata proficua per riflettere su che cosa è oggi un pellegrinaggio, quali possibili scenari evoca, a quali bisogni degli attori sociali contemporanei sembra rispondere, in un mondo ipertecnologico e razionalista come il nostro. Tradizionalmente, questo istituto popolare e religioso si presenta come un viaggio (salvifico) verso un luogo (sacro) alla ricerca della salute e della grazia. Antropologi e folkloristi hanno interpretato il pellegrinaggio come una specie di festa povera o dei poveri (Annabella Rossi, 1971), un circuito alternativo di svago popolare giustificato religiosamente per evadere da una vita chiusa e ripetitiva. Un movimento collettivo e popolare per
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rompere un universo immoto, aprendo parentesi di straordinarietà, di socialità, di consumi e licenze del tutto festive, che trasformavano un evento religioso in un fatto sociale totale, per usare la celebre espressione di Marcel Mauss a proposito del dono (M. Mauss, 1965). L’evento appariva connotato peraltro da con-fusione (con residui cultuali pagani e superstiziosi) (A. M. Di Nola, 1976; 1983) e da illusione (secondo l’amara interpretazione freudiana della religione) (S. Freud, 1979). Come appare invece il pellegrinaggio oggi, ad uno sguardo meno “arcaicizzante” e più riflessivo? Certamente, ad una nuova sensibilità etnografica rivela qualcosa di più e di diverso; un mondo alternativo rispetto a quello metropolitano, laico e civile. La partecipazione vissuta all’esperienza del pellegrinaggio sembra aprire oggi all’antropologo un proficuo campo di ascolto, capace di slargare la comprensione del fenomeno ad altre ragioni, “che la ragione non conosce”, come nella nota espressione di Pascal (B. Pascal, 1967: 58-59). Da sintomo ed espressione di attardamento culturale in forme Il pellegrinaggio è, di devozionalità che mettevano in imbarazzo la Chiesa stessa, probabilmente oggi il pellegrinaggio è visto ed anzitutto, uno come più conciliato con la culspazio culturale tura del nostro tempo. Anche alla luce dell’attenzione verso la privilegiato per dimensione nomade dell’attore esercitare forme di sociale post-moderno, un sogrelazione, scambio getto in costante dinamismo e rinnovamento (James Clifford, e solidarietà e nel 2000), mostra similitudini con le quale (ri)scoprire forme attuali del turismo e della il significato della migrazione, rappresentazioni propria identità non troppo velate della condizione inquieta ed instabile del vivere contemporaneo. Alla solitudine e al nomadismo, infatti, il pellegrinaggio sembra offrire insieme materia di rappresentazione e di soluzione rituale, come vedremo. Un primo scenario che il pellegrinaggio, da un punto di vista etnografico, rivela è la tensione all’avvicinamento e alla (ri)scoperta di un mistero.
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Perché il pellegrinaggio, pur essendo un evento totale, come rilevano Schultz e Lavenda (E. Schultz e R. Lavenda, Antropologia culturale, 1999:96) in cui convergono rito, gioco, danza, arte, festa, tutte integrate in un’esperienza collettiva e non ordinaria, resta tuttavia evasivo. Sfuggente ad ogni tentativo - fatalmente riduttivo - di tipo cognitivo; a letture esaustive, alla ricerca di un “senso” o “significato” unitario o complessivo. Rinvia, invece, ad un diverso approccio: più rispettoso, simpatetico e riflessivo; ad un evento complesso e frastornante, spaesante ma non incomprensibile. Il mistero sembra condensarsi in una duplice domanda. La prima, d’ordine più generale ed universale, attiene al problema stesso del pellegrinare (Perché? Per chi? Dove?). La seconda rinvia, invece, alla specificità contestuale e locale del qui e ora: perché a Canneto? Perché questo rapporto intimo e profondo con la Madonna Bruna di Canneto? L’esperienza etnografica propone possibili risposte a quest’ultima domanda, prese direttamente dalle voci dei pellegrini di Canneto, che sotto le tende del campo, nel pathos, nella confusione e nella vitalità di questa festa-evento popolare raccontano la loro esperienza. Come e perché hanno iniziato a pellegrinare e per quale motivo seguitano a farlo. L’iniziazione al pellegrinaggio appare ispirata a toni epici: “la prima volta” in cui si è partiti è lontana e remota, il viaggio avventuroso e faticoso, “a piedi, solo, alle 4 del mattino…”. A volte l’impresa viene apostrofata con un: ”tu si’ pazzo!!”, per concludersi però con un esito morale positivo: “oggi mi sento realizzato”. Come se l’esperienza di consapevolezza e rigenerazione del sé muova necessariamente da un’iniziale visionarietà, un’apparente pazzia. Si citano tradizioni di lunga o breve durata (“sono già tre anni che vengo …”, “io vengo dal ’92…” ), oppure si esprimono voti perenni (“Verrò sempre a Canneto…”) ed osservanze di buone maniere (“e so’ contenta di essere venuta a visitare la nostra Madre…”). Compaiono anche prime testimonianze dello straordinario, prime commozioni per grazie ricevute, ringraziamenti
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alla compagnia per l’ospitalità e l’appartenenza trovate. C’è, infine, chi tenta di dire l’indicibile; comunicare l’esperienza vissuta del contatto con la Madonna, come un capo compagnia che cerca di spiegare (a noi e, forse, anche a se stesso) l’incredibile ed inspiegabile richiamo che ogni anno lo attira al Santuario di Canneto, con un’espressione che sembra riassumere e sciogliere contemporaneamente il “mistero” di questo pellegrinaggio: “Voglio domandare alla Madonna di Canneto cosa mi hai fatto. Cosa mi hai fatto, Maria di Canneto?”. L’ accorata domanda a Maria apre al mistero dell’attrazione fatale per l’evento e l’incontro. Che mostra – questa è la più immediata impressione – una ridefinizione non agiografica della Madonna, rappresentata non come madre pietosa, comprensiva, esaudiente, accogliente, ma quasi donna fatale, fascinatrice e seduttrice, che chiama dal suo lontano eremo ad un incontro non rinviabile. Se il mistero appare fondato anche su implicite motivazioni al pellegrinaggio (il potere ammaliatore, il richiamo della grazia, della bellezza, della dolcezza) tra i caratteri convenzionalmente ritenuti “essenziali” o “costitutivi” che muovono verso la Madonna di Canneto c’è anzitutto il luogo. Sito in una valle in alta montagna, nel Parco degli Abruzzi, il Santuario appare il punto di incontro di più regioni. La convergenza geografica e spaziale sembra costituire un potente centro di attrazione “naturale” ed insieme straordinario. Tra i pellegrini è ricorrente il riferirsi a questa valle come a “qualcosa di magico”, ad una “magia del luogo”, solo in parte naturalistica. Ritorna la riflessione fenomenologica di G. Van der Leeuw sul luogo sacro, che è sempre trovato, in base alle sue peculiari caratteristiche: “la località non è sacra a causa del santuario; la santità del luogo ha fatto sorgere il santuario” (G. Van der Leeuw, 1992: 310). E il luogo è infatti particolare, mantiene un suo persistente fascino: “…noi sentivamo proprio l’odore di qui, il desiderio di venire qui” - dice una fedele della compagnia di Valvori. L’effervescenza culturale che si sviluppa in questo spazio dello straordinario investe l’in-
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tero complesso rituale con una ricchezza e polisemia di significati che possiamo ricondurre ad almeno tre dimensioni, implicite ma significative. Ovvero, ad inedite ed illuminanti metafore; ad una ridefinizione e gestione simbolica degli spazi e alla capacità straordinaria di luogo-viaggio (a volte con-fusi e sovrapposti) nel produrre cambiamenti relazionali ed identitari. Il pellegrinaggio appare, anUn primo scenario zitutto, ricco di metafore di azione sociale. È, infatti, la che il pellegrinaggio ripetizione simbolica dell’atda un punto di to cultuale originario: una vista etnografico popolazione che si mobilita per salire in alto, accorrere rivela è la tensione alla prodigiosa apparizione all'avvicinamento della Madonna e del suo e alla scoperta simulacro. Come allora, anche oggi folle di fedeli accorrono di un mistero per onorare l’icona straordinaria, eletta a loro sovrana, con una “grande traversata per arrivare al cospetto della nostra Regina “. Il pellegrinaggio, ripetendo e conservando l’esperienza sociale e collettiva del meraviglioso, secondo Dupront (Alphonse Dupront, 1993: 42), “è metafora della vita, un atto di comunione fisica e psichica con il destino degli uomini e con l’ordine della terra e del cielo”. Altrettanto forte è la metafora emotiva e festiva: l’evento e la sua dimensione collettiva riattualizza un’esperienza emotiva forte, quella della festa, che secondo E. Durkheim, periodicamente riproduce il sentimento di appartenenza comune ad un “noi creativo” (Emile Durkheim, 1976:468). Rilevante appare anche il legame con metafore di apprendimento. Il pellegrinaggio assume infatti assai spesso il carattere di apprendimento del superamento di una crisi. L’atto del pellegrinare ripete ed allontana il pericolo passato. Come un moderno role playing, modella l’esperienza nel fare, lascia apprendere dal e nel contesto. C’è una trasmissione di saperi; i libri miraculorum, ad esempio, forniscono ai pellegrini un modello del prodigio, attirano a fare il pellegrinaggio, motivano il fedele e gli suggeriscono cosa attendersi, come agire e chiedere. La metafora di fondazione appare, infine, evi-
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dente nella associazione tra visione celeste originaria e luogo, tra Madonna e Pastorella. La leggenda narra infatti di una Pastorella alla quale apparve la Madonna, che fece sgorgare miracolosamente l’acqua da una sorgente per abbeverare il suo gregge lasciando poi sul posto un simulacro. La pastorella rimase ad adorare la statua prodigiosa: venne raggiunta da un gruppo di fedeli preoccupati della sua assenza. A sera, non vedendoli tornare, anche il resto del paese salì in montagna, dove trovò i concittadini assorti in venerazione. Il luogo elettivo segna quindi il paesaggio e richiede, come prova e testimonianza, l’erezione del Santuario. Istituisce legami forti tra il meraviglioso e la natura, tra prodigio divino e spazio sociale e comunitario. Anche il simbolismo degli spazi appare illuminante e pervasivo. Il pellegrinare è un training di apprendimento e di conciliazione di relazioni oppositive tra centro/periferia, ad esempio. In tal senso mostra similitudini con l’emigrazione dal sud-periferia ai centri urbani postindustriali, ma anche il ribaltamento di centri ed eventi egemoni (ad esempio il giubileo papale o L'effervescenza la beatificazione di Padre Pio), disertati in favore di una culturale che si scelta locale, non gregaria. Il sviluppa in questo ribaltamento è anche interiospazio dello re e psichico: è un dinamizzare il sé, rimescolare abitudini straordinario e riferimenti. investe l'intero Anche l’opposizione locale e complesso rituale globale è convocata dall’evento che dialoga con i con una ricchezza e temi del regionalismo, delpolisemia di l’ambientalismo e del localisignificati che smo, riconfermando la straordinarietà del locale rispetto a possiamo ricondurre luoghi “globali” quali i centri ad almeno tre di risonanza mondiale dimensioni, (Lourdes, Santiago di Campoimplicite, ma stela, ecc.). Infine l’opposizione tra sesignificative dentarietà e nomadismo appare efficace per indurre nel pellegrino uno spaesamento salutare per attivare il cambiamento, il rinnovamento personale. Lo spazio stesso del Santuario appare minutamente organizzato e regolamentato dall’attenta vigilanza ecclesiastica di contro allo
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spazio ‘anarchico’ dell’accampamento, dove si affollano bancarelle, mendicanti, cucine da campo, tavolate all’aperto e dove, nella notte, come in Coming of Age in Samoa (Margaret Mead, 1954) all’ombra delle tende, fioriscono amori giovanili, protetti dall’allegra confusione del campo. Il pellegrinaggio è infine - o forse anzitutto uno spazio culturale privilegiato per esercitare forme di relazione, scambio e solidarietà e dove (ri)scoprire anche il significato della propria identità. “Mi colpisce - dice Fausto (40 anni, Compagnia di Pignataro Interamne ) - che iniziamo un po’ chi stanchi, chi stressati, poi quando è la fine si ricominciano a compatta’ (enfasi), perché calcola che uno nella vita normale può darsi che la politica di mezzo, il pallone, il calcio e quello e quell’altro molte volte ti mettono sempre un po’ in lite, invece quando è qui si riaccompagnano tutti quanti. Quello che ti passa la borraccia, quello che ti passa il panino, quello che ti offre qualcosa e che... insomma si ricompatta. Tutti uniti da uno scopo comune che è quello, niente, quello di arriva’ qua oggi e… oggi ci sta il cambiamento”. La testimonianza rivela come nella polisemia del pellegrinaggio contemporaneo trovino elaborazione culturale crisi e tensioni | Conoscersi e Convivere | ottobre 2007 |
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individuali e collettive la cui soluzione culturale è prodotta dal contesto relazionale e dall’esperienza dello straordinario propri del modo di vita popolare-contemporaneo. La dimensione relazionale trova nel pellegrinaggio un modello di rapporto con il Divino ispirato ad un atteggiamento caritatevole. Non compassionevole, paternalistico, di Dio verso il credente, ma amorevole. Un presupporre nella divinità e nella sua cornice naturale (anch’essa straordinaria) una insospettata apertura, un’inedita possibilità rigenerativa e salvifica; l’accesso ad una forma straordinaria di relazione di aiuto, che va al di là delle anguste ed insufficienti risorse dell’ordinarietà e della quotidianità. Come Festa popolare della Fede, il pellegrinaggio mescola estroflessioni del sè, culturalmente protette, con momenti di forte fusionalità e appartenenza di gruppo. Anche il contesto naturalistico è fruito come luogo in cui ritrovare energie e risorse, in cui esperire un rinnovato contatto con una natura purificata, incontaminata. Mentre la cultura borghese ricorre a strategie di sostegno e reintegrazione individuali che concorrono a ri-costruire un io forte, per superare crisi congiunturali o profonde, restituendo un’autonomia perduta al soggetto sociale, tra gli strati popolari la crisi ed | Conoscersi e Convivere | ottobre 2007 |
il disagio della vita trovano soluzioni culturali in forme di “saggezza culturale” esemplari e collettive (A. Riccio, 1991). Sono riti, cerimonie, feste ed altre dimensioni extraordinarie della vita sociale. Il pellegrinaggio e la richiesta di Grazia (spesso uniti) partecipano di questa funzione salvifica. Una funzione che associa la rigenerazione al contatto con la natura, all’incontro con gruppi sociali omogenei (generazionali, sociali, comunitari), all’esperienza ludica, festiva, conviviale, al limite anche erotica e, non ultima, l’esperienza del contatto col sovrannaturale e con lo straordinario. Il pellegrinaggio invita a riflettere sull’esigenza vitale di questa dimensione non ordinaria, per la nostra stessa “ecologia mentale” (Gregory Bateson, 1987). Tra la molteplicità degli scenari che convoca, la capacità di offrire forti momenti di relazione con questa dimensione dello straordinario appare strategica soprattutto come ausilio per le evenienze critiche della vita. Riflettere sul pellegrinaggio oggi, vuol dire allora affrontare e pensare questa esperienza non come “sopravvivenza” o “residuo” culturale di un passato arcaico e remoto, ma come risorsa e risposta culturale vitale e creativa ai problemi del nostro tempo e del nostro mondo. 71
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Un viaggio alla ricerca di come i nostri antenati percepivano lo spazio per cercare di far luce su come, al giorno d'oggi, viviamo e interpretiamo gli spazi che ci circondano
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asseggiando per Roma, visitando le sue piazze e le sue chiese e, al loro fianco, i monumenti pagani superstiti, non ci si può rendere immediatamente conto di come sia mutata la percezione dello spazio dall’antichità ai nostri giorni. Tutto sembra armonicamente fuso, come se spazi antichi e spazio moderno formino un’unità inscindibile. Eppure, il sistema urbanistico di Roma antica, sia nella reale conformazione degli spazi pubblici, sia nella composizione spaziale delle molteplici membrature architettoniche, mostra le tracce di un’assai differente mentalità nell’intendimento dell’ambiente e del paesaggio. L’architettura si allaccia, forse ancor più delle altre arti visive, all’ambiente sociale e ai modi di svolgimento delle attività umane; anzi, è legata a filo doppio ai sistemi sociali e politici vigenti e ai conseguenti mutamenti di menta-
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lità. Se ciò è vero per l’urbanistica e l’architettura moderne, lo è altrettanto nel mondo romano. Risulta ormai palese che nella percezione dello spazio l’occhio moderno tende a leggere, con un marcato fraintendimento, l’urbanistica antica secondo le leggi della prospettiva lineare con un unico punto di fuga, costituitasi durante il Rinascimento e perfettamente documentata nelle celebri vedute prospettiche ad olio su tavola di Urbino, di Baltimora e di Berlino, opere di artisti dell’Italia centrale che hanno realizzato splendidi paesaggi urbani alla maniera di Leon Battista Alberti. Roma imperiale era, al contrario, un agglomerato di enormi complessi monumentali circondati da porticati se non da alte mura di recinzione, privi di un più articolato dialogo urbanistico tra loro, ma leggibili separatamente e, nella maggioranza dei casi, non unitariamente. È vero, per Roma, quanto ha osservato un grande storico dell’arte, Michael Baxandall, in riferimento alla percezione di un’opera di Piero Della Francesca, il Battesimo di Cristo, da parte degli spettatori dell’epoca: “… ogni cultura favorisce dei percorsi conoscitivi comuni a un ampio gruppo di individui, così che crescere e sopravvivere in una certa cultura significa partecipare di un determinato tirocinio percettivo, che formerà in noi quelle abitudini e abilità discriminanti che influenzeranno il nostro modo di reagire agli stimoli che le nostre sensazioni rivolgono al nostro pensiero”. Se, al giorno d’oggi, dalla via Biberatica nei Mercati di Traiano si ammira uno straordinario panorama verso il Foro di Traiano, il Campidoglio e il Palatino, dobbiamo al contrario immaginare che in antico la via fosse affondata tra alte mura. Potevano probabilmente esserci finestre affacciate verso il Foro di Traiano; ma da esse si sarebbero visti solo tetti di varia altezza senza alcun valore paesaggistico. Inoltre i porticati trasformavano le corti interne, in molti casi estese come piazze, in immagini ripetitive sotto il profilo urbanistico, variate solo dalla ricca decorazione architettonica, che appena ne riduceva il complessivo effetto bidimensionale. Nelle descrizioni poetiche delle domus lussuose non emerge mai la qualità o l’originalità architettonica, ma il fulgore dei marmi: “Qui il marmo libico e frigio, qui verdeggia la
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dura pietra della Laconia, qui brilla l’ondulato onice e il marmo dalle venature dello stesso color del mare profondo, e brillano rocce (scil. il porfido) di fronte a cui spesso impallidisce d’invidia la porpora di Ebalo e l’operaio che sorveglia la caldaia tiria. Gli archi si levano appoggiati a innumerevoli colonne; riluce la rovere ricca a profusione del metallo dalmata. Tiene lontani i raggi del sole la frescura che scende dalle secolari selve: trasparenti fonti vivono In antico gli effetti nel marmo” (Stat. Silv. I, 2, 148spettacolari, 155). amplificati con La natura, poi, non è mai vista con occhio romantico, ma l'uso di marmi come luogo circoscritto e placolorati, di smato dalla mano dell’uomo affreschi o di che modella con mirabile artificio quanto è naturale. Nella mosaici pavimentali villa tiburtina di Manilio Vopie parietali, sco, il fiume Aniene è irreggisembrano - e in un mentato entro ferree leggi architettoniche: “Lo stesso certo senso sono Aniene, mirabile a credersi, che demandati agli a valle e a monte scorre su di spazi chiusi un letto roccioso, qui depone la sua gonfia rabbia e il suo rumoreggiante spumeggiare, come fosse timoroso di disturbare i giorni consacrati alle Muse e i sonni illuminati da fantasmi poetici del sereno Vopisco. L’una e l’altra riva sono in casa tua, né il fiume, placidissimo, li divide. Sull’una e sull’altra sponda sorgono costruzioni, le quali non si lamentano di essere come estranee l’una all’altra e che sian loro di ostacolo le acque del fiume” (Stat. Silv. I, 3, 20-26). La natura cede, vinta, alla mano dell’uomo persino a Sorrento, nella villa di Pollio Felice: “Alcune parti sono favorite dalla natura altre, invece, soggiacciono, vinte, alla mano dell’uomo e si lasciano docilmente adattare a usi ad esse ignoti. Dove vedi qui una distesa pianeggiante c’era un’altura e tane di bestie feroci erano qui, dove tu entri in case abitate; dove tu vedi ora alti boschi (nemora plasmati artificialmente), qui non c’era neppure il terreno: l’ha appianato il proprietario e il suolo, che l’ha assecondato mentre modellava e scalzava le rocce, ne gioisce. Guarda ora come i massi hanno imparato ad obbedire e la montagna Roma. ad entrare nelle varie parti della casa e a ritirar- Foro Romano 2
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sene ai suoi ordini” (Stat. Silv. II 2, 52-59). Entrando nel dettaglio di due dei complessi monumentali più importanti di Roma antica, il Foro di Augusto e il Foro di Traiano, si può immediatamente riconoscere la discrasia tra la pianta e l’effettiva percezione dello spazio monumentale. L’armonica qualità spaziale delle esedre dei due Fori, così evidente in pianta, poteva in realtà essere recepita solo superando il diaframma dei porticati che impediva la visione degli ambienti semicircolari dalle grandi corti centrali Nel Foro di Augusto dominava, al centro della piazza, il tempio di Marte Ultore, che poteva essere raggiunto salendo una rampa di scalini che ne enfatizzava ulteriormente la facciata. Ma i riti religiosi non si svolgevano nel tempio, che era la casa del dio; i suoi battenti si aprivano solo in occasioni eccezio-
nali, prevalentemente per l’occasionale raduno dei senatori I sacrifici avvenivano davanti alla facciata del tempio e ai piedi della scalinata si svolgeva la fase più cruenta, quando l’inserviente per i sacrifici, accompagnato da altri ministri del culto, colpiva alla fronte la vittima con un maglio. L’interno dei templi era più simile ad un museo, rutilante di marmi colorati, di opere d’arte e di oggetti preziosi, che non ad un luogo di raccoglimento per la preghiera. Quale differenza rispetto alle chiese cristiane dove, con rare esclusioni, le cerimonie religiose fondamentali, quelle che richiedono l’unione tra sacerdoti e fedeli, si svolgono tutte all’interno delle loro mura! La Basilica Ulpia nel Foro di Traiano, un fastoso e gigantesco edificio destinato ad attività giuridiche si mostrava, all’occhio
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dello spettatore, come un grande invaso quadrangolare a cinque navate con due esedre sui lati brevi; ma, colui che si fosse collocato nell’ampia navata centrale, non avrebbe presagito la presenza né delle esedre, separate dal corpo principale della costruzione tramite una duplice fila di alti colonnati, né delle navate laterali. Non sappiamo se la prima basilica cristiana realizzata da Costantino al Laterano, dedicata al Salvatore e in seguito a S. Giovanni Evangelista, avesse avuto a modello proprio la Basilica Ulpia. È comunque certo che essa si distingue dal suo precedente pagano perché colui che fosse entrato nella chiesa dal suo ingresso principale sul lato breve, avrebbe potuto abbracciare con lo sguardo l’intero invaso spaziale, ivi compresa l’abside di fondo, vero punto focale della costruzione. Laddove nella basilica cristiana l’abside di fondo è elemento sostanziale dello spazio, fuoco di tutta la costruzione, nella Basilica Ulpia non v’è, per quanto si possa giudicare, un punto focale ma più punti prospettici: il visitatore è costretto a memorizzare lo spazio passeggiando all’interno della basilica senza fermarsi in un solo luogo e poi agglutinando mentalmente le singole sezioni. Tra l’età di Traiano e quella di Costantino la percezione dello spazio è quindi mutata, forse per rispondere a differenti esigenze culturali, ad esempio la necessità in una chiesa di partecipare congiuntamente al sacrificio della messa, laddove nella basilica pagana si sentiva al contrario l’esigenza di suddividere lo spazio per poter svolgere nello stesso momento, ma in luoghi vicini, più udienze tribunalizie. Eppure, nel momento stesso in cui i Romani privilegiavano gli spazi esterni per le cerimonie religiose, tali spazi erano nella realtà dei fatti corti porticate, per quanto ampie, chiuse al contesto urbano circostante. Chi poteva immaginare, nell’antica Roma, quel che avveniva dietro le possenti mura che separavano il Foro di Augusto e la piazza davanti al Tempio di Marte Ultore dalla vita pulsante dei quartieri della Suburra? In un primo momento anche le basiliche cristiane erano separate dai quartieri circostanti con l’inserimento al loro ingresso di
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una corte porticata – può essere d’esempio la chiesa di S. Cecilia in Trastevere –, che funge da diaframma tra esterno e interno. A ben vedere, non è un caso che il termine “piazza” derivi non dal consueto forum, ma dal latino platea, a sua volta derivato dal greco plateia, che significa “strada larga”. I Romani avevano una sola piazza che poteva vagamente avvicinarsi ad alcune delle piazze moderne ed era il Foro Romano, dove La natura, poi, convergevano le principali non è mai vista con arterie stradali cittadine. occhio romantico, Anche il Foro Romano, però, fu cinto nel tempo da basilima come luogo che e da porticati che ne circoscritto e uniformarono la morfologia plasmato dalla secondo lo stesso criterio a visione “bidimensionale” in mano dell'uomo seguito adottato per i Fori che modella con Imperiali: spazio quadrangomirabile artificio lare decorato con statue quanto è naturale onorarie e monumenti pubblici per lo più nascosti dietro porticati. Non v’è nulla che faccia presagire la dinamica spaziale a carattere tridimensionale del sistema prospettico moderno, che avrebbe condotto alla realizzazione della piazza di Pienza e di lì alla piazza del Campidoglio, a piazza San Pietro e a piazza di S. Maria della Pace, con gli articolati spazi vuoti scenograficamente innestati entro il tessuto stradale e le chiese emergenti con le loro sontuose facciate. In antico gli effetti spettacolari, amplificati con l’uso dei marmi colorati, di affreschi o di mosaici pavimentali e parietali, sembrano – e in un certo senso sono – demandati agli spazi chiusi, sia quelli delle grandi corti monumentali, sia quelli degli ambienti dove, illusivamente ma senza intenzione realistica, sulle pareti sembrano aprirsi varchi verso il mondo esterno – scenografie di tipo teatrale, giardini, vedute di ambiente affollate di personaggi affaccendati nelle loro attività quotidiane: un mondo immediatamente negato dal sistema prospettico adottato, come se paesaggi e uomini fossero incollati su un invalicabile piano di fondo che impedisce allo spettatore di spaziare con lo sguardo verso l’orizzonte infinito.
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Paolo Portoghesi Architetto
Quando il Centro Islamico bandĂŹ il concorso per la Moschea di Roma, il richiamo fu imperativo: era l'occasione per mettere insieme la mia conoscenza e il mio amore per la cittĂ in cui sono nato e la scoperta dell'architettura islamica a confronto con il piĂš alto e profondo dei suoi temi, quello della preghiera e del rapporto tra l'uomo e Dio
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DOPO IL RIFIUTO DI ZEVI, CHE DUBITAVA DELL'ESISTENZA DI UN'ARCHITETTURA ISLAMICA, CHIESERO A ME - CHE ERO IL PIÙ GIOVANE - DI DEDICARE QUALCHE LEZIONE A QUESTO ARGOMENTO
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l concorso internazionale per la moschea di Roma fu bandito dal Centro Culturale Islamico nel 1974 e i lavori per la costruzione terminarono nel 1995. Ventuno anni che corrispondono alla parte centrale della mia vita, dai 43 anni che avevo quando cominciai a progettare ai 64 appena compiuti il giorno Roma. Particolare della dell’inaugurazione. volta della Ma la mia passione per l’architettura islamiGrande Moschea ca nacque molto prima del ’74, esattamente dieci anni prima quando insegnavo storia dell’archiL'incontro con i tettura a Roma in un corso a palestinesi, l'ascolto tre voci con Bruno Zevi e Furio Fasolo. Nel programma delle loro ragioni e si partiva dalla preistoria e si della loro rabbia e la arrivava fino al presente, ma profonda solidarietà nessun capitolo riguardava l’Islam e un gruppo di stucon il mondo denti palestinesi (erano in ebraico è diventata molti allora gli arabi che stuper me una spina diavano all’università romana) dopo il rifiuto di Zevi che che continua a dubitava dell’esistenza di sanguinare ogni un’“architettura islamica”, chievolta che il conflitto se a me, che ero il più giovane, di dedicare qualche lesi riaccende zione a questo argomento sul quale esistevano allora pochi libri e quasi tutti risalenti all’epoca Roma. della moda orientalista di fine ottocento. Mi Interno della misi allora a studiare sul libro di Grabar e Grande Moschea improvvisai un piccolo corso che entusia2
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smò i ragazzi e lasciò una traccia indelebile nella mia vita, perché dopo le lezioni i palestinesi volevano discutere con me non solo i problemi dell’architettura, ma quelli della politica e della loro condizione umana di esuli senza patria. Il discorso mi appassionava perché ho sempre avuto molti amici ebrei e anche sionisti e la cultura ebraica ha sempre esercitato su di me un grande fascino anche per aver vissuto, durante l’inverno dei tedeschi, nel 1944, il dramma della persecuzione e della deportazione. L’incontro con i palestinesi, l’ascolto delle loro ragioni e della loro rabbia e la profonda solidarietà con il mondo ebraico, a partire da allora è diventata per me una spina entrata in profondità di cui non ci si può più liberare e continua a sanguinare ogni volta che il conflitto si riaccende. Credo che per la mia generazione che ha vissuto sia pur di sfuggita il dolore della guerra e lo sdegno per il genocidio, la storia dolorosa della Palestina sia stata una contraddizione centrale, insanabile e assurda, inaccettabile e vergognosa, qualcosa da vivere come una sorta di peccato originale. Agli inizi degli anni Settanta, l’occasione di visitare per ragioni di lavoro la Giordania e il Sudan oltre a qualche deviazione in Turchia, in Egitto e in Tunisia, mi consentì di conoscere finalmente l’architettura islamica e di apprezzarne le diverse identità legate alla diversità dei luoghi dove è sorta. Ma ancor più della conoscenza delle opere
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è valsa a creare in me un interesse profondo, la conoscenza delle persone e del loro atteggiamento verso la religione. Osservando, soprattutto in Sudan, il modo di pregare e di stare insieme pregando e la qualità intima degli spazi dedicati a questo scopo mi è sembrato di cogliere un tratto specifico di umanità in azione che può essere alla base di un’ispirazione architettonica.
subito come un tentativo di sintesi tra i valori del luogo e le diverse ipotesi che l’Islam ha elaborato nella sua storia per le sale di preghiera, la foresta di palme nel Maghreb, lo spazio aperto tra i grandi portali in Persia e l’organismo murario equilibrato di natura antropomorfa nell’architettura ottomana. Il rapporto con Roma è affidato alla qualità
Quando il Centro Islamico bandì il concorso per la moschea di Roma, il richiamo fu imperativo: era l’occasione per mettere insieme la mia conoscenza e il mio amore per la città in cui sono nato e la scoperta dell’architettura islamica a confronto con il più alto e profondo dei suoi temi, quello della preghiera e del rapporto tra l’uomo e Dio. La lettura del Corano fu il primo impulso e la strada da seguire si evidenziò
delle materie (il travertino, il mattone giallo del Campidoglio e della Casa dei Filippini, il peperino e il tufo), alla plasticità delle forme e al ricordo bruciato del profilo a dorso di delfino del baldacchino di San Pietro e delle nervature incrociate della cappella del collegio De Propaganda Fide di Borromini. Un omaggio all’Islam è la scelta degli archi intrecciati (gli archi di scarico della tradi-
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zione romana che si liberano nello spazio), dei cerchi concentrici che si rifanno alla cosmologia dei sette pianeti, la materializzazione delle superfici e il paradosso statico dei piloni su cui grava il peso della copertura appoggiati sul vuoto interno di quattro membrature. Ma il principale materiale da costruzione della moschea è paradossalmente la luce
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Corano e ha permesso, nella moschea, di contrapporre due flussi di luce: uno dall’alto verso il basso (l’attenzione di Dio per il mondo umano), attraverso le fessure della cupola e uno dal basso verso l’alto (la tensione della preghiera), attraverso la fessura continua che divide (anche strutturalmente) il recinto di base dello spazio dal sistema della copertura.
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perché fin dal principio ho pensato, disegnando lo spazio interno, a una identificazione dello spazio con la luce, identificazione resa possibile dalla riflessione tra superficie e superficie che consente al flusso luminoso di percorrere, di riempire ogni vuoto cambiando continuamente i suoi valori di intensità e di colore. Questa qualità immateriale “luce su luce” è mirabilmente descritta nella Sura della Luce del
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Nella originaria concezione, la luce dall’alto penetrava anche da un oculo centrale, volutamente legato a quello del Pantheon, ma l’architetto iracheno Sami Moussawi (che pure aveva firmato il progetto originario), sostenendo erroneamente che questo tipo di illuminazione non era mai stato usato in una moschea, intentò una causa al Centro Culturale Islamico ottenendo, per ragioni di tempo e di economia, la nostra rinuncia.
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TOR TRE TESTE. DIVES IN MISERICORDIA Con tre grandi vele l'architetto americano ha messo in contatto lo spazio sacro con la cittĂ
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Tor Tre Teste. Dives in Misericordia Giuseppe Panieri Architetto
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Relazione di progetto Richard Meier Architetto
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Quattro volti di una chiesa Gianfranco Ravasi Biblista
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1 Giuseppe Panieri
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La Chiesa Dives in Misericordia è stata concepita come nuovo centro di aggregazione per un quartiere residenziale isolato nella periferia di Roma. L’area, di forma triangolare, comprende tre parti distinte: la prima che divide il luogo sacro a sud, dove si trova la navata, dalla zona cosiddetta laica a nord; la seconda, che separa l’accesso pedonale dal complesso residenziale situato ad est e infine una terza parte, che funge da confine tra l’accesso pedonale e il parcheggio ubicato ad ovest. La chiesa e il centro parrocchiale sono collocati centralmente verso il lato ad est dell’area edificata; entrambe le strutture sono accessibili da est attraverso una piazza pavimentata, il sagrato, situato sul lato più vicino al centro effettivo del quartiere residenziale, a sua volta adiacente ad un’area verde che è stata realizzata dinanzi al sagrato. Il lato ad ovest dell’area ove sorge la parrocchia comprende due corti separate da un sentiero lastricato, che corre in direzione est-ovest, tra il centro parrocchiale a nord e la chiesa a sud. La corte più a nord include un’area ricreativa con piazza pavimentata adiacente al centro parrocchiale. La seconda corte, che ospita uno specchio d’acqua, è concepita
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come spazio per la meditazione. L’impianto proporzionale dell’intero complesso si fonda su una serie di quadri traslati e quattro cerchi. Tre cerchi d’eguale raggio originano i profili delle tre vele che, insieme al muro di spina, costituiscono il corpo della navata. Mentre le vele rimandano discretamente alla Trinità, lo specchio d’acqua vuole richiamare l’elemento fondamentale del rito battesimale. La percezione dei volumi risente direttamente della luce naturale; i lucernari vetrati tra le vele parallele rispondono continuamente alla tessitura mutevole di luci ed ombre, mentre il sole si sposta lungo la sua traiettoria. Secondo le stagioni, le condizioni atmosferiche e l’ora, la luce sarà variabilmente graduata sulla superficie interna delle vele, infondendo così un carattere speciale alla chiesa, alla cappella e al fonte battesimale.
Il centro parrocchiale L’accesso principale al centro parrocchiale dal sagrato della chiesa avviene tramite un atrio, collocato in direzione est-ovest, che crea uno spazio di separazione tra le due strutture. Al centro parrocchiale si può inoltre accedere dalle due corti che fiancheggiano l’ala nord-sud della struttura e che sono state realizzate allo scopo di ospitare celebrazioni assembleari, sia formali sia informali. La corte giardino con terrazza può essere vissuta da tutti, adulti e bambini, per socializzare e per giocare. La corte chiusa e pavimentata, invece, è espressamente destinata alle processioni, che sono parte integrante dei riti liturgici della Chiesa. Il piano interrato ospita la sala riunioni, i servizi igienici ed una corte lastricata. A piano terra si trovano gli uffici parrocchiali, le aule di catechismo e i servizi, mentre il secondo piano ospita la residenza del parroco e la cucina.
Ingegneria e materiali innovativi per realizzare la visione di Richard Meier “Sia sotto il profilo ingegneristico, sia sotto quello dei materiali – ha commentato Carlo Pesenti, condirettore generale di Italcementi – il progetto di Meier è stato un laboratorio di esperienze costruttive, così come in passato era stata, ad
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esempio, la collaborazione tra Italcementi e Pierluigi Nervi nella grande sfida realizzativa dell’Aula Paolo VI in Vaticano: importanti opere che hanno un alto contenuto innovativo”. La realizzazione della chiesa Dives in Misericor-
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dia per la sua complessità ha reso necessario un nuovo modo di costruire. In particolare le tre grandi porzioni di sfera in cemento bianco che danno il senso di protezione delle conchiglie e la leggerezza delle vele, sono state
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la sfida da vincere sotto il profilo strutturale e dei materiali impiegati. Dal punto di vista strutturale la via della prefabbricazione è risultata obbligata per ottenere superfici “a vista” tali da soddisfare le aspettative dell’architetto Meier. La prefabbricazione ha implicato l’attento studio del “taglio” da dare agli elementi prefabbricati – blocchi/conci del peso di 12 tonnellate ciascuno – coerente con la geometria della struttura da realizzare – le vele – e lo studio dei giunti per unire i 256 conci che costituiscono le tre porzioni di sfera. “Data la complessità strutturale e la grande varietà della geometria dei conci e dei loro dettagli costruttivi sono state necessarie – ha specificato Carlo Pesenti – oltre 23.000 ore di studio e progettazione e sono state realizzate oltre 300 tavole progettuali da parte del CTG, il nostro Centro Tecnico di Gruppo”. Per poter posizionare i conci e, quindi, realizzare le vele si è reso necessario progettare e realizzare una nuova macchina in grado di operare secondo i tre assi spaziali. È stato l’unico Per la realizzazione modo per sopperire a limiti che della Chiesa Dives presentavano tutti i mezzi di in Misericordia sollevamento tradizionali. Una macchina in grado di collocaè stato necessario re il concio nella sua esatta posviluppare nuovi sizione, in quel settore di sfera materiali, nuovi dove il progettista l’aveva destinato. La macchina è stata in cementi in grado di grado di imprimere ai blocchi, rispondere sia alle nelle ultime fasi di assemblagesigenze gio, spostamenti micrometrici meccaniche della assolutamente inusuali nelle costruzioni edili. costruzione, sia alle Per la realizzazione della Chieesigenze estetiche sa Dives in Misericordia è stato necessario anche sviluppare nuovi materiali, nuovi cementi in grado di rispondere sia alle esigenze meccaniche della costruzione, sia alle esigenze estetiche – il bianco candido – richieste dal progettista. Sono state necessarie oltre 12.000 ore di studi e ricerche da parte del CTG per arrivare alla formulazione di un nuovo tipo di cemento. Il Bianco “Tx Millennium” al titanio non solo resiste alle sollecitazioni cui è sottoposta la struttura, ma attraverso l’addizionamento di biossido di titanio ha anche capacità fotocatalitiche e, quindi, potenzialità antinquinanti.
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Relazione di progetto La chiesa del Giubileo è il gioiello nella corona del progetto per il 2000 del Vicariato di Roma (Arcidiocesi di Roma). Dedicata a Dio Padre Misericordioso, è la cinquantesima nuova chiesa costruita nella periferia di Roma. La chiesa del Giubileo è stata concepita come un nuovo centro per un quartiere residenziale piuttosto isolato nella zona di Tor Tre Teste, con l’intento di rinvigorire il tessuto residenziale. Situati in un punto in cui le costruzioni residenziali adiaLa struttura centi si allargano, la chiesa ed il centro per la comunità proporzionata forniscono un cuore sociale della chiesa e culturale che serve più di rispetto all'area 8.000 abitanti nelle immediate vicinanze e i membri circostante è della più vasta comunità di basata su un Tor Tre Teste. Un recinto quadrato e su sacro comprende la chiesa ed il centro per la comunità, quattro cerchi un terrazzo con i pini romani a nord-est, uno spiazzo di ricreazione a nord-ovest e un’area di parcheggio a ovest. La struttura proporzionata della chiesa rispetto all’area circostante è basata su un quadrato e su quattro cerchi. Le tre coperture che determinano il primo “gestalt” della chiesa sono basate su tre cerchi di raggio uguale e si riferiscono idealmente alla Santa Trinità. Piccoli, nascosti ingressi fra le coperture permettono l’accesso indipendente alla cappella e al battistero. Il sagrato è concepito come una piazza aperta delimitata da zone verdeggianti con panche ed alberi. Nel fronte orientale, il sagrato e il portico annunciano insieme il benvenuto che la chiesa offre alla comunità. L’ingresso all’area avviene tramite un’apertura nel muro basso, che lo separa dal parcheggio. Questa apertura dà accesso al sagrato e alla chiesa sull’asse centrale. Un’ulteriore entrata di servizio a nord serve il centro per la comunità. Roma. Le persone entrano nell’atrio attraverso una Dives in Misericordia, coppia di doppie porte in legno. Queste particolari porte di ingresso sono seguite da una sindell’interno gola coppia di porte cerimoniali inserite in
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una parete di pietra sull’asse della chiesa. Sono progettate per essere usate solo nelle occasioni speciali quali le nozze, le processioni, i funerali ed altri eventi liturgici. La navata è costituita dall’interazione fra la diritta parete nord e le coperture concave nel lato sud del volume. Il primo è rivestito di pietra e pannelli di legno acustico, le pseudo volte sono prefabbricate in calcestruzzo bianco. Il pavimento, l’altare, il seggio del presidente e l’ambone sono tutti eseguiti in pietra; soltanto le panche sono realizzate in legno. L’organo e il soffitto del coro all’estremità orientale della navata e il santuario con la “torre” della sagrestia ad ovest si elevano verso un tetto di vetro trasparente che permette la diffusione della luce. Il volume della chiesa è direttamente influenzato dalla luce zenitale sull’asse estovest; i lucernai lucidi fra le coperture generano le caratteristiche mutevoli di luce e di ombra. Secondo la stagione, il tempo e l’ora, la luce è graduata attraverso la superficie interna delle coperture, dando alla cappella e al battistero un carattere particolarmente vivace, ma mutevole. L’effetto è aumenNel progetto tato ulteriormente dalla luce si è disegnata la che entra attraverso il vetro fra le coperture e la stretta tenda come una banda di vetro trasparente copertura di forma intorno al perimetro della lieve ed ampia, chiesa. La cappella è separata dal ma di struttura battistero tramite un blocco poderosa che il rettangolare di tre spazi per vento, in questa la riconciliazione (confessionali), ai quali si accede diretgrande spianata, tamente dalla cappella. Una non potrà parete curva divide la captravolgere pella e il santuario, tuttavia c’è una vista dell’altare principale attraverso un’apertura opportunamente disposta. Il centro per la comunità e i cortili adiacenti occupano l’intera metà settentrionale del sito. La costruzione a “L” è collegata al lato settentrionale della chiesa tramite ponti all’atrio, al santuario, al piano dell’organo e alla sagrestia. Un Roma. locale illuminato dall’alto collega l’ufficio del Dives in Misericordia, sacerdote e le stanze di incontro al pianterparticolari reno alle classi di catechismo e all’auditorio dell’interno al secondo piano. 8
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L’accesso principale dal sagrato è attraverso lo stretto corridoio interno che separa la chiesa dal centro per la comunità. I cortili sono progettati per accogliere vari tipi di assemblee. Il cortile per la ricreazione può essere usato per le riunioni degli adulti o per i giochi dei bambini, mentre il cortile chiuso più basso può funzionare come cornice per la benedizione delle palme o per la formazione delle varie assemblee di processione che sono una parte integrante del rituale annuale della chiesa. L’intero complesso è stato concepito, quindi, come un richiamo per celebrazioni festive sia formali che informali, dove la memoria simbolica è attuata con la preghiera e la partecipazione attiva dei fedeli. Di particolare nota sono i grandi muri curvi sul perimetro meridionale della chiesa: variano in altezza e sono, in effetti, segmenti di una sfera. Sono composti da pannelli di cemento prefabbricato, sistemati in tensione in sito; in virtù della curvatura in pianta, ciascuno è sostenuto indipendentemente. La resistenza del carico del vento è sviluppata con un effetto trave a mensola verticale che agisce attraverso la profondità completa della sezione curva. Questi muri curvi sono composti da pareti interne ed esterne, collegate da un diaframma. La cavità interna è riempita di Styrofoam per assicurare un adeguato isolamento mantenendo la rigidità della struttura con il minor peso possibile. Il progetto acustico della chiesa è basato sull’esigenza di favorire una chiara audizione dei testi sacri e di distribuire un suono adeguato per i canti dell’assemblea, il coro liturgico e il suono sia dell’organo che degli strumenti musicali. Questo è stato realizzato fornendo un sistema di rinforzo del suono adatto per un grande spazio di culto, altamente risonante. Il volume e le superfici di calcestruzzo, di pietra e di vetro sostengono un suono vivo, arricchito dal coro e specialmente dall’organo. La pannellatura acustica e la pietra sulla parete settentrionale della navata eliminano la vibrazione, così come la superficie forata del rivestimento di pietra sul muro convesso. Il consumo di energia è ridotto notevolmente da un certo numero di caratteristiche che sono state progettate specificamente per limitare i carichi di picco termico dentro lo spazio. La grande massa termica delle pareti di cemento modera efficacemente il calore
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interno. Bilanciando i picchi e gli abbassamenti nella variazione quotidiana di temperatura, elimina l’esigenza dell’aria condizionata meccanicamente all’interno della navata e della cappella e riduce l’uso del sistema di riscaldamento in inverno. La costruzione è ventilata naturalmente sia nella navata che nella cappella. L’aria fresca è introdotta attraverso le fessure nella parte superiore della parete settentrionale della chiesa ed è trasmessa ad una velocità bassa
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tramite un condotto acusticamente isolato. L’effetto termico favorisce un movimento d’aria verso l’alto che prende aria fresca da bocche situate a livello inferiore ed espelle l’aria viziata dalla parte superiore del volume. I muri concavi che sporgono nel perimetro meridionale dell’edificio fanno ombra alle parti lucide del tetto e delle pareti, proteggendo l’interno da una luce solare direttaLa chiesa del Giubileo unisce il formalismo del moderno con un rispetto per l’integrità storica.
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Quattro volti di una Chiesa Con la trilogia di Tadao Ando, Alvaro Siza e Richard Meier la Fondazione Frate Sole ha voluto tracciare un percorso emblematico nella ricerca sullo “spazio sacro costruito”, indicando alcuni modelli, temi e simboli di grande efficacia e nitore. Tentiamo ora di evocarne alcuni tenendo come riferimento quel gioiello architettonico che è la chiesa di Dio Padre Misericordioso di Richard Meier, il premiato di questa terza edizione. La nostra sarà una riflessione essenziale, condotta non a livello “tecnico”, ma nell’immediatezza della contemplazione di un’opera artistica. Ci affideremo a quattro binomi tematici, simili a quattro volti che rendono questo tempio dedicato al Dives in misericordia per eccellenza, al “Dio ricco di misericordia” – celebrato da S. Paolo nella Lettera agli Efesini (2,4) e da Giovanni Paolo II in una delle sue prime encicliche – un grande segno. La prima coppia intreccia sacralità e contesto urbano. La chiesa, infatti, si incastona in uno dei tanti quartieri, certamente non esaltanti, che fungono da satelliti della metropoli romana. Si ha, così, una presenza di bellezza nella trama della quotidianità, un’incisione di spiritualità nel terreno opaco delle opere e dei giorni. Le tre conchiglie, o archi, nel loro candore e nel loro slancio proiettano la pesantezza dell’esistenza umana e delle realtà concrete e spaziali verso la verticalità del cielo. Il secondo binomio che ci sembra emerga da questo edificio unisce storia e presente. Da un lato, infatti, c’è la città di Roma che, nel suo cuore, è non solo un trionfo di memoria storica e di genialità artistica, ma è anche una straordinaria esposizione di architettura. Meier ha riconosciuto di “aver sempre ammirato l’opera dei maestri barocchi, in particolare di Bernini a San Pietro e di Borromini, soprattutto per il suo rivoluzionario uso della luce e della forma”. D’altro lato. Ecco la chiesa di Dio Padre Misericordioso, erede in modo innovativo e creativo di questa tradizione, espressione di un nuovo linguaggio, declinato però secondo quell’antica grammatica che celebrava luce e forma.
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Ed eccoci, così, ad una terza coppia: spiritualità ed estetica. La ricerca costante dell’arte è analoga a quella della fede, perché entrambe tendono – sia pure lungo itinerari differenti – verso l’infinito o l’eterno. Lo splendore delle tre vele della chiesa, la loro tensione ascensionale diventano una sorta di preghiera fatta vetro, travertino, cemento armato, stucco che si leva dalla terra degli uomini, con le loro grandezze e miserie, verso il cielo di Dio, nella speranza di un abbraccio. Spirito e bellezza s’incrociano così come era accaduto nel passato glorioso di Roma o nel presente degli La prima coppia edifici sacri eretti da Le intreccia sacralità e Corbusier o da Alvar Aalto. contesto urbano. Infine luce e tenebra, destinate nella simbologia tradizionale a respingersi, qui si Il secondo binomio placano. Tutto l’edificio, che ci sembra certo, con il suo candore e emerga da questo con la trasparenza dei suoi vetri immensi, emana e racedificio unisce coglie luce. Ma è una visiostoria e presente. ne notturna della chiesa ad illustrare maggiormente il significato della sua presenUna terza coppia, za: è come un globo di luce spiritualità ed che irradia la notte. Questo estetica. è il compito di un tempio, non di respingere la tenebra ma di irraggiarla, di attiInfine luce e rarla a sé per trasformarla, tenebra, destinate proprio come accade alla nella simbologia misericordia divina che non respinge, ma abbraccia il tradizionale a peccatore. respingersi, qui si Tor Tre Teste è un quartiere placano. suburbano che reca in sé un vestigio dell’antichità tipica di Roma: il nome rimanda, infatti, a tre teste di un bassorilievo appartenente a una torre di guardia medievale. Ora saranno anche i tre archi, o conchiglie “oranti” di Meier, a denominare idealmente, a livello spirituale, questo luogo e sarà come il sigillo impresso dalla fede, dalla mistica e dalla trascendenza nella storia e nello spazio degli uomini e delle donne, sarà come un seme destinato a fecondare di luce e di speranza il terreno della vita.
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UN PADIGLIONE PER RICORDARE IL DIALOGO L'architettura caratterizza da sempre la cittĂ , costituita da una serie di eventi stratificati nel corso del tempo
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Il Padiglione interreligioso ambientato all’interno di Villa Torlonia a Roma
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Intervista a Giancarlo Priori* Marica Di Santo
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iancarlo Priori insegna Composizione Architettonica e Urbana presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Ha realizzato il progetto di un padiglione ideato per celebrare le religioni cristiana, ebraica e musulmana: gli ho chiesto di parlarci di questa esperienza. Il progetto che presenta sulle pagine di questa rivista racchiude, in forma architettonica, le diversità e le analogie delle tre religioni monoteiste. Quanto ha pesato sulla sua idea architettonica e, di conseguenza, sul suo progetto questo continuo clima di guerra che è presente nella regione mediorientale? Devo dire che ho sempre pensato all’architettura come ad una disciplina che migliora la vita dell’uomo sulla terra. Credo che in questo caso sia assolutamente necessario mettere in pratica quella teoria dell’ascolto che ho appreso nel corso degli anni da Paolo Portoghesi. Per far nascere un progetto non si tratta solo di ascoltare le culture degli uomini, “verificandole” in base alla sensibilità della disciplina. Qui l’attenzione mira fortemente alle radici di una diversità culturale, che è quella che ha fatto gran parte della storia del mondo. Questo progetto ha tentato di dare un segno a questa diversità scegliendo, attraverso la geometria, un linguaggio ancora più antico e forse l’unico capace di trasmettere un messaggio globale. La guerra scatena odi e l’odio ha spesso una matrice di tipo etnico-religioso che, in particolare in questa fase storica, costituisce il fattore di identificazione delle popolazioni in lotta. Le società di tipo multiculturale e multireligioso che fondano le basi sulla convivenza e sul rispetto reciproco vivono un momento di profonda crisi, venendo a mancare quella serie di valori e di princìpi che fanno da
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legante al pluralismo etnico. La ricostruzione di tali valori parte per iniziativa di alcune istituzioni culturali e religiose del mondo, che tentano di ristabilire il dialogo interreligioso attraverso la conoscenza e il rispetto delle diverse tradizioni culturali e religiose. Abbiamo bisogno che le genti dialoghino sempre più, perché in questo mondo incentrato sulla forza della comunicazione sembra che si parli senza voler sentire il proprio interlocutore. Come può un progetto di architettura “riaprire” questo dialogo? In questo contesto, nell’ambito del più ampio programma di recupero e riconoscimento delle varie identità culturali che si distinguono per fede, lingua, costume e stile di vita, il nostro progetto intende dare un piccolo contributo ad un’iniziativa positiva. L’architettura ha caratterizzato da sempre la città; come si sa, la città è costituita da una serie stratificata, nel corso del tempo, di eventi che segnano le vicende che si sono succedute sul “corpo” della città stessa. La città è un tema complesso. Da qualche anno a questa parte mi occupo di architettura frattale, un tipo di architettura che aiuta a comprendere le dinamiche interne del progetto, poiché comprende non solo gli elementi autonomi della disciplina, ma anche quelli eteronomi. Ci può spiegare come è nato il progetto per il padiglione interreligioso? Questo progetto si inserisce in una fase della nostra storia particolarmente critica, a cavallo tra gli attentati alle Torri gemelle dell’11 Settembre e le numerose manifestazioni a favore della pace che hanno fatto e fanno da eco ad un clima di terrore crescente. È nato per dare corpo ad un’iniziativa culturale da realizzare in collaborazione con un’associazione no profit operante a favore della pace e della solidarietà. L’idea è stata quella di dare vita ad una struttura mobile, dal carattere evocativo, che promuovesse il sodalizio e rimarcasse le analogie fra le tre principali religioni monoteiste: quella cristiana, quella musulmana e quella ebraica. Nel programma iniziale era prevista una mostra itinerante incentrata sul tema del dialogo interreligioso e interculturale, che aveva fra le sue tappe Assisi e Roma: l’iniziativa non si è realizzata, ma l’idea e il progetto del padiglione sono rimasti in piedi.
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Si tratta di un’architettura effimera, di tipo provvisorio, ma allo stesso tempo fortemente simbolica. Ho orientato la scelta verso una struttura a pianta centrale, dal forte contenuto emblematico. La pianta esagonale è costituita da due pavimentazioni: una esterna, che riprende la geometria frattale quale strumento di studio della complessità e, in particolare, il triangolo di Sierpinski; l’altra interna che raffigura come elemento più eloquente il mosaico del pavimento, il cui disegno scaturisce dalla intersezione geometrica di simboli allegorici presi in prestito dall’iconografia tradizionale inerente alle tre sfere religiose (la croce greca cristiana, la mezzaluna musulmana e la stella di David ebraica – la cui fusione genera un’intensa policromia). La struttura è sostenuta da un elemento centrale, un albero – altro tema caro ai frattali – come emblema di pace, realizzato con quattro profili in legno montati ortogonalmente e che si innestano sul pavimento marcando le direttrici che governano la geometria della pianta che ha generato la forma. La pianta esterna costituisce una specie di pronao su ogni lato; è realizzata con tavole di legno e segna un percorso anulare, collegato all’esagono interno mediante tre portali metaforici
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(ritagliati su tre pannelli di plexiglas), ciascuno dei quali culmina in un arco che rimanda ad un archetipo tradizionale, cui fanno capo le tre diverse matrici culturali. Alle estremità interna ed esterna della pedana-deambulatorio, in corrispondenza dei tre lati chiusi dell’esagono, sono fissati pannelli in plexiglas aventi funzione espositiva. Per conservare l’idea di leggerezza e di apertura del padiglione, infine, la copertura - parziale - è affidata ad una serie di pannelli rigidi, traslucidi e sostenuti da una tensostruttura rimovibile che insiste agli angoli sui piastrini cilindrici in legno – slanciati e discreti – tali da rimandare l’attenzione all’elemento centrale. Facilmente installabile sia all’aperto che in uno spazio chiuso, questa piccola architettura è stata progettata per divenire struttura di accoglienza nell’ambito di una manifestazione pubblica in una piazza, in un parco o, più poeticamente, sul bordo del nostro Tevere, restituendogli quella sua forza naturale di aiuto e di incremento al dialogo e allo scambio.
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Veduta zenitale in cui viene evidenziata la genesi della forma e dei riferimenti 3
L’immagine dell’albero come simbolo che unifica le tre religioni 4
I pannelli trasparenti e la pavimentazione frattale 5
Il Padiglione con la copertura
*Docente di Progettazione Architettonica ed Urbana presso l’Università degli Studi “Federico II” di Napoli. Progettisti: Prof Arch. Giancarlo Priori Archh. Carla Corrado e Andrea Vecchi
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IL TEMPIO DEI GIOVANI: LA “SINAGOGA NASCOSTA”
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Roma, Isola Tiberina. P.zza S. Bartolomeo a l'Isola
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Gianni Ascarelli Professore straordinario di Progettazione Architettonica ed Urbana Università degli Studi de L’Aquila
In questo luogo appartato di Roma è nato un simbolo del dinamismo e del rinnovamento della più antica Comunità Ebraica in Europa; non, quindi, monumento per ricorrenze eccezionali, ma presenza altamente simbolica scaturita direttamente dall'animo e dal credo dei suoi giovani
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oco più di tre anni fa la Comunità Ebraica di Roma ha celebrato i cento anni dall'inaugurazione del Tempio Maggiore, la più grande sinagoga romana, posta sul Lungotevere in corrispondenza dell'antico Ghetto. Quella sinagoga rappresenta, nell’enfasi del suo dichiarato eclettismo, il momento più celebrativo dell’emancipazione degli ebrei che, dopo anni di costrizione all'interno dei recinti del Ghetto trovarono finalmente, nell'incedere di una nuova generazione più colta e consapevole, una collocazione consona e partecipata nella società italiana. L'interno di quell'edificio, illuminato e radioso, elaborato dalle decorazioni artistiche di Bruschi e Brugnoli, costituisce ancora il polo di riferimento dell'intera Comunità che vi si raccoglie in occasione delle feste ebraiche, di manifestazioni o celebrazioni di diversa natura.
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Il complesso de l'Isola visto dal Lungotevere, lato Tempio Maggiore
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Peraltro, proprio in questi anni recenti, è stato allestito, nei sotterranei dello stesso Tempio, il Museo della Comunità di Roma, che rappresenta ormai, con i suoi oltre 70.000 visitatori l'anno, uno dei più efficaci media per diffondere la conoscenza della cultura ebraica e della presenza della stessa Comunità che è testimoniata per ventitrè secoli nel contesto sociale e politico della città. Ma, oltre che nel Tempio Maggiore, la Comunità ebraica si raccoglie in numerosi altri templi: il più antico, quello di Via Balbo, che ha costituito il nuovo fulcro religioso per la popolazione insediata nell'area del quartiere Esquilino, primo sviluppo urbano della nuova capitale dell'allora Regno d'Italia; il più grande, quello chiamato Beth'El (casa del Signore) che è da anni ormai polo culturale della Comunità di origine libica, inizialmente organizzata, nelle residenze e nelle attività,
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intorno al cosiddetto quartiere africano e nelle vicinanze di Piazza Bologna. Ma a queste realtà maggiori è bene aggiungere tanti altri spazi di minore entità che si sono formati negli anni, soprattutto in questo secondo dopoguerra, a servizio di nuclei ebraici raccoltisi in punti diversi della città, dei quali gli ultimi sono il Beth-Michael a Monteverde e la Sinagoga della Casa di riposo, al Portuense, che è diventata anche nuovo punto di ritrovo urbano di consistente frequentazione. Ma tra queste recenti sinagoghe, forse la più densa di significati diversi dovuti sia alla sua costituzione, sia alla sua particolarissima collocazione nella parte antica della città, è quella che ha preso il nome di “Tempio dei Giovani”. Roma è una città dove storia e leggenda si incrociano e dove il detto “le vie del Signore sono infinite” trova una propria e particolare veridicità.
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L'isola Tiberina è un luogo singolare nella città: inizialmente dedicata al dio Esculapio, dio della medicina cui fu dedicato un tempio che ancora oggi costituisce le fondamenta della chiesa di S. Bartolomeo, è stata fin dall'antichità collegata direttamente al tessuto urbano e in particolare alla riva sinistra del Tevere con il ponte Fabricio (62 a.c.) e alla riva destra con ponte Cestio (46 a.c.). Benché il nome popolare di “Ponte ai quattro capi” andrebbe ascritto al solo ponte Fabricio che era decorato con due erme marmoree quadrifronti, nel tempo l'intero percorso di scavalco del fiume, considerando l'isola come pilone mediano, è risultato con quattro testate ancorate a terra, e cioè con quattro capi; è questa una via pedonale di significato storico, anche per gli ebrei abitanti in città. Infatti i primi nuclei ebraici erano insediati
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P.zza S. Bartolomeo a l'Isola
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Una delle vetrate di Aldo Di Castro 6 7
L'interno del Tempio 8
L'Aron con i Sefarim
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nella parte di Trastevere intorno a Piazza in Piscinula, dove ancora si trovano i resti di una antica sinagoga e dove, subito fuori di Porta Portese, esisteva il cimitero della Comunità in epoca medioevale; successivamente, l'ampliamento abitativo nell'area dell'ex Ghetto, al di là del fiume e, negli anni, il consolidamento definitivo e costretto in quest'ultima come il luogo degli ebrei. È facile quindi pensare ad un percorso frequentato, particolarmente suggestivo, non inficiato dagli enormi muraglioni costruiti ormai sono più di cent'anni - per rinforzare gli argini del Tevere che hanno interrotto una mirabile sequenza di architettura che sorgeva direttamente dall'acqua e che ha costituito l'effigie, più volte rappresentata, della città di Roma in tante vedute di autori noti o notissimi. Ponte Fabricio e Ponte Cestio si ancorano all'Isola che, dedicata al dio Esculapio, era stata trasformata nel simulacro di una nave, tutta rivestita in travertino: ancora sono visibili alcuni resti della fiancata destra della poppa, dove emergono la parte superiore della figura del dio con gli attributi del bastone e del serpente. Non a caso ancora, nella piazza centrale dell'isola, dove si affaccia il prospetto della chiesa di S. Bartolomeo - edificio più volte riconformato, dalla iniziale sagoma eretta nel X secolo da Ottone III fino al riadattamento barocco del Torriani (1624) e al restauro del 1852 - si fronteggiano due complessi ospedalieri. L'uno, il più noto ed imponente, è costituito dall'Ospedale Fatebenefratelli ed in particolare dalla sua sede originaria, riadattato da Cesare Bazzani nel 1930; l'altro, che comprende al suo interno anche la vecchia struttura medievale della Torre dei Caetani, ospita attualmente i laboratori medici dell'Ospedale Israelitico, che ha la sua sede principale alla Magliana. In particolare questo secondo complesso, che ha ospitato originariamente l'intero Ospedale Israelitico, è costruito in adiacenza alla stessa chiesa di S. Bartolomeo, conformando così la piazza antistante mediante due quinte disposte ortogonalmente e in successione: ne deriva un corpo ad “L” che lascia aperto solo il fianco prospiciente la riva
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destra del Tevere e lo spazio di stacco con l'Ospedale Fatebenefratelli. Questo corpo che comprende, nella parte basamentale, diverse attività di servizio, è costituito in sommità da una lunga galleria di distribuzione, coperta da un tetto tradizionale a capriate di legno che si salda, a nordovest, sul coronamento della Torre dei Caetani, qui direttamente affacciata sul fiume, mentre a sud-est delinea un ampio spazio trasversale: è questa la sede del “Tempio dei Giovani”. Quando l'Ospedale ancora ospitava gli infermi della Comunità Ebraica questo spazio era dedicato ad un Oratorio, dove il malato poteva trovare un luogo di raccoglimento e di preghiera: durante la persecuzione nazi-fascista, nei mesi infausti dall'ottobre del 1943 al giugno del 1944, fino al giorno 5 quando anche i soldati alleati della Brigata Ebraica,
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La galleria antistante il Tempio
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entrati in Roma, vi si raccolsero in preghiera, l'Oratorio, gestito dal rabbino David Panzieri, fu l'unico luogo nella città dove gli ebrei potevano trovare, infermi o non, conforto religioso. Questo perché lo spazio dell'Oratorio era - ed è - particolarmente recondito, non visibile agli occhi dei più: motivo che mi ha indotto a ricordarlo come la “sinagoga nascosta”. Altro aspetto che rende questo luogo particolarissimo è la sua diretta adiacenza al fabbricato che ospita la chiesa di S. Bartolomeo e alla struttura della sua torre campanaria: non mi sembra che esistano in Italia - e forse anche altrove - sinagoghe e chiese cattoliche attigue e dove le preghiere allo stesso Dio si possano intrecciare a così poca distanza. L'evento straordinario che mi ha determinato a raccontare del Tempio dei Giovani è la sua stessa nuova ri-formazione: l'Oratorio, sempre più raramente frequentato negli anni del dopoguerra, soprattutto dopo lo spostamento, nel 1970, dell'Ospedale Israelitico in un edificio più consono, ampio e attrezzato alla Magliana, era ormai uno spazio conteso; la proprietà - il Comune di Roma - di volta in volta era indotta ad assegnarne l'uso a questa o quella Associazione, a qualche Ente estraneo alla sua storia, o addirittura, a trasformarlo in una struttura diversa, come un museo pluritematico. Fu allora che, a quasi cinquant'anni dal suo primo allestimento, nel 1987, ne fu affidata la gestione ad un gruppo di giovani ebrei romani che ancora oggi vi si alternano nella recitazione delle preghiere del Venerdì sera, dei Sabati e delle Solennità e Festività ebraiche; per questo ne discende il nome di Tempio dei Giovani. Nasce quindi qui, in questo luogo particolare, uno tra i diversi movimenti-cardine del rinnovamento generazionale della Comunità Ebraica di Roma, che produrrà negli anni una fruttuosa azione riaggregativa dei più giovani, spesso allontanati dalla forte tentazione alla assimilazione in una società sempre più priva di valori fondativi e per questo “più facile”. È testimonianza di questo accadimento una rara, piccola pubblicazione a cura del Rabbino Nello Pavoncello: “Il Tempio dei Giovani all'isola Tiberina, già Oratorio del Ricovero
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Israeliti Poveri Invalidi”, Roma 1947 - 1987”. L'Oratorio fu letteralmente ri-costituito per assolvere al meglio una funzione sociale più allargata e complessa. L'Arca Santa (o Aròn) è stata ricomposta completando, nella parte basamentale, il timpano ligneo dell'antica Scola Tempio che - secondo la tradizione - raccoglieva gli ebrei deportati a Roma dopo la distruzione del secondo Santuario di Gerusalemme (a. 70 E.V.); unica testimonianza del vecchio Oratorio è ancora il Pulpito (o Tevà), anch'esso costruito in legno e che porta la scritta tradotta in italiano - “…sera, mattino e mezzogiorno io prego e gemo ed Egli ascolterà la mia voce…”. I Sefarim, custoditi nell'Aròn, sono stati acquistati col denaro raccolto da alcuni donatori, mentre le finestre esterne, delle quali solo una, rivolta verso piazza di S. Bartolomeo a l'Isola è rimasta trasparente alla vista, sono state arricchite da pannelli sovrapposti con vetri a piombo di diverso disegno, realizzati da un pittore ebreo contemporaneo recentemente scomparso: Aldo Di Castro. Ne deriva un ambiente contenuto dimensionalmente, ma ricco di significati emotivi; le sette finestre a disegno riportano luoghi, elementi o oggetti rappresentativi della Comunità di Roma e dell'Ebraismo in genere: la luce esterna penetra filtrata illuminando le sagome interne e le soffittature lignee senza segnarne con forza le denotazioni. Anche la meghiza (alta ringhiera di separazione tra pubblico maschile e femminile) in ferro battuto e dorato ne viene irrorata, riflettendosi all'interno in un calcolato caleidoscopio di luci e colori. In questo luogo appartato di Roma e nell'angolo più recondito, a cerniera di antiche fabbriche, è nato perciò un simbolo del forte dinamismo, del rinnovamento spirituale e culturale della più antica Comunità Ebraica in Europa: non quindi monumento calato dall'alto per ricorrenze eccezionali o di nuova accoglienza per forti Comunità religiose, ma presenza altamente simbolica, direttamente scaturita dall'animo interno e più sentito della Keillà (Comunità) romana e soprattutto dalla forza e dal credo dei suoi giovani, tra i migliori.
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Presentazione di Paola Gabbrielli Piperno Coordinatrice del Tavolo Interreligioso di Roma
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L’arte gandharica 3 pagina 112
L’arte islamica 4 pagina 118
L’arte paleocristiana 5 pagina 126
L’arte ebraica
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Cerimonia notturna.
Nelle pagine che seguono Paola Gabbrielli Piperno presenta il lavoro del Liceo Classico “Plauto”, che ha approfondito il tema dei luoghi di culto nelle religioni buddhista, islamica, cristiana ed ebraica*
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1 “LA CONOSCENZA DELLE RELIGIONI È UNA PARTE INTEGRALE DELLA CONOSCENZA DELLA STORIA DELL'UMANITÀ E DELLE CIVILTÀ. È DEL TUTTO DISTINTA DAL CREDERE IN UNA RELIGIONE SPECIFICA E DALLA SUA OSSERVANZA“ Consiglio d'Europa. Raccomandazione 4 ottobre 2005 n. 1720 Già dal 1998 le sei Comunità Religiose che partecipano al Tavolo Interreligioso di Roma hanno inteso attuare, in modo sistematico anche se sperimentale, un programma di informazione culturale in dimensione interculturale rivolto ai docenti e agli studenti delle scuole secondarie di primo e di secondo grado di Roma. La possibilità di percorrere un
individuato e proposto dal Tavolo stesso alle classi, non tanto di carattere dottrinario, quanto piuttosto riferito alla presenza e all'influenza delle religioni nella cultura e nella vita quotidiana degli individui e delle società. Il secondo anno, dunque, docenti e studenti propongono un progetto di ricerca pertinente ad alcuni aspetti del tema e individuano quali
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cammino di conoscenza insieme a persone che appartengono a religioni, fedi e confessioni diverse ha suscitato in questi nove anni grande attenzione da parte degli studenti, che ogni anno sono aumentati sia nella quantità che nella qualità della partecipazione. Il programma del Tavolo prevede un primo anno di incontri in orario scolastico con le Comunità Religiose e un secondo anno di ricerca e approfondimento su un tema
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linguaggi di comunicazione e quali strumenti intendono utilizzare per realizzare un libro, una mostra fotografica, un ipertesto, un DVD, un sito web e quant'altro i loro interessi e le loro competenze suggeriscano. Se il progetto proposto è approvato dal Tavolo, viene finanziato dall'Assessorato alle Politiche Educative e Scolastiche e realizzato durante l'anno scolastico. Nei nove anni passati i temi proposti sono
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stati naturalmente diversi: i riti di passaggio (nascita, maggiore età, matrimonio, morte); l' educazione delle bambine e dei bambini; la condizione della donna e altri ancora. I progetti di ricerca implicano vari aspetti pedagogici e didattici: un approccio multidisciplinare e interdisciplinare, che coinvolge docenti di diverse discipline; una
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accompagnano la presentazione dei “prodotti“, emerge quanto questa esperienza stimoli negli studenti l'acquisizione di una visione pluralista della realtà e favorisca in tutti i soggetti coinvolti atteggiamenti e comportamenti segnati da una dimensione interculturale, sia in ambito intellettuale che emotivo. Tre anni fa gli
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metodologia di ricerca su fonti con un'impostazione anche molto differenziata; la formazione di gruppi di lavoro coordinati, in cui gli studenti imparano a confrontarsi e ad individuare soluzioni comuni; il rapporto con esperti, comunità, operatori italiani e non, che sono esterni alla scuola; l'emergere di capacità creative e abilità per l'ideazione e la realizzazione del progetto; la gestione condivisa dei tempi. Dalle relazioni finali che
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studenti sono stati invitati ad approfondire l'ambito relativo ai luoghi di culto e quella che viene di seguito pubblicata è la ricerca realizzata dagli studenti di due classi del Liceo classico “Plauto” che, essendo stato scelto il linguaggio della scrittura, è comunicabile in questa pubblicazione. * Progetto curato dalla professoressa M. Grazia Chiappori e dagli studenti della V e della II A
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L’ARTE GANDHARICA
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’arte buddhista si differenzia da ogni altra arte di soggetto religioso per il suo carattere prettamente umano. Gli argomenti che essa tratta sono ispirati da situazioni psicologiche che il Buddha storico ha vissuto e superato e che il Buddha del futuro – Maitreya – dovrà superare così come hanno fatto i suoi predecessori. L’arte illustra i sacrifici, le virtù, le tappe necessarie del lungo cammino che conduce alla Perfezione. Rilievo e pittura raccontano episodi significativi e di insegnamento delle vite trascorse del Buddha (jataka) e della sua ultima vita, superata Indipendentemente nel Nirvana. Per questo, la figura del Buddha è sempre al dalla loro forma, centro della narrazione: i gesti tutti gli stupa sono dei personaggi, il movimento insieme cenotafi delle folle, lo sfondo naturalistico, tutto converge su di lui. e strutture Gli animali partecipano spessimboliche atte a so alle vicende buddhiste; essi rappresentare ascoltano l’insegnamento del l'ordine cosmico Maestro con dignità e consapevolezza quasi umane. Ciò è naturale se pensiamo che in qualche sua precedente vita, il Buddha si è incarnato in forma animale. Tuttavia questo mondo, ispirato dalla realtà vivente, non ne è copia, né può esserlo. Anche quando compaiono creature sensuali (pensiamo al corpo femminile), esse perdono ogni riferimento carnale, poiché su tutto prevale il raccoglimento e la dimensione spirituale. L’arte buddhista è inizialmente caratterizzata dall’aniconismo, strettamente determinato dall’inconsistenza corporea del Buddha inteso come condizione di bud-
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dhità. L’essere umano appare inadeguato a rappresentare un essere del tutto trasumanato. Secondo le scuole buddhiste, il Buddha non è altro che un’apparenza, un corpo illusorio nel quale si configura il riflesso della realtà assoluta che, per mediazione di quel riflesso, si rivela e diviene accessibile all’uomo. Nell’arte aniconica la presenza del Maestro è suggerita da simboli convenzionali: le orme dei piedi, l’emblema delle tre gemme, l’albero della Bodhi, il trono vuoto ed altri, tutti connessi alla storia terrena di Siddharta o al valore universale del Buddha. Vedremo come, grazie all’evoluzione dell’arte indiana imposta dalla bakthi (la devozione) e, per altra via, grazie allo stimolante apporto della cultura ellenistica in area gandharica, verrà elaborata l’immagine antropomorfa del Buddha.
Lo stupa Il culto delle reliquie del Buddha ha inizio quando questi entra nel mahaparanirvana. Infatti i discepoli, dopo la morte del Maestro, ne cremarono il corpo e raccolsero i frammenti di ossa e le ceneri distribuendoli in otto parti. Queste reliquie vennero custodite in vasi e, in seguito, su di esse venne eretto un tumulo, detto stupa. Il tumulo funebre, di dimensione diversa a seconda della classe sociale del defunto, già usava in epoca precedente. Esso amplia uno schema di origine mesopotamica che istituisce una precisa equivalenza tra il tumulo e il cosmo. Nel tempo gli stupa si moltiplicarono per contenere anche libri sacri, per soddisfare la devozione dei fedeli (la costruzione di uno stupa ha carattere votivo) e per garantire la diffusione del Buddhismo in tutta l’Asia. Anche la tipologia architettonica divenne più complicata e densa di riferimenti dogmatici. Lo stupa è costituito da una falsa cupola e da una terrazza terminale. Il monumento, privo di spazio interno, è destinato ad ospitare - come si è detto - reliquie, libri, preghiere e così via. Nell’architettura del Gandhara, gli stupa assumono forme diverse. Alcuni sono di
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grandi dimensioni, con cupola emisferica piena; altri sono a pianta cruciforme e fortemente verticalizzanti e da questi ultimi deriveranno il mc’od rten tibetano e la pagoda cinese. Indipendentemente dalla loro forma, tutti gli stupa sono insieme cenotafi e strutture simboliche atte a rappresentare l’ordine cosmico. Il tamburo cilindrico che sostiene la cupola è decorato con pannelli scolpiti con la tecni-
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ca della prospettiva rotante, un effetto ottico già usato da artisti greci e che si incontra anche nel fregio storico romano. Le figure scolpite, secondo una particolare angolazione, sembrano ruotare su loro stesse, accompagnando così il moto del fedele. Questi, infatti, deve compiere il rito della circumambulazione (pradaksina) dello stupa, con movimento antiorario, in modo da ripercorrere con lo sguardo e la mente i momenti salienti delle vite del Buddha.
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Nepal. Villaggio di Pangboche. Stupa buddhista
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La scuola di Mathura Mathura, punto di incontro della cultura gandharica ellenizzata e della tradizione artistica della piana indo-gangetica, divenne - sotto i Kusana - un centro religioso attivo e vide fiorire una scuola d’arte di grande rinomanza. Tale scuola, benché facesse parte dell’impero dei Kusana ed avesse stretti rapporti con la scuola greco-buddhistica, rappresenta la naturale continuazione degli stili di Bharhut e di Sanci, rielaborando i quali seppe creare uno stile inconfondibile e originale. Essa, infatti, conciliò l’arte indiana con motivi ellenici ed influenze iraniche portati dai dominatori Kusana. La sua irradiazione artistica fu notevole: dal Kashmir a Ceylon, dall’Indocina arrivando Monaco tibetano addirittura fino alla Cina. Nonostante siano stati costruiti molti edifici - stupa monumentali, templi e conventi - nulla resta dell’architettura di quest’epoca (I-II sec.), se non le raffigurazioni in bassorilievi. Non vi sono molte differenze tra le architetture di Mathura e quelle delle scuole anteriori e contemporanee: lo stupa è più alto che a Sanci e la sua vedika è provvista di un torana di tipo antico dove, all’estremità Nonostante tutte degli architravi, compaiono le incertezze alcuni mostri marini (detti cronologiche makara), motivi decorativi dobbiamo molto popolari. La scuola di Mathura è di riconoscere alla importanza rilevante sopratscuola di Mathura tutto per la bellezza della l'importante scultura a tutto tondo cui l’arenaria rosa conferisce un funzione di arte di fascino particolare. I soggetti passaggio dalle sono: il Buddha, i sovrani scuole antiche Kusana, le donne o yaski e anche le divinità brahmanianiconiche a quelle che. Queste opere sono del II sec. d.C. che caratterizzate da una grande utilizzavano il tipo semplicità nel modellato e da un’esecuzione netta, seniconografico za indecisioni. del Buddha Originale ed eccezionale è inoltre la presenza di tentativi di ritratto. Quest’arte ritrattistica fu messa al servizio degli imperatori Kusana, rappresentati in piedi oppure assisi 2
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in tutta la loro maestà, vestiti con il costume delle steppe, calzati pesantemente, col berretto conico, in un’attitudine frontale e rigida. Si ipotizza che fossero statue di imperatori divinizzati che venivano esposte in un edificio del palazzo reale. Tra le figure più ricorrenti sono le cosiddette yaski, dotate di grande fascino. In piedi, su un nano grottesco, addossate al montante di una vedika, esse ostentano i segni della bellezza femminile secondo i canoni dell’epoca: seni opulenti, vita sottile, bacino ampio. Hanno pettinature varie, tra cui quella di capelli tirati e intrecciati in un’unica treccia che ricade sulle spalle formando sulla fronte una spe-
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cie di cocca fissata ad un medaglione. Appaiono sane, graziose e fiorenti, con un affascinante sorriso e intente a specchiarsi o a giocare con un pappagallo domestico. La quasi nudità di queste figure e le pose provocanti, ne fanno delle opere profane più che sacre. L’ideale femminile è raffigurato nei bassorilievi e nelle statue-colonna (cariatidi). Quanto alle raffigurazioni di Buddha, la scuola di Mathura segue il tipo iconografico derivato dalle immagini di yaksa e nagaraja, che caratterizzano la scultura a tutto tondo del precedente periodo. Questo tipo differisce molto da quello gandharico, anche se possiede gli stessi segni di
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santità. La testa è rotonda, l’espressione infantile e sorridente; il cranio - rasato come quello dei monaci del suo ordine - è ricoperto da una calotta che dissimula la protuberanza cranica (usnisa): tra le sopracciglia è indicata l’urna. Il Buddha è vestito con un mantello monastico che scopre diagonalmente la metà destra del torso: la stoffa aderisce al dorso e il panneggio è espresso con un rilievo appena accennato da alcune pieghe parallele bordate da un doppio tratto inciso. La mano destra è alzata verso la spalla e simboleggia la mancanza di timore (abhayamudra); il pugno sinistro, invece, si appoggia sulle anche. Per queste sue caratteristiche nulla fa pensare a influenze straniere: né il tipo di fisico, né l’abbigliamento anzi il Buddha di Mathura appartiene proprio alla tradizione indiana e si ricollega agli stili anteriori. La critica ha sollevato un problema: quale, tra il Buddha di Mathura e quello del Gandhara, è comparso prima? Il tipo di Mathura sembra potersi ricollegare al regno di Kaniska (metà del II secolo, anche se la datazione del sovrano è ancora controversa). Certo Kaniska fu il primo a far rappresentare un Buddha sulle sue monete e a renderne l’imLa scuola di magine quasi ufficiale. Mathura è di Secondo alcuni il Buddha gandharico sarebbe precedente animportanza che perché l’idea di rappresenrilevante tare il Perfetto con spoglie umasoprattutto per ne sembra più consona ad uno spirito ellenizzato piuttosto che la bellezza della alla tradizione e alla mentalità inscultura a tutto diane, più inclini a rappresentartondo cui l'arenaria lo attraverso l’uso di simboli. rosa conferisce un Nonostante tutte le incertezze cronologiche dobbiamo fascino particolare riconoscere alla scuola di Mathura l’importante funzione di arte di passaggio dalle scuole antiche aniconiche a quelle del II secolo d.C., che utilizzavano il tipo iconografico del Buddha (contemporaneamente all’antica iconografia). Alla scuola di Mathura può, inoltre, essere attribuito un insieme di tavolette d’avorio scolpite e incise, scoperte alla fine degli anni ’30 in Afghanistan.
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Prima di tale scoperta si sapeva da alcune fonti letterarie che l’arte degli artigiani dell’avorio aveva raggiunto un alto grado di perfezione, tanto da essere conosciuta anche fuori dall’India. Questi artigiani, infatti, applicarono con una facilità stupefacente molte differenti tecniche: l’avorio viene di volta in volta traforato, ritagliato, scolpito in alto e bassorilievo, inciso e riempito di colore. Il più bello di questi procedimen-
ti è sicuramente quello in cui il soggetto è delimitato da un tratto inciso, il modellato è delicatamente indicato all’interno di questo contorno e leggermente ristretto rispetto alla parte liscia della tavoletta. Queste tavolette, dunque, confermano l’esistenza di un’arte profana di cui si possedevano fino ad allora solo descrizioni letterarie. Il mobile che intelaiava queste tavolette sembra sia stato creato per arredare un gineceo reale.
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La scuola greco-buddhista La scuola greco-buddhista è risultata molto interessante per la sovrapposizione a soggetti e temi buddhisti di un’ispirazione estetica greco-iranica (o partica). Infatti le relazioni commerciali tra l’India, Roma e l’Oriente partico, iranico e alessandrino fecero del Gandhara una zona di scambio in cui si incrociarono motivi e formule propri della tradizione ellenistica. Si ritiene che questa scuola sia iniziata intorno al I secolo a.C., fiorita nel I secolo dell’era cristiana, per giungere a maturità nel II e III secolo. Esercitò, inoltre, una forte influenza non solo sull’India stessa, ma anche nelle regioni convertite al buddhismo (Cina e Asia sud-orientale). L’architettura è rappresentata da alcuni stupa, oggi malridotti, da conventi di cui non sono state rinvenute che le fondamenta e da numerose figurazioni nei bassorilievi. Costruiti in mattoni, gli stupa presentano una forma più cilindrica e più elevata di quelli di epoca Sunga. La loro cupola poggia su un tamburo a sua volta riposante su uno zoccolo molto alto; non vi si conoscono torana. La struttura muraria era ricoperta da stucco dipinto e scolpito e la loro base decorata con bassorilievi in scisto, che generalmente illustrano jataka e l’ultima vita - quella storica - di Buddha. Inoltre vi sono frontoni tagliati e appoggiati su due colonne dai capitelli svasati. L’influenza ellenistica si manifesta in particolare negli elementi architettonici, soprattutto nei capitelli, che il più delle volte riprendono l’ordine corinzio talvolta con l’aggiunta di una figurina di Buddha tra il fogliame. La grande innovazione di questa scuola sta nell’aver introdotto la figura di Buddha nelle scene in cui fino ad allora era apparso solo grazie all’utilizzo di simboli. L’immagine antropomorfa del Buddha rivela i tratti apollinei di un giovane adulto, dal profilo greco e dalla bocca ben marcata, mentre solo le pesanti palpebre che ricoprono a metà gli occhi leggermente sporgenti tradiscono il suo tipo orientale,
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come pure la forma ovale del viso e l’allungamento del lobo delle orecchie, causato dal peso di lunghi orecchini. L’abito monastico che si indovina sotto il mantello che gli ricopre le spalle è drappeggiato a guisa di himation aderente al corpo, con pieghe concentriche molto rilevate. La figura porta i segni distintivi del Buddha: tra gli occhi l’urna, un ciuffo di peli, sulle palme delle mani il chakra, la ruota sacra evocante il cammino della legge buddhista. I capelli ondulati sono raccolti sulla sommità del capo in un ciuffo legato alla base da una cordicella, certamente ispirato al krobylos greco. Altro merito di questa scuola è di aver considerevolIl culto delle mente accresciuto il repertorio iconografico del budreliquie del Buddha dhismo, dotando l’India ha inizio quando della quasi completa illuquesti entra nel strazione dei racconti e delle leggende di cui essa mahaparanirvana. era in gran parte autrice. Infatti i discepoli, L’arte del Gandhara traduce dopo la morte le leggende indiane in forme ellenistiche non solo del Maestro, perché la regione vedeva la ne cremarono il presenza di culture ed etnie corpo e raccolsero diverse – tra le quali si i frammenti di ossa segnala l’eredità greca lasciata dalle truppe e dale le ceneri l’organizzazione “statale” di distribuendoli Alessandro Magno e dei in otto parti suoi successori –, ma anche perché un linguaggio “esotico” come quello greco rendeva più forte e pregnante la figura del Buddha nella sua santità e trascendenza. Stilisticamente la scultura è, nell’insieme, piuttosto accademica salvo qualche rara eccezione in cui in si osserva un accento più naturalistico. Il bassorilievo narrativo è spesso convenzionale, mentre una larga produzione in stucco - sia in rilievo sia a tutto tondo - sembra più spontanea e vicina al realismo. Essa, ritoccata con lo scalpello e sbozzata in una materia leggera, riproduce la popolazione cosmopolita estremamente varia di queste regioni in quell’epoca.
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a dimora del Profeta a Medina se non divenne - come alcuni sostengono - l’archetipo della moschea contribuì, sicuramente, all’elaborazione di alcuni elementi caratteristici dell’arte islamica. Questa casa presentava una sequenza di piccole stanze che si aprivano su una corte quadrata di 50 m. di lato, cinta da un muro di mattoni crudi alto poco più di tre metri. Secondo le testimonianQuesta geometria ze letterarie, il Profeta aprì un ingresso sui lati meridionale, dell'architettura orientale ed occidentale, menrisale a speculazioni tre sul lato settentrionale era pitagoriche e indicata, con una semplice tettoia di foglie di palma, la qibla, platoniche sulle cioè la direzione della prefigure e sui numeri, ghiera che era, a quel tempo, tutte con un preciso rivolta a Gerusalemme. In seguito, piantando a terra una significato simbolico, lancia, il Profeta indicò la pensiero ripreso e nuova direzione della preghiesviluppato dal ra: la Mecca. Sembra che Maometto sia morto nella neopitagorismo e camera della seconda moglie, dallo gnosticismo ambiente che venne inglobacristiano, di cui i to nella moschea di Medina. In musulmani realtà, la preesistenza della casa del Profeta, carica di memorie ereditarono la e sede del suo sepolcro, condisostanza zionò la costruzione e i successivi rifacimenti della moschea di Medina. Nella ricostruzione del 707-709, voluta da al-Walid I, compare il mihrab, una nicchia incorniciata da un arco, che indica la qibla. Secondo H. Stern questo elemento architettonico rappresenta il posto occupato da Maometto all’interno della
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moschea, in qualità di imam; tipologicamente dipenderebbe dall’architettura romana di carattere onorario (arco e edicola). Per J. Sauvaget esso deriverebbe dall’abside delle aule basilicali da udienza, di origine ellenistica, vista la funzione civile che la moschea primitiva svolse. Al di là del significato primo del mirhab, ciò che colpisce è la similitudine con la nicchia della Torah, presente nelle sinagoghe di tipo orientale. È innegabile, in ogni caso, l’influenza esercitata dai modelli ellenistici, ebraici e paleocristiani bizantini sull’architettura islamica. Né possiamo dimenticare il complesso foro-basilica delle città romane d’Oriente, ad esempio Antiochia, che può aver influito sul processo di elaborazione della moschea quale compare a Kufa, nella ricostruzione del 670. Questa tipologia, che sarà ripetuta per secoli, presenta una sala larga, a cinque navate, che si affaccia su un cortile circondato sugli altri tre lati da portici.
Il contributo greco L’eredità geometrica della Grecia La Cupola della Roccia, primo monumento architettonico omayyade è costituito, al suo centro, dalla roccia del sacrificio di Abramo ed è simile alla rotonda del Santo Sepolcro. Questo monumento fu voluto dai musulmani per affermare la loro presenza in una zona consacrata prima dai Giudei, quindi dai Cristiani; possiede numerose caratteristiche bizantine, in primo luogo la disposizione a pianta centrale. Molti studiosi si sono interessati a questo aspetto, notando che la pianta può essere inscritta in un cerchio; in particolare Michel Ecochard evidenziò l’identità della pianta della Cupola della Roccia con quella di San Simeone a Costantinopoli, della Cattedrale di Bosra, o della chiesa di S Donato, a Ravenna. Lo stesso metodo costruttivo e la stessa proporzionalità delle dimensioni è rintracciabile sia in alcuni monumenti costruiti con le stesse dimensioni della cupola divise per due (ex Chiesa di S. Donato a Zadare), ma anche in alcuni monumenti Romani (ex. Mausoleo di Diocleziano a Split). La tradizione architettonica che prevedeva
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una pianta con un insieme di quadrati inscritti in un cerchio risale a Roma, quindi alla Grecia: la stessa identità nello schema geometrico di costruzione e delle dimensioni è rintracciabile anche in edifici civili, come ad esempio i teatri greci (mentre i romani, per i teatri, usavano un impianto planimetrico formato da quattro triangoli equilateri inscritti in una circonferenza). Questa geometria dell’architettura risale a speculazioni pitagoriche e platoniche sulle figure e sui numeri, tutti con un preciso significato simbolico, pensiero ripreso e sviluppato nuovamente dal neopitagorismo e dallo gnosticismo cristiano, di cui i musulmani ereditarono la sostanza. Nella Cupola della Roccia, in origine, le finestre erano dei claustra di marmo con vetri colorati, ricoperte di mosaici; la facciata sud, il fianco e le altre porte erano dorate o ricoperte di bronzo e rame; la facciata esterna risulta dall’applicazione, come sostiene
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Richmond, della Sezione Aurea, elaborata in ambiente pitagorico e basata sulle attente proporzioni armoniche dei Greci. Quanto all’arco spezzato che compare nell’edificio, alcuni storici dell’arte musulmani ritengono che l’arco spezzato sarebbe un’invenzione persiana, turca o indiana, ma sbagliano: esistono infatti due tipi differenti di arco, quello spezzato, o tracciato ovale, denominato ogiva nel medioevo e quello persiano, detto a carena. Secondo la teoria di Gestalt sulla buona forma e sulla trasposizione, la forma di un certo oggetto si potrebbe staccare da quell’oggetto, utilizzandola per un altro scopo. Questa teoria può essere riferita alla Cupola della Roccia, che ha la pianta rotonda del Santo Sepolcro e gli archi spezzati. La Cupola, infatti, in quanto primo monumento musulmano, fu considerata un archetipo e una lezione architettonica cui attenersi.
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Israele, Gerusalemme. Cupola della Roccia
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Iran, Isfahan. Moschea dello sceicco Lotfollah
Gli influssi successivi della Cupola della Roccia I mausolei: sono i primi discendenti della cupola, in quanto possiedono la stessa pianta (basata sul quadrato che ruota in un cerchio) e, anche se erano in vigore divieti che impedivano la costruzione di cupole sulle tombe, i mausolei si chiameranno Qubba (cupole). I Gunbad: sono mausolei iraniani a forma di torre, con un’applicazione nuova dello schema geometrico: i lati dei quadrati inscritti nel cerchio non sono prolungati, creando così dei poligoni stellati; è curioso come la stessa
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formula architettonica sarà applicata a dei minareti che si elevano al di fuori delle moschee. Le cupole: per la costruzione di quest’unico elemento architettonico (e non per un intero edificio), è stato usato il procedimento geometrico del quadrato che ruota all’interno di un cerchio. Le “muqarnas” (stalattiti): sono delle decorazioni architettoniche tipiche dei monumenti dell’Islam, che sembrano essere parte di un elemento strutturale, la volta conica - una sorta di nicchia - delle cupole e possiedono la stessa struttura geometrico-architettonica del quadrato inscritto in un cerchio. Questo
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tema architettonico si diffonderà poi in Africa del Nord, Spagna ed Egitto. Si tratta di un motivo decorativo di grande successo che ebbe diffusione anche in occidente. Quale significato dobbiamo attribuire a questa ampia “intrusione” della matematica e della geometria nell’arte islamica? Al disordine apparente del mondo si sostituisce un universo matematico in cui tutte le forme apparentemente libere, si spiegano con un rigorosa necessità secondo l’insegnamento greco. Nella pietra affluiscono così tutta la filosofia platonica e neopitagorica, tutta la teologia esoterica e gnostica dell’Islam. Inoltre nell’opera d’arte si trova anche un riflesso delle concezioni musulmane dell’universo: il mondo discontinuo, fatto
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da atomi e retto dal caso è in realtà sostenuto dall’ordine matematico. L’organizzazione di questo mondo è basata sui quadrati che ruotano in un cerchio e questo movimento corrisponde a simboli significativi. Ricordiamo che il quadrato rappresenta la terra, con i suoi quattro elementi, le sue quattro stagioni, i suoi quattro punti cardinali; il cerchio invece raffigura il cerchio magico, ma anche il cielo e l’eternità; e questo moltiplicare i quadrati nel cerchio, - i quadrati tendono verso il cerchio significa che dalla terra si tende verso il centro. In realtà questa costruzione geometrica è una mandala che simbolizza il passaggio da questo mondo all’eternità. In architettura ritroviamo così la stessa ricerca di strutture matematiche che organizzano la composizione dell’opera e dei suoi elementi. È normale che le arti, che esprimono la concezione del bello propria di una civiltà, ci offrano ciascuna la propria visione del mondo. Ci sono anche mausolei a pianta esterna quadrata, con un tamburo a due piani, prima ottagonali, Le nicchie di poi a sedici lati, circoscritti stalattiti, con dal cerchio della cupola. Il più antico monumento di l'intaglio nella questo tipo, si trova in Iran, pietra, possono ed è costituito dal mausodivenire una vera leo dei Samanidi a Bukhara: la sua forma esterna è quele propria copertura la di un cubo, non solo di capace di sostituire un quadrato; in questo quala cupola drato è inscritto un ottagono, poi un poligono a sedici lati, che costituiscono il grande tamburo della cupola emisferica. Questa disposizione è nascosta dall’esterno dalla parte superiore delle facciate, ciascuna con dieci finestre. Sulle porte di mausolei sono presenti particolari decorazioni geometriche che avevano un significato mistico e gnostico musulmano. Ma il monumento più celebre costruito secondo questo modello è il mausoleo di Tomerlano a Samarcanda. Mantengono questa pianta anche le tombe dei sultani ottomani costruite nella corte delle loro Moschee.
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Le cupole Gli stessi procedimenti geometrici dei quadrati che ruotano in un cerchio sono stati applicati anche all’organizzazione di particolari elementi architettonici. Uno di questi è rappresentato dalle cupole su nervature che si trovano nella moschea di Cordova. Dalle nostre tavole e dai disegni di queste nervature, possiamo constatare come le loro diverse posizioni costituiscano delle variazioni sul tema dei quadrati che ruotano. Le nervature esistevano nell’architettura bizantina e romana e costituivano un importante elemento decorativo. Le cupole e i costoloni esterni saranno ampiamente utilizzati nell’architettura musulmana. La Spagna cristiana continuerà ad usare le cupole nelle cattedrali, come in quella di Burgos, nella Cappella del Contestabile.
Le stalattiti
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Quella delle stalattiti, in arabo Muqarnas, è una struttura nata in Iran. Questa decorazione sembra essere parte della volta conica delle cupole. Volte coniche che sono state impiegate anche nella moschea di Damasco e in quelle di Egitto e Tunisia, e saranno poi moltiplicate e associate in catene per farne un elemento decorativo oltre che strutturale. Le nicchie di stalattiti diventano anche una vera e propria copertura e sostituiscono la cupola. Questa tecnica dei Muqarnas si sviluppa nei Paesi che costruivano con i mattoni. Le stalattiti con l’intaglio nella pietra si spiegano con l’applicazione della geometria a raggiera di quadrato, altri poligoni che ruotano in un cerchio. I magnifici portali degli edifici musulmani presentano dei portali caratterizzati da un semi-quadrato nella parte inferiore che termina in un quarto di sfera nell’emisfero superiore. Il passaggio dal piano quadrato all’emisfero è assicurato dai Muqarnas. Anche se potrebbe sembrare il contrario, lo schema delle stalattiti è molto semplice e prende l’esempio dal quadrato, applicando il procedimento del quadrato o di altri poligoni fatti ruotare in un cerchio.
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Iran, Isfahan. Particolari dell'architettura della moschea di Isfahan
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Spagna, Burgos. Cattedrale
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L’ARTE PALEOCRISTIANA
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li edifici creati per il culto cristiano, in particolare in Italia e nelle aree di tradizione figurativa classica, assumono una veste planimetrica precisa nonché rilevanza artistica tra il IV e la prima metà del V secolo. In realtà, la fioritura dell’arte paleocristiana si sovrappone al Tardoantico, cioè al linguaggio formale dell’arte e dell’architettura romana dalla fine del II al V secolo e ai primi tre secoli della storia dell’arte bizantina (dal V al VII secolo). Le basiliche romane L’arte paleocristiana, quale si manifesta a Roma e in Italia, non erano edifici si può distinguere in due fasi religiosi, ma - cronologicamente separageneralmente te dall’Editto di Milano del 313 - che si potrebbero chiaospitavano mare rispettivamente Età tribunali o attività delle catacombe ed Età delle commerciali. basiliche. Dapprincipio, l’arte paleocristiana non si distinLo schema gue dalla contemporanea comprendeva produzione pagana e in un'ampia sala generale profana, se non per rettangolare la speciale destinazione e per il particolare valore simsoffittata cui si bolico che assume l’iconoaccedeva dal lato grafia. I suoi problemi stilistilungo attraverso un ci, infatti, non differiscono da quelli di tutto il cosiddetto portico Tardoantico. La realtà storica che ne determina la fioritura è la diffusione del cristianesimo, consentita dalla politica di tolleranza religiosa perseguita dallo stato romano alla fine del II secolo e per tutta la prima metà del III, durante il regno dei Severi e dei loro successori. Per quanto concerne l’arte nelle province orientali l’antichità classica, che termina convenzionalmente con le invasioni arabe
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del VII secolo, comprende due periodi abbastanza distinti: quello che si protrae fino alla fine del IV secolo e quello che va dalla morte di Teodosio fino a Giustiniano e ad Eraclito. Si deve a questi imperatori il fatto che il cristianesimo sia stato innalzato, sin dalla fine del IV secolo, alla dignità di Religione di Stato e siano stati chiusi gli ultimi templi pagani. Nel 392 Teodosio proclama il cristianesimo Religione di Stato: l’imperatore diviene il luogotenente di Dio e le decisioni dei Concili acquistano l’autorità delle leggi, mentre l’eresia è perseguita come un crimine.
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dal III secolo l’arte paleocristiana appare consolidata, risalgono addirittura al II alcuni resti tornati alla luce in Egitto, Siria, Grecia, Italia, Gallia e Spagna. Quest’arte deve la sua diffusione alla pax romana e agli straordinari mezzi di comunicazione dello stato romano. L’impero, insomma, è all’origine dell’unità generale dell’arte cristiana intorno al Mediterraneo, dalla Mesopotamia alla Spagna e alla Gran Bretagna, ma è responsabile anche delle infinite versioni provinciali di quest’arte. Con l’ufficialità garantita dalla protezione imperiale, l’architettura paleocristiana fiorì in tutto l’impero romano su scala monumentale. Gli edifici religiosi erano di due tipi: a pianta longitudinale - o a basilica - e a pianta centrale - spesso battisteri o mausolei.
La basilica
Già durante i decenni che seguirono l’atto costantiniano di tolleranza religiosa si ebbero i primi abbozzi di un’arte cristiana di altissimo livello perché sostenuta dall’imperatore, ma l’affermazione dell’arianesimo e il momentaneo ritorno al paganesimo dei successori di Costantino rallentarono il processo artistico. Il quadro geografico dell’arte cristiana è molto vasto. Si estende dall’Eufrate all’Atlantico, dalle Isole Britanniche e dalla Crimea fino alla Nubia e al Sahara. Dappertutto, tra il III e il IV secolo sorgono edifici che imitano i modelli romani. Se fin
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Le basiliche romane non erano edifici religiosi, ma ospitavano generalmente tribunali o attività commerciali. Lo schema comprendeva un’ampia sala rettangolare soffittata cui si accedeva dal lato lungo attraverso un portico. Il vano interno era suddiviso, solitamente, in tre navate: una centrale, maggiore e due laterali, separate da colonne. L’altezza della navata centrale era generalmente superiore rispetto a quella delle navate laterali così da permettere, mediante le finestre aperte nel muro in dislivello, un’adeguata illuminazione dell’interno. Ad un’estremità la navata centrale terminava in forma semicircolare o poligonale formando l’abside, ove si trovavano i posti a sedere per i funzionari. Lo schema base della basilica classica conobbe notevoli variazioni. Alcune basiliche si componevano di una navata centrale e quattro laterali, come la basilica di Traiano (o Ulpia, 98-112 d.C.), che si arricchiva di una galleria e di due absidi semicircolari. Altre non possedevano alcuna galleria ed erano piuttosto squadrate. La maggior parte delle basiliche aveva soffitti lignei, a trave; la basilica di Massenzio (310-313 d.C.), invece, possedeva soffitti in muratura con volte a crociera.
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Il culto cristiano, pubblico e comunitario, necessitava di un’ampia sala che accogliesse i fedeli e la basilica romana – una sala con funzioni civili – divenne il modello per la chiesa. A Roma, nel IV e nel V secolo, i principali santuari pagani vennero trasformati in enormi basiliche con il tetto in legno. Tra le più antiche basiliche cristiane innalzate a Roma ricordiamo la San Pietro costantiniana (quella attuale fu edificata nel XVI secolo), San Paolo fuori le Mura e Santa Maria Maggiore. La pianta della basilica cristiana includeva spesso un atrio o quadriportico, costituito
da un cortile rettangolare posto davanti all’edificio. Il lato del portico addossato alla facciata era detto nartece ed accoglieva in antico i fedeli in attesa del battesimo, o catecumeni, ai quali non era permesso di entrare nella chiesa. L’interno si articolava in una navata centrale longitudinale affiancata da navate laterali; talora prevedeva un transetto, che attraversava la navata centrale disegnando una croce, e un’abside (riservata al clero) semicircolare o poligonale, posta all’estremità della navata e coperta dal catino absidale. Dinanzi all’abside era posto l’altare.
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Come si è detto, spesso il corpo longitudinale era tagliato trasversalmente da una navata che prende il nome di transetto. Quando i bracci del transetto sono più corti delle navate si parla di pianta a croce latina, diffusa soprattutto in Occidente; se sono uguali e si innestano al centro delle navate si parla di un edificio a croce greca, secondo una planimetria diffusa soprattutto in Oriente. Se il transetto è posto a circa 2/3 dal corpo longitudinale, si parla di croce immessa; se è in fondovalle navate, di croce commissa. Il presbiterio era il luogo riservato al clero, posto in fondo alla navata principale intorno all’abside. Solitamente rialzato, è separato dalla navata mediante un recinto di marmo intagliato o traforato, detto transenna o anche pluteo. L’arco trionfale congiunge la navata centrale al transetto. Quando quest’ultimo manca, per arco trionfale si intende la porzione di parete che rimane attorno all’innesto dell’abside. La basilica aveva, in genere, una copertura composta da capriate lignee ed era, perciò, esposta al pericolo degli incendi. I materiali utilizzati per la costruzione – colonne, capitelli, pannelli decorativi in marmo, elementi in muratura e tegole bronzee – venivano solitamente sottratti agli edifici imperiali e incorporati nelle nuove strutture. La prima architettura cristiana fu, in sostanza, un’architettura di spoglio. Il simbolismo della planimetria paleocristiana è abbastanza trasparente. Anzitutto, l’ingresso era posto su un lato breve della sala, non soltanto per differenziare la basilica cristiana dalla basilica civile della tradizione classica, ma anche perché il fedele riconoscesse nell’assialità ingresso/altare il percorso da compiere per abbandonare il mondo profano e raggiungere la conoscenza di Dio. L’incontro con l’altare, la cui sacralità è sottolineata dall’abside, deve avvenire dopo un lungo cammino anagogico, cioè di progressiva purificazione. La luce, che piove dall’alto della navata centrale filtrata dalle finestre e riflessa dai mosaici parietali, concorre ad accrescere la spiritualità avvertita dal visitatore.
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Gli edifici a pianta centrale Contemporaneamente agli edifici di forma basilicale si svilupparono anche quelli a pianta circolare o poligonale. In particolare, questa forma venne adottata per quelle costruzioni che sorgevano sul luogo del martirio di un santo o sulla sua tomba, inizialmente dette memoriae e più tardi martyria. La pianta centrale fu impiegata anche per gli edifici riservati al rito del battesimo, con evidente derivazione da ambienti termali e ninfei. I battisteri, i mausolei e i martyria dunque erano edifici a pianta circolare o poligonale, così che il fedele avesse la possibilità di vedere l’oggetto della venerazione – il fonte La scoperta a Dura battesimale, il sarcofago o il Europos di una luogo santo – dal vano anulasinagoga e di una re, o deambulatorio, che lo circondava. chiesa risalenti alla Un battistero tipico è quello metà del III secolo circolare presso la chiesa di ha dimostrato una San Giovanni in Laterano, a Roma, alcune parti del quale probabile influenza risalgono almeno al 313. Fu dell'architettura eretto interamente con matedelle sinagoghe su riale di recupero: le massicce porte bronzee e il fonte, un quella delle prime vasto bacino in porfido, prochiese e l'importanza vengono dalle terme di della tradizione Caracalla. ebraica per la La chiesa romana di Santa Costanza (IV secolo), circolare formazione e dotata di cupola, è un tipico dell'iconografia esempio di mausoleo paleopaleocristiana cristiano, eretto in onore della figlia di Costantino I, Costanza. Il suo sarcofago di porfido, magnificamente scolpito e conservato presso i Musei Vaticani, era collocato sotto la cupola. Altri mausolei, come quello assai celebre di Galla Placidia (V secolo) a Ravenna, vennero eretti su un impianto a croce greca. I martyria più noti sono la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme (risalente al IV secolo, ma riedificata più volte), dotata di cupola e la chiesa della Natività (IV secolo, riedificata nei secoli VI e successivi) a Betlemme, di forma ottagonale. Ad entrambi fu affiancata una basilica per accogliere le folle dei pellegrini.
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Le chiese del IV secolo La sola basilica costantiniana che sia pervenuta quasi intatta fino a noi è la chiesa della Natività di Cristo a Betlemme, fondata dalla madre di Costantino, Sant’Elena. Ad eccezione del soffitto e dell’abside, la chiesa del IV secolo è intatta. Si presenta come una grande sala rettangolare divisa in una navata
stiana. Si tratta sempre di sale rettangolari divise in tre, o anche in cinque navate parallele e longitudinali (come la primitiva basilica di S.Pietro), mediante file di colonne. Le direttive imperiali, che ordinavano la costruzione di grandi chiese, spinse a ricorrere ad un tipo di sala dall’aspetto nobile e dai materiali preziosi, che già veniva utilizzata per i tribunali e per i palazzi, per gli uffici,
centrale e quattro collaterali mediante quattro file di colonne massicce, identiche tra loro. I fusti, le basi e i robusti capitelli corinzi attestano un lavoro accurato: in questa basilica non furono usati materiali di recupero. A Roma non sopravvive nessuna chiesa del IV secolo, almeno non nella forma originale. Tutte le chiese fondate da Costantino vengono definite basiliche dall’archeologia cri-
per le riunioni di confraternite. In ogni città e in ogni provincia, il problema architettonico fu risolto secondo le tradizioni, i materiali e i mezzi disponibili. La scoperta a Dura-Europos - sull’Eufrate - di una sinagoga e di una chiesa risalenti alla metà del III secolo ha dimostrato una probabile influenza dell’architettura delle sinagoghe su quella delle prime chiese - soprattut-
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Siria, Palmira. Rovine romane
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to le orientali - e l’importanza delle immagini della tradizione ebraica per la formazione dell’iconografia paleocristiana. Del resto, l’architettura ebraica precedeva la cristiana: lo stato romano, riconosceva ufficialmente la religione giudiaca e autorizzava la costruzione delle sinagoghe, mentre il culto cristiano non ha potuto godere delle stesse disposizioni se non dopo l’editto di Milano nel 313. Il legame fra le prime basiliche cristiane e le
sinagoghe sembra confermato dal principio che regola l’orientamento degli edifici. Patrocinata dagli imperatori, la planimetria basilicale si impose rapidamente. Quasi ovunque le tipologie proposte dagli architetti di Costantino continueranno a servire da modello fino alla metà del Medioevo, mentre a Costantinopoli resteranno predominanti fino al VI secolo.
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Lo stato delle chiese del IV secolo non permette uno studio approfondito delle caratteristiche delle basiliche. Solo a Roma e in Siria ci sono poche di queste basiliche. A Roma la Basilica in Laterano, ricavata fra il 312 e 319 entro un palazzo dell’imperatore, aveva cinque navate e un transetto. Grazie ad una pianta e disegni di Tiberio Alfarano (XVI sec.), sappiamo che San Pietro in Vaticano era una basilica a cinque navate, divise da quattro colonnati due dei quali, quelli interni, sostenevano un’architrave e gli altri due, quelli esterni, le arcate. Le finestre erano relativamente piccole. Un atrium, precedeva gli ingressi della basilica, che si concludeva con un’ampia abside orientata ad ovest. In Siria bisogna distinguere i monumenti nel nord e nel sud del Paese. Diverse basiliche nel settentrione potrebbero risalire al IV secolo, epoca in cui Teodosio diede nuovo impulso al cristianesimo, oppure essere anteriori. Sergilla, Ruweha, Simkhar, Kharab Shems e Brad sono basiliche a tre navate con due colonnati che reggono archi su cui poggiano muri e finestre. I tetti erano sempre a capriate. La costruzione, in pietra, è assai accurata: si possono ammirare tuttora frammenti di facciata, con porte a inquadratura scolpita e frontone triangolare, sul quale posava il tetto. La particolarità più significativa di queste chiese è nella forma dell’abside, che sembra derivata dagli edifici romani della Siria: la navata centrale termina in un’abside semicircolare, come a Roma e altrove. Tuttavia quest’abside non sporge all’esterno, mentre nell’interno è fiancheggiata da due muri che separano le navate laterali da due piccoli ambienti disposti alla loro estremità. Non sappiamo con certezza quale uso avessero questi locali; essi formano un blocco con l’abside, quasi un edificio autonomo. Due fra le chiese del IV secolo nella Siria meridionale (ora ridotte a rovine) sono datate da iscrizioni, altre sono databili sulla base di considerazioni stilistiche e tecniche allo stesso periodo. Si tratta di edifici ad ambiente unico, con l’eccezione di due esempi di disposizione basilicale a tre navate. Lo schema tripartito appare varie volte, e il suo adattamento a chiese a navata unica rende evidente il carat-
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Roma. Foro di Traiano, Colonna traianea
tere autonomo dell’arte siriana. Nella chiesa di Julianos c’è un’abside semicircolare sporgente e larga quanto la navata che ricorda quella di San Sebastiano a Roma. Infatti nelle due basiliche a tre campate, c’è ancora l’abside sporgente, ma che non oltrepassa la larghezza della navata centrale. Esistono due costruzioni civili precristiane a Shaqqa, di cui una appartiene al gruppo degli edifici chiamati “Quisaryeh” ed è un esempio di sala a navata unica, l’altra è una basilica profana del III secolo e si presenta come una sala a tre navate.Possiamo concludere che in Siria la continuità tra edifici precristiani e cristiani è certa ed evidente e che l’architettura locale affermò la sua originalità ed indipendenza dai modelli occidentali mantenendo nel tempo le tecniche ed i metodi costruttivi già consolidati nell’età classica.
La decorazione Fino all’editto di Milano, l’arte cristiana si limitava alla decorazione di luoghi di culto nascosti, come le catacombe e le titulae, case private utilizzate per riunioni religiose. La maggior parte dei dipinti e delle sculture paleocristiane si ispirò all’arte romana, adattandola per conformarla alla natura spirituale della religione cristiana. Inoltre, la scelta di materiali poveri e decorazioni modeste
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voleva sottolineare il disprezzo per i beni terreni che la nuova religione imponeva. Si sviluppò quindi un’iconografia particolare, che diede espressione visiva al nuovo credo. Il Cristo, ad esempio, veniva allegoricamente rappresentato da un pesce (la parola greca è composta da lettere che sono l’iniziale delle parole Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore), una croce, un agnello o dalla combinazione delle lettere greche Chi, e Rho, in un monogramma CHR, indicante l’inizio della parola greca Christos. La raffigurazione del Buon Pastore come un giovane imberbe derivava dall’antica iconografia del Moscoforo e dalle rappresentazioni pagane di Apollo e rimase in uso, in Italia, fino al VI secolo. Le superfici esterne degli edifici paleocristiani erano generalmente semplici e disadorne; gli interni, al contrario, erano riccamente decorati con pavimentazioni marmoree, pareti rivestite di piastre, affreschi, mosaici, tappezzerie e sontuosi oggetti d’uso liturgico in oro e argento. Nel IV secolo ebbe inizio la grande tradizione musiva paleocristiana. Nelle basiliche, per tutta la lunghezza della navata centrale, sopra i colonnati, correvano sequenze di composizioni che rappresentavano scene dell’Antico Testamento o schiere di santi. L’arco che separava la navata centrale dalla zona absidale, denominato arco trionfale, era normalmente rivestito di mosaici dal pavimento al soffitto. Il catino absidale (la mezza cupola di copertura dell’abside) era abitualmente riservata a rappresentazioni del Cristo, della Vergine o del santo cui la chiesa era dedicata. Anche i battisteri e i mausolei erano decorati a mosaico, con scene e motivi inerenti alla funzione. In Italia sono rimasti molti interessanti esempi di mosaico paleocristiano, come quelli del mausoleo di Galla Placidia, il più antico monumento cristiano a Ravenna, nei toni suntuosi dell’azzurro e dell’oro; la suggestiva scena di Trasfigurazione, episodio della vita di sant’Apollinare, nell’abside di Sant’Apollinare in Classe; le 27 composizioni delle scene dell’Antico Testamento sopravvissute in Santa Maria Maggiore a Roma e i mosaici della volta del deambulatorio di Santa Costanza, ricchi di motivi pagani.
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Per saperne un pò di più... Basilica della Natività La Basilica della Natività fu eretta sulla grotta di Gesù. La costruzione della Chiesa fu iniziata nel 334 da Elena, madre dell’imperatore Costantino. Resistette al crollo dell’Impero romano e a tutte le successive invasioni :persino il re persiano Cosroe rimase folgorato dalla sua bellezza. Betlemme e la Basilica della Natività significano per i cristiani un ritorno alle origini. È in questi luoghi, situati a poco più di dieci chilometri da Gerusalemme, che nacque Gesù. Dal II secolo dopo Cristo, la tradizione cristiana identificò una grotta di Betlemme come il luogo della sua nascita. Su questa misera grotta venne quindi edificata una delle più antiche chiese del mondo, la Basilica della Natività. Danneggiata da incendi e da una rivolta dei samaritani nel 529, venne restaurata qualche anno dopo da Giustiniano. Dopo la dissoluzione dell’impero romano, Betlemme passò sotto controllo persiano. Si racconta che il re persiano Cosroe nel 614 entrato nella Chiesa della Natività rimase sbalordito dalla bellezza del mosaico che raffigurava i re magi così somiglianti, per i loro costumi, ai persiani e ordinò di non saccheggiare la chiesa.
Dai Crociati ai Francescani Nell’anno 1100 Betlemme fu conquistata dai Crociati, ma la città continuò ad essere al centro di conflitti tra cristiani e musulmani. I re d’Aragona, poco dopo il 1330, acquistarono dai sultani la Grotta e la Chiesa della Natività. Sempre nel secolo XIV, ed esattamente nel 1347, la custodia della Chiesa venne affidata ai padri francescani. I litigi all’interno del mondo cristiano, soprattutto tra greco-ortodossi e latini per il possesso e l’uso della Chiesa non vennero meno per molti secoli. Nel 1690 dopo che il sultano della Sublime Porta, sotto la cui giurisdizione cadeva Betlemme, diede ragione ai latini questi ultimi all’interno della grotta posero una stella con la scritta Hic de Virgine Maria JHS natus est. Nel 1853 la basilica fu la causa – naturalmen-
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te pretestuosa - della guerra di Crimea. Il 31 ottobre del 1847 si verificò il furto della preziosa stella e latini e greci continuarono ad accusarsi per l’accaduto. Al termine della guerra di Crimea fu elaborato un nuovo status quo che regolava le prerogative dei cattolici e degli ortodossi nei luoghi santi cristiani in Terrasanta, tra cui appunto la Chiesa della Natività.
La planimetria La grotta della natività è di forma quasi rettangolare, lunga 12,5 metri e larga 3,5. La Basilica della Natività vista dall’esterno sembra una piccola fortezza. Ha un ingresso molto basso che costringe chi vi entra ad abbassarsi. Questo gesto ha dato il nome all’ingresso porta delLa costruzione, l’umiltà. Sembra che questa in pietra, è assai piccola apertura, modificata accurata: tuttora si rispetto all’originale costruzione di Giustiniano, fosse possono ammirare stata realizzata appositamenframmenti di te per evitare che eventuali facciata, con porte invasori entrassero nella Chiesa con i cavalli. a inquadratura A sinistra della Basilica della scolpita e frontone Natività, contigua ad essa c’è triangolare, sul la Chiesa di S. Caterina dove, per la sua capienza, si svolgoquale posava il tetto no le cerimonie religiose. A destra il monastero dei greci ortodossi e degli armeni. Davanti a santa Caterina un bellissimo chiostro fa da cornice alla Chiesa, mentre a lato c’è la casa dei francescani con l’ospizio per i pellegrini detto Casa Nova. Sotto la basilica di S. Caterina si trovano altre grotte nelle quali secondo la tradizione andava a pregare San Girolamo (IV secolo). A lui si deve la traduzione dal greco al latino del Nuovo Testamento e dell’Antico Testamento dal testo originale ebraico. La Vulgata di San Girolamo divenne la Bibbia della Chiesa, indiscussa fino al secolo XVI. Nella piazza antistante la Basilica della Natività e della Chiesa di S. Caterina sorge il municipio e una moschea: Betlemme, una città multietnica e multiculturale.
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L’ARTE EBRAICA
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l valore storico e simbolico del Tempio di Gerusalemme supera la sua stessa esistenza. Edificato da Salomone poco dopo il 1000 a.C., il santuario venne distrutto nel 580 a.C. da Nabucodonosor e ricostruito una prima volta nel 538 a.C., al ritorno degli ebrei da Babilonia. Nel 20 a.C. Erode decise di ricostruire il Tempio ampliandolo. Infine i Romani, presa Gerusalemme, lo rasero al suolo nel 70 d.C., dando origine alla diaspora ebraica. Ripulita la spianata del Tempio dalle rovine, il musulmano Abd alMalik, volle elevare – sulla roccia centrale – la Cupola della Roccia. Luogo sacro per ebrei, criA Roma il ghetto, stiani e musulmani, Gerusalemme venne scelta da malsano e spesso David come capitale del suo allagato per regno e sede del Tempio. le esondazioni Gerusalemme era il luogo in cui la dimensione del sacro, del Tevere, era del potere politico e civile (la cinto da mura comunità viveva nella città dotate di 5 porte bassa) coincidevano. La decisione di elevare un tempio stabile fu presa da David, ma realizzata da Salomone, suo figlio e successore, tra il 967 e il 960 a.C. “Tu mi hai ordinato – dice Salomone a Iahvé – di costruire un tempio sulla tua montagna santa, un altare nella città dove hai montato la tua tenda, immagine della terra sacra che preparasti fin dalle origini (…)”. Il passo biblico si riferisce ad una realtà storica, la tenda – una sorta di tempio mobile – usata dagli ebrei nel deserto, ma anche ad una realtà simbolica, la tenda cosmica, cioè la volta celeste che è espressione visibile della potenza divina. In base ad un accordo stipulato con
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Salomone, il re di Tiro – Hiram – fornì i materiali, il legno in particolare, necessari alla costruzione. Su richiesta di Salomone (Libro dei Re) o per sua personale iniziativa (le Cronache) Hiram inviò Hiram-abi, un artigiano abilissimo in ogni tecnica, di padre fenicio e madre ebrea, perché sovrintendesse ai lavori. La figura di Hiram assunse nel tempo contorni leggendari tanto da ritornare, in un contesto completamente diverso, nelle cerimonie della Massoneria: Hiram l’Artefice compare nel rito di ordinazione al grado di Maestro della Loggia. Il Libro dei Re (5: 27-32) ci informa sull’ingente quantità di materiali e il gran numero di
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operai messi a disposizione dal re Salomone mediante la leva obbligatoria degli operai. Decine di migliaia di uomini lavoravano sui monti ad estrarre pietre, altrettanti erano addetti al trasporto del materiale, tutti lavoravano coordinati da capisquadra. La pietra cavata, tagliata in blocchi regolari lunghi fino a 5 metri, venne usata per cingere di solidi bastioni la spianata sulla quale doveva sorgere il tempio. Questo, infatti, fu eretto su una piattaforma artificiale creata sul monte Moria sfruttando la conformazione naturale dell’altura, la cui sommità si presentava morbidamente arrotondata, una sorta di pianoro detto spiazzo di Ornan (Haram al-Sharif).
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L’esatta ubicazione del Tempio, la cui ricerca fu intrapresa già in antico – basti pensare ai ripetuti scavi dei Templari – fa discutere tuttora gli studiosi. Sulla piattaforma fu costruito il basamento in pietra del tempio al quale si accedeva mediante 11 gradini. Il tempio era di dimensioni contenute, 60 cubiti (circa 30 mt.) in lunghezza e 20 (circa 10) in larghezza ed aveva il portale ad est. Ricordiamo che il cubito, usato in tutto il Vicino Oriente antico, corrisponde a 52,2 cm. Dinanzi al tempio, ai lati del portale d’ingresso, sorgevano due colonne di bronzo alte 18 cubiti e con la circonferenza di 12. Le colon-
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Israele, Gerusalemme. Ebreo ortodosso in preghiera al Muro del Pianto
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ne erano, in realtà, due cilindri cavi, realizzati con una lamina di bronzo dello spessore di quattro dita. Su ognuna di esse era un capitello ornato di file di melagrane e da una rete con fregi e festoni. La colonna di destra era chiamata Yakin, quella di sinistra Boaz. Colonne simili, una con capitello dorico e l’altra con capitello ionico, segnate rispettivamente con la lettera B e con la Y si trovano nelle Logge massoniche, appena varcata la soglia. Il nome e la funzione delle due colonne di Salomone sono stati oggetto di svariate congetture. Secondo B.R.Y. Scott le lettere B e Y sono le iniziali delle prime parole di un testo oracolare. Per De Vaux, i due nomi in oggetto, di forma fenicia, significherebbero “è solido”, “è forte”; analoga è la lettura proposta da E. Dorme, con le formule “Dio rende solido”, “Dio rende forte”. Quanto al valore simbolico delle colonne tortili, vi è chi pensa alla vite o all’albero della vita, al serpente (il Peccato Originale o il serpente di bronzo di Mosè). Secondo de Champeaux e Stercks, esse rispondono ad un preciso simbolismo cosmico che si spiega ricordando l’antico rito dell’osservazione del corso del sole. L’osservatore si poneva nel luogo sacro, su un sedile dalla posizione invariabile e seguiva il cammino del sole tra i due limiti estremi costituiti dai solstizi d’inverno e d’estate. Questi erano indicati da due pali o, in alcuni templi, da due colonne. Alcuni studiosi pensano che da queste derivino sia l’arco trionfale (porta del Sole), sia l’uso di inquadrare la facciata delle chiese con due campanili.
per il culto, entrambi in legno di cedro rivestito in lamine d’oro: l’altare per l’incenso e la tavola delle offerte sulla quale sono posti, in due pile di eguale altezza, 12 pani detti “pani della preposizione”. Essi vengono preparati per Iahvé dai sacerdoti, ogni settimana. Ogni sabato i pani vengono sostituiti e i
Planimetria del Tempio e decorazione interna Il primo ambiente dell’edificio, il vestibolo o elam, presenta nella parete di fondo una grande porta (larga circa 5 mt.) di legno di olivo e cipresso, i cui rilievi ornamentali rappresentano cherubini, palme e ghirlande floreali. Attraverso questa porta si accede al Santo (heikhal), una vasta sala con pavimento in legno di ginepro e soffitto con travi di cedro. Le pareti sono rivestite anch’esse da pannelli lignei con rilievi analoghi a quelli del vestibolo (cherubini, elementi vegetali) arricchiti da lamine d’oro. Qui sono due oggetti
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sacerdoti consumano insieme per i pani vecchi. Ai lati dell’altare dell’incenso sono collocati strumenti per il culto tutti d’oro e ardono 10 candelabri a sette bracci. In fondo alla sala del Santo, una breve gradinata conduce ad una porta larga circa 3 metri; lo stipite, in legno di ulivo, ha cinque angoli uguali e riproduce un pentagramma, figura perfetta nella definizione della Sezione Aurea.
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Oltre questa porta è il devir, il Santissimo o Santo dei Santi, una cella priva di finestre – le altre parti del tempio erano dotate di finestre a grata – rivestita di assi di cedro ornate con lamine d’oro. Qui entra, una sola volta l’anno (yom ha-kippurim) il Sommo sacerdote. Protetta da un velo di lino vi è l’Arca
Infine, l’intero edificio templare era circondato su tre lati da stanzette disposte su tre piani, adibite ad abitazione dei sacerdoti. Lo spiazzo antistante il Tempio era protetto da un muro e destinato ai pellegrini. Al suo centro, ove doveva poi sorgere la musulmana Cupola della Roccia, si innalzava l’altare degli olocausti, descritto nel Libro di Ezechiele come una piccola ziqqurat a tre terrazze digradanti. A sud-est del Tempio era posto il cosiddetto Mare di Bronzo, un enorme bacile (diametro di 5 mt. e altezza di mt. 2,5) che presentava sul bordo una graduazione decimale. Questa particolarità ha fatto pensare che si tratti di un osservatorio astrale. La rotazione della volta celeProtetta da un velo ste si può osservare ponendi lino vi è l'Arca dosi in modo che la stella dell'Alleanza, fra polare si trovi al centro della vasca. Al di là di ogni ipotesi, due cherubini è certo che l’acqua del bacirivestiti d'oro. no di bronzo servisse alle Il Santissimo era abluzioni. La ricchezza e la qualità dei un volume cubico materiali, la figura ricorrente perfetto. del cherubino, che ricorda i Il quadrato, per la geni alati della tradizione sua simmetria e mesopotamica, la stessa planimetria del tempio, fanno regolarità, pensare ad un’opera di sinè assunto a cretismo nella quale conversimbolo del cosmo gono influenze babilonesi, fenicie e cipriote. e i suoi angoli Cosa rimane del Tempio e rappresentano delle sue decorazioni? i quattro elementi Praticamente nulla. Nel Dicembre 2004, una commissione di esperti ha concluso che la raffinata melagrana d’avorio esposta dal 1988 nel Museo Israel quale Israele, unico, prezioso reperto del tempio salomo- Gerusalemme. Modello in scala nico è in realtà un falso. del grande L’oggetto è ricavato da un dente di ippopo- Tempio di tamo molto più antico del tempio, mentre Salomone l’iscrizione in lettere paleo-ebraiche sarebbe recente. La lettura proposta da A. Lemaire – donazione sacra ai sacerdoti della Casa di Dio – aveva fatto supporre che si trattasse dell’estremità di uno scettro. Del Tempio non restano che la testimonianza letteraria e il mito. 2
dell’Alleanza, fra due cherubini di legno rivestito d’oro. Il Santissimo era un volume cubico perfetto. Il quadrato, per la sua simmetria e regolarità, è assunto a simbolo del cosmo e i suoi angoli rappresentano i quattro elementi. Nella visione di Ezechiele, la Gerusalemme Celeste ha forma quadrata e planimetrie fondate sul quadrato e i suoi multipli ricorrono, come vedremo, nell’arte romanica e gotica.
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La Sinagoga L’arte ebraica appare fortemente condizionata dalle norme bibliche e rabbinche. Il secondo comandamento (Esodo, XX, 4-5) proibisce di fare scultura o immagini di cosa che sta nel cielo, sulla terra o nell’acqua al di sotto della terra; il divieto viene ribadito in Deuteronomio IV, 16 e XXVII, 15 dove l’uomo che abbia fatto immagine scolpita o fusa viene solennemente maledetto. Queste restrizioni trovavano una giustificazione nella volontà di impedire qualunque forma di idolatria. La Bibbia, inoltre, non fa cenno ad alcuna costruzione eretta a scopo di culto, dal tempo di Adamo a La porta centrale, quello di Salomone. Il primo luogo sacro che si riscontra più alta, era nella storia ebraica fu un non sormontata da una luogo, dato il carattere nomagrande finestra de degli ebrei durante il periodo dei patriarchi, come semicircolare e da durante le loro migrazioni una finestra più nel deserto. Si tratta del piccola affiancata Mishkan – il Tabernacolo – consistente in una tenda da colonnette e fatta con teli di lino e pelli di curvatura in alto a capra, circondata da assi di conchiglia legno. Questa semplice struttura conteneva tutti gli strumenti necessari per il culto – primo fra tutti, l’Arca Santa – acquistando e Le Tavole perdendo sacralità nel momento stesso in della Legge cui veniva eretta e smontata. Dopo il 1000 a.C., le prime significative strutture architettoniche adibite a luogo sacro sono il tempio di Salomone e il palazzo di Erode a Gerusalemme. Ma soltanto dal II sec. D.C. è possibile incontrare il principale monumento dell’arte ebraica: la sinagoga. L’istituzione della sinagoga è da porre, secondo la maggior parte degli studiosi, o nel periodo della cattività babilonese, seguito alla distruzione del Tempio ad opera di Nabucodonosor o dopo il ritorno dall’esilio per volere di Ezrà e Nehemià. Il termine sinagoga è parola greca che traduce l’ebraico “casa delle assemblee” ad indicare non tanto il luogo dove queste si tengo3
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no, quanto la comunità stessa. Fin dalle origini, infatti, la sinagoga ha avuto tre funzioni essenziali, che ha mantenuto nel tempo: casa di riunione e di preghiera, nella quale ogni ebreo prega o segue il cantore officiante (chazan); casa di studio, in cui riunirsi per studiare sotto la guida di un rabbino, maestro e guida spirituale della comunità; casa sociale, centro della vita quotidiana, spesso con attività di tipo commerciale. Inizialmente edificate in pietra, le sinagoghe si ispiravano a modelli templari del Vicino Oriente rielaborando, soprattutto, la planimetria della basilica ellenistico-romana. La facciata, rivolta verso Gerusalemme, presentava un triplice ingresso. La porta centrale, più alta, era sormontata da una grande finestra semicircolare con sopra una finestra più piccola affiancata da colonnette e curvatura in alto a conchiglia. La pianta di queste sinagoghe prevedeva una navata mediana e altre due laterali, oltre ad un vano trasversale alle tre navate. Alcuni studiosi distinguono tre tipologie fondamentali: il tipo detto galilea, a pianta rettangolare, con la facciata sempre coincidente con uno dei lati brevi, rivolta verso Gerusalemme. Sulla facciata ci sono tre porte, coincidenti con le tre navate in cui è divisa all’interno; il tetto è a doppi spiovente. La sua ubicazione solitamente è nel punto più alto dell’abitato o presso il mare o lungo un corso d’acqua; il tipo detto broad house, a pianta rettangolare, con il lato lungo di fondo rivolto sempre verso Gerusalemme e l’ingresso coincidente con l’opposto lato lungo o con uno dei lati brevi; il tipo detto basilicale, a pianta rettangolare, caratterizzato da un atrio con pozzo e nartece e diviso in tre navate. Nelle antiche sinagoghe il tetto era sostenuto da colonne, solitamente di ordine corinzio, poste su alti piedistalli. Tutt’intorno alla navata o al vano principale, in alto, correva una balconata probabilmente riservata alle donne. Era questa la parte dove si riscontrava una decorazione architettonica più elaborata in contrasto con la semplicità dell’ambiente principale, che conteneva una serie di panche disposte lungo le nude pareti. Oltre
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a motivi geometrici e floreali vi appaiono anche simboli magici quale l’esagramma e il pentagramma. I simboli sacri non sono molto frequenti: compaiono però il candelabro a sette bracci e l’Arca della Legge, davanti alla quale stava acceso un lume perpetuo (Ner Thamid). Non mancano – evidente indizio delle influenze classiche e di altri ambiti religiosi – immagini a rilievo di aquile, ippocampi, grifi e perfino angeli, nell’aspetto di vittorie alate. La relativa libertà artistica che si riscontra nel gruppo più antico delle sinagoghe della Galilea si giustifica con il diminuire del pericolo di idolatria, ma anche con l’in-
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tensificarsi dei contatti del mondo ebraico laico con la cultura ellenistico-romana: una breve parentesi alla quale successe una severa iconoclastia. Tra il IV e il V secolo è da collocare la definitiva affermazione del tipo basilicale. Le sinagoghe più antiche avevano la facciata rivolta verso Gerusalemme, ma questo costringeva i fedeli a volgersi in quella direzione prima della preghiera, perciò si preferì adottare, dopo una lunga sperimentazione, una pianta a tre navate che si cocludeva in un’abside rivolta verso Gerusalemme. I secoli tra l’età tardoantica e l’Alto Medioevo
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registrano la comparsa di ricchi pavimenti a mosaico e di affreschi con scene bibliche. Questi affreschi, nei quali domina la figura umana, sembrano anticipare alcuni aspetti dell’arte bizantina e rielaborare tratti caratteristici della tradizione mediorientale come le cornici di quadratura, l’assenza di prospettiva, la continuità ininterrotta del racconto figurato. L’arredamento dell’aula sinagogale si risolveva – e si risolve tuttora – in pochi elementi essenziali, in ossequio alle direttive religiose. Vi ricorre la Bimah, l’ambone per la lettura; l’Aròn o Arca Santa, nella quale sono conservati i rotoli della Torah – la Legge di Mosè – cioè i cinque testi riconosciuti dagli ebrei (Genesi, Esodo, Levitino, Numeri e Deuteronomio); l’indice per leggere, poiché la Scrittura non può essere contaminata dalla mano umana.
La Sinagoga di Roma Nel II secolo a.C., una delegazione ebraica giunse a Roma per chiedere al Senato sostegno contro i soprusi di Antioco IV Epifanie, che aveva saccheggiato il Tempio. Ben presto, richiamati dal carattere cosmopolita e dalle possibilità di commercio di Roma, gli ebrei si stabilirono nella zona del Trastevere. La comunità ebraica romana, dunque, può essere considerata la più antica d’Europa e venne accresciuta dal gran numero di schiavi condotti a Roma da Tito, in seguito alla conquista di Gerusalemme (71 d.C.) e per effetto della diaspora. Il clima di tolleranza religiosa garantito dall’impero romano non portò mai a persecuzioni: gli ebrei erano integrati nel tessuto sociale romano. La Chiesa, invece, impose la separazione degli ebrei dal resto della popolazione, imponendo loro – nel 1215 - di indossare un segno di riconoscimento. Nel 1555, durante la Controriforma, Paolo IV impose l’istituzione di un ghetto in ogni città (sembra che il più antico sia quello di Venezia), nel quale rinchiudere gli ebrei, accusati di deicidio. Questa terribile accusa è decaduta solo nel 1963, grazie all’Enciclica di Giovanni XXIII Nostra Aetate. A Roma il ghetto, malsano e spesso allagato
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per le esondazioni del Tevere, era cinto da mura dotate di 5 porte. Di giorno, a cancelli aperti, gli ebrei uscivano dal ghetto per svolgere le uniche due attività consentite loro: la raccolta e la rivendita di stracci e il prestito ad usura, severamente proibito ai cristiani. Il ghetto venne demolito nel 1870, come conseguenza della fine del potere temporale della Chiesa e della raggiunta unità d’Italia. La distruzione fu totale, soprattutto per ragioni igieniche, e vennero edificati quattro blocchi abitativi tuttora esistenti, ai quali appartiene anche la sinagoga. L’attuale sinagoga, o Tempio Maggiore, nasce da un progetto di Vincenzo Costa ed Osvaldo Armanni, gli architetti che vinsero il concorso bandito dall’Università Israelitica, committente dell’opera. Infatti, pur non proponendo un edificio di alto valore formale, il progetto piacque perché rispettava il budget di spesa prefissato e garantiva un buon livello esecutivo ed un linguaggio architettonico pacato. Esteriormente, la Sinagoga appare come una costruzione semplice ma equilibrata, che trova nelle decorazioni dell’interno il suo maggior pregio. Dell’apparato decorativo si occuparono Annibale Brugnoli e Domenico Bruschi, due pittori di un certo valore. Un ruolo importante nella definizione dello spazio architettonico è rivestito dalla luce e valorizzato dal maestro delle vetrate, Cesare Picchiarini, che si è misurato con due difficoltà: dare luce ad un edificio dai contorni secchi e squadrati ed obbedire alla rigida norma religiosa che vietava alcune raffigurazioni. Per quanto riguarda la collocazione del Tempio, bisogna ricordare che in un primo momento esso doveva sorgere vicino all’edificio delle Cinque Scole (cinque sinagoghe, tre delle quali di rito sefardita – cioè spagnolo – e due di rito italiano). In un secondo tempo fu scelta un’area affacciata direttamente sul Lungotevere: il vantaggio di questa ubicazione è che, avendo il fronte completamente libero, il Tempio acquista in monumentalità e si rapporta meglio al resto della città; è certamente uno svantaggio, invece, che la Sinagoga – cuore ideale del Ghetto – ne risulti quasi estranea e sicuramente decentrata.
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REALIZZARE LA PACE ATTRAVERSO LE DIVERSITÀ
Enzo Cursio Componente Consulta delle Religioni Comune di Roma
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oma, un territorio delimitato, unico, diverso dallo spazio circostante, che si chiude al resto del mondo ma, contemporaneamente, lo riconosce come altro da sé. E al suo interno tante differenze, tante identità. Per la nostra città non esistono percorsi di lettura preferenziale: per ognuno i luoghi e le persone si caricano di significati diversi, in base al proprio visLe persone suto, alla propria esperienza, comuni vivono alla propria fede. Così da duequotidianamente mila anni, così oggi. È un tra un conflitto e miscuglio di differenze, confini, identità. Al suo interno è l'altro come in un possibile stabilire le proprie torrente in piena. regole, le regole che caratteL'unico modo per rizzano il noi rispetto agli altri. È una città dove la separazioarrestare questo ne può correre lungo la scia di ciclo è che esse un profumo, un odore caratpossano teristico di una città multietnica, dove i confini tra i quartiemanifestare la ri si costruiscono su quei marpropria umanità gini evanescenti. Ma è anche una città dove il pericolo corre attraverso la percezione che la città stessa è questa e il diverso che abita accanto a noi è altro da sé. La Roma del futuro non può essere città se non rende visibili i luoghi delle differenze. In una città dove antiche fedi e nuove culture coesistono e rendono ad essa nuovi colori,
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non possiamo prescindere dal simbolo del luogo dove la fede si fa preghiera: i templi, le chiese, i centri culturali. Già, perché per esempio su quasi 212 mila immigrati cristiani, la metà è cattolica (oltre 106 mila); l’altra metà è composta da protestanti (19.00) e ortodossi (82.00) e la Roma città multiculturale e multireligiosa ha ormai luoghi di preghiera e punti di aggregazione sparsi in ogni quartiere. Molti di questi luoghi sono ormai un esempio della
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nuova architettura della città, basti pensare alla Grande Moschea e alla Sinagoga; molti altri sono ancora l’esempio di una fede vissuta nella precarietà delle fragili relazioni di quartiere. Numerose ancora sono le comunità cristiane, buddhiste, induiste, costrette a vivere la propria fede in strutture di fortuna. Desidero ricordare le tettoie in metallo della comunità Sikh dove, per partecipare ai riti, centinaia di persone si ammucchiano ogni fine settimana o altre ancora che, per costruire il proprio centro o tempio, aspettano da più di dieci anni di sfuggire alla morsa di quella burocrazia che non dà scampo o diritto.
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fedi, il seme di una città del dialogo. È vero, lo spazio della fede è dentro di noi, ma affinché questo spazio interiore diventi azione per assicurare un mondo più pacifico, deve necessariamente diventare spazio di condivisione, il luogo dove le differenze si inconLo spazio per la trano e diventano risorse preghiera non è per la comunità. Ed ecco che il luogo del culto solo rifugio: è il diventa il luogo del cuore, luogo per ritrovare per parafrasare Giovanni le proprie forze Paolo II. “È il cuore che prega. È il luogo della decisione, che e per riconoscere sta nel più profondo delle tutto il potenziale nostre facoltà psichiche. È il che possediamo luogo della verità, là dove scegliamo la vita o la morte. È come esseri umani il luogo dell’incontro poiché, ad immagine di Dio, viviamo in relazione: è il luogo dell’alleanza”. Realizzare la Pace vuol dire creare innanzitutto una città pacifica in cui la gente goda di felicità e sicurezza ed abbia la possibilità di sviluppare la propria umanità. Le persone comuni vivono quotidianamente tra un conflitto e l’altro come in un torrente in piena. L’unico modo per arrestare questo ciclo è che esse possano manifestare la propria umanità. Lo spazio per la preghiera non è solo rifugio: è il luogo per ritrovare le proprie forze, per riconoscere tutto il potenziale che possediamo come essere umani. Permettere ciò significa fare un passo in più verso una società pacifica e coesa. “Poiché vi è questo, quello viene ad esistere. Dall’apparire di questo viene quello; se questo è assente, quello non è; cessato quello, questo cessa”. Questa lapidaria espressione contenu- Roma. ta nel Samyuttanikaya è una delle più antiche Il Colosseo formulazioni di un concetto fondamentale della filosofia buddista: l’interdipendenza di tutti i fenomeni. Nessun essere o fenomeno esiste separatamente, ma solo grazie alla relazione con tutti gli altri esseri e fenomeni. Di solito esiste un io che si considera separato dal suo ambiente, quasi come se le cose che lo circondano e che accadono nella propria quotidianità non influissero sulla propria esistenza. Abitare e decidere di Roma con gli occhi della interdipendenza è un’opportunità unica per rinnovarla insieme. 1
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Ma se Roma è città delle differenze, gli edifici e la stessa struttura architettonica dei quartieri devono necessariamente rivelare i luoghi del cambiamento, della possibilità. Solo così, in un certo senso, l’architettura diventa la forza delle comunità che vivono la città. In questo quadro, tutto assume il ruolo di un simbolo. Una piazza nuova come luogo di aggregazione sociale, una nuova torre o una cupola che svettano nel cielo a significare le
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SPAZIO SACRO, LUOGHI SANTI E IDENTITÀ COLLETTIVA A GERUSALEMME
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Enrico Molinaro Consulente presso il Comune di Roma
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Cerimonia notturna.
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Israele, Cerimonia Gerusalemme. notturna. La Cupola della Roccia
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a questione identitaria è oggi di grande rilevanza e può essere considerata da molteplici punti di vista: giuridico, sociologico, psicologico, antropologico, storico, economico, filosofico, politico e religioso. L’identità è la percezione di noi stessi e degli altri sulla base di miti e modelli emblematici che ci rappresentano il mondo dal momento della nascita. In passato tribù, famiglie allargate o clan costituivano la forma più diffusa di interazione sociale e di organizzazione dell’identità collettiva. Questi gruppi si sviluppavano in modo spontaneo e relativamente poco strutturato. I membri si sentivano accettati incondizionatamente dal gruppo e la sanzione più temuta era l’emarginazione sociale. Nelle piccole comunità tradizionali, caratterizzate da un’esperienza millenaria di adattamento armonico all’ambiente e da una partecipazione attiva alla pratica quotidiana di relazioni intime e dirette - definite ortoprassiche - ci si può confrontare con la realtà concreta del comportamento altrui ed identificare l’interlocutore come individuo unico e atipico. La completa condivisione rituale della vita del gruppo in tutti i suoi aspetti principali e l’appartenenza per nascita ad un contesto etno-linguistico omogeneo facilitano la conservazione di una specifica identità collettiva, anche a prescindere da eventuali difformità di opinione. Fino all’antichità classica, l’identità del gruppo etno-linguistico – definito in greco ethnos e in latino natio – determinava i confini socio-politici. L’Impero Romano, esteso geograficamente alla maggior parte dell’Europa centro-occidentale e del Mediterraneo, esercitava su alcuni dei suoi soggetti un’autorità soltanto indiretta, utilizzando una combinazione relativamente equilibra-
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ta e dinamica di due criteri per delimitare la competenza del potere di governo: territoriale e personale. Ciò permetteva lo sviluppo di diverse forme di autonomia, in particolare nella sfera giurisdizionale. Il sistema amministrativo adottato in Medio Oriente dalle autorità ottomane - conosciuto con il termine turco Millet - continuò a garantire come quello romano un’ampia sfera di auto-governo a ciascuna delle distinte comunità etno-culturali consolidate e riconosciute residenti nell’area, consentendo la conservazione di multiformi identità collettive. Le comunità non islamiche dovevano pagare le tasse per tutto ciò che riguardava la sfera di competenza imperiale, ma conservavano un’ampia autonomia giurisdizionale, fiscale ed amministrativa, in particolare in materia di culto, organizzazione religiosa, istruzione e statuto personale, nonostante il verificarsi di fenomeni di discriminazione e talvolta anche di persecuzione. Poiché le norme del Corano sono applicabili solo all’interno della comunità islamica, i membri delle altre comunità presenti sul territorio dell’Impero Ottomano avevano il L'autodefinizione diritto - a meno che non si collettiva è fossero convertiti all’Islam - di condizionata da conservare la legislazione categorie della comunità originaria di appartenenza. In particolare, interpretative le autorità ottomane riconoculturali che scevano alle comunità cristiacostituiscono il ne ed ebraiche sotto il loro controllo il titolo di Dhimmi o nostro bagaglio di protetti, in quanto ‘popoli del generalizzazioni, libro’, in conformità alla tradietichette e zione consolidata in precedenza e condizionatamente stereotipi, che al rispetto del buon costume possono rivelarsi e dell’ordine pubblico. falsi e fuorvianti In questo contesto, l’esperienza dell’Impero Romano nel disciplinare i rapporti giuridici caratterizzati da elementi di estraneità - come la cittadinanza di una delle parti della controversia - aveva influenzato la stipulazione di accordi speciali noti come Capitolazioni, che applicavano la cosiddetta extraterritorialità, una sorta di finzione giuridica in virtù della quale ogni occidentale
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residente nel territorio ottomano era trattato come se si fosse trovato nello Stato di cui era cittadino. A partire dal Medio Evo, invece, i politici occidentali si distaccarono dalla flessibilità dei criteri di governo applicati nell’antichità. Di conseguenza, nel mondo occidentale contemporaneo il senso di appartenenza collettiva è gradualmente diventato sempre più fragile e insicuro. Le identità collettive costruite artificialmente si basano su una definizione radicale dell’identità dell’altro quale nemico che minaccia la sicurezza del gruppo cui siamo affiliati, sull’individuazione di un’inimicizia reale o fittizia che genera attraverso una sorta di dipendenza reciproca - un’ombra di diffidenza ed un confine netto e apparentemente insormontabile tra un inside e un outside. L’autodefinizione collettiva, che ci differenzia dagli altri gruppi, è condizionata da categorie interpretative culturali che costituiscono il nostro bagaglio di generalizzazioni, etichette e stereotipi, che possono rivelarsi falsi e fuorvianti. L’identificazione forzata dei modelli occidentali moderni ad una realtà sempre complessa e dinamica crea dei veri e propri miti ingannatori. L’opposizione dialettica tra questi modelli di identità è evidenziata anche dalla diffusione - generata ed alimentata da centri di ricerca, media e intellettuali soprattutto occidentali - di notizie contrastanti sponsorizzate da due opposte interpretazioni della controversia su Gerusalemme ed i suoi Luoghi Santi. I sostenitori del modello statale-nazionale su base territoriale - introdotto nel Medio Oriente e nel Mediterraneo in seguito alle guerre napoleoniche - tendono a sottolineare il fatto che israeliani e palestinesi considerano la città come capitale dei rispettivi Stati nazionali e fulcro delle rivendicazioni territoriali sul suolo sacro della patria. Questo modello Stato-centrico enfatizza l’originalità dell’identità statale-nazionale come fattore unificante di comunità etnoterritoriali omogenee composte da cittadini organizzati in Stati-nazione, separati tra loro da rigide e potenzialmente invalicabili frontiere, intese nell’accezione giuridico-geografica e fisica del termine.
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Israele, Gerusalemme. Militare israeliano prega lungo il Muro occidentale 4
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Al contrario, i fautori del modello globalesovranazionale su base personale – diffuso nell’area con l’influenza economica e culturale anglosassone - enfatizzano l’immagine di Gerusalemme e dei suoi Luoghi Santi come “spazio sacro” soprattutto in senso virtuale, centro dei valori spirituali e religiosi per le comunità di cristiani, ebrei e musulmani sparsi in tutto il mondo. Per questo 146
modello centrifugo-globale il confine identitario della comunità è meramente ideale, in quanto basato su valori e ideologie transterritoriali astratte, definite come frontiere interne conoscitive. Il conflitto identitario descritto può essere colto attraverso i molteplici riflessi dei due principali significati attribuiti ad un’espressione di origine latina - lo status quo - in | Conoscersi e Convivere | ottobre 2007 |
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Status Quo nei Luoghi Santi in senso stretto L’espressione latina - scritta con le iniziali in maiuscolo - si riferisce qui al regime giuridico temporaneo, applicabile alle contrastanti rivendicazioni sui rispettivi diritti ed interessi nei più importanti luoghi di culto nell’area di Gerusalemme, inclusa Betlemme. L’insieme coerente ed organizzato delle norme strumentali dello status quo - cristallizzato durante l’Impero ottomano (1517-1917) e durante l’amministrazione ed il Mandato britannico nell’area (1917-1948) esteso dalle relazioni inter-cristiane anche a quelle ebraico-islamiche - costituisce un sistema giuridico a sé. I sostenitori del citato modello globale-sovranazionale estendono le controversie concernenti tipo di status quo alle comunità religiose su scala globale, evidenziando così la dimensione spirituale di questi luoghi.
Status Quo politico-territoriale Definisce l’equilibrio dei poteri a Gerusalemme tra arabi e israeliani dal 1967, in attesa che le parti del negoziato trovino una soluzione permanente sul conflitto territoriale relativo all’amministrazione della città. Questo tipo di status quo - scritto con le iniziali in minuscolo - caratterizza le relazioni tra i due rispettivi gruppi etnici: israeliani e palestinesi. Le corrispondenti leadership orientate in senso statale-nazionale enfatizzano la dimensione materiale e territoriale della controversia su questi luoghi, al fine di definirne un confine permanente di separazione fisica e di appartenenza tra le rispettive comunità di cittadini. 5
relazione a Gerusalemme, che rappresenta così il traguardo simbolico della competizione tra i citati modelli di identità collettiva, utilizzati da due corrispondenti elite occidentali per legittimare il loro rispettivo potere. I due significati di status quo si riferiscono alle relazioni fra due differenti tipi di gruppi e ai corrispondenti modelli di identità collettiva: | Conoscersi e Convivere | ottobre 2007 |
Per superare la presente impasse i protagonisti dei futuri auspicati negoziati di pace sullo status di Gerusalemme potrebbero considerare nuove opzioni flessibili per raggiungere accordi provvisori, idonei a rappresentare – più dei modelli astratti manipolati da interessati leader occidentali - il continuo sovrapporsi dei diversi gruppi identitari nella complessa e dinamica realtà quotidiana.
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Israele, Gerusalemme. Il Muro occidentale, lungo 67 m. e alto 18 m.
L’autore ringrazia i membri dell’associazione “Prospettive Mediterranee”, in particolare Elena Marinelli, Federica Parasiliti e Lucia Russo
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Quando i nonni dei nonni andavano alle scole Piero Di Nepi Vicepreside e insegnante di Lettere presso il Liceo ebraico “Renzo Levi”
La Torà precede la creazione: ma questa crediamo sia semplicemente una metafora per tentare una spiegazione di quanto ci è stato prescritto, ovvero di considerare eterna e immutabile soltanto la Torà
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questa storia si darà inizio parlando d'altro e prendendola molto alla lontana… Altrimenti non sarebbe una storia ebraica e di ebrei. Di ebrei romani, per giunta: ovvero, con qualche presunzione e un po' d'arroganza, il nocciolo duro e vero della romanità de Roma, nonché la quintessenza di un certo modo di essere ebrei. Quale modo, poi, lo sa bene chi conosce la città e il suo piccolo mondo ebraico. E così, sempre, si sono trasformati in romani veraci anche i molti, tanti, rifugiati ebrei accolti e raccolti nel corso dei secoli dalla Comunità di Roma (un tempo Università Israelitica). Sia dunque lecito sperare che alla fine, anche il più ignaro dei lettori, riesca a porsi qualche domanda in più, perché come ormai sanno tutti, “le domande sono più importanti delle risposte”.
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Per ragionare su cosa rappresenti per un ebreo il luogo della preghiera, degli incontri e della custodia del sacro Rotolo della Legge (il Sefer Torà, plurale Sefarim) racconteremo in forma di dialogo il confronto di due personaggi tipici. Li chiameremo Alberto e Davide, ovvero Devid in tempi di anglofonia. Dovremo inoltre necessariamente ricordare i trisavoli Isacco e Pellegrino. Comparirà, infine, un terzo interlocutore, forse più importante soltanto perché ha studiato di più. Si andava dunque a Scola, al tempo di Isacco e Pellegrino. Ed anche all'Est tutti gli ebrei andavano alla Schule. Nessuno a Roma o a Venezia, infatti, si sarebbe neppure sognato di chiamare Sinagoga il luogo dove si va a studiare, a meldare (pregare), a incontrare tutVista dalla lanterna ti gli altri e madi qualunque gari anche a combinare chiesa barocca, matrimoni e quella cupola è in affari: il luogo, bella mostra e insomma, che oggi e fin dai sullo sfondo c'è il tempi dell'eCupolone mancipazione michelangiolesco e della fine dei di S. Pietro ghetti tutti in Italia chiamano “Tempio”. Isacco e Pellegrino di Scole per pregare, studiare e conservare i Sefarim ne avevano ben cinque e certamente non si ponevano troppe domande. Si nasceva e si restava ebrei ed era giusto così, e a qualche Papa Re gli si voleva anche bene... Ma tutto sommato il Papa poteva accontentarsi di stare come un Papa (appunto) e non c'era davvero bisogno di farlo anco-
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ra più felice con qualche battesimo di neofita, magari proprio a Santa Maria del Pianto o a Sant'Angelo in Pescheria. Le “Cinque Scole” erano ospitate da un unico, prezioso edificio - ricordato oggi dall'omonima piazza - che andò distrutto nell'incendio del 1893. La Comunità romana volle allora dotarsi del suo Tempio Maggiore. Chi si affaccia dalla terrazza del Gianicolo vede la caratteristica cupola a quattro spicchi del Tempio Maggiore risaltare in uno dei panorami più celebri del mondo, a poca distanza dal Vittoriano. Vista dalla lanterna di qualunque chiesa barocca, quella cupola è in bella mostra e sullo sfondo c'è il Cupolone michelangiolesco di San Pietro. Tranquilli, non è davvero un caso… Oggi (5767, e sia lode al Creatore dell'Universo) di Templi ce ne sono parecchi: in Via Cesare Balbo quello tradizionale degli ebrei dei nuovi quartieri costruiti dopo il 1870, poi lo storico Oratorio Di Castro all'Isola Tiberina (il Rabbino Panzieri, la Sua memoria sia in benedizione, pregò proprio lì durante tutti i lunghissimi giorni dell'occupazione nazista di Roma), e tutti gli altri che oggi prosperano in appartamenti, scantinati, garage e grandi sale già cinematografi: insomma, dovunque ci siano famiglie dei circa quindicimila ebrei della città. Però, davvero, è arrivato il momento di Alberto e Davide. Il cognome lo attribuirà qualsiasi lettore conosca bene Roma: Di Consiglio, Spizzichino, Pavoncello, Anticoli, Di Veroli, Sonnino... Non è importante, fate voi. Alberto e Davide hanno celebrato da poco il proprio
Bar Mizvà (maggiorità religiosa) e dunque sono - ebraicamente parlando - veri adulti con un po' di jewish culture. Se non chiacchierano troppo di programmi per computer e delle ragazze sistemate in tiro che hanno visto al Tempio il giorno prima proprio dopo il momento solenne della benedizione di Rosh ha-Shanà (Capodanno), riescono spesso a produrre ragionamenti non banali. Traduciamo dal “romanesco standard” di oggi, eliminando “tipo, busta, annamo, l'hanno steccato, bella pe' te, ma che sei scemo, falla finita”. Eccetera, et cetera. “C'è un amico mio cattolico - dice Davide (“cattolico”, nel gergo corrente, sta per “non ebreo”: ndt) che vorrebbe visitare la sinagoga…”. “Vuoi dire il Tempio grande” risponde Alberto, che frequenta un liceo classico e decide di sfoggiare qualche nozione di vera classicità filologica a beneficio dell'amico (se qualcuno dovesse sostenere che il dialogo è irreale e surreale andrà energicamente smentito: parola di traduttore, di padre, di prof.); e infatti, in greco “sinagoghé” vuol dire “congregazione”, cioè il luogo dove ci si riunisce per parlare, incontrarsi, studiare e pure pregare… Ma per i cattolici antichi “ecclesia” era l'assemblea di quelli che ci credevano - anche Davide studia, di tanto in tanto, un po' di latino e di storia in un liceo scientifico - e poi infatti si è tradotta la parola con “chiesa” …vuol dire sia “il Vaticano”, che il luogo dove loro vanno a pregare. Anche noi andiamo al Tempio per pregare e ognuno va in quello tradizionale della famiglia sua; certi quando sono
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più grandi ne scelgono un altro perché preferiscono il modo di fare le tefillòt (“liturgia”, ndt) e poi di spiegare e tenere lezione. Non è per niente strano che lo chiamiamo proprio Bet ha-Kneset, Casa di Riunione, e dunque “Ecclesia”. I primi cristiani, dice il Rav, erano tutti buoni ebrei e al Colosseo ci stavano proprio questi ebrei a farsi mangiare dai leoni… Ma proprio il Rav (rabbino, maestro) dice a tutti che va bene pregare anche a casa, però al tempio si è più di dieci persone e dunque c'è sempre “miniàn” perché se no non si può fare nulla (miniàn è il gruppo minimo di dieci ebrei adulti, con più di tredici anni di età, prescritto per ogni liturgia pubblica). Vuoi dire che il gruppo è più importante del Sefer e dei
Sefarim custoditi in tutti i posti dove si può pregare insieme secondo le regole? Da quanto ho capito, le due cose vanno strettamente collegate, ma forse il gruppo risulta in qualche modo fondamentale. Mica vorrai pensare che il Sefer conta meno delle persone? Non lo saprei dire… La Shechinà (Presenza Divina) è forte dove c'è la gente, ma il Sefer con il testo della Torà scritto a mano e secondo tutte le regole è appunto la Shechinà in questo mondo dove viviamo, e il solo possibile “prima dell'Olam Abbà” (l'Era Messianica). E allora se uno lo conoscono come davvero religioso ed osservante, “attaccato di petto” come si dice in Piazza (il Portico d'Ottavia) e tiene un Sefer a casa seguendo tutte le prescrizioni e pren-
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dendo ogni precauzione, casa sua è proprio come il Tempio? Non ci crederò mai, anche se magari tutti i Maestri - senza mancare di rispetto - fossero d'accordo. A questo punto la discussione pare più bloccata di un computer capriccioso. Alberto e Davide però si sono scambiati qualche idea - per l'appunto - presso le palme che segnano l'ingresso principale del Tempio Maggiore: come vuole la tradizione romana e dove spesso si trova callà ovvero si finisce fidanzati. E dunque non c'è nulla di strano che casualmente compaia il giovane rabbino, il Rav, che li ha preparati alla maggiorità religiosa. Raccontato il brevissimo dibattito e i problemi che ne sono usciti, la risposta (cioè la non-risposta con l'aggiunta di
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altre domande) verrà data sotto forma di midrash (racconto). Lo trascriviamo per i lettori. “Dovete sapere che l'alfabeto ebraico emerge da ogni Sefer Torà: è fuoco bianco su fuoco nero e si è formato insieme alla Creazione. Il Signore dell'Universo, dicono i Maestri, ha dato inizio alla Sua opera in questo universo, che è solo uno degli infiniti universi continuamente creati e distrutti, consultandosi con la Sua Torà. La Torà precede la Creazione: ma questa crediamo sia semplicemente una metafora per tentare una spiegazione di quanto ci è stato prescritto, ovvero di considerare eterna ed immutabile, in questo mondo nel quale viviamo, soltanto la Torà. La Schechinà è dispersa nel mondo e se ne sta raccolta nei Suoi Sefarim, quasi temesse di contaminarsi. Ne esce e risplende quando ci sono le persone, nel numero necessario e si dispiega la pergamena sul tavolo di lettura. Un Bet ha-Keneset pubblico non viene costruito in un luogo qualsiasi ed anche quelli più piccoli e quasi di fortuna li allestiamo orientandoli in un certo modo, disponendo gli oggetti e gli arredi certo non casualmente e soprattutto - se siamo attenti e bravi - prendiamo le misure cercando di ottenere dei numeri il cui valore rimandi a certi particolari versetti della Torà. In una casa privata, va tutto bene comunque. Non direi però che sia esattamente la stessa cosa. Sapete che è sempre come un gioco di specchi, e perciò quanto vi ho detto potremo definirlo provvisoriamente storia per uscire dall'obbligo della lezione. E adesso arriva la storia più acu-
ta e più arguta. Non molto tempo fa, durante la tefillà del giorno del digiuno di Yom Kippur, proprio all'ora di pranzo quando si comincia a sentire un certo appetito e c'è la pausa dedicata al ricordo di coloro che non ci sono più e se ne chiamano i nomi a decine, a centinaia, al Tempio Maggiore la Shechinà decise di uscirsene di nascosto (i Sefarim erano tutti ben chiusi nel loro Aròn ha-Khodesh, l'armadio che li custodisce) e di far visita alle donne. In tutti i templi della tradizione ortodossa le donne - per voi solo le ragazze, naturalmente - stanno separate dagli uomini: tanto poi si fanno vedere all'uscita e non mancano - neppure tra gli ortodossi più ortodossi - le sorprese piacevoli e qualche abito firmato e molto intrigante… Al Tempio grande di Roma ci sono, come tutti sanno, dei matronei veri e propri, grandi balconate a scalinata, piuttosto in alto. Quando si esce, spesso, le sorprese sono a Roma più che piacevoli ed anche le signore quarantenni non hanno paura di apparire - in qualche caso - troppo visibili. Diciamo così… Ma la Shechinà davvero non si scandalizzava. Perché avrebbe dovuto? È tutta opera Sua. Le donne, in certe comunità più o meno ritenute ortodosse, da qualche anno si lamentano e si sentono poco considerate. Non a Roma, direi. Qui le donne hanno sempre comandato parecchio e non certo nello stile della yiddish mame delle barzellette ebraiche di New York. E va bene, diciamo che in quel Kippur particolare sembravano
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più seccate di quanto sia mediamente seccata, non solo a Roma, una qualsiasi donna ebrea in un giorno di festa solenne: tanta gente da mettere a tavola la sera, i mariti che fanno sempre la spesa sbagliata, i figli maschi che ritardano e poi il dilemma ormai tradizionale: a casa o al ristorante? C'era pure … in greco una giornalisinagoghé vuol sta cattolica a dire congregazione, raccogliere cioè il luogo dove impressioni per un pezzo ci si riunisce per di colore sul parlare, incontrarsi, proprio giorstudiare e pure nale. La giornalista stava pregare parlottando con una ragazza, una giovane mamma ben conosciuta nell'ambiente. In cronaca, il giorno dopo, avrebbe riportato la battuta: al Tempio Maggiore, e in quello di Via Balbo, le donne stanno piuttosto in alto perché è dall'alto che si tirano i fili. Anche la Presenza, simbolicamente s'intende, dovette sorridere: e non perché considerasse marionette devotissimi ebrei romani. La verità è che non ci sarebbe il Talmud, e neppure la Mishnà e nessuno potrebbe far funzionare nessun Tempio, se non ci fosse una donna ebrea che tiene d'occhio e fa funzionare case e situazioni. Comunque, in ebraico, la parola Torà è di genere femminile”. Chi ha scritto queste pagine è noto per spiegare raccontando e divagando, anche perché gli piace molto sentirsi parlare… Un difetto grave. Siate buoni e perdonatelo, se potete.
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Il racconto di chi, nei giorni di cammino per il pellegrinaggio a Mecca, sottolinea la particolarità di un viaggio che non si conclude portando a termine un itinerario geografico, ma continua attraverso racconti capaci di alimentare desideri e speranze in chi li ascolta
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abbayKa Allahumma labbayKa. LabbayKa la sharik laKa labbayKa. Inna al-hamd wa al-niYma laKa, wa al-mulk, la sharik laKa”. “Eccomi a Te mio Dio, eccomi a Te. Eccomi a Te, Tu non hai alcun socio, eccomi a Te. A Te la lode, la grazia ed il regno, Tu non hai alcun socio”. Sono queste le parole che ogni musulmano si augura e fortemente desidera pronunziare almeno una volta nella vita, in vista della nobile città di Mecca, Madre delle Città, accingendosi a compiere i riti del Hajj, il Pellegrinaggio, immutati da quindici secoli, in un profondo senso di continuità della storia, oltre che di fede, insieme con altri milioni di suoi fratelli, dimentico di ogni differenza di razza, di lingua, di censo e con il solo anelito di adempiere al più agognato tra i Pilastri dell’Islam. Compiere il Pellegrinaggio è un insieme indescrivibile di sensazioni, sentimenti ed emozioni che ricongiungono definitivamente il pellegrino in primo luogo a Dio, ma che contribuiscono anche a rafforzare il suo senso di identità e lo ricollegano idealmente alle origini di una vicenda umana e religiosa che vede in Adamo, in Abramo e in Muhammad i protagonisti.
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Infatti, i riti che saranno descritti qui di seguito trovano nei gesti compiuti da Adamo l'archetipo, che troverà poi codificazione nell'esperienza di Abramo e definitivo compimento nell'esempio del Profeta dell'Islam. Importante è anche ricordare che per ogni musulmano Mecca, insieme con la Ka'ba, traguardo ultimo del pellegrino, è soprattutto Bayt Allah, Casa di Dio e che “In verità il primo Tempio che sia stato fondato per gli uomini è, certo, quello che è in Bakka, benedetto, e Guida per tutUna volta espressa to il Creato” la ferma intenzione (Cor., 3:96). È di compiere il qui che Adamo si ritrovò pellegrinaggio, con Eva il pellegrino indossa dopo la cacl'ihram, indumento ciata dal Paradiso, in prosche segna il suo simità di ingresso in una quella piana condizione di di 'Arafa dove sacralizzazione oggi sostano in preghiera centinaia di migliaia di pellegrini. È in questa città che Iddio fece scendere per lui una tenda altre versioni dicono una casa di rubino - nello stesso luogo dove oggi sorge la Ka'ba. Questa casa prende il nome di Bayt al-Ma'mur, la “Casa Visitata” (Cf. Cor. 52:4), rappresentazione terrestre della Casa celeste, vero cordone ombelicale tra il mondo e l'empireo, che fu il primo luogo ad accogliere la Pietra Nera oggi incastonata nella Ka'ba. Attorno a questa tenda Adamo girò in processione, lasciando la prima traccia del
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tawaf, il settuplice rito della circumambulazione della Ka'ba, che ancora oggi i pellegrini compiono. Sarà il diluvio universale a portar via con sé questa tenda ed Abramo - su ordine di Dio - a costruire al suo posto la Ka'ba, insieme con suo figlio Ismaele. Recita il Corano: “E quando Abramo e Ismaele ebbero levato le fondamenta della Casa, invocaro-
no: 'Accettala da noi, o Signore! Tu che tutto ascolti e conosci!” (Cor., 2:127). E ancora: “Rammenta quando facemmo abitare Abramo nel recinto della Casa di Dio dicendogli: 'Non associarMi oggetto alcuno, ma purifica la Mia Casa per quei che l'aggirano pii, per i ritti in preghiera, per chi s'inchina e si prostra! E leva fra gli uomini voce d'invito al pellegrinag-
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gio” (Cor., 22:26-27). Ancora oggi le impronte di Abramo si conservano nel Sacro Santuario della Mecca, in un luogo noto come maqam Ibrahim, la stazione di Abramo. Recita il Corano: “Vi si trovano segni evidenti, come la stazione di Abramo, e chi v'entra è in sicurtà. E gli uomini debbono a Dio il pellegrinaggio al Tempio, quelli di coloro
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che abbian la possibilità di fare quel viaggio.” (Cor., 3:96-97). Ad Abramo risale anche la prima istituzione organizzata dei riti del pellegrinaggio, riti che si rifanno - come vedremo - anche alla storia di suo figlio Ismaele e della di lui madre Hagar. In ultimo saranno poi definitivamente codificati dal Profeta dell'Islam, il quale restituirà la Sacra Città
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al culto dell'Unico Dio. Si è detto di riti che non mutano attraverso i secoli e che hanno trovato il modello definitivo nel Profeta dell'Islam e soprattutto il loro perfezionamento nel suo ultimo pellegrinaggio noto come Hajj alWadaY, il pellegrinaggio dell'Addio. Ma quali sono le gesta che scandiscono le giornate del pellegrino? Analizziamo le principali. In primo luogo il pellegrinaggio ha un suo tempo prestabilito e se la visita al Sacro Santuario di Mecca è possibile in ogni momento dell'anno, prendendo il nome di Yumra, il pellegrinaggio ha invece cadenza annuale, nell'ultimo mese quello di dhu'l-Hijja - e si celebra a partire dall'ottavo giorno del mese sino al tredicesimo. Inoltre, come recita il Corano: “Iddio non imporrà a nessun'anima pesi più gravi di quel che possa portare.” (Cor., 2:286) e, in virtù di ciò, il pellegrinaggio è sì un dovere per ogni musulmano adulto almeno una volta nella vita, ma a condizione che egli abbia la disponibilità economica, nonché la salute, per potervi adempiere. Una volta espressa la ferma intenzione (niyya) di compiere il pellegrinaggio, elemento questo fondamentale, il pellegrino indossa l'ihram, indumento che segna il suo ingresso in una condizione di sacralizzazione e che è composto da due teli di stoffa, senza alcuna cucitura, di cui il primo copre una spalla trasversalmente e il secondo cinge i fianchi. Prima ancora che giunga l'8 del mese, vi sono due riti im-
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portanti da compiere: il primo è il tawaf, la circumambulazione per sette volte e in senso antiorario (con un moto centripeto che corrisponde anche al moto dei pianeti), della Ka'ba. Il moto centripeto sottolinea la centralità di Dio. Durante il tawaf, i fedeli possono salutare, toccare o baciare, se la vicinanza lo permette, la Pietra Nera. Questa pietra ha una particolare importanza per i musulmani ed è testimonianza superstite della Ka'ba edificata da È importante Abramo; fu ricordare che per poi il Profeta dell'Islam - alogni musulmano la l'epoca della Mecca, insieme ricostruzione con la Ka'ba, della stessa traguardo ultimo a ricollocarla in uno dei del pellegrino, suoi angoli. È è soprattutto importante riCasa di Dio cordare che la Pietra Nera non è oggetto di adorazione, rigettando l'Islam ogni forma di idolatria; la si bacia con affetto perché così fece il Profeta, commemorando in questo modo il suo esempio. Compiuto il tawaf, è l'ora del sa'i, la corsa che si compie sette volte tra la collina rocciosa di Safah e quella di Marwa, in ricordo della corsa estenuante che la madre di Ismaele, Hagar, compì nella disperata ricerca di acqua con cui dissetare il suo piccolo figlio. Recita il Corano: “I colli di Safa e di Marwa son segni di Dio, e non sarà male, per chi fa il pellegrinaggio alla Casa di Dio o la visita, di girarvi attorno” (Cor., 2.158). Fu Ismaele, bat-
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tendo il piede a terra, a far scaturire la fonte di Zamzam, ancora oggi esistente e alla quale i pellegrini si dissetano. L'ottavo giorno di dhu'l-Hijja, è tempo di spostarsi da Mecca a Mina, località ad est della Sacra Città. È consuetudine dedicare alla preghiera e alla riflessione questo tragitto. Il 9 del mese i pellegrini lasciano Mina per recarsi nella Piana di 'Arafa. Siamo al culmine del pellegrinaggio: per un intero giorno i pellegrini rimangono in piedi pregando, chiedendo perdono a Dio e invocandolo seguendo una pratica che prende il nome di wuquf. Ha detto il Profeta dell'Islam: “La migliore prece è la prece del giorno di 'Arafa. E quanto di meglio abbiam detto io e i Profeti prima di me è:
Non c'è divinità eccetto Iddio, Unico e senza pari. A Lui il Regno, a Lui la lode, ed Egli è sovra ogni cosa onnipotente”. Molti scrittori, non solo musulmani, hanno voluto vedere in questa sterminata folla di fedeli una rappresentazione di quello che sarà il Giorno del Giudizio, in cui - appunto - gli uomini si leveranno in piedi al cospetto di Dio. Vicinissimo ad 'Arafa sorge il Jabal al-Rahma, il Monte della Misericordia, particolarmente amato da ogni musulmano perché è qui, nel 632 d.C. e davanti a ben 150.000 persone, che il Profeta dell'Islam, poche settimane prima di morire, pronunciò il suo ultimo sermone durante quello che è ricordato da tutti come il Pellegrinaggio d'Addio. Ancora oggi
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ogni credente ha nel cuore e nella memoria le sue parole e qualcuna di esse ci è caro riportare qui: “O uomini, ascoltate le mie parole e fatene tesoro, poiché io non so se mi sarà concesso di potervi incontrare in questo luogo e di eseguire il pellegrinaggio, dopo quest'anno. […] Tutto il genere umano discende da Adamo e Adamo fu creato dalla polvere. […] In verità io vi lascio qualcosa che, se vi atterrete ad essa, vi impedirà di andare in perdizione: il Libro di Dio e la condotta del Suo Profeta. Satana ha ormai perduto ogni speranza di essere adorato in questa terra, però non si darà per vinto e cercherà di sedurvi, perciò state attenti a non lasciarvi sedurre da lui”. Il decimo giorno del mese di dhu'l-hijja comincia molto
presto. Già prima del levar del sole i pellegrini si sono mossi da Muzdalifa, località intermedia tra 'Arafa e Mina ed hanno fatto ritorno a quest'ultima. Raccolti alcuni sassolini, nel numero di 7, essi procedono alla lapidazione di Satana, simbolicamente rappresentato da una jamrah, una stele di pietra. Anche questo gesto è da ricollegarsi alla vicenda abramitica, allorché Abramo rifiutò la tentazione del demonio. Allo stesso modo, oggi, i fedeli fanno voto di rinunciare al male e alle sue tentazioni. Una volta compiuta la lapidazione, il ricordo di Abramo ritorna nel sacrificare un animale, la cui carne sarà destinata ai poveri. Con questo sacrificio si commemora quello che
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Abramo era disposto a compiere sacrificando il proprio figlio, in ubbidienza al comandamento divino. Vi sono tuttavia anche altre interpretazioni del gesto, come quella che vi intravede la capacità del credente di spogliarsi di tutti i suoi beni per seguire Iddio. Il giorno del Sacrificio non si celebra, a differenza degli altri riti sino qui presentati, esclusivamente nei Luoghi Santi di Mecca, ma esso unisce i musulmani di tutto il mondo in quella che è la principale festa religiosa del calendario musulmano, chiamata 'id al-Adha, la Festa del Sacrificio. La celebrazione del 'id al-Adha coincide per i pellegrini anche con la possibilità di uscire parzialmente dallo stato di sacralizzazione e dal deporre le vesti dell'ihram. Da Mina ci si sposta infine a Mecca, per un ultimo tawaf attorno alla Ka'ba. I giorni che seguono, dall'11 al 13, sono detti ayyam al-tashriq e durante quei giorni i pellegrini compiono un'ultima lapidazione di Satana ed hanno facoltà di compiere un altro sacrificio. Lasciando la Città Santa di Mecca molti di loro approfitteranno - pur non essendo obbligatorio, né una prescrizione religiosa - per visitare la Città del Profeta, Medina, dove Muhammad è sepolto. Comincerà infine il ritorno a casa, ma questa è un'altra storia, la storia personale che ogni pellegrino, assunto il titolo onorifico di Hajji, racconterà ai suoi cari, alimentando in loro il desiderio e la speranza, di poter un giorno calcare la terra dei Luoghi Santi.
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Gerusalemme. Israele, la vista dal supporto delle olive che osservano verso la Cupola della Roccia e di vecchia città walls
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Scelti e pro A cura di Marica Di Santo
FILM A partire da questo numero la rivista dedicherà uno spazio anche al cinema che “viaggia” fuori dai grandi circuiti, con l'intento di individuare registi e autori che, seppure poco conosciuti, sono capaci di regalare allo spettatore piccoli, meravigliosi capolavori. Sono stati contattati alcuni, tra i festival di cinema, che lavorano da tempo sui temi del dialogo, della convivenza, del rispetto e dell'integrazione, argomenti vicini alle tematiche della nostra rivista. Il cinema da sempre, si sa, rappresenta un ottimo veicolo di informazioni e di conoscenza, poiché in grado di favorire il confronto e la fusione tra persone e situazioni appartenenti a mondi completamente diversi mondi che, oltre alla ricerca di un sano stare insieme, abbiano in comune un sistema di valori condiviso.
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Kailash Pilgrimage to the throne of Gods di Florian Fricke & Frank Fiedler Fotografia: Frank Friedler; Musica: Popol Vuh & Tibetan Nomad Music; Produttore esecutivo: Dieter Nyc; Editing & technical realization: Digital Flavor, Munich; World distribution: Spalax Music & Video Bombay, Paris. Nel 1995 i tre amici Florian Fricke, Dieter Nyc e Frank Fiedler eseguirono la personale spedizione sul Kailash, la montagna sacra tibetana alta quasi 7000 metri, venerata da diverse religioni orientali tra cui buddisti e induisti. Il filmato dura circa un'ora ed è diviso in dieci capitoli; vengono narrati con l'ausilio unico delle immagini, delle musiche e dei suoni ripresi in quei luoghi, gli appunti di un viaggio spirituale in compagnia di molti altri pellegrini e fedeli. Si parte dalle lande dell'Ovest, steppe aride popolate da nomadi allevatori e dai loro tori; inizia da qui il viaggio oltre la civiltà alla ricerca dell'essenza più alta delle cose. Paesaggi maggiormente floridi poiché bagnati dall'acqua sono quelli che seguono il corso del fiume Brahmaputra, dalle sorgenti chiamate il giardino di Morya sino alla foce del lago Turquoise si scoprono numerose divinità incise sulla roccia. Il lago Manasarowar è riconosciuto da molti come luogo sacro, i fedeli si raccolgono in preghiera e si bagnano nelle sue acque. Tartschen è l'ultimo villaggio prima dell'ascesa finale, da qui ha inizio il circuito del rituale sacro, un percorso verso la vetta dove si formano delle processioni di genti che si
prostrano seguendo il sentiero. I luoghi sono immersi nel silenzio, ad eccezione del sibilare incessante del vento; la processione tocca i punti focali della valle degli dei fino a raggiungere un convento di monaci tibetani, qui fra le nevi e la grandine lo spirito rimane in pace e in meditazione costante. La spedizione dei tre termina al Passo della Redenzione, a quota 5636 metri. (sinossi tratta da www.enricobassi.it/popvuhfilmografia.htm) Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera di Alessandro Leone Regia: Kim Ki Duk; Nazionalità: Corea del sud/Germania; Distribuzione: Mikado Film; Anno di uscita: 2004; Soggetto e sceneggiatura: Kim Ki Duk; Fotografia: Baek Dong Hyun; Musica: Bark Jee Woong; Produzione: Korea Pictures, Pandora Film Kim Ki Duk è senz'altro un rappresentante di spicco dell'ultima generazione di registi coreani. La storia narra di un bambino che viene abbandonato neonato alle cure di un saggio eremita buddhista. Il giovane monaco vive fino alla tarda adolescenza con l'anziano maestro in una casa galleggiante al centro di un lago, nel centro di una catena montuosa che pare il centro del mondo. La scoperta dell'amore fisico con una coetanea, affidata al maestro per curare uno stato depressivo, lo porterà ad abbandonare il lago per tornare, trentenne uxoricida, braccato da due poliziotti che lo spediranno in carcere per dieci anni. Il ritorno definitivo vedrà l'uomo sostituirsi al maestro deceduto, diventare a sua volta maestro e padre “adottivo” di un neonato abbandonato dalla madre.
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proposti Le quattro stagioni dividono il film e rappresentano quattro momenti significativi della vita del giovane di cui viene rivelato il nome: bambino a sei anni (Primavera), adolescente sconvolto dalla presenza del sesso a diciotto (Estate), assassino per gelosia a trenta (Autunno), quarantenne maturo e nuovo “padrone” del lago (Inverno). La nuova primavera lo vedrà, ormai anziano, ripercorrere la strada e gli insegnamenti che furono del suo vecchio mentore. Kim Ki Duk porta nel suo cinema una nuova dimensione esistenziale. La vita come percorso iniziatici, dove il proprio essere al mondo è il racconto di ciò che siamo stati e siamo nel presente, messo al servizio di chi incrocia i nostri passi. Se l'insegnamento del maestro (in-signare, lasciare un segno) è soprattutto educare (educare, togliere) attraverso un processo di sottrazione degli impulsi distruttivi (alla lunga autodistruttivi) dell'uomo in erba, allora si giustifica la scelta di isolare alcuni momenti esemplari del rapporto maestro-discepolo, elidendo coraggiosamente tutto quel che avviene nel mondo degli “altri” uomini, al di là della porta di legno immersa nell'acqua a delimitare simbolicamente lo spazio del sacro. Le leggi che governano il tempio (casa, zattera, lago), inteso come ambiente che a tratti percepiamo chiuso, non sono diverse dall'esterno, inteso come tutto ciò che si sviluppa al di là della conca. Semplicemente sono ridotte all'essenziale. Il vecchio, nell'impartire i suoi insegnamenti, non limita mai la libertà del suo discepolo. Lo invita anzi, attraverso atti simbolici, ad una riflessione profonda che possa permettergli di comprendere se stesso e il creato come universi analoghi. Quando a Primavera il piccolo tortura un pesce, un ranocchio e una serpe, legandovi sul
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dorso un sassolino e mutando così il rapporto d'equilibrio che quelle creature avevano con il mondo, il maestro farà altrettanto con lui, invitandolo poi a liberare le sue piccole vittime. L'allegria sadica iniziale lascerà il posto alla disperazione di fronte al pesce e al serpente morti e allora il sassolino, dirà il maestro, non potrà che rimanere per sempre nel suo cuore. E proprio la pietra, elemento simbolico anche nella nostra cultura (filosofica e religiosa), pare crescere nel giovane, condizionandone le scelte di vita, verso un percorso che affonda nella materialità e rinunciando, di conseguenza, a quell'adesione partecipe a tutte le cose, che dovrebbe restituire all'uomo la propria essenza spirituale nel cammino verso la Perfezione. Eppure pare inevitabile conoscere se stessi passando come Siddharta dalle esperienze umane-troppo umane, quasi fossero il terreno fertile (e non l'abisso) su cui far germogliare i fiori migliori. Per questo bisognerà dimenticare il maestro, confutarne gli insegnamenti con pratiche di vita scellerate, arrivando ad uccidere un altro essere umano, come aveva sottratto la vita anni prima al pesce e al serpente. Solo quando il sassolino diventa un macigno, l'uomo ritrova il maestro in sé e a lui si sostituirà dopo aver scontato la pena inflittagli dalle leggi dell'uomo. Le stagioni passano, il paesaggio muta e la natura, che pare indifferente ai destini umani, è invece, in tutta la sua magnificenza, una superficie riflettente in cui l'uomo può scorgere, nell'alternarsi di vita e di morte, il significato delle proprie stagioni, il mistero dell'esistenza. (sinossi tratta da: www.cinemacoreano.it/ferro3/kim_ki_duk /primavera_estate_rec.htm)
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MEDITERRANEO VIDEO FESTIVAL V edizione Hai Mish Eishi di Alia Arasoughly, Palestina, 2001, betacam sp., colore, 42'; produzione di Alia Arasoughly Il documentario presenta i ritratti di otto donne palestinesi di diversi background sociali e religiosi. Esplora il modo in cui queste donne vivono la guerra e immaginano la pace, nella profonda intensità della realtà vissuta e dei dolori sentiti sulla propria pelle. Non si tratta di donne inusuali, donne che rivestono incarichi di leaders o donne eccezionali nel senso che viene generalmente dato dai mass media. Sono professioniste del mondo della comunicazione e del teatro, coltivatrici, donne delle pulizie, proprietarie di boutique, studentesse universitarie, adolescenti e casalinghe. Tutte parlano con passione, stupore, rabbia, indignazione… Parlano della propria identità e del senso di direzione, della voglia di vivere, della loro patria smembrata, delle famiglie decimate. Parlano di dolore e di speranza… VIII edizione Good Times - Bei tempi di Alessandro Cassigoli e Dalia Castel, Italia, 2004, Mini DV, colore, 31', v.o. ebraico, arabo, inglese, sottotitoli in italiano Abu Dis è un villaggio palestinese vicino a Gerusalemme. Nel 2002 il governo israeliano decise di costruirvi un muro che dividesse il villaggio in due parti, una delle quali divenne territorio israeliano. Pensato per bloccare i terroristi, il muro non tiene conto di coloro che vivono da una parte e lavorano dall'altra e, fallito lo scopo di impedire gli attentati, è rimasto un insormontabile ostacolo per gli spostamenti quotidiani. “Insormontabile” con i suoi due metri scarsi di altezza? Niente che una persona atletica non possa riuscire a superare; e poi i bambini passano attraverso le fessu-
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re; e le donne possono salire sulle pietre per facilitare l'arrampicata. I negozianti della zona hanno fatto amicizia con i soldati di guardia e, con alcuni di loro, si riesce anche a scherzare. Però. A volte ti lasciano scavalcare, a volte no… IX edizione Men on the Edge - Fisherman's diary di Avner Faingulernt e Macabit Abrazon, Israele, 2005, 90', v.o. ebraico-arabo, sottotitoli inglese/francese Al confine tra Gaza e Israele si estende una spiaggia isolata dove vivevano e lavoravano insieme pescatori israeliani e palestinesi. I palestinesi insegnavano agli israeliani le antiche tecniche di pesca tramandate di padre in figlio. Senza la presenza degli israeliani, non avrebbero ottenuto il permesso di pescare nelle acque israeliane. First lesson in peace di Yoram Honig, Israele, 2005, 56', v.o. ebraico, sottotitoli in inglese Il film indaga sul conflitto tra ebrei e arabi attraverso gli occhi di una bambina di sei anni, figlia del regista, quando inizia a frequentare la scuola elementare mista ebraico-araba Neveh Shalom The Oasis of Peace. La scuola, unica nel suo genere in Israele, insegna ai bambini ebrei ed arabi un modello educativo rivolto all'apprendimento condiviso. Il film, attraverso una lettera del padre Yoram indirizzata alla figlia, segue gli scontri e gli incontri che la bambina vive durante il suo primo anno nella realtà del Medio Oriente. RELIGION TODAY INTERNATIONA FESTIVAL OF CINEMA AND RELIGION V edizione To the land of bliss - La terra della beatitudine di Wen-Jie Qin, documentario, 2002 La regista ritorna in Cina, nei luoghi della sua infanzia. Qui la comunità buddhista è composta ormai solo da anziani monaci e mo-
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nache. Quando muore l'anziano capo buddhista, il problema è come comunicare la sapienza ai giovani. Questo documentario è un'indagine sulla concezione della morte e sul modo di vivere del buddhismo. VI edizione Escape accross the Himalayas - Fuga attraverso l'Himalaya di Maria Blumencron, documentario, 2000, prodotto da Tellux-Film GMBH Alcuni genitori tibetani fanno partecipare i loro figli ad una pericolosa, spesso mortale marcia attraverso l'Himalaya verso il Nepal per dare loro la possibilità di ricevere un'educazione scolastica nella propria cultura e di praticare la loro religione. La regista accompagna questo viaggio. Nasce, così, un'agghiacciante cronaca che, con l'uso di poche parole e immagini impressionanti, racconta la drammatica fuga attraverso l'Himalaya e l'arrivo al Tibetan Children Villa Dharamsala/India. IX edizione A green chariot - Il carillon verde di Gilad Goldschmidt, 2005, distribuito da Inosan Production Il desiderio più grande del ventiduenne Sasha è diventare un israeliano. È diventato religioso, ha cambiato il proprio nome in Yair e parla solo in ebraico, anche quando gli si rivolgono in russo. Si è tagliato fuori completamente dal proprio passato, inclusi padre e amici russi. Ora Yair sta per sposare la fidanzata israeliana ma, quando riceve un pacco dalla zia dall'Ucraina, il suo mondo viene sconvolto. Quello che c'è all'interno sfida tutto ciò che Yair pensa di se stesso e della persona che ha cercato di diventare. La rivelazione lo costringe ad affrontare le proprie convinzioni religiose e un viaggio a ritroso in quell'identità russa che si è sforzato di sopprimere. When all were asleep - Mentre tutti dormivano (Iran) di Fereydoon Hasanpour, 2006, distribuito da Khaneh Dopo aver aspettato per così tanti anni, Bibi
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Salimeh - la gentile ostetrica del villaggio sta per recarsi finalmente a Mecca. Tuttavia, mentre si sta preparando per la partenza e sta per salutare il villaggio, arriva la cattiva notizia: non può più partire. Nessuno vuole dare questa notizia a Bibi, nessuno eccetto Mash Karim. I ragazzi Taleb e Ghasem e le sorelle di Mash Karim decidono però di far avverare comunque il suo sogno portandola essi stessi a Mecca.
LIBRI Il Kotel. Un muro metafisico di Sebastiana Papa, Edizioni Fahrenheit 451, 72 pp. Narra una tradizione che ogni giorno, sulle rovine di Gerusalemme, una voce celeste, gemendo come una colomba, proclama: “Ahimé per i figli per i cui peccati ho distrutto il mio Santuario, ho bruciato il mio altare e ho disperso tra le genti”. Il Kotel - il cosiddetto muro del pianto - è questa rovina: è il brandello di muro che resta del Santuario di Gerusalemme; è la testimonianza dell'esilio. Sebbene non sia altro che un muro esterno del Tempio, è la memoria della dispersione non conclusa: pregare lì è porsi al di fuori dello spazio sacro, uno spazio al momento inesistente, nell'aspirazione metastorica di entrarvi. È contemporaneamente e paradossalmente essere dentro e fuori, in esilio ma in terra di Israele. Forse per questo ogni ebreo che passa per Gerusalemme non può evitare un passaggio di fronte a queste pietre e alle loro fessure che raccolgono messaggi senza risposta. Il Kotel è, per esteso, il Kotel kamaaravì, il muro occidentale, il muro del tramonto; il muro del mondo verso il quale, dall'oriente, sono stati deportati nel I secolo gli ebrei da Tito. Le immagini di Sebastiana Papa ci parlano di presenza assenza, di attesa di fronte ad un vuoto chiuso da un muro, di ricerca di un sacro intangibile e introvabile. Ma ci presentano, spesso con uno struggente sguardo parentale, soprattutto giovani, bambini, famiglie, padri e figli, madri e figlie. Come se lo stare di fron-
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“Scelti e proposti” è una rubrica che raccoglie recensioni bibliografiche e di film e nasce con l’intento di favorire la divulgazione, l’approfondimento e la riflessione sui temi dell’incontro e del dialogo tra fedi diverse. Invitiamo i lettori che ne sentissero il desiderio a segnalarci titoli di film, libri, mostre e iniziative a loro giudizio interessanti e capaci di arricchire il bagaglio di conoscenze in tema di incontro tra le religioni
e-mail: m.disanto@comune.roma.it
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te al muro, nello sguardo di là da esso, compattasse generazioni, legasse tra loro individualità in una dimensione altra, più ampia. È forse il miracolo di cui parla un'altra tradizione rabbinica, secondo la quale nel Santuario i fedeli erano, quando in piedi, accalcati l'uno sull'altro ma avevano spazio sufficiente per prostrarsi, tutti, a terra. Lo spazio-non spazio del Tempio, semplicemente citato dal Kotel, è dunque lo spazio dell'individualità/identità - le immagini della solitudine meditativa - e dell'aggregazione - le immagini di gruppo, i fedeli danzanti dietro il rotolo della legge, i bambini dentro la capanna della festa di Succot, i religiosi e i secolari insieme. Due declinazioni, nelle diverse modalità dal gioioso al solenne, di un movimento centripeto verso quell'ombelico del mondo che per la tradizione ebraica era il Santuario di Gerusalemme, costruito sulla pietra da cui è iniziata la creazione dell'universo. Sebastiana Papa, con le sue fotografie, ci presenta questo movimento verso il sé e verso la collettività, nel palcoscenico chiuso dal fondale Kotel, il muro occidentale che, secondo alcune fonti rabbiniche, era il più vicino al Santo dei Santi, al luogo della maggior concentrazione della presenza divina. Il Koten è in queste immagini come un vortice attrattivo verso cui tendono gli uomini - è in questa direzione che tutti gli ebrei del mondo, ovunque si trovino, pregano da sempre tre volte al giorno - e verso cui tende Dio anche dopo la distruzione del Tempio. Il caleidoscopio di facce che ruotano attorno al Kotel comprende volti musulmani che si recano alla sovrastante moschea di Omar. Il luogo - questo spazio contraddittorio con il suo sopra e il suo sotto, il suo davanti e il suo retro - propone una nuova babele di difficile composizione. Ma rammenta forse anche l'origine dell'uomo: secondo un insegnamento rabbinico Dio creò il primo uomo nel luogo dove sarebbe sorto il Santuario, il punto più sacro di tutta la terra perché deputato all'incontro tra l'umano e il divino. Lì Adamo, Caino e Abele, Noè, Abramo, Isacco e Giacobbe presenteranno le loro
offerte. Ma un'altra interpretazione insegna invece che l'uomo fu creato con la polvere tratta da tutti i luoghi del globo. Adamo è creato come un puzzle di terra perché nessuno dei suoi discendenti possa vantarsi di fronte all'altro ed ha in sé la sacralità del Santuario, uno degli elementi pensati e creati da Dio prima del mondo. C'è dunque affinità, parentela profonda, legame tra uomo e Santuario: lì viene creato e lì, alle porte dell'Eden, viene rimandato dopo aver mangiato dall'albero della conoscenza del bene e del male. Come dal Santuario Adamo, ricco di una dimensione esistenziale incommensurabile con quella successiva, era entrato nel paradiso terrestre, così dopo la trasgressione passa dal Tempio per entrare nella storia. È questo anche il tracciato che è suggerito dalle immagini di molteplicità di Sebastiana Papa. La voce che geme ogni giorno sulle rovine di Gerusalemme comunica anche altro: quando gli ebrei entrano nelle sinagoghe e nelle case di studio e affermano “sia il Suo grande Nome benedetto”, Dio dice “beato il re che è così glorificato nella Sua casa, che dolore per i figli che sono stati esiliati dal tavolo del loro padre”. Dio partecipa al dolore degli uomini, al loro allontanamento, al loro esilio e ascolta il loro desiderio di benedirlo: gli uomini che benedicono Dio e che invitano altri uomini a fare altrettanto riconoscendone la grandezza! Ma dà loro anche uno strumento, una casa nuova non più di pietra ma di carta, per avvicinarsi a Lui e glorificarlo: lo studio della parola che deve essere interpretata e che è un appunto per ulteriori riflessioni e ponti tra uomo e Dio, tra uomo e uomo. Il Kotel, allora, può diventare una sorta di parola, un accenno ad altro, uno spunto di riflessione, un invito. E il Kotel di Sebastiana Papa può essere una poesia per immagini, un racconto, un testo teatrale; un messaggio da cui non potersi sottrarre. Fonte: Il Manifesto, 26.6.2001; Articolo “Oltre il muro del tramonto” di Benedetto Carucci Viterbi
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