Valle del Torto e dei Feudi

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gli itinerari turistici RURALI

NELLA VALLE DEL TORTO E DEGLI ANTICHI FEUDI DELLA SICILIA


gli itinerari turistici rurali

NELLA VALLE DEL TORTO E DEGLI ANTICHI FEUDI DELLA SICILIA


SOMMARIO

Direttore editoriale Luciano Vanni Condirettore editoriale Massimo Roscia In redazione Francesco Buonomano Photo editor Gianluca Grandinetti, Luciano Vanni Segreteria organizzativa Arianna Guerin Progetto grafico Gianluca Grandinetti Direttore responsabile Enrico Battisti

6 LA TERRA DELLE ITTENE STORIE E IDENTITÀ 16 BAUCINA CITTÀ DI SANTA FORTUNATA E DELLA MUSICA A colloquio con Giuseppe Giaccone 26 A colloquio con Antonio Albanese 28 Soste di gusto 30 32 VENTIMIGLIA DI SICILIA LA QUIETE DELLA NATURA La tradizione - I Canti d’amore e di sdegno 38 A colloquio con Maddalena Abruscato 42 Soste di gusto 44

Hanno scritto: Francesco Buonomano, Antonino Di Vita, Arianna Guerin Antonio Schembri, Luciano Vanni Crediti fotografici di copertina: Paolo Galletta (immagine in alto) Paolo Galletta (immagine in basso) Foto bandella di apertura: Paolo Galletta Foto bandella di chiusura: Paolo Galletta Servizio fotografico: Paolo Galletta Crediti fotografici: Riccardo Frisco pagg. 16,17, 18,19,24,25,27 - 34, 38, 39 48, 49, 50, 56, 57, 63 - 78, 79 - 93, 94, 95 Alessandro Matalone pagg. 20, 21 Francesco Genovese pagg. 22, 23 Antonio Licata pag. 134

46 CIMINNA MEMORIE DEL GATTOPARDO A colloquio con Michele Cassata 58 A colloquio con Vito Lazzara 62 Soste di gusto 64

RINGRAZIAMENTI GAL Metropoli EST s.c.a r.l., Sindaci dei Comuni di Lercara Friddi, Vicari, Baucina, Campofelice di Fitalia, Ciminna, Mezzojuso e Ventimiglia di Sicillia, SOAT Distretto di Lercara Friddi, Francesco Bruscato, Mario Liberto, Pro Loco Lercara Friddi, Biblioteca Comunale di Lercara Friddi, Pippo Furnari, “Zio Peppino” Saltalamacchia, Padre Mario Cassata, Pro Loco Mezzojuso, Biagio Bonanno, Maddalena Abruscato, Giusy ed Epifanio Barbaccia, Michele Cassata, Leopoldo Virga, Pino Pollina, Guido Vinci, Famiglia Rinchiuso, Fabio Sireci, Famiglia Alfonso, Giorgio Piazza, Claudia Geraci, Gaetano Licata, Giuseppe Raia, Prof. Giuseppe Giaccone, Antonino Albanese, Vito Lazzara, Gianfilippo Geraci, Antonio Licata, Eugenia Iannello.

66 MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI A colloquio con Matteo Cuttitta 80 A colloquio con Leopoldo Virga 82 A colloquio con Biagio Bonanno 84 Soste di gusto 86 88 CAMPOFELICE DI FITALIA TERRA DEL GRANO A colloquio con Domenico Gambino 96 Soste di gusto 98 100 VICARI TERRA DELLE TANTE IDENTITÀ A colloquio con Epifanio Barbaccia 114 A colloquio con Rosa Giordano 116 Soste di gusto 118

Chiuso in redazione il giorno 11 maggio 2015 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata. L’editore ha fatto il possibile per rintracciare gli aventi diritto ai crediti fotografici non specificati e resta a disposizione per qualsiasi chiarimento in merito.

120 LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO A colloquio con Rosa Miceli 144 A colloquio con Giuseppe Saltalamacchia 146 Soste di gusto 150

Progetto “Servizi innovativi per la fruizione degli itinerari turistici rurali nella Valle del Torto e dei Feudi” PSR SICILIA 2007-2013 PSL “Il Distretto Turistico Rurale del GAL Metropoli Est “ Misura 313 “Incentivazione di attività turistiche” Azione B “Servizi per la fruizione degli itinerari rurali” VANNI EDITORE SRL Vico San Salvatore, 13 05100 Terni (TR) Tel. 0744.817579 Fax 0744.801252 www.ilturismoculturale.it PROGETTO GRAFICO GIANLUCA GRANDINETTI www.duegi.net STAMPA D’AURIA PRINTING GROUP (ASCOLI PICENO)

www.valledeltortoedeifeudi.it

Iscrizione al tribunale di Terni n° 25 del 22 dicembre 2006

152 DINTORNI Il Castello di Caccamo e il Lago Rosamarina 154 Il Mulino Fiaccati 156 Centro Studi Astronomico 158 Al Lago Verde 160 Grotte della Gurfa 162 Azienda Agricola Feudo Montoni 164 Colle San Vitale 166 Agriturismo Sorgente Refalzafi 168 Monte Carcaci 170 Borgo Reina 172 Casale San Pietro 174


INTRODUZIONE DI LUCIANO VANNI

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pensarci bene ogni viaggio è una straordinaria storia che abbiamo il privilegio di vivere in prima persona, un’esperienza forte capace di coinvolgere ed emozionare. In occasione del nostro viaggio tra le comunità della Valle del Torto e dei Feudi, in provincia di Palermo, abbiamo toccato paesaggi e luoghi di cultura ma ciò che ci ha maggiormente affascinato sono stati i tanti incontri con artigiani, contadini, cuochi e massaie, preti e produttori di vino, intellettuali e restauratori di libri, scalpellini, artisti e persone comuni. Ogni paese ci ha messo in contatto con ‘ciceroni’ e guide appassionate e siamo stati testimoni di racconti che ci hanno arricchito di contenuti di grandissimo valore, unici e irripetibili. Con il passare dei giorni abbiamo compreso che queste nostre conversazioni ci avevano consegnato un mosaico di storie assolutamente straordinarie e da qui è nata l’idea di costruire una guida secondo una narrazione a più voci, a tratti emotiva, altre volte razionale. Ed ecco nascere un volume a ‘storytelling diffuso’ che vuole promuovere il territorio secondo nuovi paradigmi, più umani e meno da cartolina. Ma facciamo un passo indietro. Questo nostro lavoro prende corpo in un piccolo paese dell’entroterra siciliano, Lercara Friddi, e il merito deve essere condiviso con Gianfilippo Geraci e Antonio Licata, due agitatori culturali assolutamente illuminati. Gianfilippo e Antonio sono amici da sempre e hanno in comune la passione per la musica afroamericana tanto da spingerli a organizzare il ‘My Way Festival’, un evento dedicato alla memoria di Frank Sinatra, il cui nonno nacque proprio a Lercara Friddi. Ho conosciuto Gianfilippo e Antonio nel 2009, in occasione della seconda edizione del festival, e nelle loro azioni ho letto sin da subito un gran desiderio di far bene e di migliorarsi. Grazie a loro ho imparato ad apprezzare il territorio della Valle del Torto e dei Feudi, ammirandolo con gli occhi giusti; e me ne sono innamorato. Questa guida è per certi versi la proiezione della nostra amicizia e di un desiderio sincero e forte di far conoscere una Sicilia autentica e non edulcorata, passando necessariamente attraverso le testimonianze di chi, come loro, questo territorio lo vive ogni giorno. A essere sinceri questo volume – che è parte di un progetto molto più ampio che comprende una webzine, un social magazine, un programma di comunicazione, conferenze, expo, itinerari di trekking ed eventi – non sarebbe stato possibile senza la sensibilità della dirigenza del GAL Metropoli Est.

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IV

LA TERRA DELLE ITTENE: STORIE E IDENTITÀ

I COLORI DI TERRA E MARE

LA TERRA DELLE ITTENE STORIE E IDENTITÀ Siamo in provincia di Palermo, all’interno di un territorio stretto tra i fiumi Torto e San Leonardo. Lasciandoci alle spalle il Mar Tirreno e con lo sguardo nell'entroterra siciliano, entriamo in contatto con le comunità di Baucina, Ventimiglia di Sicilia, Ciminna, Mezzojuso, Vicari, Campofelice di Fitalia e Lercara Friddi: terre del grano e di altre infinite storie che racconteremo facendo leva sul senso di appartenenza dei suoi abitanti

DI ANTONIO SCHEMBRI E LUCIANO VANNI

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I LA TERRA DELLE ITTENE: STORIE E IDENTITÀ

L’ISOLA DELLE ISOLE

Def i n i rla l’i sola più g ra nde del Mediterraneo è riduttivo. Lungo il suo perimetro costiero di mille e seicento chilometri e nel suo complesso entroterra, la Sicilia di ‘isole’ ne arriverebbe a contare quasi quattrocento, tante quanti sono i comuni distribuiti nelle sue nove province. Ma in realtà ne contiene parecchie di più perché in mezzo alle tradizioni millenarie e ai colori della natura che connotano ogni stagione, tra le antiche culture espresse nell'arte e nell'architettura e tra gli svariati sapori della

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gastronomia, si nascondono realtà sorprendenti: piccoli scrigni colmi di storia e mito, tradizioni e preziosità artistiche le quali, a differenza dei tesori culturali che la Sicilia quasi ostenta nei suoi centri costieri, covano invece nel suo ventre di terra madre, in molti casi da tempo immemore. Bisogna andare a cercare questi microcosmi, perché la loro rilevanza viene spesso ignorata del tutto. Sono mondi che attendono di trovare i giusti spazi comunicativi per diffondere la propria luce; costellazioni di paesaggi naturali e agricoli che mettono

in relazione tante anime di natura e uomini in una varietà geografica che fa della Sicilia interna un ‘set’ paesaggistico unico ed eccezionalmente affascinante. Sono terre collinari ma anche in buona parte montuose e soltanto marginalmente occupate da pascoli pianeggianti. Una mappa di microclimi diversi che mutano anche sulla base di piccole differenze d’altitudine e di esposizione ai venti alimentando un continuo processo di modellamento del territorio. Lo sguardo tocca scenari agricoli e orizzonti al tempo stesso fiabeschi e lunari.

UNA TERRA TRA DUE FIUMI

Cominciamo questo viaggio nell’entroterra siciliano alla scoperta delle formidabili eredità storiche incise sui volti della gente, nell’urbanistica e nella toponomastica dei borghi, nonché nell’artigianato e nelle feste popolari. Protagonista di queste pagine è il territorio della provincia di Palermo incastonato tra i valloncelli formati da due fiumi, il Torto e il San Leonardo, corsi d’acqua fondamentali per l’antica storia agricola di quest’area, fiorente già ai tempi della Sicilia punica e greca.

Dimensioni culturali contigue, queste, di cui il fiume Torto ha costituito il confine mentre il San Leonardo, anticamente chiamato Terias, secondo alcune ricerche archeologiche giocò, grazie alla sua foce navigabile, un ruolo strategico nei traffici tra le genti autoctone e i commercianti del mare nostrum; a cominciare dagli stessi Fenici, molto attivi nel commercio dei manufatti d’argilla. Oggi tale quadrante include una decina di comuni: otto di questi - Alia, Campofelice di Fitalia, Castronovo di Sicilia, Mezzojuso, Lercara Friddi, Roccapalumba, Valledolmo e

Vicari -, costituiscono dal 2002 un ente locale autonomo, ovvero l’Unione dei comuni della Valle del Torto e dei Feudi. A questi si aggiungono anche altri tre antichi borghi, Ventimiglia di Sicilia, Baucina e Ciminna, il paese dove Luchino Visconti girò gli esterni del Gattopardo, ciascuno con connotazioni storiche e culturali, a loro volta inclusi in un altro ente, il consorzio Metropoli Est, gruppo d’azione locale che dal 2003 promuove lo sviluppo socio-economico di un comprensorio che di comuni ne conta in tutto tredici, la metà dei quali affacciati sulla costa tirrenica.

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I LA TERRA DELLE ITTENE: STORIE E IDENTITÀ

PANORAMA AGRICOLO DELLA VALLE DEL TORTO E DEI FEUDI

Le ittene erano il primo grado di accoglienza per gli ospiti, un luogo di sosta, uno spazio relazionale dove potersi incontrare e discutere instancabilmente sulle storie di ordinaria vita quotidiana TERRE DEL GRANO E DELLE ITTENE

Siamo all’interno di un territorio che si è modellato attorno alla coltivazione del grano e che grazie alla sua filiera produttiva si è sviluppato economicamente: feste, credenze popolari, strumenti di lavoro, modi di dire e abitudini di queste comunità traggono ispirazione dal frumento. Ma è un semplice elemento architettonico a raccontare meglio di altri la civiltà rurale e contadina: stiamo parlando dell’ittena o nelle varie declinazioni dialettali anche iuttena, juttena, chittena,

icchena, ghittena o ghiuttena. Le ittene sono dei grandi sedili in pietra che venivano costruiti a ridosso delle pareti esterne delle abitazioni vicino alla porta d’ingresso di casa. Le ittene non avevano una funzione decorativa: erano il primo grado di accoglienza per gli ospiti, un luogo di sosta, uno spazio relazionale dove potersi incontrare e discutere instancabilmente sulle storie di ordinaria vita quotidiana. Le ittene avevano anche una funzione 'igienica': ritornando dal lavoro nei campi ci si sedeva su queste pietre per

cambiarsi le scarpe. E dalle ittene siamo ripartiti per promuovere l’identità storica, sociale, paesaggistica, artigianale, spirituale ed enogastronomica di Baucina, Ventimiglia di Sicilia, Ciminna, Mezzojuso, Vicari, Campofelice di Fitalia e Lercara Friddi, comunità che sono al centro di questo nostro lavoro di promozione e valorizzazione turistica. A questo territorio abbiamo dato il titolo di terra delle ittene; e alle sue comunità abbiamo riconosciuto l’identità rurale di terre del grano e dell’accoglienza.

L’ISOLA DEL GRANO TRA LE PAGINE DELLA BIBLIOTHECA HISTORICA «Alcuni poeti raccontano che in occasione delle nozze di Plutone e Persefone quest'isola fu donata da Zeus alla sposa come regalo di nozze. Gli storici più autorevoli affermano che (...) la Sicilia per prima produsse il frutto del grano grazie alla fertilità della sua terra (...) Gli abitanti della Sicilia, avendo ricevuto per primi la scoperta del grano per la loro vicinanza con Demetra e Kore, istituirono in onore di ciascuna delle dee, sacrifici e feste (...) Fissarono, infatti, il ritorno di Kore sulla terra nel momento in cui il frutto del grano si trova ad essere perfettamente maturo. Scelsero per il sacrificio in onore di Demetra il periodo in cui si incomincia a seminare il grano» [“Bibliotheca Historica”, Diodoro Siculo]

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QUALE IDENTITÀ?

In occasione delle nostre escursioni abbiamo avuto la fortuna di avere al nostro fianco Mario Liberto, una delle persone che meglio conoscono questo territorio perchè da sempre coltiva l’interesse per le storie popolari e le tradizioni siciliane: Mario è laureato in Scienze Agrarie, è presidente regionale dell’Accademia Enogastronomica “Epulae” ed è al tempo stesso storico, scrittore, giornalista nonché autore di numerose pubblicazioni e guide; e perfino compositore di musica popolare. È lu i a metterci i n guard ia su l la

difficoltà di rappresentare questo territorio in maniera unica o comunque semplicistica: «Il punto è che l’oggetto di questa guida riguarda un territorio con valori culturali disconnessi tra loro perché in questo territorio il vero trés d’union sono i monti Sicani. L’archeologia di queste terre è impressionante e le potenzialità che potrebbero svilupparsi in turismo culturale sono tante e si basano su almeno sei siti archeologici. A meno di trenta minuti da Lercara Friddi, nel Comune di Prizzi, per esempio, si fa risalire l’insediamento

di Hippana, città sicana del V secolo a.C. che fu distrutta dai Romani: si dovrebbe investire per la costituzione di un bel museo e ci sono anche i resti di un antico teatro. Insomma, questa guida dovrebbe far emergere l’identità sicana di questo territorio perché culturalmente e storicamente la Valle del Torto e dei Feudi non esiste: è l’area sicana quella che determina e identifica un discorso identitario». Le indicazioni di Mario sono preziose e saranno d'ispirazione per rappresentare nel migliore dei modi queste terre.

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LA TERRA DELLE ITTENE: STORIE E IDENTITÀ

MEZZOJUSO: LA CHIESA DELL'ANNUNZIATA, OGGI DI RITO LATINO

COSÌ VICINI, COSÌ DIVERSI

E in effetti siamo di fronte a un nucleo di paesi dell'entroterra che ha vissuto processi d’antropizzazione che nel loro millenario svolgersi hanno composto uno scenario ampio e variegato, fatto di castelli fortificati, dominanti le rocche sotto le quali si spalmano i tetti di insediamenti urbani oggi per lo più spopolati di giovani, ma che stanno a rappresentare un’istanza di attenzione, una voglia nascosta, ma forte, di rompere il cristallo in cui l’avanzata, spesso

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inconsulta, se non volgare, della ‘modernità’ li ha relegati. Castelli che si ergono sui paesi; e case nobiliari, ad allungare la propria ombra su piazze e dedali di viuzze lastricate. Piccoli centri gravitazionali di quel patchwork di culture, costruito e alimentato da un mondo agricolo e pastorale che in Sicilia ha radici molto più antiche del periodo del latifondo. E poi c’è il mondo contadino e pastorale. Ma non solo. Perché da queste parti la Sicilia è anche storia di miniere, u n’epopea c ontempora nea, quel la

dell’estrazione dello zolfo, che, tanto per cambiare, affonda le proprie basi a tremila anni fa; e forse anche di più. E infine, è terra di insediamenti archeologici sicani, di numerose riserve naturali e di cinema, resa eterna per mano di ullustri registi. Sono piccoli comuni distanti pochi chilometri gli uni dagli altri ma ciò che più ci affascina è che hanno identità, cicli di vita, abitudini, santi, linguaggi, tradizioni gastronomiche, paesaggi, identità sociali e culturali profondamente diverse.

UN TERRITORIO A SORGENTE APERTA

Piccola nota a margine. Questa guida nasce con il desiderio di farvi conoscere e innamorare di un territorio che porta il nome di Valle del Torto e dei Feudi. Abbiamo volutamente scelto di non essere didascalici e neppure “definitivi”, perché nessun viaggio può racch iudere in man iera r isolutiva u n territorio. Insomma, più che una guida è un “diario di bordo” perché racconta la nostra esperienza; che è una, e quindi non

conclusiva. E non abbiamo costruito itinerari chiusi e pacchetti turistici perché invitiamo a viverla a “sorgente aperta”, per stimolare un agire libero alle restrizioni del “viaggio organizzato”: perché il nostro compito, e obiettivo principale, è di fornire il più ampio accesso alle informazioni su questo territorio e stimolarne l’esperienza diretta. Ci siamo lasciati guidare da infiniti racconti che abbiamo raccolto durante il nostro viaggio e siamo altrettanto convinti che ogni viaggiatore e turista

amplierà le opportunità di questa destinazione secondo la sua sensibilità, possibilmente con calma e certamente in modo responsabile, integrandosi con lo stile di vita delle comunità locali e in equilibrio con l’ambiente naturale: così da conciliare crescita economica del territorio con sviluppo turistico sostenibile. La Sicilia non è una regione: è un continente che parla mille lingue e che ha vissuto infinite storie. E che accoglie generosamente.

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I LA TERRA DELLE ITTENE: STORIE E IDENTITÀ

Abbiamo zigzagato tra questi sette comuni - Baucina, Ventimiglia di Sicilia, Ciminna, Mezzojuso, Vicari, Campofelice di Fitalia e Lercara Friddi – scoprendo che ciascuno di essi ha una sua identità, un suo patrimonio paesaggistico, folkloristico ed enogastronomico; con storie e microstorie diverse, festività e abitudini diverse

COME E DA DOVE ARRIVARE

Cerchiamo innanzitutto di orientarci, raccogliendo delle indicazioni primarie. Chi intende arrivare in Sicilia con l'aereo di certo avrà convenienza ad atterrare all’Aeroporto di Palermo “Falcone e Borsellino“ e da lì potrà fare il suo ingresso nel territorio della valle, attraverso Baucina, in poco più di un’ora; e chi invece giungerà dall’altra estremità, da Messina, impiegherà due ore e mezza circa. Insomma, siamo di passaggio. Nel primo caso, una volta superata Palermo, proseguendo sulla strada a “scorrimento veloce” (ma che di fatto ha numerose intersezioni a raso e interruzioni per lavori in corso), raggiungiamo Baucina uscendo dalla strada statale 121 e prendendo la strada provinciale 6: abbiamo percorso appena trentacinque chilometri da Palermo. Baucina è la nostra porta a nord e da qua iniziamo il viaggio nell’entroterra della provincia palermitana.

SETTE PAESI, SETTE STORIE, SETTE CAPITOLI

Abbiamo zigzagato tra questi sette comuni - Baucina, Ventimiglia di Sicilia, Ciminna, Mezzojuso, Vicari, Campofelice di Fitalia e Lercara Friddi – scoprendo che ciascuno di essi ha una sua identità, un suo patrimonio paesaggistico, folkloristico ed enogastronomico; con storie e microstorie diverse, festività e abitudini distinte. E allora abbiamo pensato di raccogliere queste storie e questi racconti separatamente per meglio orientare chi verrà a visitare tali luoghi. E alla fine della guida troverete anche delle pagine bianche che vi invitiamo a riempire con le vostre esperienze dirette. E da qui parte il nostro racconto; o meglio, il nostro viaggio.

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CASTELLO DI VICARI

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II BAUCINA CITTÀ DI SANTA FORTUNATA E DELLA MUSICA

BAUCINA CITTÀ DI SANTA FORTUNATA E DELLA MUSICA Tra sacro e profano, folklore e musica, e un orizzonte composto da un paesaggio di rara bellezza, Baucina si presenta come un piccolo centro dell’entroterra siciliano ancorato ad antiche tradizioni ma particolarmente vivo, dinamico e vivace

DI FRANCESCO BUONOMANO E LUCIANO VANNI

foto di Riccardo Frisco

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II BAUCINA CITTÀ DI SANTA FORTUNATA E DELLA MUSICA

foto di Riccardo Frisco

L’ARRIVO A BAUCINA, TRA CAMPAGNA E VITALITÀ

Nel tragitto sulla SP6 che ci conduce a Baucina è scritta buona parte del fascino di questo territorio. Siamo immersi in una campagna dagli orizzonti collinari dolci e il viaggio su questa strada, carico di curve armoniose, ci mette a contatto con infinite distese di campi lavorati a grano e a orto, tra piante di fichi d’india, olivi e macchia mediterranea: e gli allevamenti rappresentano buona parte dell’economia di questa comunità assieme alla produzione dell'olio. Sullo sfondo fa bella vista di sé il Monte Cane, che sembra sorvegliare dall’alto l’intero abitato. L’antropizzazione è bassa fin quando imbocchiamo via Palermo, che ci porta nel cuore di Baucina. Ed ecco subito il contrasto tra ruralità e tessuto urbano: c’è immediata vitalità, un via vai di macchine che si stringono in questo doppio senso di marcia ravvicinato. Giungiamo in piazza Garibaldi, la prima piazzetta che incontriamo, protagonista

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di un recente recupero urbanistico che ha visto ricollocare nel suo centro un abbeveratoio ottagonale con una graziosa fonte a forma di conchiglia, una simbologia importante perché riproduce la perla del regno di Dio; e la sua forma, l’ottagono, ricorda i sette giorni della creazione e il giorno in cui Cristo è risorto dopo la Passione al Calvario. Si tratta di un monumento che lega Baucina alla città gemellata di Guilers in Bretagna come segno di fraternità e di comune radice cristiana. Ma questa fonte ha una sua importanza anche storica, sociale e paesaggistica perché è legata alle trazzere, le antiche reti stradali che mettono in risalto la straordinaria bellezza ambientale che circonda questo paese. «Venire qui – racconta alla ZeroNoveUno Tv il presidente dell' Associazione Venti.Ba.Ci., Giuseppe Giaccone - è un po' come scoprire quella naturalità che penso che penso ci aiuti a vivere meglio». Dalle trazzere passa buona parte dello sviluppo turistico del paese.

foto di Riccardo Frisco

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II BAUCINA CITTÀ DI SANTA FORTUNATA E DELLA MUSICA

IL BARONE CALDERONE FONDATORE DELLA CHIESA MADRE foto di Alessandro Matalone

La nascita di Baucina come paese e centro abitato è attestata in un documento del 1624, anno in cui fu concessa la licentia populandi dall’allora Viceré Emanuele Filiberto di Savoia

AGLI INIZI DELLA STORIA

Ma facciamo un passo indietro e ripercorriamo assieme un pezzo di storia di questo paese. Come per numerosi comuni di questa parte dell’entroterra palermitano, di Baucina si hanno notizie storiografiche certe solo a partire dai secoli recenti. L’antico feudo, stabilito poco lontano dal Monte Cane, rientrava durante il XVI secolo tra le numerose terre di pertinenza dell’antica Abbazia di Santo Spirito del Vespro che nel 1516 fu attribuita da Papa Leone X all’Ospedale di Palermo. Nel 1524, quindi, Baucina passò al Barone A ntonio Ventimiglia, già Signore di Ciminna, tra

i più importanti nobili di questa parte di Sicilia. Il feudo andò per donazione dal barone a sua figlia Elisabetta, consorte di Mariano Migliaccio, anch’egli barone del feudo di Montemaggiore. La nascita ufficiale di Baucina come paese e centro abitato è attestata tuttavia in un più tardo documento del 1624, anno in cui fu affidato il governo del territorio e concessa la licentia populandi a Mariano Migliaccio, terzo Marchese del feudo, per volontà dell’allora Viceré Emanuele Filiberto di Savoia. Due anni dopo, nel 1626, il feudo di Baucina venne elevato a principato da Filippo IV re di Spagna e di Sicilia.

Il comune ha avuto fasi alterne di crescita e di sviluppo tanto che nelle pagine del "Dizionario Universale" di Nicola De Jacobis, pubblicato nel 1843 e in uso nel Regno delle Due Sicilie, il Comune di Baucina è riportato nel distretto di Termini, situato nel circondario di Ciminna quando contava appena duemilacinquecento abitanti. Alla fine del XIX secolo Baucina aveva raggiunto un suo progressivo sviluppo economico e gli abitanti erano oltre tremilacinquecento, fino a raggiungere i quattromilacinquecento nel 1900. Iniziò quindi una progressiva decrescita, fino ai duemila abitanti attuali.

CHIESA MADRE DI SANTA ROSALIA. XVII SECOLO foto di Alessandro Matalone

SACRO E PROFANO

STATUA EVANGELISTA SAN MARCO CON IL LEONE. SCULTORE E.PULEO foto di Alessandro Matalone

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Nel Settecento hanno inizio i cantieri per i grandi edifici di culto: la Chiesa di Maria Santissima del Lume, la Chiesa madre intitolata a Santa Rosalia, quella di San Gregorio Magno e la più piccola Chiesa dell’Immacolata. Sono gli anni in cui viene determinata anche l’urbanistica della città. Tra i più importanti monumenti della cittadina una posizione di rilievo è riservata alla Chiesa madre dedicata a Santa Rosalia che troviamo lungo il corso Umberto I davanti alla piazza Santa Fortunata. Ricostruita dal Barone Francesco Calderone sul sito di un

precedente edificio sacro del 1626, edificata dal fondatore di Baucina, il Principe Mariano III Migliaccio, la chiesa viene aperta al culto nel 1764 e si distingue per il suo esterno sobrio ed elegante e per un interno assai ricco e splendente, con altari baroccheggianti dai marmi policromi: balzano agli occhi le sculture in gesso dei quattro evangelisti realizzate dallo scultore contemporaneo Enzo Puleo di Baucina e le sacre statue policrome in legno attribuite in parte agli scultori del Settecento Filippo Quattrocchi e Girolamo Bagnasco. Sono notevoli anche gli affreschi e le pitture di scene bibliche

sulla volta e nel presbiterio, opera dei pittori contemporanei Renato Guttuso e Michele Dixitdomino. La chiesa si affaccia su piazza Santa Fortunata che guarda verso largo Giovanni XXIII. Da questo piazzale che si accede alla Chiesa della Concezione, attualmente non aperta al culto perché pericolante, (anche Chiesa dell’Immacolata): qui era conservato un presepe meccanico opera dell’artigianato locale che per i baucinesi rappresenta una vera e propria celebrazione dei mestieri e delle attività della tradizione baucinese, il presepe è stato trasferito nella Sala Pappalardo della Casa del Pellegrino.

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II BAUCINA CITTÀ DI SANTA FORTUNATA E DELLA MUSICA

foto di Francesco Genovese

LA CENTRALITÀ DI SANTA FORTUNATA

LA FURRIATA DI LI TORCI FEDE E TRADIZIONE La festa in onore del SS. Crocifisso viene organizzata nel mese di maggio e celebra il connubio tra paganesimo, tradizione agropastorale e cristianesimo. Accanto alla processione della statua in legno attribuita allo scultore Filippo Quattrocchi questa festività celebra l’arrivo della primavera, la stagione che fa risorgere la natura dopo l’inverno. Per l’occasione bande musicali sfilano verso la centrale Chiesa madre e uno dei momenti più attesi dalla comunità è la furriata di li torci, un corteo di giovani cavalieri che avanzano su animali bardati a festa anticipando l’arrivo di una lunga serie di muli da cui si lanciano doni e coriandoli come per simboleggiare il gesto della semina. Tra i momenti più affascinanti della processione c’è anche la cosiddetta vulata di l’ancili.

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La comunità di Baucina ha una grande devozione dei confronti di Santa Fortunata tanto che un importante capitolo della sua storia è segnato dall'arrivo, in paese, delle sue spoglie dal cimitero romano di Santa Ciriaca (San Lorenzo al Verano) il giorno 14 febbraio 1790: i resti della Santa sono oggi conservati all’interno della Chiesa Maria Santissima del Lume, un luogo di culto che si presenta in maniera sobria ed elegante. All'edificio religioso si accede da un bel portale, costruito in pietra arenaria: al suo interno, costruito attorno a un’unica navata, si ammirano stucchi dorati, altrettanto sobri, e una bella statua dell’Addolorata attribuita allo scultore Girolamo Bagnasco, risalente al Settecento. La chiesa ospita le sacre spoglie di Santa Fortunata all’interno di un’urna con pareti laterali in vetro e durante i festeggiamenti viene issata su una vara custodita presso la Casa del Pellegrino, sede della confraternita [via Umberto I, 56]. E sono proprio gli spazi che ospitano la Confraternita Santa Fortunata a meritare una nostra visita per ammirare gli oltre duemila ex voto, in oro e argento, che i fedeli hanno donato alla santa. E poi si può vedere da vicino la vara realizzata da Antonino La Barbera, dove sono rappresentate le scene di vita e del martirio della Santa.

LA PROCESSIONE DI SANTA FORTUNATA IL CORTEO DEI COSTUMI D’EPOCA

foto di Francesco Genovese

Ogni anno, nell'ultimo weekend di settembre, tra sabato e domenica, i baucinesi si stringono attorno a Santa Fortunata. La processione dell’urna (che ha un peso di circa trecento chili circa) contenente le reliquie della martire cristiana attraversa le vie del paese sopra una vara che viene portata a spalla da circa ottanta persone vestite di bianco con una cintura rossa. La domenica sera la vara esce dalla chiesa successivamente a una rievocazione in costumi d’epoca romana, per onorare tutti i martiri cristiani e in particolare la vita e il martirio di questa giovane Santa che fu uccisa con un colpo di pugnale in testa quando non aveva compiuto ancora i suoi primi quindici anni di vita.

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II BAUCINA CITTÀ DI SANTA FORTUNATA E DELLA MUSICA

La musica scandisce i tempi del folklore di Baucina e con il suono dei tamburi si celebrano i ritmi della processione di Santa Fortunata

FRANCESCO GENOVESE LA MUSICA D’ARTE BAUCINESE

foto di Riccardo Frisco

L’ARTE DELLA MECCANICA: IL PRESEPIO IN MOVIMENTO

La grande spiritualità di Baucina si esprime anche in innumerevoli attività che il piccolo paese esercita con perizia e passione nella sua quotidianità. Tra queste è sicuramente da ricordare un vero e proprio gioiello di capacità artigianale, un presepe elettro-meccanico che rappresenta un piccolo villaggio ricostruito con statue in movimento. Ci colpisce il realismo dei dettagli e dei particolari, anche di quelli più piccoli: emergono scene di ordinaria vita quotidiana ed è come vedere un piccolo paese attivo, tra i tanti mestieri – pescivendoli, contadini, fornai, artigiani, etc. – e naturalmente con la suggestiva rappresentazione della natività. Tutto è in eterno movimento, incredibilmente dinamico: azioni leggere, vivaci ma reali che vengono mosse da piccoli motori che animano i vari personaggi in scena.

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Il presepio di Baucina nasce per iniziativa della comunità e ha meritato notevoli riconoscimenti in tutta Italia: è esposto nel salone del centro pastorale Pappalardo, in via di Salvo, a ridosso della sede della Confraternita di Santa Fortunata. BAUCINA, CITTÀ DELLA MUSICA

Ma Baucina è anche una città della musica, come si legge su un cartello che dà il benvenuto nella comunità. Il motivo viene da lontano ed è anche intimamente legato al suo nome il quale deriva, con molta probabilità, dall’arabo bocin, che sta a indicare un'antica tromba che la tradizione narra sia stata trovata in contrada Malamoneta, dove oggi è edificato il centro urbano. La musica scandisce i tempi del folklore di Baucina e con il suono dei tamburi si celebrano i ritmi della processione di Santa Fortunata. Le prime notizie sulla banda musicale di Baucina risalgono alla seconda

Il maestro Francesco Genovese [Baucina, 13 agosto 1894 – 26 luglio 1992 ] rappresenta un pezzo importante della storia di questo paese. Figlio di Alfonso, organista della Chiesa madre di Baucina, Francesco apprende fin da piccolo i rudimenti della musica e all’età di quindici anni s’iscrive al conservatorio “Vincenzo Bellini” di Palermo. Si diploma in tromba e in strumentazione per banda con il massimo dei voti e al suo ritorno dalla prima Guerra Mondiale organizza la rinascita della banda cittadina. Tra i momenti artistici più rilevanti va ricordato che Francesco Genovese ha curato l’arrangiamento de “Il Ballo delle Zingarelle” di Giuseppe Verdi, una partitura che fu usata dal maestro Nino Rota in occasione delle riprese de “Il Gattopardo” di Luchino Visconti. Genovese ha diretto la sua banda fino al 1987, alla veneranda età di novantatré anni: e oggi, ad alimentare questa nobile tradizione artistica, ci pensa il maestro Antonino Albanese.

metà del XIX secolo con la direzione del maestro Francesco Mauro Casella ma è il maestro Francesco Genovese a segnare per sempre la storia della banda di Baucina e al tempo stesso della cultura musicale del paese. Genovese ha composto splendide marce funebri che vengono eseguite in occasione della Festa di Santa Fortunata. Più recentemente, nel 1996, Baucina ha visto nascere una seconda banda musicale intitolata a Francesco Mauro Casella, compositore dell’inno a Santa Fortunata cantato da un coro di voci bianche che aprono la processione.

foto di Riccardo Frisco

TREKKING DELLA TRAZZERA

«Dove c’è una trazzera, di lì passa la storia»: ebbene sì, perché trazzera deriva dal latino tractus, e significa tracciato, strada battuta, sentiero sistemato con ciottoli o lastre in pietra. In sostanza, le antiche trazzere non erano altro se non reti stradali dove passava la transumanza, il commercio tra villaggi e dove circolavano, a partire dal diciottesimo secolo, anche le carrozze. A sud ovest di Baucina possiamo rivivere l’esperienza delle trazzere siciliane percorrendo un itinerario (lungo dieci chilometri circa, calcolando andata e ritorno) disegnato dall’Associazione Venti. Ba.Ci. che attraverso un acronimo definisce i comuni di Ventimiglia di Sicilia, Baucina e Ciminna. La nostra passeggiata ha inizio dalla Chiesa di San Marco, una struttura interessante dal punto di vista storico in quanto la più antica costruzione sacra della comunità. Si giunge poi alla Chiesa di Santa Croce e tra piccoli ruscelli, oliveti, ginestre, avvolti da una macchia mediterranea bassa che ci offre un affascinante orizzonte naturale, arriviamo in un’area particolarmente interessante sotto il profilo archeologico: siamo in contrada Balatelle, con emergenze di tombe e di edifici rurali. Proseguiamo verso contrada Chiarello e ci ritroviamo ad ammirare i resti della Chiesa di San Vincenzo.

Con lo sguardo rivolto al piccolo rilievo di Monte Torre e un ambiente poco antropizzato, ci ritroviamo a poca distanza da Contrada Cuba dove fa bella mostra di sé un pic-colo abbeveratoio che raccoglie le acque di una sorgente; un bevaio che anticipa quello che incontreremo al termine del percorso all’altezza di contrada Acqua la Fico, una cisterna piccola ma graziosa. Giuseppe Giaccone, presidente dell'Associazione Venti.Ba.Ci., già professore ordinario di Botanica presso l'Università di Catania, ci dice: «Lungo queste regie trazzere ci sono vari tesori: dei tesori dell’archeologia, dei tesori di centri produttivi agricoli e zootecnici e una natura straordinaria perché questi luoghi sono ancora pieni di boschi. Qui troviamo boschi di querce da sughero e boschi di querce di Virgilio. Queste nostre montagne sono parte dell’Appennino Meridionale e bisogna far prendere coscienza di questo patrimonio sia ai cittadini e sia ai visitatori. Da queste parti si può riscontrare inoltre una straordinaria biodiversità: ci sono due specie di aquile (l’Aquila Reale e l’Aquila del Bonelli, ndr), tantissimi animali selvatici e ancora la gente rispetta tutto questo». Baucina è circondata da paesaggi carichi di storia e di storie: proprio per questo merita un turismo lento, colto, rispettoso, curioso e appassionato.

MUSEO CIVICO DI BAUCINA UNA COLLEZIONE DI STORIE Di certo, una visita a Baucina non può non prevedere un passaggio al Museo Civico , un complesso di notevolissimo interesse inaugurato di recente, nel maggio del 2013. Si tratta di una collezione che vuole raccontare la storia di questo paese partendo dai reperti archeologici rinvenuti nella necropoli di Monte Falcone e dai manufatti preistorici scoperti nell’area di Montalbano. Ampie vetrine raccolgono testimonianze di grandissimo valore storico e di grande bellezza come vasetti, brocche e anfore, molte delle quali decorate finemente. Interessante anche la collezione di rocce e fossili che raccontano le formazioni geologiche di questo territorio.

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II BAUCINA TESTIMONIANZE

A COLLOQUIO CON GIUSEPPE GIACCONE

concittadini amano la musica tanto che a Baucina ci sono due complessi bandistici e questa nostra città ha dato origine a due illustri compositori: Francesco Genovese e Francesco Mauro Casella. Inoltre i bacinesi hanno sempre amato il teatro e un gruppo teatrale anima con le sue rappresentazioni le ricorrenze festose civili e religiose.

LA CULTURA PROFONDA E APPASSIONATA AbbiaAbbiamo conosciuto il professore Giuseppe Giaccone, pioniere dell’attività scientifica subacquea in Italia, scienziato e docente di grande cultura, impegnato da sempre nella promozione del territorio e delle comunità in esso insediate. Giaccone è attualmente presidente dell’ Associazione Venti.Ba.Ci. Anche se la sua utorità meriterebbe 'il lei', il colloquio diventa subito informale e appassionato DI LUCIANO VANNI

foto di Riccardo Frisco

Partiamo dai tuoi ricordi di vita e dalle prime immagini che ti passano davanti Ricordo il panorama invernale nei giorni di neve quando stalattiti di ghiaccio pendevano dalle tegole senza grondaie e banditori con il tamburo o la tromba che comunicavano i messaggi pubblicitari. Ricordo ancora la sfilata di noi ragazzi con la vecchia Natala, cioè la befana che girava per le strade del paese con la cesta piena di dolcetti di Natale: i buccellati con pasta di fichi o di mandorle. La befana veniva impersonata da un anziano signore della famiglia dei “pallarini”, cioè dei ballerini;

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un attore rurale, vestito da vecchia signora e con la cesta sulle spalle, membro di un gruppo di rom stabilitosi a Baucina negli anni Trenta. il gruppo nomade si era fermato a Baucina attratto dalla presenza di squadre operaie che per un decennio consolidarono la frana della “lavina del Capo”, un pericoloso torrente che aveva fatto franare il quartiere a sud di Baucina. Facciamo una passeggiata assieme? Iniziamo dal quartiere del Capo, o Testa dell’acqua, per le tre sorgenti che alimentano la rete idrica. Facciamo partire la

passeggiata proprio dal Capo e proseguiamo verso la Regia Trazzera delle Rocche verso Monte Falcone, una collina di seicento metri che deve il suo nome ai falchi che vi nidificano e che vi si concentrano in primavera a centinaia nel percorso di migrazione dall’Africa verso l’Europa. Inoltre, in cima, possiamo visitare la necropoli di una città di epoca indigena e classica (popoli Sicani, Greci e Punici) che si articola in due grandi insediamenti urbani e dalla vetta si ha una visione suggestiva con un panorama a trecentosessanta gradi.

A Baucina ci sono due festività che sono molto sentite dalla comunità. A maggio la festa del SS. Crocifisso, o “ f u r r iat a r i l i torc i,”, c elebra un’antichissima tradizione pagana, la primavera, ma anche Cristo risorto, nonostante mantenga i segni della crocifissione: la statua lignea del Crocifisso di Filippo Quattrocchi è preziosa e straordinariamente espressiva. E si assiste alle cordate di muli bardati a festa con le vertule piene di dolcetti che si spargono sulla folla augurando messi abbondanti e una vita dolce e serena. La festività è tipicamente contadina e rurale ed è vissuta come un evento di relazioni comunitarie gioiose. La festa di Santa Fortunata, promosso nella seconda domenica di settembre, è invece un vero evento di turismo religioso con la partecipazione di oltre ventimila persone che vengono da tutta la Sicilia e dall’estero e che vede il ritorno degli emigrati. La processione figurata comprende la sfilata di un centinaio di personaggi in costume romano dell’epoca di Diocleziano, quando avvenne il martirio di questa ragazza di dodici, quattordici anni. Non vi sono dati biografici storici su questa martire ma i baucinesi le hanno attribuito con amore tutte le storie più belle di una

santa vittima del martirio e ne hanno fatto uno spettacolo processionale. La festa religiosa per onorare la Patrona viene celebrata dai baucinesi il 14 febbraio, quando si ricorda il suo arrivo a Baucina nel 1790 dal Cimitero romano di Santa Ciriaca. Come def iniresti Baucina a un tuo amico che non l’ha ancora mai visitata? Baucina è u n’ar mon iosa cittadina con impianto urbano del Settecento, adagiata su due colline a est e a sud e con la vista sul mare e sull’isola di Ustica a nord. Ha interessanti complessi montuosi e una rete di regie trazzere, un'antica rete di viabilità risalente ai romani con molte emergenze archeologiche e naturalistiche lungo il percorso. Una parte del territorio è inclusa nella R iserva Regionale Orientata della C atena App en n i n ic o - M ag h rebide (denominata Monti di Trabia o di Calamigna, ndr) che ne delimita il territorio a est e a nord. Qui si può trovare una natura ancora integra con boschi di querce da sughero e querce di Virgilio ed estesi oliveti e pascoli; i monumenti religiosi e le opere d’arte sono illustrati da pannelli in ceramica nei prospetti lungo la rete viaria. Bevai monumentali ne esaltano il carattere rurale. I miei

A questo punto, puoi indicarci il tuo menù prediletto, quello preparato a casa? Un antipasto con ricotta e formaggi di produzione locale e con salsiccia pasquarosa stagionata. Come primo piatto dico una minestra con pasta, ricotta e verdure miste (borragine, cardella, cicoria, giri), raccolte selvatiche nei campi; come secondo, castrato al barbecue con contorno di cavoliceddi e pisciacani conditi con olio e limone. E per finire arance e mandarini appena raccolti e un dolce di mandorle della pasticceria locale. E cosa ti piace di più di questo paese? Mi piace il paesaggio collinare con lo sfondo delle montagne, a est Monte Cane, e a ovest Rocca Busambra; e poi la campagna con gli uliveti e i mandorleti con le frequenti mandrie di pecore pacifiche che pascolano ovunque. C’è un trekking naturalistico che ci consigli di vivere a poca distanza da Baucina? Vi sono due magnifici itinerari rurali lungo le Regie Trazzere (consultabili sul sito web: www.itinerarirurali.com, ndr) segnati da efficaci indicazioni stradali e illustrati da cartelli collocati nei siti con emergenze archeologiche, naturalistiche, culturali. Ci sono due itinerari rurali: il primo parte dalla Chiesa rurale di San Marco e va verso sud e ovest; il secondo parte dal Capo e va verso est e nord. Esiste una guida cartacea, con brochure e mappe e anche una vedeoguida su tablet che si può avere nella sede dell’Associazione Venti.Ba.Ci. o presso l’ufficio informazione del Comune.

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II BAUCINA TESTIMONIANZE

A COLLOQUIO CON ANTONINO ALBANESE QUANDO LA MUSICA CAMBIA UNA VITA E UN TERRITORIO La tradizione bandistica di Baucina è di grande valore e le sue radici affondano nel XIX secolo. Abbiamo chiesto al direttore del complesso bandistico “Francesco Genovese” di portarci nelle sue memorie e di raccontarci il suo paese DI LUCIANO VANNI

Che ricordi hai della tua infanzia a Baucina? I miei ricordi d’infanzia partono dall’età adolescenziale perché da piccolo il principale impegno era la scuola ma crescendo ho iniziato con dei piccoli progetti per tenere vivo e in attività il mio paese. Tra le mie prime attività a Baucina mi sono dedicato alla realizzazione del presepe meccanico con tutti i ragazzi della mia età, un progetto ambizioso e rilevante che per fortuna ancora adesso esiste. Data la mia passione per la musica ho poi dato inizio alla formazione di un coro polifonico e da giovane ho fatto anche parte della squadra di calcio di Baucina nel ruolo di portiere.

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E se tu dovessi accompagnare un tuo amico nel centro storico del paese, che itinerario sceglieresti? Se vieni a Baucina la prima cosa che noti è la sensazione di tranquillità che nessunaltro paesino può darti. Ci sono molti itinerari da percorrere a piedi e così riesci ad ammirare e godere di tutto ciò che ti passa accanto. A mio avviso uno dei luoghi più belli del nostro territorio è il nostro Monte Falcone dove sorge un sito archeologico di tombe sicane, greche e con reperti punici che possono essere visionati nel nostro museo archeologico. In vari punti del paese si trovano anche numerose fontane e bevai molto antichi. Il luogo dove rimarrei invece per ore è

A questo punto, puoi indicarci il tuo menù prediletto, quello preparato a casa e che faresti assaggiare a un tuo caro amico che viene a trovarti da lontano? Se vieni a mangiare a casa mia troverai muffulette con ricotta, anelletti palermitani gratinati al forno, sarde a beccafigo e insalata di arance sanguinelle con finocchi dolci. E poi, nella tua vita, c’è tanta musica La mia passione per la musica inizia molto presto. All’età di nove anni ho preso le mie prime lezioni di solfeggio con il grande maestro Francesco Genovese che notò subito la mia inclinazione e si dedicò a me con molta passione. Crescendo iniziai il mio cammino musicale con la banda del paese suonando

la tromba. Mi iscrissi al conservatorio Stimolato dal maestro Genovese e nel corso degli anni ho perfezionato la mia cultura e tecnica musicale, diplomandomi in tromba e proseguendo gli studi in strumentazione per banda e composizione. Fino a quando giunse il momento di raccogliere l’eredità del maestro Ebbene sì. Passando gli anni il maestro Genovese divenne anziano e dovette prendere una dura decisione: scegliere il suo successore. Aveva molti ragazzi diplomati al conservatorio ma nonostante ciò mi diede la più grande soddisfazione e gioia cedendomi la direzione e la gestione della propria banda musicale. Mi ritenne la persona più adeguata e culturalmente formata

per poter proseguire il suo cammino: forse aveva ragione perché ancora esiste e continuo a dirigerla. E oggi, quali sono le attività di questo complesso bandistico? La nostra associazione musicale si esibisce durante le manifestazioni religiose del paese tra cui la festa di Santa Fortunata. In questa e altre occasioni eseguiamo un repertorio di marce sinfoniche composte dal maestro Genovese e di marce sinfoniche e marce militari composte dal sottoscritto che vengono eseguite da molte bande sul territorio nazionale. In molte occasioni il corpo bandistico si esibisce nei paese limitrofi. Insomma, la musica è sempre stata il fiore all’occhiello del paese di Baucina.

la vecchia chiesetta del nostro Santo patrono San Marco dove andiamo a raccogliere bastoncini di liquirizia. E poi, sedendosi in questa piazzetta, è bello passare momenti di gioco e aggregazione. A questo punto, facciamo assieme un itinerario dei sapori e del ristoro A Baucina non trovi grandi alberghi ma un'ottima accoglienza da parte dei cittadini e c’è la possibilità di deliziare il palato con la degustazione di prodotti tipici come ricotta, mandorle, pistacchio, agrumi e olio d’oliva. Grazie all’esistenza di piccole aziende si potrà assistere alla lavorazione di ogni prodotto dalla raccolta, o mungitura, fino alle nostre tavole.

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II BAUCINA CITTÀ DI SANTA FORTUNATA E DELLA MUSICA

LA LUMACA DEL CAVALIERE L'azienda, dedita all'elicicoltura e in attività dal 2012, nasce dalla sinergia di due famiglie (Cavaliere e Valenti) con alle spalle un'esperienza pluriennale nel settore agroalimentare. La Lumaca del Cavaliere ha introdotto metodi innovativi nell'allevamento delle chiocciole, sviluppati su un'area di circa due ettari, che incorpora ben quarantotto recinti. Le lumache, della specie Helix Aspersa Muller, sono commercializzate, sia all'ingrosso sia al dettaglio, per finalità gastronomiche o riproduttive.

Contatti: Contrada San Marco 90020 Baucina (PA) • Cell: 388.1559170 E-mail: info@lalumacadelcavaliere.com • Web: www.lalumacadelcavaliere.com

AZIENDA AGRICOLA GIUSEPPE BASILE Una lunga storia imprenditoriale, radicata nella cultura pastorizia del territorio, che ha saputo rinnovarsi trasformandosi da piccola realtà locale a moderna impresa dotata delle tecnologie più avanzate, proiettando nel futuro l'antica tradizione casearia siciliana. L'Azienda Agricola Giuseppe Basile, specializzata nella lavorazione di latticini, produce diverse tipologie di formaggi tra i quali la delicata crema di ricotta (di nuova generazione), il pecorino stagionato, la classica tuma, o ancora il primosale al pomodoro secco.

Contatti: Via Palermo, 47 - 90020 Baucina (PA) • Tel: 091.8202817 E-mail: aziendabasile@gmail.com

RISTORANTE PIZZERIA “LO CHALET” La peculiarità del ristorante Lo Chalet è quella di proporre, a fronte di un menù tipico a base di carne (involtini di salsiccia secca con primo sale, pasta al ragù di cinghiale, agnello alla brace), una serie di piatti che hanno come protagonista assoluto il pesce (da assaggiare la caponata di pesce spada). Una particolarità, visto il carattere montano del locale, della quale va molto fiero il suo titolare Enzo Varisco. Immancabile il cudduruni, la tradizionale pizza siciliana con pomodoro, acciughe, cipolletta e pecorino, da affiancare a un pregiato vino rosso siciliano della rinomata cantina Buceci.

Contatti: Contrada Noce – Strada Provinciale 6, Km 7 90020 Baucina (PA) Cell: 331.9108520

SOSTE DI GUSTO Soste gourmet selezionate sul territorio: locande, trattorie, ristoranti, agriturismi ma anche pasticcerie, rosticcerie, pizzerie, forni; e perché no, anche aziende agricole, produttori di eccellenze enogastronomiche, produttori di vino, olio, formaggi e confetture. E buon appetito!

AZIENDA AGRICOLA ORLANDO L'azienda agricola di Davide Orlando, fondata dal nonno Antonio agli inizi del Novecento, è situata in una zona collinare nel cuore della provincia di Palermo. L'azienda, dedita all'agricoltura biologica, con i suoi uliveti, vigneti, mandorleti e coltivazioni di cereali, commercializza diverse tipologie di prodotti a chilometro zero, come olio d'oliva, paste artigianali, pane, confetture (consigliate quelle di melone e cannella e di melone e mandorle) e una gran varietà di dolci (biscotti, torroni, buccellati, marzapane, dolcetti alle mandorle), tramandando i sapori della tradizione siciliana attraverso una produzione etica e responsabile.

Contatti: Via IV Novembre, 88 - 90020 Baucina (PA) • Tel: 091.8202468 E-mail: info@aziendaorlando.com • Web: www.aziendaorlando.com

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BISCOTTIFICIO PANIFICIO “SANTA FORTUNATA” Con una lunga esperienza nell'ambito dei prodotti da forno, che si rinnova dal 1975, il panificio Santa Fortunata ripropone la fragranza e la freschezza tipiche dei laboratori artigianali, attraverso l'utilizzo di moderni sistemi produttivi. Qualità, innovazione e rispetto delle tradizioni sono alla base dell'impegno quotidiano di Maria Paola Realmuto, titolare del biscottificio: dai tetù (detti anche catalani), biscotti tipici siciliani alle mandorle ricoperti di glassa, ai buccellati, dolci ripieni di fichi, uva sultanina, mandorle, noci e altri ingredienti tutti da scoprire, a prevalere è l'amore profondo per i sapori di una volta.

Contatti: Viale Giulio Cesare, 30 - 90020 Baucina (PA) • Tel: 091.8202121 E-mail: info@dolciebiscotti.com • Web: www.dolciebiscotti.com

AZIENDA AGRICOLA SCIMECA ANTONINO L'operosa azienda agricola di Antonino Scimeca, a indirizzo zootecnico, è specializzata nella lavorazione di carni macellate fresche, bovine e suine, e di prodotti caseari tipici (sia classici sia riletti con nuovi sapori) quali pecorino, ricotta, primosale e tuma, acquistabili al dettaglio. Tradizioni antiche che si rinnovano attraverso l'utilizzo di moderni sistemi di lavorazione, affidati alla tecnologie più avanzate offerte dal settore, salvaguardando i sapori del territorio.

Contatti: Contrada Acquasanta - 90020 Baucina (PA) Tel: 091.8202204

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III VENTIMIGLIA DI SICILIA LA QUIETE DELLA NATURA

VENTIMIGLIA DI SICILIA LA QUIETE DELLA NATURA Ventimiglia di Sicilia è un piccolo centro di duemila abitanti situato ai piedi del massiccio Monte Cane; un paese carico di storia e di storie affascinanti, ricco di tradizioni, di tracce archeologiche e con alle spalle un patrimonio naturalistico di straordinario valore

DI FRANCESCO BUONOMANO, ANTONIO SCHEMBRI E LUCIANO VANNI

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III VENTIMIGLIA DI SICILIA LA QUIETE DELLA NATURA

NEI DINTORNI A pochi chilometri da Ventimiglia di Sicilia - nel cuore della Riserva Naturale di Pizzo Cane, Pizzo Trigna e Grotta Mazzamuto - la vista è semplicemente mozzafiato e l'orizzonte vola sul Mar Tirreno

TRACCE DEL PASSATO

Ventimiglia sorge nell’antico feudo di Calamigna e la fondatrice di questa cittadina, Beatrice Ventimiglia, è discendente di una nobile famiglia ligure che si stabilì in Sicilia a partire dal 1242, quando Guglielmo II Ventimiglia - sposando una presunta figlia di Federico II - trasferì la propria corte dalla Liguria in Sicilia. Terra abitata fin da tempi antichissimi, Ventimiglia di Sicilia si organizza in piccolo centro urbano dall’assetto moderno solo a partire dal XVII secolo. La nascita della cittadina coincide con un evento importante: quando Beatrice Ventimiglia fu elevata a principessa dal re di Spagna Filippo IV. La storia di questo paese si intreccia con le sorti della vicina Baucina e il feudo rimase tra i possedimenti delle famiglie Ventimiglia-Del Carretto fino al 1778 per poi passare ai principi Grifèo di Partanna che lo governarono fino all’abolizione dei privilegi feudali. Una storia antica, che lega idealmente questa parte di Sicilia alla Liguria attraverso l’antica nobiltà dei suoi importanti signori che proprio dai possedimenti liguri giunsero in Sicilia per scriverne le vicende. Nel XIX secolo fu aggiunta l'indicazione “di Sicilia” per distinguere la Ventimiglia siciliana da quella ligure. TRACCE DI SIGILLI

foto di Riccardo Frisco

UN INCROCIO DI IDENTITÀ

Nel breve tragitto che ci separa tra Baucina e Ventimiglia di Sicilia lo sguardo ricade inevitabilmente sul rilievo montuoso della Riserva Naturale di Pizzo Cane che domina dall’alto con uno sguardo tutt’altro che severo. Siamo in un paese che ci presenta una Sicilia che nell’arco di pochi chilometri è mare e montagna mantenendo intatto il cuore nobile della ruralità. Ventimiglia di Sicilia è stesa al sole ed è

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fantastico quando la si osserva, placida, dall’alto di Pizzo Trigna o dal Pizzo dell’Inferno, quando saliamo notevolmente sul livello del mare: il massiccio domina la valle, sovrastando Ventimiglia, Ciminna e Baucina. Alle spalle, verso Caccamo, c’è il Lago Rosamarina, un bacino idrico creato dall’uomo che adorna, da tempi recenti, il paesaggio. In questa zona, ad appena sessanta chilometri da Palermo, la presenza umana risale sin dai tempi preistorici.

Calamigna fu il nome antico di questo paese ed è probabilmente di derivazione araba, una denominazione adottata anche dagli abitanti dell’entroterra e dagli stessi cittadini; indicherebbe una cittadella fortificata, perché un tempo era difesa da imponenti mura che la circondavano e che a tratti ancora oggi affiorano tra le più moderne costruzioni. La storia nobile di questo paese continua a emergere anche ora e recenti ricerche hanno riportato alla luce antiche lucerne, frammenti di ceramiche, monete di epoca romana, rovine di fabbriche dell’età protobizantina. Ma c'è di più: le evidenze delle attività e dei commerci medievali sono testimoniate dal rinvenimento di due sigilli bizantini del VII e VIII secolo e di altre monete bizantine ritrovate presso la rocca.

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III VENTIMIGLIA DI SICILIA LA QUIETE DELLA NATURA

Passeggiare attraverso le tante stradine del centro storico di Ventimiglia di Sicilia significa comprendere fino in fondo quanto questo paese sia devoto al culto mariano

IL CUORE DEL BORGO

UN TREKKING 'SPIRITUALE'

Entrati nel cuore del centro storico ci fermiamo all'abbeveratoio di via Garibaldi costruito nelle adiacenze del Palazzo della Principessa del quale purtroppo non rimane quasi nulla ma che doveva essere davvero meraviglioso: il Castello, così come gli abitanti chiamano questo nobile palazzo, era munito di una torre di guardia, di un'ampia corte interna, di un giardino, di magazzini e di carceri, oltre che, ovviamente, di sontuosi appartamenti al piano nobile. Proprio nel cuore della cittadina c’è la Chiesa madre fondata nel 1628 per volere della nobile Signora di Ventimiglia e intitolata all’Immacolata Concezione: questo luogo di culto ospita preziose testimonianze d’arte tra le quali un prezioso trittico della prima metà del Cinquecento realizzato con una pittura a tempera e olio su tavola; si tratta di un'opera rilevante che proviene dalla scuola di Antonello da Messina ed è attribuito ad Antonello Crescenzo detto il Panormita.

Passeggiare all'interno di Ventimiglia di Sicilia signfica comprendere fino in fondo quanto questo paese sia devoto al culto mariano. E allora proseguiamo il nostro 'trekking spirituale' fino a raggiungere via Venturelli dove troviamo invece la Chiesa di San Nicolò, eretta del XVIII secolo, che conserva alla venerazione dei ventimigliesi una splendida tela ottocentesca e la statua della Madonna del Carmelo, opera del XVII secolo. A questo punto non ci resta che raggiungere la Chiesa del Monte Calvario, un luogo di culto eretto a metà del diciannovesimo secolo nella parte più alta di Ventimiglia di Sicilia, ai piedi del massiccio di Monte Cane: percorrere la stradina che conduce alla chiesa offre una sensazione di grande piacevolezza.

PAESE DI SPIRITUALITÀ

Ventimiglia di Sicilia brulica di chiesette di grande fascino. Percorrendo via Umberto incontriamo il settecentesco Oratorio degli Agonizzanti, distrutto e ricostruito nell’Ottocento: in questa chiesa è conservata una bella tela che raffigura Maria Santissima degli Agonizzanti. Arrivati in via De Gasperi s’incontra invece la Chiesa di Sant’Antonio Abate, o del Collegio, costruita nel Seicento e intitolata un tempo alle anime del Purgatorio. La Chiesa, curata ancora oggi come in passato dalle Suore della Sacra Famiglia, ospita la seicentesca statua lignea di Sant’Antonio da Padova, la settecentesca Addolorata di scuola napoletana e la tela seicentesca che raffigura il Martirio di San Lorenzo: opere significative che meritano la nostra attenzione.

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LE CHIESI CAMPESTRI

La religione rimane sempre e comunque il filo conduttore narrativo di Ventimiglia di Sicilia e non ci deve sorprendere che il culto mariano si viva anche fuori il perimetro del paese. Ne è un esempio la Festa di Maria Santissima delle Grazie, detta anche “A Matri Razia”, che si celebra il 15 agosto: per l'occasione la cittadinanza va verso il santuario della Madonna delle Grazie, fuori dal paese, cantando il rosario in dialetto. I cittadini esprimono profonda devozione verso la Madonna della Grazia che un tempo veniva portata in processione in occasione delle carestie. Ventimiglia di Sicilia possiede una seconda chiesa campestre, la piccola “Signore Ritrovato” (o Signuruzzu Asciatu). Siamo ai piedi della montagna e ci vogliono trenta minuti circa di camminata per raggiungerla dal centro del paese: la leggenda narra che la Chiesa del Signore Ritrovato sorga nel luogo dove una capretta ritrovò le ostie consacrate abbandonate da un ladro.

LA FESTA DELLA MADONNA DELLE GRAZIE STORIE DI LEGGENDE, LUCI E RITROVAMENTI

La festa della "Madonna delle Grazie" è particolarmente sentita dalla comunità e la sua storia è legata alla chiesa intitolata a S.Maria della Grazia. Si narra che fu la p r i n c ip e s s a B e a t r i c e a v o l e r n e l’edificazione nella prima metà del XVII secolo dopo aver vissuto un fatto eccezionale. Leggenda vuole che la nobildonna fu colpita da una luce che si perdeva nella notte: inviati suoi uomini a controllare cosa fosse, questi trovarono, incastrata tra le rocce, una immagine della Vergine col Bambino. Il quadro fu così portato nella cappella del palazzo ma la luce in lontananza tornò a illuminarsi. La principessa andò a controllare che il dipinto fosse al suo posto, ma in chiesa non ve n’era più traccia. Gli uomini tornarono l’indomani tra le campagne verso il luogo già visitato la notte precedente e, ancora una volta, vi trovarono il quadro della Vergine tra le rocce. Per altre due volte il quadro scomparve per poi ricomparire nello stesso luogo. Fu così che la principessa stabilì di edificare proprio in quel luogo la chiesa quasi a voler donar pace e riposo alla Vergine che nulla voleva saperne di spostarsi. Una profondissima devozione è riservata dal popolo ventimigliese alla sacra immagine sin dai tempi remoti e si rinnova ogni anno nel mese di agosto.

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III VENTIMIGLIA DI SICILIA LA QUIETE DELLA NATURA

STORIA DI UN COMUNE VIRTUOSO LA RACCOLTA DIVERSIFICATA Maddalena Abruscato, giovanissima assessore, ci racconta con grande gioia e orgoglio un primato raggiunto dai suoi concittadini: «Ventimiglia è all’avanguardia nella raccolta differenziata dei rifiuti. Abbiamo coinvolto il personale che si occupava di verde pubblico e abbiamo cominciato con la plastica per poi continuare con vetro, carta, cartone e adesso anche con l’alluminio. Abbiamo prima preparato la popolazione, sensibilizzandola sul concetto che il rifiuto è una risorsa, e poi abbiamo poi tolto i cassonetti. Abbiamo cominciato a raccogliere la plastica porta a porta e da cento chili settimanali siamo passati a raccoglierne una tonnellata a settimana. Un numero che si incrementa e una situazione ben diversa da quando i cittadini buttavano di tutto, una cattiva abitudine che comportava costi di svuotamento di 900 euro al mese. Stiamo incentivando il compostaggio domestico e molte famiglie hanno aderito in ragione della vocazione agricola del paese: alle famiglie che aderiscono al compostaggio abbiamo riconosciuto in cambio un risparmio nella bolletta della Tari pari al 20%. Insomma, siamo un Comune virtuoso».

VICOLI E PAESAGGI DI VENTIMIGLIA DI SICILIA foto di Riccardo Frisco

PARTIAMO DALLA STORIA

RITORNO AL FUTURO

LA TRADIZIONE I CANTI D’AMORE E DI SDEGNO.

I

n occasione della nostra visita a Ventimiglia di Sicilia incontriamo Maddalena Abruscato, giovanissima Assessore ai Beni Culturali e al Turismo della cittadina. È lei a raccontarci una storia eccezionalmente interessante sotto il profilo etno-antropologico. Ci dice: «Una recente ricerca ha riportato alla luce i canti d’amore che venivano recitati in ragione di storie e di passioni. Succedeva che l’innamorato cominciasse

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a cantare le sue strofe alla sua amata desiderata e che questa gli rispondesse a tono, sempre in rima: i cantori erano gli innamorati; i canti di sdegno, invece, venivano composti per rappresentare le liti tra vicini. Siamo riusciti a intervistare una serie di persone che composero e cantarono questo genere di rime per amore e una di queste viveve ancora a Ventimiglia a ha centotré anni. Si tratta di un canto bellissimo, appreso da un pastore che

ancora governa le sue pecore a ottantacinque anni: ‘Facci virdi mmilinata di lu cori tu mi caristi, fazzu finta ca muristi pi lu sdegnu che portu a tìa. Si vo fari paci cu mmia a stari sei misi ammoddu a liscìa” A Ventimiglia c’era anche la tradizione del ‘ciclo degli orbi’ perché i non vedenti suonavano e cantavano (in genere in coppia, cioè un cantore e un suonatore di violino, ndr) le loro novene per le strade del paese. Attraverso le testimonianze orali abbiamo fatto una ricostruzione di queste novene, allestendo, nel 2013, uno spettacolo sotto la direzione di un musicista locale, il maestro Angelo La Porta»

Maddalena è innamorata del suo paese e ci tiene a raccontare la sua esperienza d'impegno politico: «Siamo giovani e accomunati dalla sensibilità verso il bene comune, indipendentemente dagli schieramenti politici. Qua è stato siglato il cosiddetto “Patto di Ventimiglia”, un documento che ha creato una rete collaborativa tra cinquantaquattro sindaci; una testimonianza virtuosa che risponde in maniera propositiva alla politica dei tagli indiscriminati». Dalle sue parole si comprende il desiderio di lanciare una scommessa, quella di un piccolo paese dell'entroterra siciliano che guarda al futuro con entusiasmo e fiducia.

E in effetti Ventimiglia di Sicilia merita un grande interesse turistico. Basti pensare che in questo territorio si trova una zona archeologica rilevante in cui sono state ritrovate monete arabe e bizantine; in particolare è stato trovato un sigillo bizantino con monogramma databile al tardo settimo secolo. Questa zona è oggetto di importanti studi archeologici come quello condotto dal professore Ferdinando Maurici: e la cittadina espone la sua collezione civica [piazza S.Rosalia] dove fanno bella mostra di sé monete e sigilli bizantini. E poi c’è il futuro, che il paese affida al paesaggio. In collaborazione con il naturalista Orazio Caldarella e con il Club Alpino Italiano, c’è in progetto l’apertura di un Museo della Montagna dove saranno allestite

teche espositive per presentare l’ambiente e la biodiversità, dove si racconteranno le attività legate alle neviere, antichi pozzi che un tempo servivano alla conservazione della neve anche in estate. IL PARADISO DEL TREKKING

Ventimiglia di Sicilia è anche meta prediletta per gli amanti del trekking naturalistico. Bastano pochi chilometri e siamo all’interno della Riserva di Pizzo Cane Pizzo Trigna e Grotta Mazzamuto. Il crinale della montagna ricorda il profilo di un faraone coricato: un’immagine distinguibile soprattutto nelle tenebre, quando le notti sono illuminate dalla luna piena. Ed è un gioco affascinante scovare i lineamenti del faraone; il suo cappello, gli occhi, il naso, la bocca, la barba e il corpo disteso. Buona fortuna e buone stelle.

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III VENTIMIGLIA DI SICILIA LA QUIETE DELLA NATURA

I SAPORI DELLA TRADIZIONE Siamo entrati all'interno del laboratorio del Panificio di Biagio Bondì per vedere come nascono i sursameli e i raffiellini

BUON APPETITO!

LE GROTTE E LO SGUARDO DALL'ALTO

A contraddistinguere questo territorio ci sono numerose grotte che emergono dalla roccia: le più famose, cariche di leggende e racconti affascinanti, sono la Grotta della Befana (a' rutta da Vecchia Natala) e la Grotta del Leone ( a' rutta du liuni). La fatica richiesta per raggiungere questi straordinari giochi di natura è sempre ripagata dal panorama mozzafiato che ci circonda in ogni direzione. Per godersi appieno questi scenari naturalistici occorre raggiungere l'Eremo di San Felice, a pochi chilometri dal centro del paese: si tratta di un piccolo rifugio gestito dai giovani dell’Associazione “Amici di San Felice” dove è possibile sostare e ricevere ospitalità per almeno quaranta persone. NEL CUORE DELLA NATURA

La vista è semplicemente mozzafiato: siamo immersi nel verde della Riserva Naturale di Pizzo Cane, Pizzo Trigna e Grotta Mazzamuto, tra pascoli montani e animali allo stato brado, con una vista straordinariamente affascinante sul Mar Tirreno (Cefalù e le Isole Eolie sono davanti ai nostri occhi), sul lago Rosamarina e sui rilievi delle Madonie e dei Sicani. Dall’Eremo si aprono infinite opportunità di trekking, dalla vicina Grotta del Canale del Fico al sentiero che conduce a Mandra Piana Grande e al Rifugio Batia, a circa mille metri sul livello del mare, da dove si possono vedere le neviere, le antiche aree di accumulo della neve: anche da qui il panorama è carico di fascino.

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La mandorla, a Ventimiglia di Sicilia, regna sovrana. Ed è quindi immancabile la degustazione di due biscotti tipici a base di questo seme così straordinariamente importante per la cucina siciliana: i sursameli e i raffiellini, le vera specialità di questa cittadina, biscotti particolarmente gustosi, serviti con glassa di zucchero e con granelli di pistacchio. Una vera e propria mecca del gusto è il Panificio di Biagio Bondì [via Nuccio Grillo, 26], forno ma anche pasticceria e rosticceria. Ci sono prodotti da forno, come i grissini con sesamo, rollò con würstel e pizzette. Da Bondì si possono assaggiare una sterminata varietà di dolci: paste alle mandorle, impreziosite da canditi, e poi sfogliatine, sfinci di San Giuseppe con ricotta o con crema pasticciera, gli splendidi cuori con crema al limone, cantucci morbidi; e ancora i tanti biscotti (ottimi quelli all’arancia e al cocco), i savoiardi con zucchero e brioche con gocce di cioccolato. Non da meno sono i prodotti di “Dolci Golosità” [via Tenente Brancato, 22/24] di Cristina Portanova, un forno che racconta di specialità nate da una grande passione verso le bontà artigiane. Agli Antichi Sapori [via Giuseppe Garibaldi, 195], invece, è possibile gustare la rosticceria locale e allora come resistere ad arancini e calzoni ma anche al pollo e alla sua squisita pasta al forno. E poi c’è l’olio, di qualità e in gran quantità: quello dell’Azienda Agrobiologica Manzella e Iannello, de “L'oro di Calamigna” di Fortunata Pagano, del “Frantoio San Leonardo” di Meccia Pietro e Portanova e dell’ “Agrobiologica Cirrincione” di Faraci Antonella.

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III VENTIMIGLIA DI SICILIA

A COLLOQUIO CON MADDALENA ABRUSCATO CON LO SGUARDO SUL FUTURO Maddalena Abruscato è una giovane Assessore ai Beni Culturali, al Turismo e alla Tutela Ambientale del Comune di Ventimiglia di Sicilia: è stata la nostra 'cicerone' e ci ha fatto conoscere la storia, i segreti, i sapori e le tradizioni del suo paese DI LUCIANO VANNI

TENACIA E DETERMINAZIONE

I LUOGHI DEL CUORE

UN’ANTICA LEGGENDA

Maddalena è carica di energia e grazie a lei siamo entrati nel vivo della comunità ventimiglianese. Ma quando si tratta di farci raccontare la sua vita emerge un po' di timidezza e soprattutto riservatezza: «Non amo molto parlare di me e mi incuriosisce di più sentire cosa gli altri hanno da dire su di me; se dagli sguardi, dalle parole e dalle azioni si riesce a capire chi realmente sono o se percepiscono un'immagine totalmente distorta della mia persona». Ci facciamo comunque avanti «Ormai quarantenne mi definisco una giovane donna. Ho la maturità classica, una mancata laurea in lettere e da quasi due anni sono stata chiamata a ricoprire il ruolo di assessore, incarico che spesso risulta essere superiore alle mie forze ma che, nonostante i momenti di sconforto, porto avanti con tenacia e determinazione».

Mentre passeggiamo per le vie del paese le chiediamo di suggerirci un itinerario di trekking urbano. «Tra i luoghi a me più cari c’è sicuramente piazza Monsignor Lo Cascio, fulcro del paese dove si erge maestosa la seicentesca Chiesa madre. E poi adoro il luogo dove sorge la chiesetta campestre della Madonna delle Grazie, perché da lì si domina tutto il paese e il panorama è veramente suggestivo soprattutto la sera. Ma a parte quelli sopra citati vi porterò a vedere la fontana seicentesca che si trova su via Garibaldi e l'interno della Chiesa madre dove c'è un bel dipinto di Vito D'Anna dedicato alla Madonna Degli Agonizzanti». E scopriamo che questo piccolo paese dell’entroterra siciliano è non solo all’avanguardia nella gestione del ciclo della raccolta dei rifiuti ma che si sta preparando alla costituzione di due musei civici: «E poi, appena saranno allestiti, sarà immancabile una sosta all’interno delle sale del Museo Archeologico e del Museo della Montagna».

«La tradizione orale ventimigliese fa risalire la leggenda legata al culto della Madonna della Grazia ai tempi della fondatrice del paese, Beatrice Ventimiglia. Costei una sera, affacciandosi al balcone del suo castello, vide in lontananza, in mezzo alla campagna, brillare un lumicino: furono mandati dunque sul posto alcuni uomini e trovarono incagliata tra due grandi rocce un'immagine rappresentante la Madonna che porge il suo seno al Bambino Gesù. L'immagine fu subito collocata nella cappella del palazzo ma la stessa sera la Principessa rivide dal balcone quella luce in lontananza: inviati nuovamente gli uomini, si scoprì che il dipinto era sparito Dalla Cappella del Palazzo. Fu così che la pia donna comprese che lì la Vergine voleva la sua dimora. Il popolo di Ventimiglia è molto devoto alla venerata immagine e tale devozione, nonostante i tempi moderni, non è mai venuta meno. Ancora oggi, infatti, dal primo al quindici di agosto, prima ancora del sorgere del sole, la gente si reca in pio pellegrinaggio alla chiesetta campestre a gruppi, talvolta a piedi scalzi, recitando la corona del rosario in vernacolo siciliano».

LA MAGIA DEI RICORDI

UN CASO ATIPICO

Incontriamo Maddalena Abruscato (nella fotografia, la prima da sinistra) al nostro arrivo a Ventimiglia di Sicilia e ci prendiamo subito un bel caffè assieme in un chiostro all’aperto che ha una straordinaria vista sui dintorni. Maddalena, per noi, è l’unico caso di “guida – cicerone” e al tempo stesso funzionario politico; perché

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durante questo nostro viaggio abbiamo sempre avuto un rapporto distinto dalle funzioni istituzionali per dimostrare che si trattava di un qualcosa di tutti, un fatto collettivo, al di là di simpatie e della partecipazione politica. Ma con Maddalena abbiamo fatto un’eccezione perché fin da subito ha dimostrato un interesse partecipativo intenso e perché con lei non abbiamo

mai parlato di politica ma del paese, della sua identità storica, sociale, paesaggistica e spirituale; e perché poi è giovane e accanto a lei si muove una giunta composta da giovani donne che vogliono far bene. Anche questa ci è sembrata una bella notizia e per questo motivo allestiamo un photo shooting con altre due sue colleghe, proprio davanti al Municipio.

Maddalena è nata e cresciuta a Ventimiglia di Sicilia. Le chiediamo di raccontarci l’adolescenza e al tempo stesso di offrirci qualche immagine del passato. «Che nostalgia e quanta spensieratezza – ci risponde - . Mi basta chiudere un po' gli occhi per tornare indietro nel tempo e vedermi correre felice tra i campi verdi a tratti ricoperti dal rosso fuoco dei tulipani. L'immagine dei tulipani è vivida nella mia mente, un'immagine che può sembrare poetica e di fantasia ma, credimi, da bambina, soprattutto in primavera, i campi erano pieni di questi fiori selvatici. E facevamo a gara per raccoglierli e il podio più alto lo saliva chi tra di noi bambini riusciva a trovarne di più». Ed emergono colori, suoni, atmosfere e odori, memorie scolpite nel cuore e che affiorano con autentica emozione: «D'estate, poi, le strade brulicavano di ragazzini dai vestiti coloratissimi. Si giocava a nascondino tra i vicoli e i cortili che avevano qualcosa di misterioso e magico e sento ancora l'odore del sugo fresco e i rintocchi del campanile che scandivano il mezzodì. I contadini tornavano dalle campagne con i muli carichi di grano e le galline svolazzavano inseguite dai ragazzi più discoli . Poi si tornava a casa a mangiare e per le strade solo il canto delle cicale»

TREKKING NATURALISTICO NEL BLU DEL MARE

Dopo la nostra passeggiata in paese scopriamo che Maddalena ci ha preparato una bella sorpresa perché ha organizzato una escursione all’Eremo di San Felice coinvolgendo un gruppo di giovani guide. La giornata è carica di luce, l’aria è fresca e lo sguardo sul panorama è profondo: le chiediamo quali sono le sue passeggiate naturalistiche più amate: «Di notevole fascino sono i sentieri che portano in montagna, tutti senza distinzione. Tra i rifugi preferisco il "Rifugio Badia", che merita di essere visto, così come a "Favarotta", in alta montagna, dove si trova una fontana dalla quale sgorga acqua freschissima; da Pizzo dell'Inferno poi, c’è un panorama mozzafiato con la montagna che sprofonda nel blu del mare». Ed eccoci tutti a bordo di una grande jeep tra paesaggi che tolgono il fiato e che raccontano una Sicilia ad alta quota; una Sicilia di montagna che non ti aspetti e che sorprende. Con Maddalena continuiamo a parlare e il racconto prosegue attorno a temi spirituali.

CON IL PIACERE IN BOCCA

Prima di salutarci, davanti a un caffè, parliamo della cucina tipica del paese: «Tra i cibi che prediligo c’è la pasta con le sarde, i pinoli, l'uva passa e il finocchietto selvatico, oppure la pasta con la "fritedda", fatta con le primizie di fave e piselli, pezzettini di carciofi e l'immancabile finocchietto selvatico. Ma non si può andar via da Ventimiglia di Sicilia senza aver assaggiato i nostri tipici dolci a base di mandorle e pistacchi: i sursameli e raffiallini». E così facciamo, e con grande piacere del palato, al panificio “Bondì Biagio”, dove abbiamo la fortuna di conoscere anche le fasi di produzione e cottura di dolci davvero squisiti. Prima di saluraci, Maddalena ci dice: «Chi viene a Ventimiglia ama la natura, la tranquillità e la cucina genuina. Troverete accoglienza e sarete accolti con grande generosità». A presto, di sicuro.

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III VENTIMIGLIA DI SICILIA LA QUIETE DELLA NATURA

RISTORANTE “LA MAGIA DEI SAPORI” La magia, oltre che nei sapori, è presente anche negli splendidi scorci offerti dalle circostanti colline bagheresi, impreziosite da alberi secolari e uliveti. Il ristorante, a conduzione familiare, propone una cucina casalinga (qui anche il pane viene preparato artigianalmente) radicata nel territorio. Tra i piatti forti del menù ricordiamo i busiati (un particolare tipo di pasta) conditi con ricotta, guanciale e carciofi, la ricotta fritta con cannella, la coppa di suino all'uva e le tipiche sfince di San Giuseppe (dolci alla ricotta • preparati per l'omonima ricorrenza). Merita senz'altro una degustazione a parte, o meglio a fine pasto, la "ratafia", il caratteristico liquore a base di gelsi neri.

Contatti: Contrada Traversa – Strada Provinciale 16, Km 11 - 90020 Ventimiglia di Sicilia (PA) • CeLl: 338.643676 Web: www.facebook.com/lamagiadeisaporiventimiglia

AGRIRESORT “CRAPA LICCA” Poco distante dalle Terme Arabe di Cefalà Diana e dall'area archeologica di Solunto, a trenta chilometri da Palermo, sorge l'Agriresort “Crapa Licca”. Il casale, gestito dalla famiglia Cassata, è immerso nel verde e nella quiete collinare ed è dotato di sei camere attrezzate di ogni comfort, affacciate su uno splendido giardino con annessa piscina. In perfetto connubio tra antichi sapori e ricercata modernità, il menù è caratterizzato da piatti tipici del territorio quali le carrubbelle (un antipasto a base di tuma e acciughe), la trippa alle melanzane, i babbaluci a picchi pacchi (lumache condite con aglio, cipolla, pomodoro e prezzemolo) e i bocconcini alla milza.

Contatti: Contrada Traversa – Strada Provinciale 16, Km 15,600 - 90020 Ventimiglia di Sicilia (PA) • Cell: 338.3378089 E-mail: info@crapalicca.it • Web: www.crapalicca.it

PASTICCERIA “DOLCI GOLOSITÀ Da oltre quarant'anni la famiglia Portanova, titolare della pasticceria “Dolci Golosità”, si tramanda le ricette della tradizione di quest'angolo di Sicilia riproponendo sapori lontani nel tempo. Una passione profonda, che si perpetua da una generazione all'altra attraverso quotidiani e consolidati riti artigianali, e dalla quale nascono, è proprio il caso di dirlo, delle dolci golosità come i buccellati, ripieni di mandorle, cioccolato e frutta candita e avvolti in una fragrante pasta frolla ricoperta di glassa bianca, o come le raffialine, dolci tipici a base di mandorle e pistacchi, che vengono solitamente preparati in casa della sposa in occasione del matrimonio.

Contatti: Via Tenente Brancato, 22/24 - 90020 Ventimiglia di Sicilia (PA) • Cell: 091.8209415 Web: www.dolcigolosita.com

RISTORANTE PIZZERIA “VILLA LE PALME”“SANTA FORTUNATA” Di recente costruzione, “Villa Le Palme” nasce dall'esigenza di creare uno spazio dedicato a ricevimenti e matrimoni. L'ampia struttura, con una sala interna e un grande gazebo esterno, che ospitano oltre quattrocento coperti, comprende anche un ristorante/ pizzeria dai tratti rustici. La cucina proposta, contraddistinta dall'utilizzo di materie prime a chilometro zero, offre una vasta scelta di portate legate alla cultura gastronomica del territorio quali salsiccia secca, schiacciatine con ricotta, carne mecciata preparata con peperoni, cipolla, salsa e spezie, cudduruni, funghi ripieni, caserecce alla siciliana e capretto aggrassato; il tutto accompagnato da ottimi vini locali.

Contatti: Via Pietro Nenni snc - 90020 Ventimiglia di Sicilia (PA) • Tel: 091.8209321 E-mail: info@villalepalme.com • Web: www.villalepalme.com

SOSTE DI GUSTO Soste gourmet selezionate sul territorio: locande, trattorie, ristoranti, agriturismi ma anche pasticcerie, rosticcerie, pizzerie, forni; e perché no, anche aziende agricole, produttori di eccellenze enogastronomiche, produttori di vino, olio, formaggi e confetture. E buon appetito!

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AZIENDA AGROBIOLOGICA MANZELLA E IANNELLO L'azienda agrobiologica Manzella e Iannello vanta radici antichissime, risalenti addirittura al 1633, periodo nel quale fu edificata la cittadina di Ventimiglia di Sicilia. La tradizione secolare, e la naturale vocazione del territorio per la coltivazione degli ulivi, ha permesso all'azienda di produrre un pregiato olio extravergine d'oliva da agricoltura biologica, di qualità superiore, certificato CODEX S.r.l. e DOP. Gli uliveti si estendono per cinquanta ettari e includono la varietà “Biancolilla”, da cui si ricava un olio dal delicato gusto fruttato, e “Nocellara del Belice”, dal sapore più intenso.

Contatti: Via Garibaldi, 18 - 90020 Ventimiglia di Sicilia (PA) • Tel: 091.8209735 Web: www.biancolilla.sicilian.net

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CIMINNA MEMORIE DEL GATTOPARDO

CIMINNA MEMORIE DEL GATTOPARDO Ciminna è città d’arte e di nobilissime tradizioni culturali, un paese dove si rincorrono infinite storie, come quelle che si intrecciano nelle celeberrime riprese del film “Il Gattopardo”

DI FRANCESCO BUONOMANO, ANTONINO DI VITA, ANTONIO SCHEMBRI E LUCIANO VANNI

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CIMINNA MEMORIE DEL GATTOPARDO

LA QUIETE DEL PAESAGGIO

Riprendiamo il nostro viaggio e con il Monte Cane alle nostre spalle percorriamo la SP6 fino a un incrocio: sulla destra ci troviamo l’indicazione per Baucina e sulla sinistra, imboccando la SP33, prendiamo la direzione per Ciminna. Davanti a noi un orizzonte vasto di campi lavorati, di uliveti e di campagna ordinata; e sullo sfondo, in lontananza, si scorgono i rilievi della Riserva Naturale Bosco della Ficuzza. Cogliamo l’occasione per andare con calma e godere di questo straordinario paesaggio, circondati da un ambiente poco antropizzato. Bastano poche curve e in poco più di otto chilometri raggiungiamo Ciminna, distesa sulle pendici del santalania, come gli abitanti del luogo chiamano con dolce cadenza il colle Sant’Anania. Il nome trae forse origine dall’arabo soemin che significa grasso, fertile, proprio in virtù della fertilità dei luoghi; e un tempo questo termine si pronunciava anche come scemin, scemina. FERTILITÀ E BUON VINO

Il dottor Vito Graziano, in un bel saggio attorno ai canti, leggende, usi e costumi di Ciminna, ha trovato antiche pagine che testimoniano due virtù storicamente attribuite al paese: l’aria salubre e il buon vino. Tra queste, citiamo quella dell'abate Francesco Sacco che disse: «Il suo (di Ciminna, ndr) territorio produce grano, orzo, vino, olio, mandorle e pascoli per armenti. Il suo maggior commercio consiste in vino ». E Vito Graziano, in virtù di questa citazione, ricorda che probabilmente per questa ragione Ciminna adottò come stemma la mammella, che è simbolo di abbondanza e nutrimento. Ancora oggi, guardandoci attorno, ritroviamo i presupposti di tali affermazioni: il paesaggio di campagna che abbraccia il centro abitato è rispettato, amato, lavorato e vissuto con grande cura.

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foto di Riccardo Frisco

LE ORIGINI

Fu qui a Ciminna che Luchino Visconti, affascinato dai luoghi e dalla chiesa adorna di stucchi intitolata a Maria Maddalena, volle girare alcune scene dal suo capolavoro, “Il Gattopardo”. Le origini di questo borgo, come per tanti paesi in Sicilia, si perdono in tempi lonta n issi m i; sappia mo che Ciminna è stata attraversata dalle più

importanti popolazioni del passato che proprio in Sicilia cercavano approdo e bottino; e che proprio in questa terra lasciarono cultura e miti, usanze e nomi, tradizioni e racconti, vivere alto e semplice. È nel 1098, in un antico documento scritto in greco, che la cittadina viene per la prima volta indicata col suo nome, Ciminna.

LE RADICI ANTICHE

Le necessità difensive, il commercio e la possibilità di organizzare il lavoro fanno pian piano sorgere un nuovo abitato. Dallo studio di documenti storici conservati negli archivi siciliani e del capoluogo, e grazie al rinvenimento di mosaici e di reperti di notevole interesse, conservati nei musei di Palermo e di Termini, emergono le radici antiche di questa comunità,

databili tra il IV e il V secolo. Tutto fa pensare ad antichi fasti, a vita vissuta e piena a un passo dal mare, in una terra calda e fertile, come il nome ricorda. Certamente abitato da secoli, per poter restituire la memoria certa di questo insediamento occorrerebbero ulteriori indagini e scavi dentro e fuori dal borgo; come ovunque, nel Mezzogiorno e in Italia. Erano quattro in un passato anche remoto

i più importanti quartieri del borgo siciliano e prendevano il loro nome, come spessissimo accadeva non solo in Sicilia, dalle chiese più antiche, le matrici. Memorabile e ricordato dalla storiografia locale è il sacco di questa terra del 1326, la distruzione del castello per opera del Re di Napoli, Roberto d’Angiò, nelle contese tra Napoli e la Sicilia. Insomma, da qui è passata la storia d'Italia.

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CIMINNA MEMORIE DEL GATTOPARDO

L’ARTE SACRA

Vucciria, come i ciminnesi chiamano il quartiere della Raccomandata, era dedita al commercio. Il trambusto, la confusione dei mercanti intenti a promuovere i loro prodotti danno il nome a questi luoghi; Vucciria, infatti, è il termine siciliano che indica proprio la confusione. La nostra passeggiata inizia dalla Chiesa madre intitolata a Santa Maria Maddalena, set, come ricordavamo, per le riprese di scene de "Il Gattopardo". Edificata nel XIII secolo, probabilmente distrutta durante una delle incursioni angioine, ha nei i secoli visto modificata la sua struttura e quindi gli interni e gli abbellimenti; esaltano questa chiesa gli stucchi seicenteschi dei Li Volsi, ispirati alla Cattedrale di Palermo. Tra le opere che meritano un grande interesse, e che

VICOLO MADRICE TIPICO DI CIMINNA foto di Riccardo Frisco

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vengono alla luce nel XVI secolo, c'è l'arco in pietra della cappella dei santi Simone e Taddeo, lo Spasimo di Sicilia di Simone Wobreck e un polittico in marmo attribuito a Giacomo Gagini; del Settecento, invece, è la tela dell'Immacolata attribuita a Grano e la tela dei Santi Simone e Taddeo di Melchiorre Di Bella, la tela con San Benedetto in gloria di Filippo Randazzo e la statua lignea di Sant'Andrea apostolo di Filippo Quattrocchi. TERRA DI PROFONDA SPIRITUALITÀ

Ciminna fu contesa sin dai tempi antichi tra i nobili del posto, dal famoso Matteo Sclafani, protagonista dei fatti siciliani del XIV secolo, ai potenti Chiaramonte fino ai Ventimiglia, signori di feudi vicini che ebbero questa terra durante il XVII secolo, quando la città fu elevata a feudo

ducale. Ciminna ebbe fortune alterne come molti paesi dell'entroterra siciliano passando anche sotto il dominio dei principi Partanna. Paese connotato da una profonda religiosità, Ciminna fa rivivere ancora oggi le sue antiche tradizioni. E come non ricordare U Triunfu, che segue la festa dell’Immacolata dell’8 dicembre, un evento atteso e partecipato dall'intera comunità. Questa celebrazione rappresenta vividamente tali sentimenti: per l'occasione il borgo si anima di notte, riscaldato e illuminato dalle vampe, i falò accesi tra le vie del paese in attesa del passaggio della Vergine. È ricordata così la venuta notturna della statua settecentesca della Madonna, ancor oggi salutata, in attesa della processione che parte dalla chiesa di San Francesco, con feste, ballate e memorabili braci.

LA CHIESA DI SANTA MARIA MADDALENA O CHIESA MADRE DI CIMINNA I

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CIMINNA MEMORIE DEL GATTOPARDO

CIMINNA Da sinistra a destra in senso orario: La Chiesa Madre Scene del film Il Gattopardo La signora Maria Anselmo Paladino

CIMINNA E IL CINEMA VISCONTI, SCORSESE E TORNATORE

SULLE ORME DEL GATTOPARDO

Se c’è un film che più di ogni altro riconduce alla Sicilia questo è “Il Gattopardo”, il capolavoro che Luchino Visconti girò nel 1963 traendo ispirazione dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ci troviamo di fronte a un classico amato e apprezzato in tutto il mondo e la scena del gran ballo, così come le scene girate in esterni, sono diventate immagine iconiche del cinema di tutti i tempi. Ma ciò che non tutti sanno è che le riprese effettuate per raccontare la residenza estiva dei Salina non furono realizzate

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all’interno del Castello di Donnafugata, descr itto così mag istra l mente da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, perché la struttura in provincia di Ragusa non ispirò il grande regista: quelle scene furono girate invece a Ciminna. Ebbene sì, Luchino Visconti rimase talmente affascinato dalla Chiesa madre di questo piccolo comune in provincia di Palermo e dal panorama circostante, che proprio nella piazzetta di fronte alla chiesa fece ricostruire, in poco più di un mese, la facciata del palazzo del principe. In tale occasione fu ridisegnata la pavimentazione e furono modificati anche

molti terrazzi che si affacciavano sulla piazzetta; e a ben guardare, ancora oggi, sono rimasti in vita alcuni balconi 'cinematografici', come un set a cielo aperto. Insomma, parte della città di Ciminna fu trasformata nell’ottocentesco Palazzo di Donnafugata e all’interno della Chiesa madre – il cui soffitto fu smontato, rimanendo danneggiato - l’organo risuonò il Te Deum accogliendo Burt Lancaster. Le riprese durarono novanta giorni, una lunga residenza che coinvolse l’intera comunità e non è difficile incontrare, come è accaduto a noi, chi ha ancora viva la memoria di quei giorni.

“Il Gattopardo” non è l’unica testimonianza cinematografica a sfiorare Ciminna perché non va dimenticato che il paese ha vissuto anche un’altra esperienza cinematografica rilevante: pochi anni fa, nel 2009, il famoso regista sicilian o Giusepp e Tornatore è ritornato in città in occasione delle riprese di “Baaria”. E non possiamo dimenticare che a Ciminna è nata la nonna di Martin Scorsese.

IN MEZZO AI RICORDI

L’esperienza delle riprese de "Il Gattopardo" fa parte di una memoria collettiva, qualcosa di importante, che è rimasto ancora oggi addosso alla comunità. Ce ne accorgiamo quando, per puro caso, incontriamo due signore proprio davanti alla Chiesa madre prima che la messa abbia inizio. Una delle due, Maria

Anselmo Paladino, la più spigliata, disinvolta e spiritosa, prima ci sorride e poi, quando capisce che veniamo da fuori e che parliamo de "Il Gattopardo", si avvicina e inizia a parlarci: «Ricordo molto bene quei giorni. C’erano delle transenne ma riuscii a intravedere qualche scena, una di quelle divenute mitiche. Ricordo i fondali sistemati da Luchino Visconti: li mise assieme

in maniera da combinarli molto bene con le bellezze architettoniche del nostro centro storico. Molti dei nostri concittadini hanno fatto le comparse nel film, incluso mio marito e molti cari amici di famiglia. Gli attori erano splendidi, così come lo era tutta l’atmosfera che questo film riuscì a rappresentare: le carrozze, gli abiti e tutto ciò che girava attorno a loro».

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CIMINNA MEMORIE DEL GATTOPARDO

... e anche quando entriamo a salutare il barbiere troviamo educazione, ospitalità e un forte senso di appartenenza alla comunità; e si aprono delle animate discussioni sulla storia di Ciminna

STORIE Le nostre storie e i nostri racconti su Ciminna nascono anche dall'incontro con il barbiere

TERRA DI SCIENZIATI E SANTI

Ciminna ha una connotazione culturale molto spiccata. Passeggiamo per le sue strade con Michele Cassata, straordinario artigiano di paramenti sacri ricamati a mano. Ci dice: «Questo paese ha lasciato testimonianze da parte di importanti personaggi della cultura siciliana, di artisti a scienziati. A partire da don Paolo Amato, architetto del senato palermitano che a fine Seicento ha lasciato diverse realizzazioni barocche sia a Palermo che qui a Ciminna; e il fratello Vincenzo Amato, musicista, imparentato con gli Scarlatti, compositore di madrigali e spartiti seicenteschi che si eseguivano fino ai primi del Novecento, adesso diventati solo musica da concerto. Tra gli scienziati c’è da ricordare il sacerdote Vito Leto. Dal XVI secolo a oggi, poi, Ciminna è stato il centro che ha dato il maggior numero di sacerdoti alla diocesi di Palermo e c’è sempre stata una

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sostanziosa presenza di ciminnesi presso il suo seminario, come ad esempio il parroco della Cattedrale monsignor Filippo Sarullo o padre Michele Polizzi, sacerdote della Cappella Palatina. Ma ce ne sono molti di preti con ruoli oggi centrali nella diocesi palermitana. Fino al 1860, quando vennero soppressi i beni della Chiesa, Ciminna contava ben sette ordini religiosi tra cui i cappuccini, i benedettini, i domenicani e i francescani» L'EDUCAZIONE DIFFUSA

Camminiamo per le stradine di Ciminna e parlare con Michele Cassata è un piacere immenso perché è un “cicerone” davvero speciale. Michele ci fa vedere il paese con gli occhi di chi conosce ogni singola storia che emerge dal sottosuolo, dai balconi delle case, ai tanti negozietti che brulicano lungo le stradine. Il suo punto di vista è colto e profondo, culturale, storico

e al tempo stesso antropologico; e anche quando entriamo a salutare il barbiere troviamo educazione, ospitalità e un forte senso di appartenenza alla comunità. E si aprono delle animate discussioni sulla storia di Ciminna e si comprende che questo paese fu un importante punto di snodo tra i porti di Palermo e Termini Imerese e che commercianti, artisti e scalpellini sostavano in questo luogo e poi si inoltravano verso l’interno della Sicilia: non per niente il paese aveva due ospedali, ci viene detto. E scopriamo che sostando in questo centro abitato i nobili o le famiglie più facoltose commissionavano loro molte opere d’arte, che fortunatamente qua sono rimaste. Le vie di comunicazione attuali rischiano di isolare Ciminna perché in questo paese si arriva e si deve tornare indietro per riguadagnare le strade siciliane principali; ma non è detto che sia un qualcosa di dannoso. Anzi.

ED È MUSICA!

Ciminna, come molti paesi della Sicilia, vanta una nobile tradizione musicale che ha memoria antichissima: come quella del complesso bandistico A.C.A.M. “Giuseppe Verdi”, che nasce nel 1827 e che ancora oggi è attiva nelle occasioni più importanti, soprattutto quando ci sono da celebrare solenni festeggiamenti. La storia di questa banda, nata in verità come orchestra, racconta la vita e l'attività dei suoi primi fondatori, dei fratelli Gattuso e del maestro Filippo Albanese, e incrocia la storia del paese di Ciminna a partire dai moti rivoluzionari che portarono alla nascita del Regno d’Italia nel 1961. Finita la seconda guerra mondiale la banda vive una stagione artistica eccezionalmente fertile grazie al maestro Antonio Cuti [1855-1933], al maestro Gabriele Bonanno, scomparso nel 1971, autore di marce funebri e di partiture ancor’oggi battute, e più recentemente al professor Francesco Frangipane. Dal 1988 la banda ha preso il nome di A.C.A.M. “Giuseppe Verdi” e attualmente è diretta dal maestro Vincenzo Grimaldo che ha il compito di arrangiare e dirigere quarantacinque esecutori, tutti provenienti da Ciminna e nella maggior parte dei casi diplomati al Conservatorio di Musica. Insomma, una storia nobile che si alimenta ancora oggi del talento, della creatività, della fantasia e dei sogni dei ciminnesi. CULTURA NOBILISSIMA E FIERA

Ciminna è una città d’arte ed esprime una tradizione culturale di notevolissimo interesse come dimostra l’attività musicale dell’associazione culturale A.C.A.M. “Giuseppe Verdi". Ma la vocazione al sapere diffuso della cittadinanza trova forma e sostanza nelle sale della biblioteca comunale, istituita nel 1977 nei locali dell’ex convento francescano “Della Scarpa” del quale rimangono nobili tracce di un chiostro del XVI secolo che mostra ancora oggi la fierezza di un tempo. Il centro culturale è particolarmente attivo ed è intitolato alla memoria di Giuseppe Alesi [1968 – 1996]: si tratta di un vero e proprio “opificio di sapienza”, come amava scrivere Umberto Eco nel suo “Il Nome della Rosa”. Qui si respira cultura.

BANDA MUSICALE CIMINNA

LA BIBLIOTECA COMUNALE IL PRESIDIO CULTURALE CIMINNESE La Biblioteca Comunale di Ciminna è stata istituita nel mese di maggio del 1997 quando il suo patrimonio contava appena quarantaquattro volumi. Tre anni dopo, in occasione del suo trasferimento negli ambienti dell'ex Convento di San Francesco d'Assisi, il suo patrimonio è salito a circa ventimila libri. Tra le testimonianze più preziose ci sono documenti della “Biblioteca Cappuccinorum, testi che vanno dal XVI al XIX secolo, e una serie di importantissimi volumi provenienti dalla “Donazione Brancato”, con una importante sezione sul Risorgimento italiano.

Alla biblioteca si accede da un arco e dopo aver percorso pochi metri di una stradina deliziosa, incastonata tra i ruderi dell’antico chiostro francescano, ci troviamo in uno spazio dove la cultura è viva e presente ovunque: l’arredamento e l'allestimento delle sale è sobrio. Zigzaghiamo tra volumi preziosi, tra punti lettura, una sala studio con il soffitto a botte e addirittura un piccolo teatrino interno.

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CIMINNA MEMORIE DEL GATTOPARDO

NEI DINTORNI foto di Riccardo Frisco

A SPASSO TRA I RILIEVI DELLE SERRE DI CIMINNA

Bastano pochi minuti per trasformare il trekking urbano per le stradine di Ciminna in uno straordinario trekking naturalistico nel cuore della Riserva naturale orientata Serre di Ciminna, un'area protetta istituita dalla Regione Sicilia nel 1997. Immersi in un panorama di rara bellezza, tra campi lavorati, vigneti e pascoli, si ergono, possenti, le rocce di un antico rilievo gesso-solfifero di antichissime origini, di età messiniana: e tutt’intorno emergono fiori, piccole piante e cespugli coloratissimi; e un odore intenso di natura. E che meraviglia quando la luce esalta il variopinto ecosistema – una vegetazione che somma l’assenzio arbustivo, la ginestra, la violacciocca e il sommaco siciliano - e al tempo stesso le pareti gessose, trasformando il paesaggio in una tavolozza cromatica affascinante e unica. Siamo all’interno di un territorio assolutamente interessante da un punto di vista geologico in quanto si tratta di indagare su eventi risalenti a sei milioni di anni fa, quando si sono depositate grandi quantità di gesso e sale; ma anche storico, per la presenza di antiche mulattiere; e infine artistico, grazie alle numerose cappelle, santuari e case contadine che rischiano di scomparire e che invece rappresentano un’identità sociale da salvaguardare.

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TRAZZERE E GOLE TREKKING NEL CUORE DELLE SERRE DI CIMINNA La punta più alta che toccheremo è a quota 777 metri sul livello del mare, una passeggiata in una campagna sterminata che ci farà entrare in contatto con la regia trazzera, sentieri naturalistici, grotte, antichi casolari e chiese rupestri. Giovanni Vallone, di mammasicily.com, ci sug gerisce tale itinerario: «Questa escursione permette di apprezzare le principali emergenze naturalistiche delle S er re di Ciminna. Un itiner ario particolarmente suggestivo e vario, che partendo da contrada Santa Caterina raggiunge i 721 metri di altitudine, per poi proseguire in cresta passando sia per la punta più alta delle serre (m 777), che per l'ingresso della Grotta del Teschio e quindi dall'Inghiottitoio di Ciminna. Rientrando, si passa dalle doline della Stretta di Caraci. Il primo tratto del sentiero è su un'antica mulattiera che valica le Serre nei pressi di contrada Cerami. Per ritornare si passa a monte di un querceto relitto, con un interessante sottobosco».

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CIMINNA MEMORIE DEL GATTOPARDO

A COLLOQUIO CON MICHELE CASSATA L’ARTIGIANATO ARTISTICO LITURGICO Michele Cassata è un artigiano del tutto particolare, in quanto titolare di un laboratorio di restauro e produzione di paramenti sacri. Con lui abbiamo passeggiato qualche ora per le stradine di Ciminna e poi siamo entrati nel suo straordinario laboratorio: e ne siamo rimasti realmente affascinati

UN SEGNO DEL DESTINO

DI FRANCESCO BUONOMANO E ANTONIO SCHEMBRI

LA BUONA SORTE

Michele Cassata inizia il suo racconto con una delle frasi che si vorrebbero e dovrebbero sempre sentir dire: «Ho avuto la fortuna di nascere in Sicilia e a Ciminna». Ci si rende conto così, da subito, di aver a che fare con una persona speciale. Michele è un artista, un artigiano, un professionista, un appassionato e racchiude in sé quanto di buono ha questa Italia: un inestimabile patrimonio di bellezza,

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di conoscenza, di competenza e di valori. Michele trasforma tutto questo con le sue sapienti tecniche, con la sua perizia e si distingue in uno dei più raffinati prodotti dell’artigianato siculo e italiano: il ricamo in oro su paramenti sacri. Ammirando i suoi lavori si fa presto a passare dalla categoria dell’eccellente prodotto d’artigianato all’opera d’arte. È l’esegesi di un territorio, la declinazione delle bellezze di questa terra calda, straordinariamente

affascinante, accogliente, scrigno geloso di innumerevoli gioielli dell’arte. Realizzare paramenti sacri non è una pratica comune e allora ci viene naturale domandare a Michele da dove nasce questa sua straordinaria passione: «Fin da bambino sono rimasto estasiato dalla bellezza della mia terra, della mia cittadina, dell’amata Ciminna». La bellezza, innanzitutto, è il motore del lavoro e dell'ispirazione di Michele.

IL RITO, LA FEDE, I RICAMI

QUESTIONE DI CUORE

Il racconto parte dai suoi ricordi. «Le numerose chiese di Ciminna mi hanno sempre lasciato a bocca aperta: i loro decori, le loro architetture e le tante opere d’arte custodite in quegli spazi. Ho iniziato a dedicare la mia attenzione ai riti, alle feste, alla profonda spiritualità dei momenti importanti della fede; a osservare incuriosito e abbagliato i protagonisti vestiti di abiti d’oro». È da Ciminna che tutto ha inizio. «Questi luoghi hanno una storia antica e straordinaria. Non è campanilismo: Ciminna ha vissuto nei secoli una profonda trasformazione urbanistica e sociale. Nel corso dei secoli sono sorte quattordici chiese e questa comunità, dal Cinquecento a oggi, ha dato più sacerdoti di ogni altro centro del comprensorio. Ne è quindi venuta fuori una speciale dimensione artistica e umana che ha portato al nascere, di opere straordinarie, come la nostra Matrice, la chiesa che più amo».

Parla da innamorato, il giovane artigiano: «È per questa ricchezza che Luchino Visconti scelse di girare proprio qui le scene del suo capolavoro cinematografico, "Il Gattopardo". Ciminna era il posto dovuto per rendere il giusto onore al racconto di Tomasi di Lampedusa. Sono profondamente innamorato del mio paese e di questi paesaggi e appena posso o ne ho l’occasione accompagno visitatori entusiasti in giro tra i vicoli e i monumenti della mia terra. E c’incamminiamo per le strade dei vetusti quartieri ciminnesi, che ricordano gli antichi popoli che abitavano questi luoghi, a spasso tra i resti della dominazione araba». Michele parla con passione: «Il paesaggio, la storia e ogni cosa bella orientano il mio lavoro. Dalle Serre di Ciminna, le singolari alture rocciose di gesso e zolfo, alle numerose chiese presenti in paese, tutto quanto ha poi ispirato le mie passioni, che son divenute nel corso degli anni la mia professione».

Il nostro dialogo è sempre intenso sotto il profilo emotivo. Michele prosegue nel suo racconto e sfiora aspetti profondamente personali: «Ho avuto la fortuna e non la disgrazia di essere nato a Ciminna. La ragione è che questo paese ha una radicatissima tradizione religiosa che si sostanzia in una dotazione di ben tredici edifici di culto, non chiesette ma chiese importanti, scrigni di un patrimonio culturale notevole, che include anche parati sacri di notevole valore. Un patrimonio di cui mi sono innamorato sin da piccolo, favorito anche dall’humus familiare: la mia famiglia conta infatti un antenato sacerdote, due zie suore, un altro zio prete. Da piccolo frequentavo a Palermo l’istituto delle Figlie di San Giuseppe, che ha chiuso i battenti qualche anno fa: qui le suore lavoravano i paramenti sacri con gli antichi metodi». Ma prima di allora, nella sua vita, ha avuto un ruolo importante la musica. «Ebbene sì, la musica è stata il primo amore della mia vita. Dopo aver frequentato l’istituto magistrale ho studiato pianoforte al conservatorio per quasi otto anni. A un certo punto un amico di Ciminna, al corrente del mio amore per le tecniche artigianali, mi ha proposto il restauro di un tessuto recuperato da una vecchia cassapanca. Mi ci sono buttato con entusiasmo, incoraggiato dalle suore di San Giuseppe. Da autodidatta ho copiato le tecniche decorative degli antichi paramenti e con il tempo ho poi raffinato e sviluppato le tecniche. La passione si univa all’attitudine ed è stato naturale per me iniziare, provare, riuscire e continuare. Ho avuto la fortuna di conoscere quelle suore che, tra le ultime, ricamavano e restauravano i paramenti sacri e da loro ho appreso e approfondito; è stato un lungo lavoro di miglioramento».

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CIMINNA MEMORIE DEL GATTOPARDO

ABILITÀ E SENSIBILITÀ

RIEMPIRSI DI GIOIA

AVANZARE LENTAMENTE

TRA GLI OSTACOLI

Il lavoro di Michele, in Italia, è concentrato nelle mani di poche persone. «Si, è vero. Non c’è una stima precisa, ma siamo davvero in pochissimi. In Sicilia sono l’unico a fare questo antico lavoro che ha bisogno di impegno, di capacità ma soprattutto di dedizione, di grande passione e di enorme pazienza. Si inizia dal disegno, dal modello, che si costruisce, nuovo ogni volta, per le esigenze della committenza. Ovviamente il restauro degli antichi paramenti e la realizzazione dei nuovi esigono diverse abilità, ma sono accumunati dalle stesse tecniche usate un tempo». Ci viene spontaneo domandare quali siano i processi produttivi di questo lavoro che sono rimasti intatti nel corso dei secoli. «Stesso certosino impegno, i medesimi materiali, oggi quasi introvabili in Italia, e gli stessi semplici attrezzi: filo prezioso, ago e ancora pazienza. Ogni cosa è fatta esattamente come si faceva nei secoli scorsi. È per questo che le richieste giungono da tutta Italia. C'è tutto un mondo e una dimensione speciale che ti conquista, come è capitato a mia sorella che ha voluto dedicare a quest’arte i suoi studi, con una tesi di laurea sui paramenti sacri a Ciminna»

Entriamo nel suo laboratorio, sobrio, accogliente e pieno di luce. Ci sono due giovani collaboratrici ai telai. C’è concentrazione e calma, grande serenità, un silenzio profondo. Il racconto di Michele prosegue e nel frattempo ci mostra alcuni suoi lavorati. «Ogni opera, una volta finita, mi riempie di gioia, di soddisfazione. Una casula, una stola o un ricamo richiedono minuziosa applicazione e maestria; e tempo, molto tempo. Vederli finalmente pronti, così come vedere recuperato grazie al mio lavoro un antico tessuto o un ricamo danneggiato dall’uso, logorato dagli anni, a volte dai secoli, mi inorgoglisce ogni volta. Non nascondo però che tra i tanti, sono fiero di uno in particolare dei miei lavori. Sono riuscito a realizzare, così come facevano sapientemente le suore ricamatrici dei secoli scorsi, la rete d’oro, una preziosa rete trasparente in filato d’oro che sostituisce il tessuto usato per le realizzazioni più importanti. Vedere questo lavoro affascina, davvero, perché è stato un momento importante per me e un risultato ancor più importante per il mio lavoro e per questa antica arte».

Questo intervento gli è molto caro e allora cerchiamo di saperne di più: «Quello della lavorazione sulle reti d’oro è una tradizione del tutto scomparsa. È logico che a questi manufatti il committente, ovvero il sacerdote, può decidere di aggiungere altro: per esempio incastonarvi pietre preziose come diamanti, smeraldi, rubini, perle, cristalli e coralli e quant’altro, per cui il valore finale schizza alle stelle. Ci sono ore e ore di lavoro giornaliero sul telaio e spesso ci si accorge dopo un’intera giornata di lavoro di essere avanzati non più di cinque centimetri quadrati al giorno». Quando Michele sfiora i tessuti e passa la mano con leggerezza sui dettagli ricamati, è evidente che prova un piacere immenso. Michele ci tiene a raccontarci le fasi delle lavorazioni, tutte rigorosamente a mano. «Per realizzare una striscia con più disegni ci vogliono circa due mesi: ogni cosa è lavorata artigianalmente. Tutto inizia dal disegno, poi arriva il ricamo e infine la confezione. Una volta ultimato il lavoro di ricamo, i parati vengono smontati dai telai per essere cuciti, messi a modello, foderati e resi utilizzabili».

E allora entriamo nel vivo della sua attività e scopriamo che tutto, anche una semplice piega, diventa un ostacolo operativo da superare. «Il mio è un lavoro di cucitura - prosegue Michele - fatto sempre a mano e molto delicato, perché le confezioni di questi abiti non sono come quelli normali: se si crea una piega, non la si toglie più. Questi vestimenti di fatto non si puliscono anche perché vengono utilizzati una due volte all’anno per gli eventi celebrativi più imponenti; diciamo che si conservano nei grandi armadi delle sagrestie in carta velina per evitare gli intacchi dell’umidità. Logicamente si opacizzano ma l’oro non arrugginisce, magari sbiadisce un po' con il tempo». DAL DISEGNO AL COLORE

Quella di Michele è un’arte raffinata e a vedere da vicino i suoi straordinari ricami, così dettagliati e armonici, pieni di colori e così ben fatti da sembrar stampati, sembra impossibile che si tratti di un intreccio di sete. «Soggetti e colori prosegue - nascono man mano. Si tratta sempre di figure che hanno tutte dei profondi significati simbolici; per esempio, la figura del pellicano, peraltro un modello già lavorato più volte. Prendiamo la foto e tra i rocchetti e le sfumature di seta scegliamo le più idonee rispetto a quanto vuole il committente. Se non abbiamo il modello, lo concepisco, partendo però sempre dalle simbologie. Il pellicano, ad esempio, secondo la tradizione cristiana, si squarcia il petto per nutrire con il suo sangue i suoi piccoli; un’immagine che rimanda quindi a quella di Cristo in croce, che col suo sangue redime l’umanità. Utilizziamo pochi materiali, non ci sono così tante tipologie di filati d’oro, ma queste tipologie lavorate a mano possono moltiplicare le loro forme. Vale lo stesso per la seta: se utilizziamo un solo colore allora viene fuori un risultato anche banale, se utilizziamo, mescolandoli assieme, e con un certo criterio, più colori , ecco che vengono fuori risultati sorprendenti: con le mani tutto si può fare». E a vedere il lavoro di Michele, come non dargli ragione! Lo salutiamo consapevoli di aver vissuto un'esperienza unica.

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CIMINNA MEMORIE DEL GATTOPARDO

A COLLOQUIO CON VITO LAZZARA VITO E GLI ANIMALI, I LIBRI, I PRESEPI E LA CAMPAGNA L’incontro con Vito Lazzara è stato inaspettato e per certi versi straordinariamente rilevante. Nonostante la giovane età - classe 1983 – Vito è stato utilissimo perché ha cultura, sensibilità, passione e un grande amore per Ciminna e ci ha permesso di saperne di più, in profondità. E allora ci mettiamo in suo ascolto DI LUCIANO VANNI

Ovviamente i ricordi più forti sono quelli legati alla mia infanzia, alle persone care e ai luoghi vissuti dai miei familiari; i luoghi che hanno segnato la storia della famiglia perché anche le pietre dei muri parlano di te, della tua vicenda e della storia dei tuoi genitori.

Che ricordi hai della tua infanzia? Ricordi molto belli! Giocavo molto per strada, come del resto tutti i ragazzi della mia età. I giochi erano spesso semplici e bastava fare una conta per poter cominciare: ammucciaredda, ovvero nascondino, acchippareddu, acchiana u patri cu tutti i so figghi, cioè con le figurine. Trascorrevo anche il tempo vivendo tutti i momenti particolari che il paese poteva offrire. Ad esempio, era usuale che il giorno di

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Sant'Antonio Abate (17 gennaio, ndr) si andasse in chiesa a prendere i divuzioni (biscotti devozionali, ndr) distribuiti in cambio di un'offerta, e ci si divertiva nel preparare la vampa e il falò che la sera ardeva in onore al Santo. E poi il rapporto con i nonni, che andavo a trovare anche diverse volte al giorno; lo scuolabus, la scuola, il catechismo; i profumi e i colori tipici e inconfondibili di ogni stagione dell’anno.

E allora facciamo una passeggiata assieme. Partiamo dalla Matrice e ti faccio salire o Peri ri pignu, il grande pino che si trova nel cocuzzolo di fronte alla chiesa. Torniamo indietro e scendiamo per via John Kennedy che dalla Matrice, passando per sutta l’arcu (sotto l’arco, ndr) porta a Chiazza, in piazza Umberto I: anche se ormai questo luogo non svolge più la funzione di centro della vita sociale è rimasto tuttavia nella toponomastica il suo antico valore. Queste viuzze, se vengono percorse in inverno, emanano un incredibile odore di muschio e nell’ astaciuni - la stagione per eccellenza, cioè l’estate - ti ritemprano dalla calura estiva. Per questo itinerario, proseguendo per via Piazza d’armi, e volgendo il nostro sguardo a monte, possiamo ammirare l’imponente torre campanaria della Matrice che sembra sbucare dagli alti muri a secco, costruiti con la locale pietra di gesso. Quando il sole è forte, diciamo verso mezzogiorno, la guglia del campanile della Chiesa di San Giovanni Arrivati, realizzata con variopinte maioliche colorate, rende l’idea di un mazzo di fiori che sbuca dal verde.

Bravo! Ci conto. Ho vissuto delle ore splendide a Ciminna. Secondo te, come potrei presentare questo paese a chi non l’ha ancora mai visitato? Un paese dove la cultura la respiri nell'aria e una popolazione, soprattutto nel passato, fine e raffinata, dai gusti gentili e attenta al bello e al particolare: le tante chiese, con i suoi arredi e i canti della pietà popolare, ne sono una lampante testimonianza.

foto di Riccardo Frisco

Arrivati in piazza ti faccio ritemprare con un bel caffè e un bignè con crema buonissima. Torniamo indietro per via dott. Barone e svoltiamo a destra per piazza S. Giovanni. Davanti a noi si presenta una scalinata non particolarmente pregevole ma che tuttavia ha una buffa caratteristica: la pedata è in equilibrio e quindi siamo obbligati a un ricambio di piede nel salire o scendere il gradino. Da qui lo sguardo è affascinante Sì e infatti, arrivati in piazza, proviamo a fare un giro di trecentosessanta gradi ammirando a sinistra la bella facciata barocca della chiesa del Battista, realizzata su progetto del concittadino Paolo Amato; di fronte a noi, invece, sono visibili i resti della Chiesa di Sant’Antonio con una guglia realizzata con maioliche policrome. Davanti a noi si apre la via Salita S. Croce ma prima di proseguire per questa strada ti faccio notare la gradinata appena percorsa; e poi ti narro che ogni ciminnese, ogni volta che guarda la scalinata dal basso come stiamo facendo noi, vola con la mente alla processione della prima domenica di Maggio quando il fercolo del SS. Crocifisso avanza maestoso tra gli equilibri precari dei portatori.

Ed ecco i rintocchi delle campane ... È sempre un bel sentire! Da qua proseguiamo il nostro percorso per le piccole vie Malta e Landolina e sbuchiamo in corso Umberto I. La strada che adesso è diventata abbastanza larga è costeggiata da antichi palazzi della borghesia che vuoi per l’incuria dei proprietari o per la vecchiaia dell’edificio stesso hanno perso il loro splendore. Arrivati in prossimità del monumento ai caduti svoltiamo a sinistra verso piazza Mattarella. Davanti a noi si apre un bel panorama: con il suo dolce pendio sembra di trovarsi davanti un teatro greco e per tale motivo spesso fa da palcoscenico agli artisti che si esibiscono per le feste del paese. Arrivati nella “cavea”, e volgendo il nostro sguardo a oriente, possiamo ammirare la collina Monterotondo, singolare per la sua configurazione sferiforme. Questo stesso paesaggio ha fatto da sfondo, nel film “Il Gattopardo”, alla partenza del conte Chevalley venuto a proporre al principe Salina la carica di senatore del regno. Lo so a cosa stai pensando! Hai fame e non ti senti di risalire di nuovo alla Matrice allora ho pensato anzitempo a lasciare qui la mia auto: ti porto a mangiare al ristorante San Vito!

A questo punto, puoi indicarci il tuo pasto prediletto, quello che mi prepareresti a casa tua? Tagliatelle al ragù, con la pasta ovviamente fresca fatta con uova delle mie galline! E poi maiale arrosto, diciamo costolette della sapura, e per dessert un cartoccio o un cannolo con crema o ricotta. Poi sai com’è, tutto ciò che cucina la mamma è buono, anche un piatto di pasta con sparacelli o sugo fresco: tutto rigorosamente dell’orto fatto in casa. Cosa ti piace di più di Ciminna? La Matrice, il Padre Eterno. Ma poi, un po' tutto. A me piace tanto osservare, perché ogni angolo ti fa sentire a casa. Dalle tue parole e testimonianze si comprende che sei una persona di fede. Cosa ti piace di più delle festività cristiane di Ciminna? Il loro essere, nella maggior parte dei casi, comuni a gran parte dei centri isolani ma allo stesso tempo particolari. Perché, come ti dicevo prima, noi siamo “raffinati” e ogni ricorrenza di carattere liturgico è stata da noi rivisitata in un modo del tutto particolare!

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CIMINNA MEMORIE DEL GATTOPARDO

TEMPIO CLUB PUB-PIZZERIA-DISCOTECA Il pub-pizzeria-discoteca Tempio Club riunisce tre differenti tipologie di locali in un'unica soluzione, esibendo un carattere flessibile. Oltre alla vasta scelta di rinomate birre internazionali, sia in bottiglia sia alla spina, è possibile gustare le particolari pizze proposte: dalle mitologiche Ares, Ulisse o Medea, a quelle più legate alla tradizione popolare siciliana come il cudduruni, vero e proprio mix di sapori, composto da cipolle, acciughe, formaggio, olive nere, mollica di pane, salsiccia e salsa di pomodoro.

Contatti: Contrada Nostra Donna - 90023 Ciminna (PA) Cell: 329.3664185

ROSTICCERIA-PANIFICIO-BISCOTTIFICIO PATERNA SALVATORE A conduzione familiare, il negozio di Salvatore Paterna è una boutique di profumi e sapori artigianali, un luogo dove gusto e tradizione si amalgamano armoniosamente. Ci si lascia così tentare dal goloso sfincione, simile a una pizza e condito con salsa di pomodoro, cipolle, acciughe, origano e caciocavallo ragusano, o dall'infriulata, sorta di calzone ripieno che al suo interno cela carne di maiale, pomodoro, cipolla e formaggio. Impossibile poi non assaggiare il buccellato, dolce di pasta sfoglia farcito con fichi secchi, mandorle, uva passa e scorze d'arancia.

SOSTE DI GUSTO Soste gourmet selezionate sul territorio: locande, trattorie, ristoranti, agriturismi ma anche pasticcerie, rosticcerie, pizzerie, forni; e perché no, anche aziende agricole, produttori di eccellenze enogastronomiche, produttori di vino, olio, formaggi e confetture. E buon appetito!

Contatti: Via Chirafisi, 16 - 90023 Ciminna (PA) Tel: 091.8204903

MACELLERIA CATALANO DOMENICO La passione per il proprio lavoro e la cura minuziosa nella scelta delle materie prime sono una prerogativa di Domenico Catalano, titolare dell'omonima macelleria situata nel centro di Ciminna. Accanto ai pregiati tagli di carne bovina e suina, provenienti da allevamenti del territorio, fanno bella mostra di sé gli insaccati artigianali, tra i quali spicca la tipica salsiccia secca speziata con pepe nero, ricetta che affonda le sue radici nell'antica tradizione culinaria contadina.

Contatti:

RISTORANTE SAN VITO I fratelli Gaetano e Stefano Smeraldelli, titolari del Ristorante San Vito, propongono una cucina tradizionale, strettamente correlata al territorio. Si possono così degustare piatti tipici quali i funghi ripieni, il cuddiruni (un particolare tipo di pizza), la caponata, gli involtini di melanzane, la focaccia con le sarde, la stigghiola d'agnello, nonché una pregiata selezione di salumi e formaggi locali, tra cui la ricotta calda. Il ristorante si affaccia su Ciminna, piccolo centro della provincia palermitana, e permette di godere degli splendidi paesaggi offerti dalle colline circostanti.

Via A. Spatafora, 18 - 90023 Ciminna (PA) Tel: 091.8204007

SALUMERIA OLIVIERI GIUSEPPE

Contatti:

La qualità è un elemento imprescindibile per Giuseppe Olivieri, e lo testimoniano l'ampia scelta di insaccati tipici del luogo (salsicce, salami, pancette) e di formaggi della ricca cultura casearia locale, prodotti esclusivamente con ingredienti genuini, nonché le carni fresche macellate, provenienti da allevamenti del territorio certificati e garantiti. Nella sua salumeria la memoria delle buone cose di una volta si rinnova grazie ai profumi e ai sapori caratteristici della tradizione siciliana.

Via San Vito - 90023 Ciminna (PA) Tel: 091.8204674

Contatti: Via Umberto I, 92 - 90023 Ciminna (PA)

GATTOPARDO PUB-PIZZERIA Varcando la soglia del Gattopardo, pub-pizzeria dai rimandi cinematografici, ci si immerge in un'atmosfera raccolta e cordiale. Qui la pizza rappresenta, in tutte le sue più gustose varianti, una delle passioni di Alfredo Frangipane, il titolare, attento alla scelta delle materie prime e a ogni fase della sua preparazione. Da provare, fra le tante tipologie di pizza proposte, l'appetitosa e ricca cudduruni (sia bianca sia rossa), derivata da un'antica ricetta della tradizione siciliana.

Contatti: Via Pietro Nenni snc - 90020 Ventimiglia di Sicilia (PA) • Tel: 091.8209321 E-mail: info@villalepalme.com • Web: www.villalepalme.com

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BAR DEL CORSO DI LA CORTE MARIA Oltre a essere un luogo d'incontro e di ritrovo, il Bar del Corso, catalizzatore della quotidianità ciminnese, permette di assaporare alcune specialità della tradizione gastronomica siciliana, come il "pani câ meusa" (panino con la milza), disponibile ogni mercoledì, che rappresenta uno dei più antichi esempi di street food palermitano, risalente probabilmente al periodo medievale. Il bar propone, oltre ai classici aperitivi a buffet, anche primi piatti con pasta artigianale preparata quotidianamente.

Contatti: Via Umberto I, 64 - 90023 Ciminna (PA)

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V MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI

MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI Mezzojuso è una città complessa e con uno straordinario patrimonio monumentale, storico e artistico: accoglie due culti, quello latino e quello greco bizantino, e fa bella mostra di sé con chiese e monasteri. Mezzojuso è anche la città di Mastro del Campo, del restauro del libro antico, dell’Isola dei Pupi e della castagna

DI FRANCESCO BUONOMANO, ANTONIO SCHEMBRI E LUCIANO VANNI

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V MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI

LA CHIESA DI SAN NICOLÒ DI MIRA, DI RITO BIZANTINO, E LA CHIESA DELL’ANNUNZIATA, DI RITO LATINO

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AI PIEDI DELLA RISERVA NATURALE

L’UNICITÀ SOCIO-RELIGIOSA

Riprendiamo il nostro viaggio e da Ciminna ci dirigiamo verso Mezzojuso percorrendo la SP33. Sono appena quindici chilometri e il paesaggio che attraversiamo è realmente affascinante. Osservato di sera, dalla scorrimento veloce verso Agrigento, Mezzojuso sembra davvero un presepe: il nucleo abitativo si mescola perfettamente ai colori accesi del circostante paesaggio collinare fatto di pascoli e vigneti, mandorleti e castagneti: in alto svetta la Rocca Busambra ed è un gran bel vedere! Davanti a noi si delinea la sagoma della Riserva naturale Bosco della Ficuzza, una vasta area protetta che circonda, e abbraccia, questo piccolo centro abitato.

Mezzojuso fu fondato dai Saraceni nel X secolo col nome di Manzil Yusuf in onore dell’emiro Abu al Fatah Yusuf. Ciò che fa di questo paesino di duemila anime a quarantacinque chilometri da Palermo un singolare contenitore culturale è la sua unicità socio-religiosa: vi convivono infatti cattolicesimo e rito greco-bizantino. Abbiamo la fortuna di conoscere Antonio Lascari, papas della comunità ortodossa, e con lui scambiamo una lunga conversazione: «Noi siamo uniti alla Chiesa cattolica, il nostro vescovo, a capo dell’Eutarchìa di Piana degli Albanesi, è infatti nominato dal Papa». Non c’è dubbio però che le nette differenze tra rito greco e latino fanno

ancora sopravvivere una sorta di spartiacque culturale che però oggi non si traduce più in reciproca opposizione: «Ormai – sottolinea papas Lascari - i due riti convivono pacificamente, anche all’interno delle stesse famiglie». A differenza di Piana degli Albanesi, a Mezzojuso la lingua arberesh si è perduta alla fine del XIX secolo e la ragione risiede nella sua posizione geografica: questo paese fu infatti sede di uno dei principali fondaci della Sicilia, ossia i luoghi di accoglienza dei viandanti e di stazionamento per animali e merci. Così, aperto all’afflusso delle popolazioni delle aree orientate verso Palermo, che distava almeno un giorno di viaggio, Mezzojuso vide diluirsi il suo carattere greco.

CITTÀ DI MONASTERI

La piccola Mezzojuso accoglie dentro di sé uno straordinario patrimonio monumentale, storico e artistico. Di monasteri, ad esempio, ce ne sono quattro, due per rito: i collegi di Maria e dei Frati Minori, e i due conventi basiliani, uno per i monaci, l’altro per le suore; tutti luoghi in cui si conserva, come cristallizzata, la storia della cristianità europea. In Sicilia, dal XIV secolo in poi, la Chiesa ortodossa venne difesa dai combattivi soldati macedoni. Il loro eroe fu Giorgio Castriota Skanderberg i cui servigi fecero guadagnare agli albanesi alcune terre abbandonate, sia in Sicilia che in Calabria: una dote importante su cui giocare la salvezza della propria etnìa. A seguito dell’uccisione

di Skanderberg da parte dei turchi, le comunità arberesh cominciarono a insediarsi in Sicilia tra Mezzojuso, Palazzo Adriano, Piana degli Albanesi e Santa Cristina Gela: tutti piccoli centri in cui era chiaramente radicato e forte il cattolicesimo. Si innescò quindi quel dualismo durato secoli ed è affascinante notare come in questo paese dell'entrotera siciliano si sia trovato un equilibrio e una convivenza tra diverse culture e tra diversi culti. LA STORIA DEI DUE CULTI

Abbiamo al nostro fianco un cicerone di grandissima cultura, Mario Liberto: «La Cristianità europea ha sempre avuto un dualismo, in certi periodi conflittuali. Qui in Sicilia, dal XIV in poi, la Chiesa

ortodossa venne difesa dai soldati macedoni, combattivi per vocazione, che difesero tale baluardo spirituale per secoli proteggendo molte regioni del Mediterraneo dalle invasioni dei Turchi: si pensi a Skanderberg, eroe albanese, che aveva un esercito che ricalcava le falangi di Alessandro il Macedone. Quando viene ucciso Skanderberg qui in Sicilia gli albanesi si insediano a Mezzojuso, paese dove era radicata e forte la religione cattolica. Quando il Concilio di Trento stabilì che le comunità, con i relativi riti, avrebbero dovuto essere necessariamente incanalati in un ordine, i Bizantini scelsero il loro personaggio di riferimento, San Basilio: da quel momento, i bizantini siciliani si chiameranno basiliani ».

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V MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI

LA TRADIZIONE DELLE ICONE CULTURE, TRA PASSATO E PRESENTE

LA CHIESA DELL’ANNUNZIATA, DI RITO LATINO

LA CHIESA DI SAN NICOLÒ DI MIRA, DI RITO BIZANTINO

La nostra passeggiata ha inizio in piazza Francesco Spallitta, dove sorgono le due chiese matrici: la Chiesa di San Nicolò di Mira, di rito bizantino, fondata nel 1516 dagli esuli albanesi, e la Chiesa dell'Annunziata, oggi di rito latino, ma inizialmente di rito bizantino, costruita anch'essa dagli esuli albanesi nel 1572 e in seguito rimaneggiata. Siamo davanti alla chiesa di San Nicolò di Mira, costruita a ridosso di una torre già esistente e aperta al culto dal 1520: ma poi, per l’aumento della popolazione e dei fedeli, essa si rivelò piccola e alla fine del Cinquecento venne abbattuta e ricostruita nello stesso posto secondo le esigenze del rito greco-bizantino. Prima ancora di entrare all'interno della Chiesa di San Nicolò osserviamo il suo

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campanile che fu costruito agli inizi del Seicento, un lavoro che consistette nella sopraelevazione della Torre nella quale si trovava l’orologio pubblico: durante la seconda metà dell’Ottocento la chiesa subì numerosi interventi di trasformazione interna che ne mutarono l’aspetto originario e in particolare furono abbellite le superfici interne della chiesa con decori di stile greco. Attualmente l’edifico presenta un impianto a navata sormontata da una volta a botte e all’interno

si trovano splendide icone bizantine del XVI sec., una Theotokos del XIII sec., un Crocifisso d’avorio su croce d’ebano del XVII sec., una crocetta athonita di legno e numerose statue lignee di valore. A San Nicolò, notiamo la ‘solea’, gradino antistante all’iconostasi, all’altare, da cui vengono impartiti tutti i sacramenti. Si contano molte icone: una è particolarmente pregiata e venne realizzata da Leos Moskos, famoso iconografo le cui opere si trovano anche a Venezia.

A pochi metri di distanza c’è la Chiesa dell’Annunziata e fin dall’ingresso spiccano gli affreschi di Santa Rosalia, di San Vincenzo con la Madonna del Rosario e dell’Annunziata, opere della bottega dell'artista Rosario Bagnasco; fanno bella mostra di sé anche numerosi stucchi, ben fatti e diffusi, simbolo di gusto e ricchezza. Situata a monte della Piazza Umberto I, a fianco del cosiddetto Castello, che fu in passato dimora dei Corvino, la chiesa originaria, di piccole proporzioni, fu costruita dopo l’espulsione dei saraceni durante la prima metà del sec. XI, così come testimoniano le ricerche effettuate dal Pirri e dal Raccuglia e riproposte da Ignazio Gattuso. Si presume che la chiesa originaria fosse a unica navata senza abside e che tra il 1527 e il 1572 venne attuato un primo intervento di ampliamento per adeguarla all’aumento della popolazione, avvenuto proprio in quegli anni; quando venne riaperta al culto fu intitolata alla S.S. Annunziata. Nel 1680 la chiesa venne ampliata

definitivamente in direzione opposta all’ingresso, occupando parte del giardino del Castello e alcuni lotti di terreno su cui insistevano delle vecchie abitazioni furono abbattute per far posto alla nuova costruzione che doveva farsi più rilevante. L’impianto attuale presenta una pianta a croce latina suddivisa in tre navate con transetto, mentre la nuova configurazione della facciata esterna - secondo un intervento del 1924 - presenta tre portali sovrastati da archi a sesto acuto, due rosoni e una scultura marmorea. All’interno della chiesa si trovano una bella scultura del Crocifisso in legno policromo (opera datata 1693 e firmata da un ignoto scultore siciliano) e due dipinti settecenteschi, grandi tele raffiguranti la Comunione di Santa Rosalia, la Vergine che appare a San Vincenzo Ferreri e l’Annunciazione; pregevole, inoltre, la suppellettile sacra (Trittico in oro - Pisside donata dal Marchese di Rudinì - due crocifissi in avorio) e le numerose statue lignee presenti all’interno delle cappelle poste a ridosso delle navate laterali.

Nella Tradizione bizantina le icone rappresentano documenti di interesse storico, teologico e filosofico, oltre che artistico. L’iconografia, per i fedeli orientali, è Anàmnesi (ricordo-richiamo), Kèrisma (a n nu n cio - c a te c h esi), e T h e o r ia (contemplazione-preghiera); è richiamo alla tradizione, è annuncio-dichiarazione di una presenza ed è contemplazione e coinvolgimento vitale per un cammino di speranza. A Mezzojuso ben quattro chiese hanno l’iconostasi. In seno alla tradizione orientale la trasformazione, dentro la chiesa, del recinto del coro basso e aperto (templon) in muro di icone o iconostasi, comincia verso l’XI secolo e si diffonde a partire dal secolo successivo. Mezzojuso, che fa capo all’Eparchia di Piana degli Albanesi, conserva un enorme patrimonio di icone, alcune portate dall’Oriente, altre fatte venire dalla Grecia, altre dipinte in Sicilia. Buona parte di esse sono di Creta o della scuola cosiddetta cretese, che, dopo la caduta di Costantinopoli, rappresenta il meglio della pittura iconografica. Fra gli artisti-rivelazione che hanno operato a Mezzojuso, c’è Ioannichios, nato all’inizio del 1600, la cui personalità corrisponde a quella evidenziata dalle icone: a un pittore, cioè, dotato di eccezionale forza e resistenza, fedele, nei limiti della sua epoca, alla tradizione iconografica. A lui sono attribuite sei grandi icone. Sempre della seconda metà del Seicento è la tavola illustrativa, che accomuna cinque temi iconografici distinti: è la “Epi Si cheri” del ben noto Leo Moschos, appartenente a una famiglia di iconografi conosciuti a Venezia e nei territori veneziani. Le icone di Mezzojuso, sia quelle ereditate da generazioni passate, che altre prodotte in tempi più recenti, testimoniano una continuità di fede e di espressione artistica memore di antiche e originali tradizioni figurative. Come nei secoli passati così anche oggi a Mezzojuso non solo si praticano liturgie e riti bizantini ma si perpetuano il desiderio e la volontà di circondarsi di icone, di quelle antiche che costituiscono il patrimonio storico artistico, segno della tradizione e della fede di questa comunità grecoalbanese, e pure di altre contemporanee, sia importate, sia ancora una volta prodotte in loco, che evidenziano un legame indissolubile e duraturo tra passato e presente.

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V MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI

Le nostre due comunità si vogliono bene, siamo consapevoli dell’unicità culturale del nostro paese, una risorsa fondamentale da preservare e promuovere

AL CIRCOLO REDUCI

Davanti a queste due splendide chiese, ai lati di piazza Spallitta, notiamo l’insegna del Circolo Reduci e una serie di anziani che parlano tra di loro. È qua che incontriamo Carmelo Perniciaro, di settantanove anni, veterano della seconda guerra mondiale ma figlio a sua volta di un reduce di Trento-Trieste. Vinta la timidezza, gli chiediamo di raccontarci la sua Mezzojuso e il nostro dialogo parte proprio dai due culti del paese: «Oggi i cittadini appartenenti ai due ordini vanno d’accordo. Le nostre due comunità si vogliono bene, siamo consapevoli dell’unicità culturale del nostro paese, una risorsa fondamentale da preservare e promuovere. Certo, i tempi in cui il disaccordo era forte sono stati lunghi. In occasione

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della festa di Pasqua del venerdì Santo ci trovavamo separati, c’era un dualismo e ancora oggi le celebrazioni, tipo quella di San Giuseppe, rimangono differenziate. I giovani se ne stanno andando via da qui perché Mezzojuso è un paese agricolo e lasciare il paese, specie per chi ha studiato, sembra un obbligo. Possediamo tante ricchezze, d’arte e di natura, e oltre all’agricoltura la ricchezza vera è il sottobosco, alimento soprattutto per le vacche. Abbiamo inoltre una importante tradizione zootecnica e il nostro prodotto di riferimento è il caciocavallo chiamato formaggio ‘palermitano’ (non è caciocavallo, in quanto questo è il nome del prodotto caseario ragusano, tutelato con il marchio Dop, ndr)». Sono parole che ci scaldano il cuore: ci salutiamo incrociando sorrisi.

A VOCAZIONE RIVOLUZIONARIA

Mezzojuso ha dato i natali a grandi personalità della cultura, della politica e della scienza, come Gabriele Buccola, fra i primi psichiatri italiani a studiare la psicologia sperimentale e la psicologia fisiologica precedentemente a Freud, e Francesco Spallitta fondatore dell’istituto di fisiologia di Palermo. Ma questo piccolo paese dell’entroterra siciliano possiede anche un’antica vocazione rivoluzionaria: la cittadina, infatti, combattè contro i Borboni e Francesco Bentivegna fu protagonista della rivolta anti-borbonica in Sicilia che ebbe a Mezzojuso un centro nevralgico in ragione della posizione geografica del paese, adiacente alla macchia del bosco della Ficuzza e di Godrano. Bentivegna venne fucilato in piazza, a Mezzojuso.

LA MAGIA DEL MASTRO DI CAMPO IL CARNEVALE DI MEZZOJUSO

Il Mastro di Campo è la grande festa popolare celebrata a Mezzojuso a Carnevale. Si tratta di un Carnevale drammatico incentrato sulla lotta del Mastro di Campo per la mano della Regina usurpatagli dal Re. Gli interpreti ammontano a un centinaio e si rifanno a un canovaccio tramandato di generazione in generazione. Sul canovaccio si improvvisa, in bilico fra tradizione e innovazione. Il Mastro di Campo è rappresentato a Mezzojuso da almeno due secoli, e ha luogo l’ultima domenica di Carnevale nella piazza Umberto I°. Quando tutto è pronto per l’inizio, arriva il corteo reale composto dal Re, dalla Regina, dai Dignitari, dalle Dame, dal Segretario, dall’Artificiere, da alcune guardie e dai Mori. Il Mastru ri Casa anima il corteo. Eseguiti dei giri attorno alla piazza, il gruppo sale su un palco che funge da castello e dà inizio a una festa danzante. Intanto appaiono le maschere legate alla tradizione: u Rimitu, i Maghi, le Giardiniere con le scalette, ecc. Mentre si danza, arrivano in piazza gli Ingegneri del Mastro di Campo, armati di cannocchiale, di strumenti di agrimensura e di un enorme compasso. Misurano la distanza del castello da un punto ipotetico della piazza in cui il Mastro di Campo potrà piazzare l’artiglieria. Ed ecco arrivare il Mastro di Campo a cavallo. L’eroe indossa una maschera di cera rossa con il naso adunco e il labbro inferiore prominente, una camicia bianca piena di nastri colorati, pantaloni e mantello rosso. Seguendo il ritmo marziale di un grosso tamburo, egli si dimena, si agita, con la testa ben alta, il braccio sinistro al fianco e nel destro una leggera e piccola spada di legno.

Del corteo fanno parte il Tammurinaru, l’Ambasciatore, Garibaldi con i Garibaldini, il Capitano d’Artiglieria, il Barone e la Baronessa su due asini, seguiti dai loro uomini. Il Mastro di Campo fa il giro della piazza, quindi si ferma di fronte al castello, scende da cavallo, si consulta con gli Ingegneri e invia con l’Ambasciatore una lettera di sfida al Re. Lette le intenzioni del generale, il Re risponde sprezzantemente. Alla risposta del Re, il Mastro di Campo, in preda ad una fortissima agitazione, afferra la spada, fa un salto dentro al cerchio precedentemente disegnato per terra dagli Ingegneri e inizia una danza guerresca ritmata dal tamburo. Danza per tutta la piazza, anche in mezzo alla gente. Il Re, sul castello, passeggia nervosamente. La Corte continua però a ballare. La Regina è in trepidazione […] Il Mastro di Campo si scontra con il Re e rimane ferito in fronte […] Creduto morto, con una veloce quanto solenne ritirata, viene trasportato via dai suoi uomini. Termina così la prima parte della rappresentazione. […] Nel castello del Re si balla e si fa festa per la vittoria ma il Mastro di Campo non è morto e, guarito dalle ferite, si riporta in piazza con il suo esercito. Ricomincia la lotta [...] Il Mastro di Campo e i Garibaldini salgono furtivamente per la solita scala fausa e, approfittando dell’attimo di confusione, circondano la Corte e incatenano il Re. Il Mastro di Campo, tolta la maschera, finalmente abbraccia la Regina. Si forma quindi un corteo che sfilerà per le vie principali del paese. Il Mastro di Campo porge il braccio alla Regina; il Re sfila in catene. Termina così la grande festa di Mezzojuso. [testo a cura della Pro Loco di Mezzojuso]

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V MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI

PAPATO E IMPERO A destra un'immagine di Papa Innocenzo III e quella di Federico II di Svevia

IL CASTELLO

Sofia Cuccia, nel volume “Arte sacra a Mezzojuso”, descrive bene piazza Spallitta. «La Piazza principale, cuore e sintesi degli aspetti peculiari dell'intero paese per la capacità di comunicare con immediatezza il dato visivo nella sua globalità, si qualifica tra gli esempi più significativi di sollecitazione alla visione attiva. Espressione della vita civile, della cultura, singolare compresenza di note cromatiche naturali e di mura impregnate di memorie, la piazza, chiusa e circoscritta in uno stretto spazio, è essenzialmente privata dei rapporti con il territorio, ossia con ciò che si trova oltre: le aspre montagne e la gioiosa veduta a valle». Una piazza che accoglie tra le sue braccia le due belle chiese, il circolo Reduci e, alla sua estremità, il

cosiddetto Castello, un palazzo nobiliare recentemente restaurato che fu dimora di feudatari, monaci di San Giovanni degli Eremiti e della famiglia dei Corvino. Insomma, più che una struttura militare, il Castello fu una nobile dimora e oggi, dopo

un buon restauro, questa straordinaria struttura è tornata a nuova vita e ospita la Biblioteca Comunale, il museo del Mastro di Campo - con una bella esposizione di costumi, fotografie e panneli espositivi ed è sede di eventi culturali.

LA SCUOLA DI ICONOGRAFIA CAPPELLA DI SANTA MARIA DI TUTTE LE GRAZIE Entriamo nella Cappella di Santa Maria di Tutte le Grazie con Matteo Cuttitta, responsabile del laboratorio di restauro di Mezzojuso, e ci dice: «Nel 1130 Ruggero II affida questa piccola cappella all’abbazia di san Giovanni degli eremiti di Palermo ma poi, a partire dal 1480, arrivano su questo territorio i soldati albanesi, i quali prima cominciano a coltivare i terreni accanto alla chiesa e nel 1501, quando San Giovanni degli Eremiti non può più far fronte alla sua gestione, ne diventano affidatari a loro volta. Alla fine del Cinquecento, Andrea Reres, facoltoso albanese, fonda il Monastero ortodosso (basiliano), abitato da dodici monaci. Uno, Ioannichìu, era iconografo e diede vita, all’interno dello stesso monastero, a una scuola di iconografia. In questa chiesa si possono notare due sue icone firmate: la Madonna di Gitria e il Cristo Re dei re. L’iconostasi è stata risistemata intorno ai primi del Novecento e tra le antiche icone che si possono vedere, rarissima, forse unica al mondo, è quella del Cristo benedicente a due mani. Tutte queste, sono le icone più antiche che si possono trovare oggi in Sicilia ».

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CHIESA DI S. MARIA DI TUTTE LE GRAZIE, DI RITO GRECO BIZANTINO

All’estremità del paese, collocata a ridosso del Monastero Basiliano, troviamo la Chiesa di Santa Maria di tutte le Grazie, un luogo di culto che fu affidata ai greco - albanesi arrivati a Mezzojuso alla fine del XV secolo con l’obbligo di ripararla e ripristinarvi il culto. Da quel momento la chiesa prese il nome attuale e vi si cominciò a officiare il rito greco - bizantino e com’era uso in tutte le chiese, venne fondata una confraternita intitolata a Santa Maria di tutte le Grazie, che ebbe il compito di curare e governare la chiesa fino al 1650. Dopo tale data la chiesa, con tutti

i suoi diritti e rendite, venne ceduta al monastero basiliano sorto accanto ad essa. Ampliata nel Settecento, attualmente presenta un impianto a navata unica, con un portale laterale in marmo, decorato con aquila bicipite in campo rosso. All’interno si trovano il mausoleo di Andrea Reres, nobile albanese a cui si deve la costruzione del monastero basiliano, l’iconostasi che contiene delle preziose icone del XVI sec. e una Platytèra di origine cretese; e ancora una crocetta athonita di bosso scolpita con straordinaria grazia orafa e alcuni medaglioni dipinti sulle pareti laterali della navata da Olivio Sozzi. Un gran bel vedere.

LA STRAORDINARIA CROCETTA BENEDIZIONALE UN CAPOLAVORO IN MINIATURA A Mezzojuso, presso il centro di restauro, è conservata una crocetta benedizionale, rarissima, di valore inestimabile; un’opera realizzata nel Quattrocento da un monaco del monte Athos. È scolpita su un unico pezzo di legno di bosso (legno della mortella), incisa e traforata da ambedue i lati. Come il religioso abbia potuto fare senza lente di ingrandimento non si capisce e non viene neppure esposta per ragioni precauzionali: è custodita in cassaforte, con dei solventi per evitare intacchi di microorganismi e viene pulita regolarmente con il pennellino.

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V MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI

SANTUARIO DELLA MADONNA DEI MIRACOLI DI RITO LATINO

CENTRO DI RESTAURO DI LIBRI ANTICHI

All’interno dell’ex monastero basiliano di Mezzojuso, c’è un luogo carico di fascino: il Centro di Conservazione e Restauro Bibliografico e Archivistico diretto da Matteo Cuttitta. Conosciamo Matteo, una persona di grande talento e operosità, un illuminato di grande cultura innamorato del proprio paese e della sua professione. Il suo laboratorio è piccolo e vi si accede da una piccolissima porta: tutt’attorno ci si apre un orizzonte fatto di libri antichi, icone, colle, fogli, macchinari, piccoli e grandi. La storia di questo laboratorio viene da lontano, dal novembre dell'anno 1967, e fin da allora è un punto di riferimento nazionale per quanto concerne

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la salvaguardia e il ripristino di opere bibliografiche che hanno bisogno di cura e restauro. La tradizione di Mezzojuso inizia con il monaco basiliano Padre Dionisio Zito, a cui subentra Padre Samuele Cuttitta (anch’egli monaco basiliano) e poi continua, a partire dal 1997, con Matteo Cuttitta, nipote del monaco. Grazie a Matteo, il laboratorio di questo piccolo paese siciliano riceve incarichi importanti: è lui a restaurare i documenti manoscritti di Luigi Pirandello. Ma a Mezzojuso la tradizione del restauro è portata avanti da un’altra famiglia, La Gattuta, con la società “Restauro del Libro” [via prof.ssa A.Accascina, 4], che svolge l’attività di restauro completo eseguito su materiale cartaceo raro e di pregio, restauro membranaceo e restauro di stampe antiche.

Il Santuario si trova nella parte più bassa dell’abitato e la costruzione di esso è legata a una leggenda secondo la quale, “un giorno arrivò nel paese un uomo ammalato di lebbra. Quando gli abitanti se ne accorsero, temendo il contagio, lo cacciarono. Egli allora si rifugiò in un boschetto e li si addormentò; mentre dormiva vide in fondo a un roveto l’immagine della Madonna col Bambino in braccio dipinta su un grosso masso di pietra arenaria. L’uomo si avvicinò e sentì la voce della Madonna che gli diceva di andare in paese e di dire agli abitanti che voleva si costruisse una cappella proprio in quel posto e a testimonianza di ciò lo guarì dalla sua malattia facendolo lavare con l’acqua che sorgeva in quel luogo. Egli si recò in paese, diede la notizia agli abitanti che in breve tempo costruirono, in quel posto, una cappelletta per venerare la Vergine Santissima, che da loro fu chiamata “Madonna dei Miracoli”. La chiesa sorse in seguito, quando gli abitanti di quel quartiere presero un carro con dei buoi e misero il masso sul carro per trasportarlo verso il paese. Si racconta che a un certo punto i buoi si fermarono e non ci fu modo di farli andare più avanti. La gente interpretò il fatto come se la Madonna avesse voluto che in quel luogo si erigesse un Santuario e proprio in quel luogo fu eretto l’attuale Santuario”. Esso è a un'unica navata contornata da quattro altari decorati con stucchi e fregi in gesso, l’altare contenente la statua della Madonna dei Miracoli, quella dei SS. Cosma e Damiano, quella del Sacro Cuore, quella dell’Ecce Homo e quella del Crocifisso. Nell’abside sono posti due dipinti del pittore Celestino Mandalà, oriundo di Mezzojuso, che raffigurano due scene della leggenda: l’apparizione della Madonna al lebbroso e i buoi che trasportano il carro contenente il macigno. Sopra l’altare è collocato il masso ritrovato recante l’immagine della Madonna dei Miracoli che tiene stretta a sé il Bambino.

IL TEATRINO DEI PUPI

L'ISOLA DEI PUPI

Mezzojuso non finisce di stupirci. Nel cuore del suo centro storico, tra dedali di stradine, entriamo all’interno della sede espositiva dell’Associazione Isola dei Pupi [via solferino, 25]. Da subito si comprende una grande passione per l’opera dei Pupi e un gusto straordinario per l’allestimento dello spazio: la disposizione delle opere, la luminotecnica e ciascun dettaglio è curato nei minimi particolari. C’è gusto, eleganza e una sterminata varietà di pupi, marionette che come nella tradizione fanno riferimento all’epopea di Carlo Magno e dei suoi paladini. L’Isola dei Pupi ospita anche un vero e proprio teatrino con tanto di sedute perché in questi ambienti sono regolarmente organizzate rappresentazioni teatrali e laboratori destinati a promuovere questa antica arte tra i più piccoli.

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V MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI

TRACCE DI GUSTO

TREKKING TRA I CASTAGNETI DI MEZZOJUSO E FICUZZA

La castagna è la regina di Mezzojuso: questo delizioso frutto autunnale viene celebrato a fine ottobre con una sagra che richiama sempre moltissimo pubblico ed è inoltre il protagonista indiscusso della cucina del territorio, dalle zuppe ai dolci. Consigliamo di inaugurare questo itinerario direttamente dal Bar Pasticceria Gesualda [Piazza cap.le Gebbia, 5], per assaggiare una loro specialità dolciaria a base di castagne, e poi proseguire entrando nel cuore della Riserva Bosco della Ficuzza, fitto e rigoglioso ma anche pieno di radure, tra massi e strapiombi rocciosi immersi nel verde di lecci, querce e sugheri. Da qui potremo proseguire per una serie di sentieri, tutti affascinanti, che lambiscono qualche piccolo lago [i cosiddetti “gorghi”] e splendidi torrenti. Ci troviamo all’interno di un’area destinata alla caccia sin dai tempi di Ferdinando III di Borbone, nel XIX secolo, dove è possibile ammirare, con un po’ di fortuna, la nobilissima aquila Reale, che per l’appunto predilige le zone di montagna. All’interno della riserva sono da visitare Gorgo Lungo, Gorgo Tondo, la Peschiera del Re, le Gole del Drago, la Grotta del Romito, la splendida Casina Reale di Caccia e la Rocca Busambra.

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GOLE DEL DRAGO foto di Riccardo Frisco

Castagna e ricotta sono gli ingredienti che fanno la differenza a Mezzojuso. Ma la cucina di questo paese racconta di così tanti sapori genuini che ci viene il desiderio di chiedere a Biagio Bonanno, presidente dell’Associazione Pro Loco Mezzojuso, di immaginare un menù degustazione tipico. «Partiamo dalle minestre, e allora ti consiglio una deliziosa pasta con le lenticchie o delle squisite minestre con le castagne. Per continuare, le opportunità sono infinite, ma per rimanere sui prodotti primi del territorio, possiamo degustare un bel piatto di funghi alla graticola conditi semplicemente con olio extravergine di oliva oppure ci si può orientare sulla salsiccia arrosto, sui formaggi o sulla ricotta; anche quella servita con vino rosso locale, una delizia! E poi, in un’ideale chiusura per i più golosi, tuffiamoci nei dolci a base di ricotta, magari quelli della Pasticceria Gesualda, di Giuseppe Zito Giuseppe, che si è inventato anche un dolce a base di castagne; e per chi non è sazio può concludere il pasto con cannoli di ricotta fresca o con una cassatina. Ma non dimentichiamoci della rosticceria, che qua a Mezzojuso è ricca e gustosissima: parlo dello sfincione e della rianata (pasta pizza cotta con acciughe, olio e origano)»

ALPECUCCO FICUZZA foto di Riccardo Frisco

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V MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI

A COLLOQUIO CON MATTEO CUTTITTA TOCCARE, E LEGGERE, IL PASSATO Matteo Cuttitta, da giovane apprendista dei sapienti ed esperti monaci di Mezzojuso, diviene, con gli anni e gli studi, erede di un’arte che è vanto di questa terra. Ci offre qui il suo racconto, il ricordo dell’esperienza di una vita e la memoria di opere di straordinario valore DI FRANCESCO BUONOMANO

Migliaia e migliaia di testi, numerose e importanti testimonianze del passato sono conservate in paese, divise tra le biblioteche del Comune, delle parrocchie dei due riti, latino e greco, e infine, per la gran parte, presso l’antica biblioteca del monastero dei Basiliani. Oltre diecimila volumi che raccolgono i più importanti scritti della storia e una lunga serie di carte e pergamene che raccontano dei secoli andati, di ciò che Mezzojuso, queste valli e la Sicilia, sono state. E puoi ricordare, portando il pensiero alle pagine ingiallite dal tempo, gli insegnamenti dei celebri autori dell’antichità, dei grandi classici. LE MANI SAPIENTI DI MATTEO CUTTITTA

Sa di parole antiche questa storia. Come quelle vergate da Diodoro Siculo, altro illustre siciliano vissuto duemila anni fa, che raccontando della importante biblioteca di Tebe ricordava come il suo fondatore, Ramses II, amasse definirla medicina dell’anima. E trovi davvero sollievo e speranza per la nostra cultura a sentir parlare dei libri preziosi del monastero dei Basiliani, giunti qui da Oriente, e della importante biblioteca, con annesso laboratorio di restauro del libro antico. Mezzojuso è una continua scoperta e riserva numerose e preziose sorprese. Una storia antica, i due riti, i monaci giunti da Oriente per sfuggire alle armi e all’occupazione turca: tutto questo crea un affascinante contesto. E c’è spazio e tempo, quindi, per piccole e grandi

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scoperte. Come quella che facciamo giunti al monastero dei Padri Basiliani, che accoglie, da sempre, uno dei più importanti laboratori di restauro del libro antico attivi in Italia. L’opera di restauro s’avviò sin dai tempi lontani, quasi certamente, per la necessità degli stessi Basiliani di conservare e tramandare un patrimonio librario e di conoscenza di inestimabile valore. È così che fu messa in piedi questa antica officina, curata dagli stessi monaci per lunghissimo tempo e oggi affidata alle sapienti mani di Matteo Cuttitta. NEL RICORDO DEI CLASSICI

Il restauro dei documenti e dei volumi antichi non è solo un mestiere che chiede profonda conoscenza e perizia, è un’arte. Restituire alla forma documenti e volumi che hanno attraversato i secoli, poi, qui a Mezzojuso, è divenuta una missione.

IL GIOIELLO

Il nostro dialogo con Matteo Cuttitta inizia appena fuori il monastero e con lui entriamo prima nel chiostro e poi nel suo laboratorio. «La biblioteca del monastero – ci dice - è davvero di notevole importanza. Ci son custoditi oltre diecimila volumi e tra questi hanno certamente rilievo i libri liturgici di rito bizantino portati qui a Mezzojuso da Creta dai primi monaci d’Oriente. Abbiamo, grazie a loro, preziose cinquecentine, numerose seicentine, settecentine e volumi di epoca più recente. Una però è un vero gioiello, tra i tanti libri e documenti importanti: è una particolare edizione del cinquecento delle Opere di Plutarco, pubblicata dal famosissimo editore e tipografo dell’epoca, Aldo Manuzio. Solo due copie di questo volume sono rimaste al mondo. Una è in Francia, l’altra a Mezzojuso».

AZIONI DI SEMPRE

GUARDARE AL FUTURO

COSA NON SI DIMENTICA PIÙ

Qua si sente la presenza storica dei monaci e chiediamo a Matteo di saperne di più sul loro contributo storico nell’attività del restauro del libro: «I monaci basiliani sono da sempre esperti conoscitori dell’arte del restauro della carta, dei documenti, del libro, in ogni sua parte. La loro conoscenza, la sapiente opera, ha reso possibili lavori importantissimi, dal restauro del “Codice Atlantico di Leonardo da Vinci” al recupero di rari manoscritti che conserviamo anche qui, a Mezzojuso» Ma facciamo un passo indietro: come nasce questa tua vocazione professionale? «La mia storia di collaborazione con i monaci è iniziata quasi per gioco. Sin da ragazzino frequentavo il monastero e il fascino che esercitavano i libri e le carte antiche su me è divenuto pian piano irresistibile. A quattordici anni il mio primo lavoro da assistente, al fianco degli esperti monaci. È stato un impegno continuo, sostenuto da una enorme passione. La trasformazione di questa stessa passione in vera e propria attività professionale è stata per me naturale. Dal settantanove il mio posto è tra i libri del monastero e gli attrezzi di questo affascinante mestiere. Tutto è uguale a un tempo, ogni mossa della mia giornata. Ho studiato, ho aggiornato le mie conoscenze, specializzandomi all’Istituto centrale di patologia del libro di Roma, ma le tecniche, i gesti, la quotidianità son quelle di sempre»

Da giovane apprendista, sei divenuto erede di un’arte che sa di antico. Ci racconti questa tua esperienza? «Effettivamente è così. Il laboratorio è all’interno del monastero e qui tutto, ogni scaffale, ogni attrezzo, ogni carta racconta dei monaci e della loro maestria. Col tempo sono andati via tutti, purtroppo, e dal novantasette porto avanti il lavoro da solo. Il mio impegno è ora anche volto a diffondere queste conoscenze e quest’arte speciale. I più giovani iniziano ad avvicinarsi, a osservare timidamente, a sentire il fascino delle pagine antiche. È importantissimo provare a tramandare la tecnica, l’esperienza e, soprattutto per le prossime generazioni, questo antico bagaglio può essere una concreta opportunità. Proprio come lo è stato per me, che ho già superato i cinquant’anni. Ho da tempo avviato collaborazioni e prestato la mia opera per importanti istituzioni, come la Biblioteca Luigi Pirandello di Agrigento, per altri archivi, monasteri e per numerosi appassionati committenti. La speranza mia e di quanti amano questo mondo e a esso dedicano l’esistenza è che quest’arte possa guardare al futuro e sia patrimonio e risorsa per tanti».Il laboratorio assume una dimensione sociale a Mezzojuso, par di capire. «Vero, il laboratorio di restauro è una piccola istituzione, per tutti i mezzojusari. È per questo che appena posso, porto in giro per la Sicilia il mio lavoro, con mostre ed esposizioni».

«Il laboratorio - ci dice Matteo - è un tutt’uno con Mezzojuso, con questa terra e, naturalmente, con il monastero. Non c’è turista o visitatore che passi per il paese che non si fermi, almeno un po’, ad ammirare i luoghi dei monaci, le icone straordinarie del rito greco: poi, tappa obbligata, il laboratorio». A questo punto, non possiamo non chiedere a Matteo di raccontarci qualche suo intervento importante. «Abbiamo operato negli anni su ogni genere di supporto, di documento, su antiche carte, manoscritti, volumi a stampa. Abbiamo restaurato le antiche, importanti bolle in pergamena dell’XI e del XII secolo, conservate nell’Abbazia di San Filippo di Agira, presso Enna. Tuttavia un’opera molto preziosa, in particolare, ha ricevuto particolari attenzioni, oltreché le nostre cure. Era un preziosissimo codice copto del IX secolo, acquistato in Egitto da un turista italiano. Cinquantamila lire, all’epoca, spese alla bottega di un venditore che nemmeno immaginava di avere tra la sua mercanzia un piccolo tesoro. Così come non lo immaginava l’acquirente, sbalordito dopo gli esiti delle ricerche che effettuammo per datare e stabilire l’origine del manoscritto, che a noi appariva ovviamente di grande valore. Sono queste le storie che colorano la vita degli artigiani che per anni siedono al lavoro tra antiche carte, pergamena, cuoio, pelle e legacci. Fatti del genere non li dimentichi più»

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V MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI

A COLLOQUIO CON LEOPOLDO VIRGA I SAPORI 'EROICI' DEL BAGLIO CARCILUPO Leopoldo Virga è il padrone di casa del Baglio Carcilupo, un agriturismo immerso nella natura più profonda e quieta tra Mezzojuso e Campofelice di Fitalia. Ed entriamo in contatto con storie eroiche e sapori genuini, orizzonti vasti e una produzione biologica DI LUCIANO VANNI

A TAVOLA! BELLEZZA AUTENTICA

STORIA DI EROI E LIBERTÀ

Partiamo dalla storia, quella che Giorgio Di Nuovo è riuscito e ricostruire nel suo volume “Da Squarcialupo a Carcilupo. Storia di eroi e libertà”; perché qua, nel XVI secolo, dove oggi ha sede l’Azienda Agrituristica Baglio Carcilupo, si è vissuta una pagina importante di storia che racconta la fierezza e il desiderio di libertà del popolo siciliano. Leopoldo Virga, titolare dell’agriturismo, ci recita a memoria alcuni frammenti del discorso che Giovanni Luca Squarcialupo pronunciò proprio in questo caseggiato il 23 luglio del 1517: «"Se per ventura saremo vinti, meglio sarà per noi il morir con la

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spada in mano che fuggire come pecore per essere di poi scannati. Lungi da' nostri petti il timore e l'orror della morte, accingiamoci all'impresa o per ottenere la libertà o per morire gloriosi». Parole eroiche, che furono dettate dal desiderio di stimolare una rivolta contro l'odiato oppressore spagnolo. Lo storico Giorgio Di Nuovo ha ricostruito la storia del Baglio Carcilupo e racconta che ”forse, se tendessimo l'orecchio e chiedessimo di fare silenzio tutt'intorno, questi muri parlerebbero e ci farebbero ascoltare invocazioni e urla come ‘morte agli spagnoli' o ‘fuori lo straniero dalla Sicilia’”.

La rivolta fu sedata nel sangue e Giovanni Luca Squarcialupo - "giovane di un grande ardire, di animo fermo" - fu pugnalato all'interno della Chiesa dell'Annunziata di Palermo dove gli era stata tesa una trappola. La denominazione Carcilupo deriva proprio dal nome di quel nobiluomo che sacrificò la sua vita per il grande ideale della libertà. E nei secoli successivi la dialettizzazione del nome Squarcialupo ha portato al nome più recente Carcilupo. E oggi, a tenere alta questa nobile storia di coraggio e nobiltà d’animo, c’è Leopoldo Virga e siamo sicuri che anche Giovanni Luca Squarcialupo ne sarebbe felice: perché Leopoldo ama questa terra, la lavora con cura, a filiera bio, ha investito in un recupero architettonico curando ogni minimo dettaglio e perché mette a tavola i suoi prodotti agroalimentari. Ci dice: «Il casale è stato ristrutturato da me con tanto coraggio e tanti sacrifici». E si vede. Leopoldo è un uomo possente e sereno, dalla mani grandi e dal carattere riservato; anche la sua voce è robusta e massiccia. È una bella giornata di sole e scambiamo le prima parole all’esterno del baglio e lo sguardo corre infinito sulla campagna, senza sosta e senza che i nostri occhi intercettino altri nuclei abitativi. Tutto è ben curato e quando ci addentriamo nel piccolo chiostro che conduce al ristorante entriamo in contatto con un’ambiente rustico, a faccia vista, riccamente adornato di piante e fiori. Bellezza semplice e profonda, autentica. C’è pietra e legno, e ci sono splendidi vasi e piatti di ceramica a ornare i finestroni .

TRA I RICORDI

INCANTEVOLE!

Facciamo un passo indietro. Chiediamo a Leopoldo di raccontarci la sua adolescenza: «Sono nato a Caccamo ma la mia infanzia l'ho trascorsa tra Caccamo e Vicari. Ho tantissimi bei ricordi di luoghi naturali principalmente basati sull'attività agricola. Innamorato della mia terra, soprattutto della mia campagna, Carcilupo è ciò che mi è rimasto più nel cuore fin da piccolo. Ricordo ancora quando con mio padre percorrevamo a cavallo la strada da Vicari a Carcilupo». Nel 2015 Leopoldo festeggia sessanta anni di vita legata a Carcilupo: «Il Baglio – prosegue - è stato acquistato da mio padre nel 1955. Ricordo ancora gli anni Sessanta quando Carcilupo era abitata da tanti contadini che lavoravano la terra; morto mio padre, ho cominciato a prendere le redini dell'azienda. Iniziai con un allevamento zootecnico di mucche frisone, le famose pezzate bianche e nere. Negli anni Novanta decisi di integrare nell'azienda un'attività agrituristica che ebbe inizio nel 2001. Passai agli ovini che ancora oggi producono un latte strepitoso». Leopoldo non prende neppure in considerazione l’idea di lasciare Carcilupo.

Ciò che colpisce è che qua al Baglio Carcilupo, dalla ristrutturazione architettonica alla filiera produttiva passando per la scelta del menù, non c’è spazio per compromessi. Ci dice: «L'azienda è in biologico e abbiamo un mandorleto, prodotti zootecnici, agrumeto, cereali come l'orzo e latte di pecora. La filiera dei prodotti proviene direttamente dalla nostra terra. Abbiamo un orto ricco e ciò che mettiamo in tavola, dalle melanzane alle zucchine, passando per broccoli e carciofi, è coltivato da noi». C’è pace, nelle sue parole e nell’ambiente che ci ospita, in questo luogo così isolato ma non malinconico; qui c’è una Sicilia forte, solare e piena di natura. «A chi viene a trovarci, consiglio una suggestiva passeggiata tra le nostre colline carcilupesi ammirando il laghetto artificiale e il mandorleto che nei mesi primaverili è in fiore. Definirei il nostro territorio unicamente incantevole!». E mai come in questa circostanza l’aggettivo è adatto e pertinente: incantevole. Leopoldo inizia a raccontarci la sua giornata, tra lavoro e camminate solitarie in questi luoghi che attraversano da sempre la sua vita.

È giunta l’ora di pranzo ed entriamo nella sala ristorante: per l’agriturismo è un giorno di festa ma Leopoldo ha aperto la cucina solo per noi. I posti a tavola non sono eccessivi e la sala è davvero accogliente: tavoli e soffitto in legno, arredamento minimalista e raffinato, pareti gialle e lampadari realizzati da fabbri del luogo. «A tavola proponiamo cibi caserecci e genuini – ci dice Leopoldo – Il menù della nostra azienda agrituristica parte con un ricco ‘antipasto del casale’: caponata, peperonata, olive spadellate, zucca rossa in agrodolce, focacce con la ricotta, ricotta fresca, tuma, panelline, arancinette». Di tutto di più. Mi colpisce la fragranza, l’odore e il colore della verdura offerta: che pienezza di sapori. E poi rimango estasiato dallo sfincione e dalle panelle, che ci vengono servite in piccoli panini caldi: davvero stordenti. Il vino è locale e tutto funziona a meraviglia: «Per quanto riguarda il vino, utilizziamo quello delle aziende vicine». Ci viene servita anche una ricottina fresca ed è una delizia. Poi arrivano i primi, una pasta al ragù e un risotto con zucca, i secondi - grigliata di carne o agnello ripieno, «una delle nostre specialità», ci dice Leopoldo, e poi contorni (verdure grigliate o patate al forno) e frutta di stagione. Ma non finisce qua. A concludere il tutto ci pensano i cannoli siciliani. Il baglio dispone di un forno a legna e la sera viene servita anche la pizza «Definisco la mia ristorazione genuina, casereccia e ricca di gusto! Assolutamente ottima!», conclude Leopoldo. Come non dargli ragione!

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V MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI

A COLLOQUIO CON BIAGIO BONANNO L'EREDITÀ NOBILE DI UN TERRITORIO Mezzojuso è paese di storia, d’arte e folklore: due culti, due chiese, un solo popolo, un’anima. Biagio Bonanno è il presidente della sua Pro Loco e con grande amore, generosità, entusiasmo e spirito d'iniziativa è un motore instancabile di attività. Parlare con lui significa andare dritto nel cuore di Mezzojuso DI LUCIANO VANNI

UN IMPEGNO RIVOLTO AL PASSATO

TRASFORMARE IN TRADIZIONE

L'anima pulsante e viva di Mezzojuso, così come in altri paesi d'Italia, prende corpo all'interno della Pro Loco, l'associazione che governa le attività di promozione turistica, culturale e sociale del territorio. Incontriamo il suo presidente, Biagio Bonanno: «Questo è il paese delle icone ci dice - ma anche delle chiese, dei monumenti, del laboratorio di restauro del libro antico, della via delle iconostasi, del museo dei Pupi siciliani, della mostra permanente

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del Mastro di Campo, delle minestre di San Giuseppe, dei panuzza di San Nicola, che i contadini conservavano nei tetti per ingraziarsi il cielo ed avere tempo buono per la terra. Ogni cosa qui è stata trasformata in tradizione: gli usi, le consuetudini, la storia secolare, magicamente si fondono e prendono forma e riemergono per una delle nostre feste, dei riti, delle rappresentazioni. Anche solo per una semplice visita alle nostre bellezze, rivivi i tempi andati, assaporandone il gusto»

Raccontare della sua cara Mezzojuso deve procurargli emozioni forti, sentimenti veri, profondi. Non si spiegherebbe, altrimenti, la passione, l’impegno, la fatica, il tempo che dedica alla cittadina siciliana per provare a farne emergere gli aspetti migliori. In effetti Mezzojuso colpisce, soprattutto per questi suoi lati sconosciuti ai più. Arte, cultura secolare, tradizioni, usanze antiche. Una storia divisa a metà con le origini albanesi, che ancora si sentono tra quella parte di popolo che ne ha ereditato i caratteri, pur perdendone la lingua. «Il nostro impegno – ci dice Biagio - è rivolto al passato, alla conservazione di questi luoghi, delle nostre bellezze, dei monumenti, della nostra storia. Ma lo sguardo mio e dei tanti amici che giorno dopo giorno, da anni, dedicano il loro tempo e gli sforzi al recupero e alla conservazione della memoria è senza dubbio rivolto al futuro. Lo facciamo soprattutto per far comprendere alle giovani generazioni che la nostra ricchezza è qui, in questa terra, fuori casa nostra, appena svoltato l’angolo. E la ricchezza, questo enorme patrimonio storico e culturale, è senza dubbio l’opportunità maggiore che si possa sperare. I giovani dovrebbero convincersene, prendere coscienza, consapevolezza, impegnarsi. E’ questo il nostro modo di guardare avanti, portando nel cuore il nostro passato». La tradizione del nuovo.

UN PATRIMONIO COLLETTIVO

Quando Biagio parla è come se affiorassero davanti ai miei occhi delle immagini vere, dettagliate: «Mezzojuso è un piccolo paesino dell’entroterra palermitano circondato da un enorme, antico castagneto che è un po' il cuore e la natura stessa di questi luoghi. Antiche origini albanesi, che qui ripararono per sfuggire agli invasori turchi, tremila abitanti, che non sono molti. In cambio, però, abbiamo tre monasteri, tre importanti biblioteche, che conservano numerose cinquecentine, preziosissimi documenti e volumi rari e antichi, straordinari monumenti, un affascinante patrimonio artistico». Nelle sue parole c’è la consapevolezza di abitare in una città carica di storia, una storia nobile, anche perché Mezzojuso è la testimonianza di come la diversità possa diventare un valore. «Il nostro paese - prosegue Biagio - offre molto ai visitatori, peraltro sempre più numerosi, ma una delle perle del nostro territorio è lo straordinario patrimonio iconografico; e poi ci sono i nostri monasteri, la tradizione dei riti liturgici che conserviamo. La popolazione di origine albanese e balcanica ha perso l’uso corrente della lingua, parlata ancora, invece, in altri luoghi d’Italia che hanno accolto gruppi giunti dall’Albania e dalla sponda orientale dell’Adriatico. Le due culture si fondono qui, in questa nostra cittadina. Basta pensare alle due Matrici, le due chiese maggiori di rito latino e greco che si affacciano sulla stessa piazza e si uniscono simbolicamente alla nostra terra, alla loro ricchezza artistica e iconografica. Ecco, tutto questo è un indice della bellezza e della ricchezza culturale, storica e artistica di questa affascinante cittadina». LE MILLE LODI

Ci viene naturale chiedere in che modo gli abitanti di Mezzojuso vivono questa particolare condizione, l’essere terra comune dei due culti: «C’è una consapevolezza molto intima dei mezzojusari legata alla dimensione della fede e dei due culti. La spiritualità, la fede divengono patrimonio collettivo e, allo stesso tempo, caratterizzante. Il legame profondo vien fuori in modo evidente durante le feste, in un

modo che definire simpatico è dir poco. Per i misteri pasquali, sentitissimi in tutto il Mezzoggiorno e in particolare in Sicilia, i fedeli di Mezzojuso, ovviamente, organizzano due processioni, il giovedì santo è dedicato alla processione latina e il venerdì, giorno della Passione, il paese freme per la processione greca. Il tifo è da stadio. I fedeli si trasformano in irriducibili sostenitori dell’una o dell’altra rappresentazione e i cittadini e le famiglie in quei giorni, fatto notissimo in zona, addirittura si dividono in fazioni per sostenere con mille lodi la propria parte. Tra gli accesissimi gruppi dell’uno o dell’altro rito c’è chi si augura addirittura la pioggia per l’uscita della processione avversaria... Il folklore incontra la religiosità e colora questi giorni, riempiendo pranzi e cene di interminabili discussioni sulla riuscita dell’uno o dell’altro corteo. E’ da vivere!». FAR FESTA

Mezzojuso, in fatto di storie e di folklore, offre occasioni straordinarie e sta diventando meta amata da moltissimi siciliani e da numerosi turisti. Merito anche di una lunga serie di eventi, ben calendarizzati durante tutto l'anno, che testimoniano vivacità e un forte desiderio di accoglienza. «Ah, il nostro calendario delle feste è davvero sempre ricco di appuntamenti – prosegue Biagio Non c’è mese in cui non si debba organizzare un evento, una iniziativa, una processione. Qui a Mezzojuso, diciamo noi, non c’è santo che non faccia festa! Da Gennaio, subito dopo l’inizio del nuovo anno, c’è A vulàta d’à palumma, una delle più antiche e particolari funzioni legate al rito greco-bizantino dinanzi alla chiesa di San Nicolò di Mira. Poi San Giuseppe, a Marzo, che porta tavolate e ottime minestre, così fino a fine anno, passando per la rinomata sagra della castagna di Ottobre, che fa giungere in paese migliaia di visitatori da ogni dove, oltre quindicimila per l’ultima edizione. C’è sempre qualcosa da festeggiare. Iniziamo seriamente ad avere problemi di spazio e per noi è ragione di enorme entusiasmo. Non c’è stradina o piazza di Mezzojuso che non sia invasa dai visitatori nei giorni importanti! ».

L’UNICITÀ DI MASTRO DI CAMPO

La Pro Loco di Mezzojuso impegna tante energie per sostenere e organizzare eventi che tengano viva questa cittadina e tra queste ce n’è una davvero singolare, che non ha uguali: il Mastro di Campo! «Vero, è una festa tutta nostra. Si tratta di una tragicommedia basata su una bizzarra storia d’amore tra il Conte Cabrera e la Viceregina di Sicilia, Bianca di Navarra, che rimasta vedova rifiutò il nobile spasimante, interessato più al trono siculo che alla nobildonna, fatti risalenti al millequattrocento. La commedia va in scena da oltre due secoli ed è ormai al centro delle attività artistiche e culturali di Mezzojuso. Pensi che per quest’antica rappresentazione sono impegnati oltre cento figuranti. Nel tempo i mezzojusari hanno aggiunto numerosi protagonisti e comparse fino a trasformare la rievocazione storica in un vero e proprio evento dalla profonda teatralità. Nel 1862 Garibaldi passò per Mezzojuso e l’ammirazione dei cittadini fu tale che, immagini un po', fu subito aggiunto, ovviamente accompagnato dai suoi garibaldini, alla compagnia del Mastro di Campo. Stiamo parlando del Carnevale più antico di Sicilia, di una delle più importanti manifestazioni dell’isola. Per i risvolti artistici, storici, folkloristici legati a questa secolare tradizione è ormai elemento caratterizzante del nostro territorio, scorre nelle vene dei mezzojusari, che sono praticamente tutti coinvolti nella preparazione di questo antico straordinario rito. Per noi è una cosa estremamente seria!».

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V MEZZOJUSO CITTÀ DEI DUE RITI

RISTORANTE PIZZERIA SANTA LUCIA Il ristorante a conduzione familiare è immerso nel verde della Riserva Orientata Bosco della Ficuzza, luogo di notevole interesse naturalistico e paesaggistico. Sul ricco menù si avvicendano i sapori tipici della tradizione culinaria siciliana: dagli stuzzicanti antipasti ai pregiati primi piatti, seguiti dalle corpose e rinomate grigliate di carne proveniente da allevamenti locali. Sono da segnalare le numerose varianti di pizza proposte, rigorosamente cotte nel forno a legna. Variegata è anche l'offerta dei vini, ottenuti da vitigni sia locali che nazionali.

Contatti: Contrada Cardonera - 90030 Mezzojuso (PA) Tel: 091.8203870

AZIENDA AGRITURISTICA BAGLIO CARCILUPO Un antico casale in pietra circondato da incontaminati paesaggi agresti: così si presenta il Baglio Carcilupo, azienda agrituristica ubicata sulle pendici orientali della Rocca Busambra. La storia di questi luoghi rivive attraverso le tradizioni della cucina siciliana, fatta di aromi e sapori secolari, che qui vengono rilette dallo chef con raffinato gusto. Si possono così assaporare gli involtini di melanzane, la zucca in agrodolce, i supplì al finocchietto e, tra i primi, le caserecce con panna e pistacchi. Irrinunciabile la ricotta fresca di produzione propria. Il locale offre anche una generosa selezione di vini pregiati.

Contatti: Contrada Carcilupo - 90030 Mezzojuso (PA) • Tel: 091.8200225 E-mail: bagliocarcilupo@hotmail.it • Web: www.bagliocarcilupo.it

RISTORANTE PIZZERIA NOCILLA La Contrada Nocilla si trova sul confine della Riserva Orientata Bosco della Ficuzza, tra le più importanti oasi protette presenti in Sicilia. Il ristorante vi accoglie in questo scorcio di natura, con le sue specialità gastronomiche che amalgamano sapori e profumi del territorio. Tra i piatti più rappresentativi spiccano i ravioli Nocilla, preparati con pasta fresca, ripieni di spinaci e ricotta e conditi con salsa di noci, e poi le tagliatelle al pistacchio (pistacchio tritato, cipolla, speck), o ancora gli involtini alla siciliana (mollica di pane, prezzemolo, prosciutto, passolini, pinoli, formaggio).

Contatti: Contrada Nocilla - 90030 Mezzojuso (PA) • Tel: 091.8203880 E-mail: info@ristorantenocilla.it • Web: www.ristorantenocilla.it

SOSTE DI GUSTO Soste gourmet selezionate sul territorio: locande, trattorie, ristoranti, agriturismi ma anche pasticcerie, rosticcerie, pizzerie, forni; e perché no, anche aziende agricole, produttori di eccellenze enogastronomiche, produttori di vino, olio, formaggi e confetture. E buon appetito!

Se volete prendervi una pausa dai frenetici ritmi quotidiani il Bar Dolce Brigna, situato nel pieno centro storico di Mezzojuso, è sicuramente il luogo ideale. Tra un cappuccino e un caffè è possibile farsi tentare dagli invitanti dolci esposti, quali i cannoli siciliani, di produzione propria. Vere e proprie icone gastronomiche dell'isola i cannoli, frutto di un'accurata lavorazione artigianale, vengono preparati con ricotta fresca e una cialda rigorosamente croccante, e sono disponibili anche in formato mignon, simili ai pasticcini.

Contatti: Piazza Nicolò Romano, 5 - 90030 Mezzojuso (PA) Tel: 091.8207070

BAR PASTICCERIA GESUALDA

PANIFICIO ZITO

In attività dal 1960 lo storico locale, confidenzialmente indicato dagli abitanti di Mezzojuso come “il bar di Gesualda”, è attualmente gestito da Giuseppe, figlio della proprietaria Gesualda La Barbera. Qui convivono tradizione e innovazione, dando vita a vere e proprie opere d'arte pasticcera, frutto di una rigorosa lavorazione artigianale e di ingredienti selezionati. Le antiche ricette legate alle festività, come i sammartinelli farciti, le sfince di San Giuseppe, le cassatedde, i pupi cull'ova e la frutta Martorana, si affiancano ai più classici pasticcini, torte, bignè alla ricotta e sfoglie, in un tripudio di prelibate golosità.

Al panificio di Salvatore Zito la tradizione è di casa. Una tradizione che si trasmette attraverso quella rituale manualità e quella cura artigianale le cui radici affondano nel tempo. Qui è possibile riscoprire sapori legati alla cultura popolare, come la classica rianata siciliana, una sorta di pizza condita con pomodori pelati, acciughe, origano e pecorino, o l'altrettanto gustoso sfincione, simile alla rianata ma con ingredienti diversi (cipolla, sarde, caciocavallo, origano fresco, pomodori pelati).

Contatti:

Via IV Novembre, 1 - 90030 Mezzojuso (PA) Tel: 091.8203424

Piazza Caporale Gebbia, 5 - 90030 Mezzojuso (PA) Tel: 091.8203366 86

BAR DOLCE BRIGNA

Contatti:

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO Terra di miniere di zolfo e di insediamenti archeologici sicani, Lercara Friddi ha vissuto sulla sua pelle il passaggio tra civiltĂ rurale e rivoluzione industriale. Siamo in una cittadina che ha dato i natali a scienziati, intellettuali e musicisti: da qui nasce la storia di Frank Sinatra

DI FRANCESCO BUONOMANO, PIPPO FURNARI, ANTONIO SCHEMBRI E LUCIANO VANNI

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

BORGO MANGANARO Reportage dal paese fantasma

SULLE TRACCE DEL PASSATO

UN PAESE FANTASMA

BORGO MANGANARO

A Borgo Manganaro, differentemente da quanto potrebbe sembrare, non siamo davanti a uno dei tanti villaggi rurali fondato durante il ventennio del regime fascista perché fu terminato molto più tardi, il 6 febbraio 1953: certo, si tratta di un borgo sicuramente ispirato agli insediamenti di epoca fascista e concepiti per sviluppare l’economia agricola attraverso la costituzione di veri e propri villaggi rurali, ma Borgo Manganaro, in verità, non fu mai vissuto e nasce dieci anni dopo la caduta del regime di Benito Mussolini. Attorno a noi sbucano numerose casette: ed ecco gli spazi di una locanda, una serie di attività commerciali [oggi emergono tante insegne, per lo più dismesse], una caserma con ufficio postale, un piccolo complesso scolastico con a fianco ciò che doveva essere l’abitazione del maestro, un ambulatorio medico e sul margine est della piazza, al termine di una piccola scalinata, tra due alte piante verdi, si riconosce una piccola chiesetta.

Siamo giunti alla fase terminale del nostro viaggio in questa fascia interna di territorio dell’entroterra palermitano. Lasciamo Vicari ma il profilo del suo castello è ancora presente e taglia l’orizzonte: davanti a noi un paesaggio agricolo fitto di campi e dopo appena cinque chilometri, sulla SP84, intercettiamo l’indicazione di Borgo Manganaro. Siamo in macchina con Mario Liberto, una guida paziente e scrupolosa, assolutamente indispensabile. È proprio Mario a prendere l’iniziativa e a portarci all’interno in questa piccola frazione: «Borgo Manganaro merita di essere vista e conosciuta perché la sua è una storia affascinante». Parcheggiamo nella piazzetta principale dove si ha l’opportunità di godere di un belvedere mozzafiato che si affaccia sulla valle: da qua l’orizzonte è davvero vasto e profondo, tagliato da casette agricole, campi, dossi collinari e pale eoliche.

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Di fronte a noi, ben conservata, svetta una bella statua bronzea che raffigura un contadino che semina, un’opera che fu commissionata al professor Nino Geraci. Il simbolismo è chiaro e ci mette in relazione con l'arte espressiva di Mario Sironi: qua si vuole mettere in risalto la fierezza, la dignità, l’orgoglio e la forza del contadino che produce vita attraverso il suo lavoro. DIREZIONE LERCARA FRIDDI

Da Borgo Manganaro si può prendere per Roccapalumba, a nord est, cosa che faremo tra qualche giorno, ma noi dobbiamo scendere in direzione di Lercara Friddi. Il paese emerge dopo qualche chilometro di campagna e si distende con sullo sfondo il piccolo rilievo di Colle Madore, un grande parco archeologico open air che racconteremo più avanti. Qua giochiamo in casa: possiamo contare sulla collaborazione e sull’ospitalità di Mario Liberto e Pippo Furnari, appassionati di storia e di tradizioni popolari, e di Antonio Licata e Gianfilippo Geraci, promoter del My Way Festival, un evento di musica jazz dedicato alla memoria di Frank Sinatra che proprio a Lercara Friddi ha le sue radici familiari.

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

LERCARA FRIDDI A sinistra Giuseppe Saltalamacchia, per tutti "zio Peppino" In basso piazza Duomo, con la Chiesa di Maria Santissima della Neve

Lercara Friddi, oggi, affronta il futuro con ottimismo e orgoglio, con la consapevolezza di dover riprendere in mano il filo delle sue tradizioni puntando dritto sulla rivalutazione del sito minerario e sull’area archeologica di Colle Madore

INDIETRO TUTTA, VERSO I SICANI

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UNO STORYTELLING DIFFUSO

LA ‘PICCOLA PALERMO’

Lercara Friddi porta in grembo infinite storie che possono emergere solo e soltanto se ci mettiamo cuore e pazienza, se abbiamo la curiosità e l’umiltà di entrare in contatto con più persone possibili; anche in questa circostanza faremo del nostro meglio per raccogliere testimonianze dirette, per mettere in relazione le vicende del paese con le tante microstorie che nascono dall’esperienza di chi ci abita. Sarà uno storytelling diffuso. La storia di Lercara Friddi miscela l’antichissimo e il moderno. Si tratta di un centro agricolo di poco meno di ottomila abitanti a sessanta chilometri da Palermo. La sua è una storia anomala rispetto a molti altri in Sicilia: nasce infatti nel 1595, anno in cui l’amministrazione spagnola, per ripopolare l’entroterra dell’isola, concesse la licentia populandi al barone spagnolo Baldassare Gómez de Amezcua. Questi, avendo sposato la figlia dell’imprenditore genovese Leonello Lercaro, ricevette in dote i feudi Friddi e Faverchi. Da questa storia d'amore nasce un paese.

La storia più recente, quella che affonda i ricordi nel XIX secolo, narra un contrasto sociale tra civiltà rurale e civiltà industriale; perché quella classe contadina alla prese con fame e miseria, e il cui desiderio di riscatto sociale sfocerà nei moti dei Fasci siciliani (che proprio a questo paese costarono un forte tributo di sangue nel 1893), si vide sopraffatta da una fiorente economia legata alle miniere in seguito alla scoperta di ricchi giacimenti di zolfo. Per la comunità lercarese si trattò di un passaggio traumatico dal punto di vista storico, economico e soprattutto sociale: comunque sia la cittadina conobbe una forte espansione al punto da farle guadagnare l’appellativo di ‘piccola Palermo’. In quasi centotrenta anni, un arco temporale che va dal 1840 al 1968, la vicenda che ruota intorno ai pozzi solfiferi lercaresi si è tradotta in una voce produttiva che, fra traguardi e vicende dolorose, ha inciso per almeno il 70% sull’economia di questa porzione d’entroterra siculo, dando lavoro a quasi tutta la popolazione lercarese.

TRA PASSATO E FUTURO

L’avvento degli anni Sessanta, anziché un boom economico, determinò l’inizio della fine. Le novità tecnologiche americane impostesi nel settore minerario indussero i pozzi lercaresi a serrare i battenti uno dopo l’altro, inesorabilmente. Fu così che in pochi anni venne archiviata l’attività di picconieri e carusi: i primi, adibiti a scavare la ganga (il materiale che contiene lo zolfo), i secondi a caricarla sui vagoncini, portandoli faticosamente all’esterno attraverso cunicoli strettissimi. Un’epopea di sacrifici e pericoli, segnata dalle proibitive condizioni di vita

all’interno delle miniere dove il calore costringeva i minatori a lavorare nudi esponendoli a malattie, a incidenti mortali e a un vergognoso sfruttamento minorile. Lercara Friddi, oggi, affronta il futuro con ottimismo e orgoglio, con la consapevolezza di dover riprendere in mano il filo delle sue tradizioni, puntando dritto sulla rivalutazione del sito minerario che da vergogna può e deve diventare un patrimonio culturale destinato a costruire un fattore di leva per lo sviluppo turistico che passerà inevitabilmente anche dall’area archeologica di Colle Madore; perché la storia di questo piccolo paese, viene da lontano.

La storia della Sicilia è passata per Lercara Friddi e lo si scopre salendo sul vicino Colle Madore dove gli scavi della Soprintendenza hanno restituito un importante sito archeologico, un insediamento risalente al VII-VIII secolo a.C., che ha portato alla luce numerosi reperti i quali oggi sono conservati nelle sale del museo civico. E da un attento studio del materiale ritrovato è possibile decifrare dati indicativi su uno dei popoli più misteriosi del Mediterraneo: i Sicani. Siamo a Colle Madore, una collina abitata fin dai tempi remoti a circa ottocento metri sul livello del mare, una vasta area che a partire dal 1995 - grazie al ritrovamento fortuito e alla successiva donazione di alcuni reperti da parte di Antonino Caruso - ha visto susseguirsi varie campagne di scavi: ed ecco riemergere un’area sacra e la prima officina per la lavorazione dei metalli sita nell'area occidentale della Sicilia. Da questo sito archeologico sono riemersi dall'antichità parti di anfore, incisioni, frammenti di scodelle e lamine, meravigliose testimonianze che sono custodite nelle sale di un museo allestito all’interno della Biblioteca Comunale “Giuseppe Mavaro” [via Vittorio Emanuele III, 44] di Lercara Friddi.

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

ALFONSO GIORDANO IL MEDICO AMICO DEI MINATORI

MINIERE E SICANI: UN INTRECCIO DI STORIE

L’antropologo Nino Buttitta sostiene che non ci fu mai una differenza tra i Sicani, allocati nella Sicilia centro-occidentale, i Siculi, che abitarono il quadrante orientale dell’Isola e gli Elimi, che si stanziarono nell’estremità occidentale della Sicilia. La differenza, che induce all'errore, dice Buttitta, è in realtà soltanto terminologica e legata alle differenze del territorio siciliano; ma in definitiva, di Sicani e soltanto di Sicani si trattava. Nel territorio dell’attuale Lercara Friddi, questo controverso popolo si stabilì proprio sul Colle Madore. E tanto per cambiare la ragione fu proprio la presenza dello zolfo: alcuni studiosi sostengono che i Sicani, sconfitti dai Greci, si ritirarono nell’entroterra e molti storici ritengono che comunque siano stati loro i primi ad avviare l’attività mineraria in Sicilia.

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Ci dice Pippo Furnari, uno dei nostri ‘angeli custodi’: «L’insediamento sicano di Colle Madore fu per decenni avvolto da un alone di mistero. Una leggenda narra che ogni sette anni i fantasmi si riunivano a Colle Madore, facevano festa e poi rompevano le suppellettili usate per festeggiare. I nostri antenati raccontavano queste storie forse per giustificare il fatto che molto spesso riaffioravano in superficie numerosi reperti archeologici». IL CUORE CULTURALE: LA BIBLIOTECA CIVICA

Per comprendere appieno questo dedalo di relazioni tra il passato sicano e una modernità rappresentata dall’attività estrattiva nelle miniere di zolfo, Pippo Furnari ci porta a visitare la biblioteca civica assieme a un suo caro amico, Giuseppe Saltalamacchia, meglio conosciuto come ’zio Peppino’, memoria

storica del paese, già muratore, minatore e scalpellino, una delle persone più straordinariamente affascinanti che abbiamo modo di conoscere lungo questo viaggio. Facciamo ingresso all'interno della biblioteca e ci rendiamo subito conto che dovremmo parlare di museo, tanta è la cura con cui è stata documentata l’identità storica del paese: nel piano inferiore sono raccolti circa quattordicimila volumi e nelle sale superiori sono state allestite delle teche per esporre preziosi reperti ritrovati a Colle Madore. C’è anche un’area riservata ad alcuni manufatti relativi al lavoro nelle miniere e infine fa bella mostra di sé una vasta collezione di costumi, alcuni tipici della cultura siciliana come la “scappuccina” (pesante mantello antesignano del cappotto), realizzati da Vito Giangrasso, un vero maestro di quest’arte originario proprio di Lercara Friddi.

Amico del biologo Louis Pasteur, Alfonso Giordano [Lercara Friddi, 11 gennaio 1843 – 15 luglio 1915] è una figura ancora straordinariamente amata nel suo paese e un’aula della Biblioteca Civica di Lercara Friddi è dedicata alla sua memoria. Giordano fu un dottore e uno scienziato che scrisse una pagina importante nella ricerca medica: fu lui a scoprire la silicosi e in virtù dei suoi studi e della ricerca meritò la laurea honoris causa in igiene mineraria a Parigi per intervento proprio di Pasteur. Ai lavoratori della miniera, soprattutto ai poveri ‘carusi’, ovvero ai minorenni, dedicò tutta la sua vita. Studiò le malattie derivanti dall’esposizione allo zolfo, denunciò politicamente [fu due volte sindaco di Lercara Friddi anche se per brevi periodi] lo sfruttamento dei lavoratori e ispirò alcune norme giuridiche per garantire diritti ai minatori. È ricordato per i suoi studi e per la sua umanità, per il suo senso civico e morale.

CIRCOLO GIORDANO: L’ORGOGLIO DI UN COGNOME

La memoria del medico e scienziato Alfonso Giordano continua a mantenersi viva nelle sale del Circolo Alfonso Giordano dove si riuniscono storici, intellettuali e per l’appunto ex minatori. Chi volesse ascoltare le testimonianze dirette dei minatori, vivere il loro racconto crudo, amaro, autentico e per certi versi doloroso, può ancora farlo in queste stanze. Entriamo a fine giornata, quando si fa buio. Le sale sono

gremite di anziani con la coppola tradizionale che giocano a carte, divisi in tavolini all’interno di uno stanzone ben arredato. L’atmosfera è da anni Cinquanta e il tempo pare si sia fermato per sempre. Incontriamo Giuseppe Canale, ex maestro di scuola e frequentatore del circolo da decenni, una delle memorie storiche di Lercara Friddi. Ci dice: «Questo circolo venne fondato nel 1842. Prima si chiamava ‘Circolo dei civili’, come a sottolineare che chi non fosse dotato di titolo di studio non era autorizzato ad accedervi.

Poi venne ribattezzato ‘Circolo democratico’ e qualche tempo dopo ‘Circolo nuovo’; e ancora, nella parte finale degli anni Settanta, ‘Circolo Culturale Alfonso Giordano’ in memoria del più famoso cittadino lercarese, il medico che scoprì l’anchilostoma, un parassita che gli zolfatai contraevano lavorando nelle viscere della terra; una brutta malattia che causava severe anemie, repentini dimagrimenti, diarree e disidratazione e che portava anche alla morte. È stato l’iniziatore della medicina del lavoro»

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

«Lavorare in preda al timore di morire insepolti senza ricevere l’ultimo confortante abbraccio della famiglia [...] è umanamente impossibile» [di Alfonso Giordano]

È UMANAMENTE IMPOSSIBILE

SOTTO TERRA

La nostra presenza, al circolo, non passa inosservata. Siamo entrati con un fotografo, reportagisti e con gli amici lercaresi Antonio Licata, Gianfilippo Geraci, Pippo Furnari e zio Peppino. Ma c’è grande ospitalità e desiderio di raccontare storie. Entriamo in una saletta più raccolta e incontriamo il signor Giovanni Rizzo ‘cartiddaro’, ex minatore, che ha una grazia e una gentilezza d’altri tempi. Parla in dialetto. Ha grandi mani e un cuore dolce, e i suoi occhi brillano di gioventù, in contrasto con le belle rughe di età che solcano il suo viso; tutto è così splendidamente armonico. «Ho lavorato in miniera per dieci anni nelle cave Scianna e Di Stefano – ci dice Giovanni – dai quattordici ai ventiquattro anni. Ho lavorato sotto terra. Si scendeva alle sette del mattino e si lavorava duramente come manovali fino alle quattordici estraendo lo zolfo a colpi di piccozza. Sette o otto ore di lavoro, o la mattina o al secondo turno, fino a mezzanotte circa. Mio padre era capomastro in miniera e

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per me fu una sorta di investitura. Tanti sono stati i rischi corsi. Io stesso sono invalido al settanta per cento». Giovanni ci mostra le conseguenze di una brutta frattura al polso, rimasto visibilmente deforme. LA BUONA E LA CATTIVA SORTE

Ogni discorso di Giuseppe dura poco ed è interrotto da un breve silenzio. Si vede che questi ricordi fanno male. Prende di nuovo fiato e continua nel suo racconto e noi ci sentiamo immobili, straordinariamente attenti. «Con la paga di minatore si riusciva a campare. Non morivamo di fame, come negli altri paesi», rivendica, riconoscendo quanto la miniera abbia assicurato la vita a molte famiglie. Pippo Furnari ha ben compreso che è tanta l’emozione e il rispetto che nutriamo per Giuseppe che non riusciamo a fare domande e quindi, fortunatamente, ci pensa lui a costruire un dialogo con l’ex minatore: «Il sistema di pagamento era in genere a busta paga. Ma in altri casi la paga era ‘in natura’, in generi alimentari,

perché chi gestiva le miniere aveva anche uno spaccio alimentare; e siccome i soldi guadagnati non erano mai abbastanza per sostenere la famiglia, il proprietario delle miniere offriva in cambio beni di prima necessità e si tratteneva i soldi. Ma ciò creava nel tempo un circolo vizioso, perché il minatore finiva per non essere mai pagato e c’era spazio per l’usura». Prosegue Pippo: “Nel 1883, un incidente tolse la vita a sedici persone, incluso un ‘caruso’ di tredici anni. Le autorità giudiziarie rinunciarono a cercare i cadaveri: oltre al costo dell’operazione, c’era anche il rischio di ulteriori crolli sottoterra con altri morti. Il lavoro ovviamente era duro e pericoloso e ogni squadra, composta da circa venti minatori, raccoglieva centosessanta ‘vagoni’ di materiale. La qualità dello zolfo che si estraeva era tale che vi investirono imprenditori inglesi, i Rose Gardner. Le miniere erano l’economia di Lercara. Quando chiusero, Lercara Friddi crollò economicamente». Sono momenti intensi, che non saranno mai dimenticati.

È ancora Pippo Furnari a prendere la parola: «Le condizioni di vita di uno zolfataio non erano tenute in grande considerazione. In quegli anni tristissimi Lercara Friddi ebbe il suo grande apostolo nella persona del professore Alfonso Giordano, Un uomo di eccezionali virtù intellettive e umanistiche, che spese l’intera sua vita per la redenzione morale e sociale degli operai delle miniere di zolfo». Prosegue Giuseppe Canale, maestro elementare in pensione. Apre un cassetto della bella libreria in legno e inizia a leggere un documento autografo di Alfonso Giordano: «Essere obbligati sin da fanciulli a lavorare in un’età in cui l’organismo è debole, perdurare nell’impudico costume di convivere con giovanotti di altro sesso in fondo a quegli oscuri labirinti, essere dominati dentro la miniera dal sospetto di un repentino crollo e lavorare in preda al timore di morire insepolti senza ricevere l’ultimo confortante abbraccio della famiglia, subire il repentino passaggio dal caldo al freddo e rimanere per lunghe ore del giorno coi piedi bagnati in mezzo a un’atmosfera impura e soffocante, è umanamente impossibile».

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

DALLO ZOLFO ALLA LUCE

Le storie degli ex minatori di Lercara Friddi ci hanno emozionato e commosso ed è tempo per visitare ciò che rimane del parco minerario. Sono le prime ore di mattina e il tempo non è dei migliori: si alternano raggi di luce e pioggia, e poi ancora schiarite. Bastano pochi minuti e in via Friddi, appena fuori dal centro abitato, entriamo in contatto con una testimonianza di archeologia industriale di straordinario fascino, l’antica pompa elettrica che forniva energia elettrica (di fatto era un gruppo elettrogeno) a tutte le miniere di Lercara Friddi, per aspirare l’acqua in occasione delle frequenti inondazioni delle miniere. La pompa fu inaugurata nel 1908 e le cronache raccontano la commissione che espresse il parere favorevole alla sua attivazione obbligò la proprietà a restituire al paese una parte dell’energia prodotta: e fu per questo motivo che Lercara Friddi ebbe le strade illuminate ben prima di altri comuni italiani. Ci dice Pippo Furnari: «Questo edificio rappresenta una sorta di primato in Sicilia, quello appunto di possedere già all’inizio del XX secolo un generatore elettrico. L’architettura di questo manufatto è di origine inglese, caratterizzata da ampie capriate lignee di scuola francese, con un tirante d’acciaio secondo il modello dell’ingegnere Polonceau». Naturale chiedersi come mai i lercaresi non abbiano salvaguardato questo bene

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immobile «Chi ha vissuto situazioni di ricchezza e povertà legata alla siderurgia e ad attività industriali in genere – ci risponde Pippo - tende inevitabilmente a miscelare orgoglio e senso d’appartenenza alla voglia di privarsi e dimenticare questi oggetti, come a voler cancellare le testimonianze di un passato di stenti ». Davanti al casolare che ospitava l’antica pompa elettrica c’è un bel campo verde e sullo sfondo una parete di roccia, sono i resti della fusione dello zolfo. Lo zolfo è attaccato alla pietra e per staccarlo da essa si usa il calore. Agli albori della coltivazione delle miniere il metodo per staccare lo zolfo dalle pietre era

quello di accatastare il materiale estratto dal sottosuolo in grossi coni di pietra detti ‘calcarella’ e successivamente incendiarli: con l’alta temperatura lo zolfo si scioglieva e veniva raccolto in contenitori di legno e in seguito raffreddandosi veniva sformato e accatastato per essere trasportato nei centri di commercio. Ciò che restava dal processo di lavorazione costituisce queste montagne di rosticci, detti da queste parti ‘ginisi’’. Queste vere e proprio colline di ”ginisi” che ancora oggi circondano le zone delle miniere danno l'idea di quanto materiale sia stato estratto dalle viscere della terra; ed emergono sbalzi cromatici affascinanti.

TERRA E ZOLFO

Ci dirigiamo verso ciò che rimane di antiche miniere dismesse: «La vicenda delle miniere a Lercara comincia nel 1828 prosegue Pippo - e si conclude alla fine del 1960, quasi centotrent’anni di vicende, traguardi e dolore. A causa dell’attività mineraria il paese era avvolto dall’anidride solforosa. La qualità dell’aria non era certo ideale e non si poteva coltivare bene la terra; anzi in alcuni casi l’agricoltura era impossibile. Con l’anidride solforosa che si disperdeva bisognava chiudere le finestre per evitare che le suppellettili in argento annerissero. La qualità e la produttività dei terreni si riduceva e in

molti casi si annullava: insomma, non si poteva coltivare». Il racconto è straordinariamente fitto di eventi, fatti e aneddoti, microstorie di ordinaria vita quotidiana: «A quel tempo agricoltura e miniera erano due mondi separati che si guardavano in cagnesco: i primi consideravano i secondi come usurpatori dei loro campi. Un conflitto, insomma. Sposare la figlia di un minatore era qualcosa di simile a una iattura. I minatori frequentavano le taverne, i contadini no: evitavano di farlo, sempre e solo in ragione dello spregio verso i minatori, reputati responsabili di rovinare le terre e togliere il lavoro ai contadini.

Al punto che quando le miniere furono abbandonate, la corsa dei lercaresi a riappropriarsi dei campi evocò scene da far west. Si tornò a coltivare anni dopo ma su terra riportata, uno strato di mezzo metro di terra aggiunta e resa appena produttiva. Oggi c’è chi vi coltiva il cavolfiore e qualche altro ortaggio. Ma questa situazione di certo ha causato danni economici notevoli. Chi per esempio coltivava la vite su queste zone minerarie aveva grosse difficoltà a vendere il proprio mosto. Se proveniva da viti coltivate in queste zone non trovava mercato e ciò ha depresso l'intera produzione vitivinicola».

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

CASA SCARLATA: LUOGO DI MEMORIE

È già sera, e rientriamo a Lercara. Visitiamo la Casa Scarlata, che non è una casa qualsiasi ma un luogo carico di storia e di storie, perché la famiglia Scarlata era una delle più benestanti del paese. Incontriamo l'avvocato Attilio Scarlata, memoria storica, intellettuale e progressista. Casa Scarlata è uno scrigno di documenti storici: per esempio il “Bando delle maestre di mondezza della città di Palermo”, una chicca perché «da questo si può evincere che a Palermo non è cambiato nulla sul piano della gestione dei problemi dei rifiuti – ci dice Attilio - E poi abbiamo diverse collezioni preziose risalenti al viceregno di Sicilia: per esempio la raccolta dei privilegi dati ai palermitani, oppure un trattato di agraria del 1700. Si narra che un giorno, bussò qualcuno a questa casa. I miei avi andarono a aprire, non trovarono nessuno, solo una scatola con dentro la testa di una Madonna. Nacque così, qui a Lercara Friddi, il culto della Madonna dell’Assunta». Potremmo definirla una casa museo. «Nel 1800, la sera del 24 giugno, Ferdinando IV si affaccia dal balcone di casa Scarlata per salutare la popolazione - ci ricorda Cocò Sangiorgio, che ha scritto 20 libri sulla storia di Lercara Friddi».

SULLE TRACCE DEL PARCO MINERARIO

Percorriamo in auto le strade e la periferia di Lercara Friddi: in questa parte di paese le case sono costruite sui ‘ginisi’, ragion per cui il tasso di franosità del terreno è alto. Il pericolo è che molte case, soprattutto quelle fatte molti anni fa, possano franare da un momento all’altro: si tratta di terreno di riporto e quando piove il rischio idrogeologico è evidente. «Qualche anno fa abbiamo messo su un “Centro studi sulle miniere” - ci dice Pippo Furnari – quando abbiamo iniziato a raccogliere le ultime testimonianze di quanti avevano vissuto quel periodo abbiamo dovuto superare una certa diffidenza che ancora si respira quando ci si addentra nei meandri di queste vicende. Se parli “bene” delle miniere vuol dire che sei “uno” di destra o comunque democristiano, e se ne dici male sei comunista. C’è un muro che è ancora oggi difficile da scalfire». Arriviamo presso la miniera dove c'è il Pozzo Speranza e osserviamo i resti delle strutture che costituivano l’ascensore, le sue mura e i resti dell'argano e le ruote dentate degli ingranaggi, che risalgono ai primi del Novecento. Ci dice zio Peppino: «Era un sistema di trazione che mediante un meccanismo a carrucola faceva scendere e risalire gli zolfatari e al tempo stesso il carico di zolfo. Arrivava fino a ottanta metri nelle

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viscere della terra e serviva anche a far montare il carico in superficie». Più avanti osserviamo il riflusso Bellina, una sorta di canna fumaria conficcata nel terreno che serviva ad aereare le gallerie sotterranee. Arieggiare le gallerie era un’operazione delicatissima e che convogliava parecchia attenzione, se si verificava una fuga di gas il contatto con le lampade alimentate ad acetilene generava esplosioni mortali. Si trattava di incidenti che causavano decine di morti alla volta. In oltre centotrenta anni di miniera gli incidenti sono stati parecchi.

DAL DOLORE AL FUTURO

Ed emergono tante storie come quella di Felice, un minatore di ventitrè anni perito in miniera nel 1956: i suoi compagni di lavoro, dopo che ne tirarono fuori il cadavere dai cunicoli, si videro decurtare una quota di stipendio pari al tempo di lavoro perduto. Molti lercaresi trovarono lavoro in Belgio e diversi ne sono morti nella tragedia di Marcinelle. Da anni si parla di un grande Parco archeologico industriale ma ancora è niente di fatto. Si attende anche l’apertura di uno spazio espositivo, il Museo della Zolfara, che verrà accolto all’interno di Villa Lisetta.

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

LERCARA FRIDDI Sulle tracce di Frank Sinatra

foto di Antonio Licata

SULLE TRACCE DI FRANK SINATRA

Esiste un legame profondo tra Frank Sinatra e Lercara Friddi, perché proprio in questa cittadina ha inizio la sua storia. Ebbene sì, perché il cantante jazz più celebre al mondo, nato a Hoboken [New Jersey] il 12 dicembre 1915, ha i nonni paterni originari di Lercara Friddi: si tratta di Francesco Sinatra e Rosa Saglimbeni, genitori di Antonio Sinatra, padre del celeberrimo “The Voice”. La storia racconta che il nonno Francesco fosse un calzolaio di Lercara Friddi che cercò fortuna prima a Palermo e poi negli Stati Uniti d’America, che raggiunse nel 1900 a bordo della “Spartan Prince”. Per viaggiare nella memoria e scoprire le radici siciliane di Frank Sinatra consigliamo di partire dal registro dei battesimi della Chiesa Madre di Lercara Friddi, dove è possibile verificare la data di nascita dei nonni paterni, per poi visitare la casetta di Francesco Sinatra, attualmente in disuso, situata in una stradina del centro storico [esattamente in via Regina Margherita, dove il 17 luglio 2009 è stata

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realizzata una targa celebrativa], in cui sembra di rivivere il fascino del passato. Ma c’è di più. A Frank Sinatra è dedicato un piccolo anfiteatro pubblico, il “Parco della Musica Frank Sinatra” [via Vittorio Emanuele III], e a poca distanza, all’interno della Pasticceria Oriens [piazza Indipendenza, 6], si celebra il dolce tipico della cittadina, “la pantofola”, con una deliziosa confezione firmata “The Voice”: tracce di Frank Sinatra sono esposte anche all’interno della biblioteca comunale “Giuseppe Mavaro” [via Vittorio Emanuele III, 44] nella sezione “Museo Siciliani d’America”. Il momento migliore per vivere questa esperienza è senza alcun dubbio la stagione estiva, in particolar modo in occasione del “My Way Festival”, evento celebrativo di Frank Sinatra e importante rassegna canora a cui è legato anche un importante concorso per giovani talenti. Ed è grazie ai due promoter del festival, Gianfilippo Geraci e Antonio Licata, che Lercara Friddi ha riannodato il filo del ricordo con Frank Sinatra.

FRÉDÉRIC FRANÇOIS E LA CHANSON FRANÇAISE DI LERCARA FRIDDI

Frédéric François è un artista di culto, noto al grande pubblico francese e in tutti i paesi francofoni. Frédéric vive in Belgio ed è il più classico tra gli interpreti della canzone francese e nel suo palmarès, oltre ai successi discografici, ci sono titoli importanti: è cavaliere delle arti e delle lettere in Belgio, commendatore dell’ordine al Merito della Repubblica Italiana, ambasciatore della provincia di Liegi e dal 2012 cittadino onorario di Lercara Friddi. Ebbene sì, perché il suo vero nome è Francesco Barracato ed è nato in questo paese il 3 giugno 1950, figlio di un minatore che da Lercara Friddi cercò fortuna a Tilleur. Frédéric François è autore di centinaia di successi, ha ottenuto ben ottantacinque dischi d’oro e negli anni Settanta ha raggiunto anche la prima posizione nelle classifiche francesi; ma non si è mai dimenticato delle sue origini, dove ha fatto ritorno anche di recente seguito da un nutrito gruppo di fan.

MY WAY FESTIVAL FRANK SINATRA DAL VIVO! È sicuramente l’evento musicale più importante di tutto il comprensorio, una manifestazione dedicata alla voce in memoria di Frank Sinatra. Tutto ha inizio in occ asione del decimo anniversario della morte del cantante, nel 2008, per iniziativa di due amici, Antonio Licata e Gianfilippo Geraci, e da allora il My Way Festival ha invitato illustri jazzisti tra cui Ada Montellanico, Francesco Cafiso, Fabrizio Bosso, Mimmo Cafiero, Larry Franco, Tony Esposito, Daria Biancardi. Si tratta di un evento che unisce la musica con la

promozione turistica e la valorizzazione delle tipicità enogastronomiche e che è riuscita, nel corso degli anni, a coinvolgere l’intera comunità cittadina. Dice Antonio Licata: «A partire dal 2014 il My Way Festival aderisce al protocollo ZIF – Zero Impact Festival, un manifesto di valori e princìpi fondati sul fare musica "a impronta zero" senza, cioè, c o n t r i b u t i p u b b l i c i e i m p a t to ambientale». Prosegue Gianfilipo Geraci: «Ci finanziamo con il prezioso contributo di tutti coloro che vivono e operano nel territorio attraverso la

formula "Io contribuisco al My Way Festival" e devo dire che abbiamo verific ato che i valori etici , la sostenibilità ambientale e la sharing economy, o economia collaborativa per dirla in italiano, è riuscita a sensibilizzare concittadini, numerosi partner privati, donatori, sponsor e società che operano sul fronte della ristorazione e della ricezione alberghiera. Tutti hanno messo a disposizione il loro entusiasmo e la loro voglia di fare per lo sviluppo del territorio e questo è la nostra più grande soddisfazione».

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

LUCKY LUCIANO, UNA BIOGRAFIA DI PAESE

Ma Lercara Friddi incrocia la sua storia anche con un’altra figura leggendaria, questa volta non di certo per motivi artistici: si tratta di Salvatore Lucania, passato alla storia come Lucky Luciano, un criminale che il “Time Magazine” ha inserito tra i venti uomini più influenti del XX secolo. Salvatore nacque a Lercara Friddi il 24 novembre 1897 e a sette anni emigrò con la famiglia negli Stati Uniti e la sua storia di malavitoso iniziò presto: a dieci anni fu condannato a quattro mesi di riformatorio per taccheggio e a diciotto furono sei i mesi di condanna per possesso di eroina e morfina.

I lercaresi, come è naturale e giusto che sia, hanno fatto la loro damnatio memoriae e hanno preso le distanze dalla sua testimonianza criminale ma la sua storia è ben conosciuta da tutti. Dice Pippo Saltalamacchia, la nostra memoria storica di Lercara: «Se ne andò via in America da bambino ma già da allora si distingueva per il carattere taciturno. Di certo questo aspetto della sua personalità lo ha agevolato nella sua ascesa di mafioso e di criminale. Una storia americana. Ma non solo». Ci dice Nicolò Sangiorgio, ex bancario e a lungo corrispondente del Giornale di Sicilia: «Salvatore Lucania fu senza dubbio una personalità complessa, ingegnosissima, fuori dal comune. Capace di dividere

in ‘ministeri’ il complesso sistema criminale che riuscì a creare, prima togliendo di mezzo senza pietà i suoi oppositori, poi specializzando in settori le sue varie attività illegali, tra cui prostituzione, contrabbando e droga. Ci sono diverse sue foto in archivio a Lercara Friddi, anche relative al periodo del suo fulgore americano. Ebbe una capacità organizzativa impressionante. Fu molto munifico con i lercaresi e i suoi dollari illegali arrivavano a molte famiglie del luogo. LEGGENDARIO

Mentre ne parliamo con Pippo e Nicolò interviene un lercarese vicino a noi: «Era un pistolero infallibile sin da ragazzino.

Era capace, raccontano gli aneddoti, di far passare da una considerevole distanza la pallottola con la pistola dentro il tubo di vetro di un lume, senza romperlo: Leggendario…!!!». Ed è Nicolò che prende subito la parola: «Leggendario? Mmmmah….. Andava a Palermo e abitava all’Hotel delle Palme (sede del famoso summit di mafia nell’ottobre del 1957, ndr), ma più spesso all’Hotel Sole. Gli offrirono cento milioni di lire per impersonare se stesso in un film. Non volle accettare mai quella proposta. Era un personaggio tranquillo e silenzioso. Fece parlare parecchio di sé, come quando al porto di Napoli gli arrivò una fiammante Cadillac dall’America: “Sono gli amici che mi pensano” rispose ineffabile alla polizia. Quando gli imposero l’esilio dall’America, gli dissero di andarsene al suo paese. Ma a Lercara non volle mai tornare ad abitare. Preferì Napoli: non a caso proprio sotto il Vesuvio c’era il business delle corse dei cavalli e tante altre attività illecite collegate al porto, connesso con gli Stati Uniti. Ufficialmente era residente a Lercara Friddi, escamotage per far credere che ‘tirava dritto’ in Italia. La residenza ufficiale era in via Ireneo Pucci, presso Totò Di Marco, boss locale». E poi la discussa amicizia con Frank Sinatra, entrambi, come abbiamo capito, originari di Lercara Friddi. «Il cantante mai ammise di essere oriundo di Lercara Friddi – prosegue Nicolò Sangiorgio – E se lo avesse fatto, l’FBI lo avrebbe intralciato moltissimo, come già aveva fatto all’inizio della sua carriera». Prosegue “zio Peppino”: «A Lercara, quando ci tornava da Napoli, veniva ad alloggiare all’Ideal, che allora era un hotel e un ristorante prestigioso … oggi è diventato un cinema. Sono ancora molti i lercaresi che ricordano la fila di persone lungo la strada sotto l’Ideal, in attesa di incontrarlo per sottoporgli la soluzione di problemi più disparati». LA MEMORIA DIRETTA

A Lercara Friddi abitano ancora parenti di Lucky Luciano e incontriamo un suo pronipote, Calcedonio Lucanìa, proprietario di una piccola cartolibreria. Calcedonio è un giovane dalla faccia e dal cuore pulito, un timido dagli occhi vivaci, ed è la riprova

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del detto “le colpe dei padri non ricadano sui figli”. Quando entriamo nel negozio, Calcedonio non sembra particolarmente felice di parlare di quel parente ingombrante ma poi, un volta compresa appieno la nostra identità e i nostri desideri, ovvero quelli di non fare ‘gossip’ o ‘giornalismo d’inchiesta’ ma di raccontare una storia che appartiene a Lercara Friddi, tutto cambia. «Nel bene e nel male – ci dice Calcedonio non possiamo esimerci dal dire che Lucky Luciano abbia lasciato tracce nella storia contemporanea di Lercara. È nato, cresciuto e ritornato a Lercara Friddi. Le negatività che rappresentò, e che ancora rappresenta, sono quelle straconosciute da tutti: e sono quelle che purtroppo hanno anche influito sull’attualità del nostro paese. La sua leggenda positiva invece corrisponderebbe al presunto ruolo che ebbe nel favorire lo sbarco degli Americani in Sicilia. Il fatto, si narra, anche se non c’è nessuna prova a suffragio, che abbia agevolato lo sbarco e la penetrazione delle truppe americane sull’isola, dalle quali partì la liberazione dal giogo nazista, gli fece guadagnare la grazia da parte del governo americano, che lo aveva già condannato all’ergastolo e imprigionato. Le autorità americane lo espulsero dagli Stati Uniti. E lo rimandarono al suo paese natìo. Ma Salvatore Lucania a Lercara non volle abitare: preferì andare a vivere a Napoli e a Santa Marinella, a sessanta chilometri da Roma, nella villa che fece costruire accanto all’ippodromo … anche questa una struttura da lui voluta». IERI, OGGI E DOMANI

Il racconto di Calcedonio è prezioso sotto il profilo storico. C’è sempre un pizzico di timidezza nel suo volto e le sue parole sono distillate, calme e profonde. «Lucky Luciano era cugino di mio nonno - dice Calcedonio -. Quando tornò a Lercara cercò mio nonno, come parente. La famiglia di quest'ultimo, buona parte della quale viveva in America, era in rapporti epistolari con altri parenti, anche loro emigrati negli Usa (la famiglia di una prozia, che viveva a New York, ndr). Questi quando seppero che il criminale sarebbe tornato in Italia, non persero tempo e

LERCARA FRIDDI A destra in basso, Calcedonio Lucania In alto, il certificato di nascita di Salvatore Lucania

scrissero subito una lettera di avvertimento ai parenti lercaresi: prendere le distanze da quel cugino poco di buono!». Ci sono tanti altri piccoli episodi che ricordano l’epopea di Lucky Luciano nella stessa Lercara Friddi. «Lucky Luciano - riprende a raccontarci – ha con la mia famiglia un ormai lontano legame di parentela. Il nonno di mio nonno (quadrisavolo) era fratello del padre di Lucky Luciano. E ci mostra alcune antiche foto in bianco-nero. Una è Nunzia, nonna di mio nonno; il marito di questa signora era fratello del papà di Salvatore». E ci mostra una foto del quadro familiare più completo: c’è il fratello del nonno di Calcedonio che all’epoca gestiva, oltre alla villa, anche dei terreni di proprietà di Lucky; e nella foto c’è anche Pippo Lucanìa, il papà di Calcedonio con il cugino che si chiama come lui. A questo punto, dopo due giorni passati assieme, instaurato un rapporto di autentica amicizia, chiediamo a Calcedonio di posare per uno scatto fotografico capace di mettere assieme presente e passato, lo sguardo aggressivo del suo avo e il sorriso dolce di lui; e nel contrasto di questa immagine c’è il bel futuro di questa regione.

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

LA PIETRA DEL MIRACOLO UNA MADONNA CHE VIENE DA LONTANO La Chiesa di Maria Santissima di Costantinopoli viene edificata a metà del XIX secolo in seguito al miracoloso ritrovamento di una lastra di pietra con l’effige della Madonna di Costantinopoli raffigurata sotto un baldacchino sorretto da quattro Angeli. Era l ’a n n o 1 8 07 e i l m e r i to v a riconosciuto a una giovane lercarese di nome Oliva Baccarella. Sulla pietra che ancora si conserva nella

CHIESA MADRE

Quasi sera. Con gli amici Pippo Furnari e zio Peppino attraversiamo la piazza principale di Lercara Friddi e ci dirigiamo verso la Chiesa Madre dove c’è Padre Mario ad attenderci. C’è subito sintonia e feeling. Padre Mario è uomo di fede e di azione, ha grande personalità e carisma, e grazie a lui il messaggio cristiano arriva trasversalmente a tutte le generazioni e ceti sociali. Entriamo all’interno della bella Chiesa Madre, ampia, nobile e lucente, e poi ci dirigiamo nella sala del registro delle nascite dove abbiamo modo di verificare con mano luogo e data di nascita degli antenati di Frank Sinatra. Raccontano che questa struttura ha un

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Chiesa ci sono graffiti anche un nome, Mercurio Ricotta, e una data 1734. Ogni anno, il 20 Agosto, i lercaresi ricordano l’avvenimento con una festa comunale, portando in processione la statua di Maria SS. di Costantinopoli, copia di quella realizzata nell ’Ot tocento, collocata sull’altare. A quando e soprattutto da dove proviene davvero questa pietra, è un mistero, non ancora sciolto dalla sovrintendenza; ma è quasi certo che proviene dal medio oriente.

cuore che batte anche sottoterra. Ci dice zio Peppino: «Ho curato io la costruzione della cripta. I sotterranei di questa chiesa nascondevano macerie e ossa di due secoli. Ho recuperato questi locali sotterranei della chiesa in due lotti di lavoro durati circa sei mesi ciascuno e attuati a circa due anni di distanza l’uno dall’altro». C’è un misto di gioia, orgoglio, passione e fede nelle parole di zio Peppino e con lui, proseguendo in interminabili racconti, raggiungiamo la Chiesa di Maria Santissima di Costantinopoli, un luogo di culto eretto intorno al 1840 che conserva una pietra venerata dai cittadini e carica di fascino.

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

DA FRANCO VENTO

Con ancora i sapori in bocca dei prodotti da forno del Panificio Marino cerchiamo di saperne di più del dolce tipico lercarese, la pantofola, che – come recita un’insegna esterna nel bar pasticceria “Luigi”, ‘non si indossa … ma si mangia’. Entriamo nel laboratorio di Franco Vento, erede del maestro pasticcere Luigi Milazzo. Ci dice Franco: «La pantofola, un tempo, si chiamava pasticciotto e si faceva a casa e solo recentemente, con la nascita delle pasticcerie locali, questo

dolce ha cambiato aspetto ed è diventato più elegante e con la forma attuale. La sua produzione è complessa e ha diverse fasi di lavorazione». Franco si mette al lavoro; i suoi gesti sono perfetti, armonici ed è evidente che si tratta di azioni quotidiane: «Si inizia con la filatura della pasta e quando si è raggiunto uno spessore giusto, sottile ma non troppo, iniziamo a fare degli stampi circolari … un tempo si faceva con un semplice bicchiere. Arriviamo quindi all’impasto e le protagoniste sono le

mandorle siciliane, molto dolci, che vengono spellate e macinate, e infine cotte; e poi si passa ai condimenti con cioccolata, arancia e uva passa. A questo punto prendiamo il ripieno e lo mettiamo sulla pasta che oramai è stata forata con piccole forme a dischetto. Non rimane che chiudere l’impasto in ogni suo punto, allungarlo lentamente e piegarlo in fondo dando una forma di esse. Il forno andrà a 220, 230 gradi, per circa venti minuti, e dopo la cottura si passerà una glassa sopra con albume d’uovo e zucchero».

AL MERCATO

Pochi luoghi, più del mercato, raccontano l’identità di un territorio. È giovedì mattina e questo nuovo giorno di Lercara Friddi inizia proprio con i tanti colori, odori, richiami e schiamazzi del mercato cittadino, ricco e abbondante, tra banconi di verdura e frutta di stagione, tra venditori di lumache e camioncini ricchi di salumi, formaggi e gastronomia locale: street food vero, autentico e originale siciliano al 100%!. Facciamo una passeggiata veloce percorrendo via S.Anna e incrociamo sguardi e dialoghi, un piacere per gli occhi e per le orecchie. Incontriamo Alessandro e Liborio, detto ‘u cucummararo”: «Roba fresca e di giornata. Venga signora, venga»: sono i classici richiami, uguali a ogni latitudine. Chiediamo le ultime informazioni per fare il nostro trekking agroalimentare a Lercara Friddi e qua commettiamo un grande errore di valutazione: le indicazioni di macellerie, pasticcerie, forni e alimentari sono molte, a testimoniare una qualità diffusa. E allora siamo costretti a fare una selezione e ci dirigiamo verso il Panificio Marino, alla Pasticceria Vento e alla Pasticceria Oriens. LUCIANO E L’INFRIULATA

Ed eccoci qua, in uno dei templi dei sapori di Lercara Friddi, il Panificio Marino. Si tratta di una piccola bottega stracolma di pane, focacce e biscotti e tutt’intorno c’è un profumo di straripante grazia. La signora al bancone ci invita a entrare

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nel laboratorio interno perché qua la filiera è corta, anzi cortissima: appena un metro! Luciano Marino, il titolare, sta preparando l’infriulata, tipico piatto contadino e la miglior testimonianza dello street food lercarese. «Si tratta di un calzone rustico che si produce da circa un secolo. Negli altri paesi lo chiamano diversamente ma la concezione è quella: è ripieno di salsiccia di maiale e bietole selvatiche oppure, a seconda della stagione, coltivate. L’elemento di partenza è un impasto di farina di grano duro, a basso contenuto proteico che conferisce croccantezza al

prodotto». Ne assaggiamo uno appena sfornato ed è una delizia: il sapore degli ingredienti primi è perfettamente distinto ma in bocca emerge anche un sapore omogeneo grazie alla dolcezza e morbidezza della pasta. «Non utilizziamo né lievito madre né lievito di birra – ci dice Luciano - bensì, come si faceva una volta, l’impasto del giorno prima viene fatto fermentare in appositi contenitori e poi si fa maturare a freddo. Dopo il riposo l’impasto viene stesso e farcito con salsiccia di maiale, bietole, cipolle, patate, acciughe sale, olio e pepe. È una specialità tipica di Lercara Friddi». Confermiamo!

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

I SAPORI DELL'ORIENS

Salutiamo Franco e ci dirigiamo verso la Pasticceria Oriens, autentico tempio del gusto che meriterebbe esso stesso una gita a Lercara Friddi. Il bancone all’ingresso è straordinariamente ricco di belle e buone cose; e l'occhio si perde tra infiniti cioccolatini (prodotti in tutti i sapori possibili e immaginabili), cannoli, cassate siciliane, sfogliatelle, frutta martorana, semifreddi, pantofole e pasticceria di mandorla. Siamo all’interno di una pasticceria artigianale tra le migliori d’Italia, senza alcun dubbio. Anche l’angolo rosticceria mette l’acquolina in bocca: strepitosi gli arancini alla carne, agli spinaci, al burro, salmone e funghi; e come se non bastasse, Oriens mette sul piatto anche arancini dolci alla crema di pistacchio con pralinato di pistacchio, ricotta e arancia e crema al cioccolato. Buon appetito!

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‘LA MENNULA’: VINO, OLIO, MIELE E FUTURO

“Diffondere i sapori siciliani nel mondo!”: questo il desiderio, ambizioso ma sincero, dell’Azienda Agricola ‘La Mennula’. Abbiamo incontrato Gioacchino Miceli e Salvatore Dolcimascolo, due persone sorridenti, iper attive, innamorate della propria terra e del proprio lavoro, che vivono come quotidiana scoperta. Praticamente non hanno confini: producono olio extravergine di oliva, pelati, olive sott’olio, marmellate (di tutti i tipi: arance, prugne, ciliegie, mele, fichi), ricotta, pomodori secchi, pecorino, salsiccia secca con semi di finocchietto, miele di nespolo, mandorle e carciofi sott’olio; ma anche vino. «Ai primi dell’Ottocento – ci dice Giacchino - la famiglia Miceli si trasferisce a Lercara Friddi, anche se i terreni in cui lavoravano si trovavano nella contrada Riena del Comune di Castronovo di Sicilia, di dove erano originari. L’attività prevalente era all’epoca l’allevamento del bestiame e successivamente la coltivazione del frumento duro. Nei primi del Novecento a Lercara Friddi con l’inizio delle attività di estrazione dello zolfo si decide di cominciare a coltivare la vite, grazie alla quantità sempre più crescente di minatori, e per questo la famiglia apre una piccola cantina dove oltre a vendere il vino sfuso si dava un servizio di ristoro ai lavoratori». Con fatica e dedizione si lanciano nel loro grande sogno di dar vita a un’azienda

agricola dinamica, moderna e al tempo stesso legata ai princìpi della tradizione contadina, ma soprattutto con un ricchissimo paniere di prodotti: «Oggi l’azienda oltre a mantenere la coltivazione di frumento duro e l'allevamento ha sviluppato

la produzione di olio, vino e miele e in questi ultimi anni, grazie ai fondi europei, si sta creando un laboratorio per l’imbottigliamento sia dell’olio che del vino, e per la produzione di conserve e olive da mensa».

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

A COLLOQUIO CON ROSA MICELI STORIE E RACCONTI SULLE TAVOLATE DI SAN GIUSEPPE Rosa Miceli è una nonna ancora attiva, forte, giocosa e sorridente. È una delle protagonista delle tavolate di San Giuseppe di Lercara Friddi ed è lei a raccontarci la ritualità, le tradizioni, i sapori, i canti e tutto ciò che rappresenta in profondità questa festa così antica e così amata e celebrata, ancora oggi, in tutto il paese DI LUCIANO VANNI

altre verdure fritte: con particolari dolciumi come i cannoli, le cassate, la pignolata e ogni genere di frutta; tavolate stracolme di pane ed addobbate con alloro, fiori e bandierine colorate realizzate manualmente con abile maestria su cui troneggia l’immagine della Sacra Famiglia». DALLA SIGNORA ROSA

Per comprendere appieno la tavulata di San Giuseppe andiamo a casa di nonna Rosa Miceli e siamo accolti subito con grande dolcezza e generosità. È sua nuora Carmelina a prendere la parola e ci dice: «Le tavolate di San Giuseppe a Lercara sono speciali, le potremmo definire ‘barocche’. Non sono composte solo di pane, ma elaborate con tutte le primizie messe a disposizione dalle civiltà contadina. Nascono come ex voto: e per ringraziare il santo si organizzano queste tavole imbandite». Nonna Rosa è una delle poche rimaste a impastare il pane con una tecnica particolare, col risultato di comporre figure ornamentali: la barba di San Giuseppe o il suo bastone. Regola fondamentale nelle tavolate è sempre stata l’allestimento di una tavola rettangolare posta al centro della casa, perché si doveva potere girare attorno ad essa, con l’altare raffigurante San Giuseppe contornato da foglie di alloro. Sul tavolo si mettevano tutte le pietanze preparate dalla famiglia». UNA TRADIZIONE CHE VIENE DA LONTANO

LE TAVOLATE DI SAN GIUSEPPE

La devozione e la fede, a Lercara Friddi, sono anche fattori di inclusione sociale. È il caso delle tavolate di San Giuseppe, lunghe tavole rivestite con preziose tovaglie e stracolme di bontà gastronomiche offerte a colui che, nella tradizione cristiana, fu sposo della Vergine Maria e Santo protettore dei poveri e dei derelitti. Il 18 e 19 marzo il paese

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celebra questa festa all’insegna della fede, della tradizione e del folklore ed è un tripudio di colori, di suoni, di cortei in costumi d’epoca e di rulli di tamburi. Lercara Friddi offre il meglio di sé e, come ricorda l’Associazione Relax, questa festa rappresenta una preziosa occasione per fare beneficenza: «La tavolata di San Giuseppe è anche un’occasione per donare qualcosa a

chi ha meno fortuna di noi nella vita di tutti i giorni, anche nelle cose che ai nostri occhi sono banali e spesso anche invisibili. Venite tutti a donare anche solo un pacco di pasta. Quanto viene donato, alimenti e soldi, sarà poi consegnato alla Caritas locale». Chiudete gli occhi e immaginate lunghissime tavolate imbandite a festa con «ogni genere di vivande tra cui broccoli, cardi e

Sebbene in Sicilia la tradizione della tavolata si basasse solo sul pane, artistico e decorato, ma sempre e solo pane, a Lercara Friddi c’è di tutto, anche il pesce, tranne la carne. La ragione di questa differenza sta in una sorta di competizione tra le famiglie che mostravano il proprio status attraverso l’esposizione dell’abbondanza di cibi sulle tavole imbandite. Ci dice Rosa: «Per noi è una tradizione antica e mi è stata tramandata da mia nonna, da cui ho imparato molto. Prima queste tavolate non erano il risultato di una ‘spesa’ al mercato, non si facevano di tasca bensì tramite la raccolta nei campi.

Si cominciava a pensare ad esse due mesi prima della festa del santo e questa raccolta di cibo era legata alla richiesta di una grazia a San Giuseppe. Si trattava di raccogliere il frumento, acquistare l’olio, insomma tutte le materie prime necessarie, e si andava in campagna a cogliere alloro e rosa marina per fare l’altare. Poi si sistemava la tavola: doveva essere lunga e ddobbata con una bella tovaglia ricamata». SIMBOLI E SIGNIFICATI

Questa festa miscela rito cristiano e simbologie pagane. Il racconto di Rosa, vinta la timidezza, inizia a prendere fluidità. Parla in dialetto ma si fa capire molto bene: «Il grano si metteva sulla bambagia in un piatto, perché l’umidità lo faceva germogliare - giocava un ruolo di importante simbologia ci spiega Pippo Furnari, che ci ha accompagnato dalla signora Metà della tavola era dedicata alle tre ‘verginelle’ a simboleggiare la Madonna, il bambinello e San Giuseppe, l’altra metà veniva distribuita e consumata dai presenti». Con il pane si creavano forme assolutamente particolari per mettere in scena tutta una serie di significati e simboli, come il bastone e la barba del santo; e poi c’era anche la ciambella di pane che rappresentava la corona del Bambino Gesù. E infine c’erano i cardi, giganteschi perché quelli della tavolata di san Giuseppe venivano coltivati appositamente. «Si faceva ingrossare – prosegue nonna Rosa - si copriva con la terra e si innaffiava fino a farlo diventare enorme. Per non dire dei giri che le famiglie che organizzavano queste tavolate facevano per comprare i migliori ortaggi e frutti». È l’ancestrale rito della fertilità il quid della tavolata di San Giuseppe. LA RITUALITÀ

Ma prima che la festa abbia inizio, Lercara Friddi celebra la sua devozione a San Giovanni con un rituale che viene interpretato in chiave teatrale, ma nell’antica tradizione a impersonare la sacra famiglia era davvero la gente povera del paese. «Prima della tavolata si va a messa e si chiudono tutte le porte di

casa. E poi, al ritorno, si sente bussare alla porta. E noi. Chi è? E vanno bussando, bussano, e all’inizio non vengono fatti entrare; e poi ritornano e alla risposta ‘Gesù bambino’, noi iniziamo a urlare di gioia e si aprono le porte con tanta allegria: ed entrano Gesù, Giuseppe e Maria». Di fatto bussano coloro che impersonificano la Sacra Famiglia e oggi sono in genere i ragazzi del paese, i tre verginelli a cui sono offerte le pietanze della tavolata di San Giuseppe. E poi c’è una pratica molto particolare, a metà strada tra la devozione e la stregoneria, che si osserva durante la celebrazione di San Giuseppe e specialmente nel corso delle tavolate: quella di unire il vino e l’acqua. il vino sopra e l’acqua sotto, senza che si miscelino, un qualcosa che avviene grazie al diverso peso specifico del vino. Una ritualità che rivisita le nozze di Cana. LE BANDIERINE

Ma a questo punto Rosa Miceli, prima con un pizzico di timidezza e poi con forza e vanità, ci stupisce con una delle sue specialità: la creazione di una serie di bandierine di carta velina, simili a origami, che venivano conficcate in tutti questi alimenti della tavolata di San Giuseppe: queste, di forma triangolare, e di tutti i colori possibili, s’incollano a delle piccole canne dal fusto dritto e leggero. Quella delle bandierine era una cosa davvero importante, una tradizione che portava gioia a tutti i bambini perché alla fine della tavolata queste venivano staccate e regalate ai più piccoli. Nonna Rosa ne taglia a decine, in gran velocità, sotto i nostri occhi e dimostra ancora oggi una incredibile abilità manuale. La tradizione delle tavolate di San Giuseppe era andata persa nel corso degli anni ed è stata ripresa negli ultimi dieci anni. Oggi questa festa è sostenuta da molte associazioni lercaresi, sono coinvolte molte famiglie e ciascuna di loro prepara un piatto diverso. Ed è anche grazie a Rosa Miceli se la memoria del passato è rimasta fresca! E se vieni per Natale sarai deliziato con i nostri cucciddata, dolci di fichi o mandorle».

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

A COLLOQUIO CON GIUSEPPE SALTALAMACCHIA IL MIO RIPOSO È L’IMPEGNO Giuseppe Saltalamacchia è per tutti “zio Peppino”. Ex minatore, scultore di bassorilievi e muratore, classe 1929, Giuseppe è la memoria storica di Lercara Friddi. Ha saggezza, ironia, carattere e soprattutto una storia meravigliosa, di lavoro e fatica, di gioia e fede. Zio Peppino scalda il cuore con ogni suo gesto e ogni sua parola e averlo conosciuto è davvero un piacere e un privilegio immenso DI FRANCESCO BUONOMANO

come clandestino in Francia per lavorare ancora sottoterra, nelle miniere di carbone. Rimpatria e comincia a lavorare in ferrovia, ci rimane venti anni e fa l’aiuto macchinista e in seguito il macchinista. «Nel mio tempo libero – ci dice - mi sono specializzato in sculture. Ho scolpito dozzine di immagini sacre: dal pozzo di Giacobbe al volto di Gesù, a immagini di Cristo risorto. Non voglio venderle. Le destinerò alla chiesa». IL LAVORO MI TIENE IN FORMA

MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

Racconta Pippo Saltalamacchia, ex minatore, che Lercara Friddi era arrivata a toccare i ventimila abitanti grazie alle miniere di zolfo; e che oltre alla grande miniera, c’era la cava di gesso, da cui si ricavava la calce idraulica. Dalle zolfatare si ricavava lo zolfo ventilato, che serviva alle vigne e, come materiale bellico,

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veniva anche usato per le munizioni. E ci dice che lungo i piani inclinati delle miniere lercaresi faticavano più di mille e cinquecento persone. «Era una realtà che dava lavoro. Ci cominciai a lavorare a undici anni di età. A quell’epoca guadagnavo tre lire e mezzo al giorno. Poi iniziai a guadagnare sette lire al giorno». Nel 1947, a diciassette anni, Pippo emigra

Ascoltare la voce emozionata di Peppe Saltalamacchia è dolce, come i sapori di pasta di mandorla siciliana. Senti la forza, la profondità dei suoi quasi ottantasei anni. E’ fresca come quella di un giovanotto che ha mille cose da fare e, in effetti, zio Peppino ha programmi almeno per i prossimi trent’anni. Si, perché sua nonna, tra enormi sacrifici, è campata quasi un secolo ed ora, dice l’arzillo nipote, con le medicine e le cure che un tempo non c’erano, la vita s’è allungata di oltre vent’anni. Tanto vale attrezzarsi, prepararsi, star svegli. Entriamo subito in confidenza e ci dice che tutti lo chiamano “zio Peppino” e ci fa capire che possiamo farlo anche noi. «Mi alzo col gallo e vado a letto con le galline, almeno sto’ fresco. Quando riposo mi stanco, il lavoro, invece, mi tiene in forma» Ha fretta e voglia di raccontare questo formidabile artigiano che ha tanto

lavorato, viaggiato e vissuto. «Ho iniziato a cinque anni, a scendere con mia madre giù ai campi. Dopo i dieci anni ero un laureato della vita, a undici anni facevo sette chilometri al mattino per andare al lavoro e sette al rientro, di sera». Peppino ricorda i tempi di una Lercara industriosa e produttiva, industriale, come lui la definisce. Erano gli anni in cui dal lato alto del paese, Lercara alta, si abbassavano a Lercara bassa, con i vagoni in legno della piccola ferrovia urbana a servizio della produzione locale, arance, limoni, enormi quantità di fieno che si vendevano a Barcellona Pizzaottu, Pozzo di Gotto, verso Messina, e ogni altro prodotto della terra o del lavoro dei lercaresi. La semina, la raccolta, la trasformazione del grano, l’industria del gesso, le miniere di zolfo, erano segnati così, da queste attività, in tempi in cui il piccolo centro, contava migliaia di abitanti. «Quando Lercara era piccola, nei decenni passati, eravamo diecimila in più. Ora che è cresciuta, siamo rimasti in pochi». LA LIBERAZIONE

In effetti i ricordi di Peppino raccontano storie di lavoro e di emigrazione, di intere generazioni che altrove cercarono nuove fortune, nuova vita. «Tutta la mia famiglia emigrò in America, i nonni e gli zii. Anch’io dopo la guerra, nel 1947, andai a cercar fortuna all’estero, in Francia. Trovai lavoro in una miniera di carbone, a diciassette anni scendevo a un chilometro di profondità, tra le viscere della terra. Il carbone si tirava fuori a spalla, nei sacchi e quando si usciva eri nero da capo a piedi. Dovevamo lavorare. Mia madre ha avuto nove figli, mia nonna quattordici, un tempo le famiglie erano numerose, perché numerose dovevano essere le braccia per la fatica». Poi il rientro in Italia. «Sognavamo le diecimila lire, quelle enormi di un tempo. Gli americani, dopo lo sbarco, le avevano sostituite con dei biglietti che sembravano carte da cioccolatini, soldi strani». E rivivono così i ricordi dello sbarco, della fine della guerra: «Stendemmo tutti ai balconi lenzuola bianche, per salutare gli alleati che liberavano la Sicilia e l’Italia, ma anche per far capire che per

noi, la guerra era veramente finita. Come quando si tiran su le bandiere bianche. Ricordo un tenente delle truppe americane, che, durante la parata, all’arrivo in città, disarmò un Carabiniere che era sceso in strada con la pistola al cinturone. Si chiudeva una stagione, per tutti. Erano stati tanti, troppi i morti e troppe le sofferenze per quel conflitto, tra fascisti e partigiani, resistenza e reazione. Fortunatamente la Sicilia per prima vide i liberatori e questi sono ormai solo ricordi». LA MANUALITÀ E IL BELLO

Zio Peppino ha una lucidità e una cultura storica sorprendente, e la sua voce è nitida e calda. Ci facciamo raccontare il suo ritorno in Sicilia. «Sono nato lavoratore e muratore, come mio padre. Questo ho fatto tutta la vita, nonostante le altre attività. Lavoravo di notte e di giorno costruivo, non mi sono mai fermato. Negli anni Sessanta fui assunto in ferrovia, andai a Torino, per volontà mia. Nel 1968 sono tornato in Sicilia, per finire a Palermo,

l’anno successivo. Il mio lavoro era nelle manovre ferroviarie, ma la mia passione era costruire, lavorare e realizzare con le mie mani. Non ho mai abbandonato quest’opera, ho fatto tanta, tanta fatica e ne sono felice: se contassi le camicie che ho sudato, non finirei più. Ho realizzato grandi e piccole cose, ho costruito di tutto, dalle case alle fornaci per la fonderia delle campane di Burgio, fino a trovare la mia strada, quasi ottantenne, una decina di anni fa. Lavoravo al restauro dell’antica cripta della Chiesa di Maria Santissima della Neve, è stata un’opera straordinaria. La cripta che accoglieva le spoglie degli antichi lercaresi era chiusa da duecento anni. Quando entrammo l’odore intenso, pungente, scoraggiava i più baldi e forti giovani e le maestranze. Ma le sfide e il fascino del recupero dell’arte mi hanno sempre appassionato e quello risultò un lavoro veramente ben fatto. Pian piano, trasformando questa mia passione per la manualità e il bello, maturando, ho scoperto la scultura. Ed ho trovato nuova enorme ispirazione».

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

FEDE E FESTE

UN GIOVANISSIMO OTTANTENNE

Insomma, non c’è tramonto e pigrizia nella vita di Giuseppe Saltalamacchia. «Si, verissimo. Ho realizzato tanto con la mia passione, con l’impegno, il sudore e con la pietra delle nostre terre, che è molto più difficile del marmo da lavorare. Tutto esclusivamente a mano, senza l'ausilio di attrezzi moderni e complicati. Dalle opere della Villa della Trasfigurazione, all’Immacolata posta all’incrocio che porta al cimitero di Lercara, poi numerose iscrizioni, centinaia di parole che sembrano scritte su carta tanto sono precise. Fino a un lavoro dedicato alla Virgo Fidelis, protettrice dei Carabinieri». Straordinario il suo racconto, una nuova passione in un tempo in cui avrebbe tranquillamente, e a ragione, potuto dedicarsi al riposo. «Il mio riposo è l’impegno. A ottantadue

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anni ho preso la licenza di terza media, mi mancava la scuola. Ho pure frequentato un corso di inglese, che può sempre servire, anche se la pronuncia ha poco a che vedere col siciliano. Ho poi da poco iniziato gli studi superiori per geometri: c’entra molto col lavoro che ho fatto tutta la vita, costruire». È inarrestabile e infaticabile questo giovanissimo ottantenne lercarese: «Quelli della mia età vanno a visita per il rinnovo della patente ogni anno. A me è stata rinnovata per i prossimi tre. Volevo iscrivermi all’Accademia delle Belle Arti di Palermo, se non fosse stato per il mio oculista che mi ha sconsigliato di affaticare gli occhi sui libri. Dicono sia per l’età. Io ero preoccupato più per i sessantacinque chilometri di distanza che avrei dovuto fare con la mia nuova Panda, ad andare e a tornare».

Fossero tutti speranzosi e felici del futuro come Giuseppe! A questo punto ci facciamo raccontare qualcosa del suo rapporto con Lercara Friddi: «Sono profondamente credente e attaccato alla mia terra e so che viene da qui la mia forza. Le mie feste sono le feste di Lercara Friddi, che sono le feste della fede e della religione. Chi vuole vivere questi territori dovrebbe esserci per il giorno di San Giuseppe, quando i lercaresi mettono il santo a capotavola, nelle numerose tavolate che si organizzano per condividere anche con i più bisognosi i nostri prodotti tipici e la pasta con le lenticchie. O per le vampe di Santa Lucia, per assaggiare il grano cotto». Verremo, non c’è dubbio. «E allora – prosegue zio Peppino - tenete a mente pure la festa della Madonna di Costantinopoli, che si celebra il 18, 19 e 20 agosto di ogni anno, e poi, sempre ad agosto, c’è la festa della Madonna della neve: tenete a mente. A settembre c’è la festa del Crocifisso. Dovete assaggiare le Pantofole alle mandorle, le panelle con la farina di ceci, la cubaita, il buonissimo torrone alle mandorle e al miele, o la pasta con le sarde e il finocchietto selvatico. Io preferisco quella con la ricotta salata, fatta con le bottiglie dei nostri pomodori. Questa è una terra fertile, asciutta, i prodotti vengono buoni». Verremo, zio Peppino, verremo!!

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LERCARA FRIDDI MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

RISTORANTE DA PEPPE Qui il principe della tavola è il pesce, sempre fresco e proposto nelle più svariate declinazioni. Tagliatelle con gamberi rossi, rosa e scampi, linguine al sugo di cernia e mazzarelli, fettucce con cozze, gamberi rossi e asparagi, linguine con polpa di ricci e uova di ricciola, spaghetti al nero di seppia, cappiduzzi fritti e diversi tipi di grigliate caratterizzano un menù che non manca di sorprendere anche nella parte riservata ai dolci, rigorosamente fatti in casa e tra i quali spicca l'ottimo parfait di mandorle. Nel ristorante è inoltre presente una selezionata cantina di pregiati vini siciliani, ideale complemento alle varie portate.

Contatti: Cortile Nicolosi, 3 - 90025 Lercara Friddi (PA) • Tel: 091.8251076 E-mail: ristorantedapeppe@libero.it • Web: https://www.facebook.com/pages/Ristorante-da-PEPPE

PANIFICIO MARINO Per Domenico Marino, titolare dell'omonimo panificio, le tradizioni rappresentano un valore imprescindibile, memorie dell'identità gastronomica di un territorio. E l'identità di queste zone è legata anche ad antiche ricette come i caratteristici pupi cu l'ova pasquali, le nfriulate (ripiene di verdure, salsicce e patate), gli sfincioni (un pan pizza locale farcito con pomodoro, cipolla, acciughe, origano e caciocavallo ragusano), il pane di San Giuseppe, i panuzzi di cena (dolcetti all'anice glassati) e gli sfinci d'ova (dolci ripieni di crema). Un paradiso del gusto nel quale immergersi per assaporare quest'angolo di Sicilia.

Contatti:

SOSTE DI GUSTO Soste gourmet selezionate sul territorio: locande, trattorie, ristoranti, agriturismi ma anche pasticcerie, rosticcerie, pizzerie, forni; e perché no, anche aziende agricole, produttori di eccellenze enogastronomiche, produttori di vino, olio, formaggi e confetture. E buon appetito!

Via Regina Elena, 44 - 90025 Lercara Friddi (PA) Tel: 091.8213010 • Web: https://www.facebook.com/pages/Panificio-Marino

PANIFICIO MONTALTO Quella che si respira all'interno di questo panificio artigianale di cui è titolare Francesco Montalto, panificatore di lungo corso, è un'aria familiare. Qui è possibile assaporare alcuni dei prodotti più caratteristici di queste zone come gli sincroni (una sorta di pizza tradizionale condita con pomodoro, cipolla, acciughe, origano e caciocavallo ragusano), le nfriulate (farcite con verdure, salsicce e patate), il pane di San Giuseppe (legato alle celebrazioni del santo) e gli sfinci d'ova (dolcetti ripieni ricoperti di glassa), oltre naturalmente a un'ampia scelta di pani dalle forme e dai sapori più diversi.

Contatti: Via Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, 6 - 90025 Lercara Friddi (PA) Tel: 091.8251034

ANTICA FRIGGITORIA DEL CORSO Una lunga tradizione familiare risalente al 1870, quando il capostipite Giovanni Lo Buglio, trasferitosi da Bagheria a Lercara Friddi, fondò la prima friggitoria in via Costantinopoli proponendo alcune specialità quali le panelle (frittelle a base di farina di ceci), le muffolette (pagnotte tipiche delle festività invernali imbottite, a piacere, con caciotta o caciocavallo e sugna (strutto) o ancora con olio, pepe, acciughe e formaggio) e le caratteristiche quaglie (melanzane affettate e fritte). Delizie gastronomiche che ancora oggi Salvatore, attuale titolare e ultimo discendente di questa dinastia, prepara con immutata passione.

Contatti: Corso Giulio Sartorio - 90025 Lercara Friddi (PA) Tel: 091.8252188 • Web: https://www.facebook.com/pages/Antica-Friggitoria-Del-Corso

ROSTICCERIA E PIZZERIA DA ASPORTO “SFIZIÒ EXPRESS”

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PASTICCERIA BAR ORIENS La qualità è un elemento imprescindibile per Giuseppe Olivieri, e lo testimoniano l'ampia scelta di insaccati tipici del luogo (salsicce, salami, pancette) e di formaggi della ricca cultura casearia locale, prodotti esclusivamente con ingredienti genuini, nonché le carni fresche macellate, provenienti da allevamenti del territorio certificati e garantiti. Nella sua salumeria la memoria delle buone cose di una volta si rinnova grazie ai profumi e ai sapori caratteristici della tradizione siciliana.

Contatti: Piazza Umberto I, 6 - 90025 Lercara Friddi (PA) Tel: 091.8213976 • Web: https://www.facebook.com/PasticceriaOriens

PASTICCERIA FRANCO VENTO

Varcando la soglia del Gattopardo, pub-pizzeria dai rimandi cinematografici, ci si immerge in un'atmosfera raccolta e cordiale. Qui la pizza rappresenta, in tutte le sue più gustose varianti, una delle passioni di Alfredo Frangipane, il titolare, attento alla scelta delle materie prime e a ogni fase della sua preparazione. Da provare, fra le tante tipologie di pizza proposte, l'appetitosa e ricca cudduruni (sia bianca sia rossa), derivata da un'antica ricetta della tradizione siciliana.

La pasticceria, forte di un'esperienza affinata da oltre trentacinque anni di attività, è stata rilevata nel 1991 da Franco Vento, che ha avviato un processo di rinnovamento, modernizzando i metodi di lavorazione e affiancando ai tipici prodotti della tradizione dolciaria siciliana nuove golose creazioni. Si possono così gustare, accanto ai dolci caratteristici di Lercara Friddi come la pantofola, dal morbido ripieno a base di mandorle racchiuso in un impasto croccante ricoperto di glassa, deliziose novità come i du' carusi. Da assaggiare inoltre i cerdesi all'albicocca, i sikani al pistacchio, i catanesi e i cornetti alle mandorle.

Contatti:

Contatti:

Via XIII Avieri, 4 - 90025 Lercara Friddi (PA) • Tel: 091.8213246 E-mail: giuseppe.salamon@alice.it • Web: https://www.facebook.com/SfizioExpress

Corso Giulio Sartorio, 11/19 - 90025 Lercara Friddi (PA) • Tel: 091.8251119 E-mail: pasticceria.vento@gmail.com • Web: www.ventopasticceria.it

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IV

TRADIZIONI ENOGASTRONOMICHE PIOMBINESI

I COLORI DI TERRA E MARE

I DINTORNI A PASSEGGIO TRA STORIA, CULTURA, NATURA E SAPORI I dintorni del territorio che vi abbiamo finora raccontato e che sicuramente vi ha già fatto innamorare, sono anch'essi uno scrigno prezioso di monumenti storici, luoghi della cultura e siti naturalistici, nonchè di aziende agricole che producono bontà tipiche della tradizione siciliana. Andiamo a scoprirli.

Il Castello e il Lago Rosamarina [Caccamo] Il Mulino Fiaccati [Roccapalumba] Osservatorio Astronomico [Roccapalumba] Al Lago Verde [Alia] Grotte della Gurfa [Alia] Azienda Agricola Feudo Montoni [Cammarata] Colle San Vitale [Castronovo di Sicilia] Agriturismo Refalzafi [Castronovo di Sicilia] Monte Carcaci [Castronovo di Sicilia] Borgo Reina [Castronovo di Sicilia] Casale San Pietro [Castronovo di Sicilia]

DI LUCIANO VANNI

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IX

I DINTORNI A PASSEGGIO TRA STORIA, CULTURA, NATURA E SAPORI

IL CASTELLO DI CACCAMO E IL LAGO ROSAMARINA [CACCAMO] UN PAESAGGIO DI STORIE E DI STRAORDINARIA NATURA

A

poco più di dieci chilometri da Termini Imerese, stretto tra la Riserva Naturale di Pizzo Cane e il Parco delle Madonia, c’è Caccamo, un paese che deve la sua fondazione ai Normanni e noto per la bellezza del suo imponente castello medievale risalente al XII secolo. Si tratta di una mole incantevole, tra le più affascinanti della Regione, un edificio che fa bella mostra di sé dall’alto di una grande rupe calcarenitica. Caccamo si caratterizza anche per il suo vasto bacino idrico, il lago Rosamarina,

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che nasce artificialmente in seguito allo sbarramento del fiume San Leonardo attraverso una grande diga che raggiunge un’altezza massima di novantatrè metri e una lunghezza di duecento. Il lago Rosamarina, colpisce immediatamente per la varietà dei colori che lo caratterizzano, dal verde smeraldo delle sue acque, al giallo dei cespugli di ginestre che lo circondano, fino al verde degli olivi selvatici e al bianco e rosa dei mandorli fioriti lungo le sue sponde che si snodano per circa sedici chilometri e delimitano

il territorio che va da Termini Imerese a Caccamo. Paesaggio incantevole da scoprire per chi desidera assaporare la natura in tutte le sue varie sfumature e per gli amanti della pesca da record: il lago è infatti abitato da diverse specie di pesci di grandi dimensioni, come i black bass, i pesci gatto, i persici reali, le carpe, i carassi e le tinche. Rimane solo un rimpianto: sapere che sotto le acque del Lago Rosamarina è nascosto un capolavoro architettonico, il Ponte Chiaramontano, edificato nel XIV secolo.

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I DINTORNI A PASSEGGIO TRA STORIA, CULTURA, NATURA E SAPORI

IL MULINO FIACCATI [ROCCAPALUMBA] LA MERAVIGLIA ITALIANA

È

una bella sorpresa la struttura in pietra viva del Mulino Fiaccati, un impianto ad acqua tardo ottocentesco che quasi si mimetizza tra pareti rocciose e spaccature alternate a vaste distese di macchia. Interamente recuperato con finanziamenti europei e la supervisione della sovrintendenza ai beni culturali, questo edificio sorge su una superficie di trentadue ettari lungo la regia trazzera che congiungeva Palermo a Siracusa. L’impianto incanalava l’acqua del fiume e la portava in una grossa urga, una diga

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in pietra squadrata. Ci accoglie Giuseppe Pollina, comproprietario del mulino assieme a Guglielmo Rosa: «Il Mulino Fiaccati è l'unico mulino idraulico ancora oggi funzionante in Sicilia e nel 2011, in occasione del 150° Anniversario Unità d'Italia, ha meritato il bollino di "Meraviglia Italiana". Tutti e trentadue gli ettari attorno al Mulino sono stati vincolati dalla soprintendenza come zona archeologica in virtù di un insediamento neolitico che ha fatto emergere manufatti risalenti a sei, settemila anni fa. Gli scavi hanno portato alla luce

asce di pietra, coltelli di selce e ossidiana, i primi vasi graffiati con uno, due e tre colori. Sono state rinvenute zanne di elefanti nani e corna di cervi preistorici». Il Mulino riusciva a sfamare circa quarantamila persone dei centri siciliani circostanti (Alia, Roccapalumba, Lercara Friddi e Vicari) e un tempo in questa struttura si concentravano saperi e anche molte informazioni sul circondario, una specie di fonte di notizie. I novantenni, oggi, lo ricordano come un centro in cui si tramandavano storie e saperi.

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I DINTORNI A PASSEGGIO TRA STORIA, CULTURA, NATURA E SAPORI

CENTRO STUDI ASTRONOMICO [ROCCAPALUMBA] CON GLI OCCHI RIVOLTI AL CIELO

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l Planetario ‘Francesco Nicosia, inaugurato nell'ottobre del 2008, nasce per volontà della Proloco Roccapalumba, promotrice di un progetto che ha reso questo piccolo centro siciliano il ‘Paese delle stelle”, riferimento di astrofili e scienziati di tutto il mondo tra cui l’astrofisica Margherita Hack, che meritò la cittadinanza onoraria; e nel corso degli anni questa forte caratterizzazione cittadina è stata rafforzata con l’istituzione del CE.S.A.R., acronimo di Centro per gli Studi Astronomici

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Roccapalumbesi. Annoverato tra le eccellenze italiane nel campo dell'astronomia, il planetario accoglie al suo interno il prezioso elioplanetografo, un apparato elettromeccanico che riproduce il sistema solare in 3d e che permette di vedere tutti i movimenti dei pianeti del sistema solare e da cui è anche possibile osservare l’eclissi della luna e del sole. E per chi desiderasse dare uno sguardo sulla volta celeste per osservare la luna, le stelle, i pianeti, e perché no, anche le galassie e le nebulose, l’osservatorio astronomico offre un

potente telescopio da 50 cm e un affiancamento di personale qualificato e di grande esperienza nel campo della divulgazione astronomica. Visitabile previa prenotazione attraverso un percorso interattivo, la struttura ospita inoltre gli eventi “Star Party” (nei mesi di luglio e agosto) e corsi di astronomia. Quale migliore occasione per ammirare le costellazioni e il lento e affascinante movimento degli astri? E perché no: il tramonto e l’alba o anche il sole durante il giorno attraverso un telescopio rifrattore.

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I DINTORNI A PASSEGGIO TRA STORIA, CULTURA, NATURA E SAPORI

AL LAGO VERDE [ALIA] UN PARADISO PER GLI OCCHI E PER IL PALATO

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’esperienza dell’agriturismo ‘Al Lago Verde’ è realmente indimenticabile. Siamo in un vero e proprio paradiso terrestre e tutto ci appare così perfetto, buono, bello e giusto, a partire dal paesaggio che circonda la struttura, a sud di Alia, fortunatamente a bassa antropizzazione. La gestione è a cura della famiglia Rinchiuso ed è condotta con grande passione, educazione e sensibilità da Giuseppina, suo marito Lino e il figlio Vincenzo e si ha la sensazione di essere in casa anche perché i sapori e i prodotti

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utilizzati in cucina – tutti a filiera corta – sono quelli autentici della tradizione. E siccome anche gli occhi meritano rispetto, è doveroso notare che la proprietà ha scelto di arredare gli spazi con gusto e in maniera sobria, con legno e pietra; e ci fa piacere notare come l’agriturismo sia raccolto, basso, quasi sommerso dalla vegetazione, abbracciando un laghetto delizioso. La cucina ha i sapori, i profumi e gli aromi forti e fragranti tipici della cucina siciliana: da notare che la pasta (fresca, fatta con uova di produzione e farina di

Caccamo) e il pane (preparato con lievito madre e doppia lievitazione) sono fatti in casa. Il menù cambia in funzione della stagione e non sarebbe utile, tantomeno giusto, elencare una o più ricette; ma possiamo dire che anche il più semplice degli antipasti, tra formaggi, ricottine, verdure grigliate, caponatine, panelle, merita un viaggio; e non è un caso che la condotta Slow Food “Caccamo – Himera – Monti Sicani” promuova iniziative in questa struttura. L’agriturismo offre corsi di cucina e sei stanze per il ristoro.

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I DINTORNI A PASSEGGIO TRA STORIA, CULTURA, NATURA E SAPORI

GROTTE DELLA GURFA [ALIA] NEL CUORE DELLA STORIA

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’emozione che si prova entrando all’interno delle Grotte della Gurfa, in ambienti scavati nella roccia in un periodo stimato tra il 2500 a.C. e il 1600 A.C, è realmente stordente; così come affascinante è il contesto paesaggistico all’interno del quale sono inserite, con tutt’intorno i Monti Sicani e con alle spalle le Madonie. Si tratta di strutture rupestri artificiali, scavate dall’uomo in un imponente costone di roccia arenaria e sono costituite da un grandioso ambiente campaniforme (thòlos) forato in alto dalla

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luce (come il Pantheon di Roma) e da un grande “vano a tenda” al piano terra, due ambienti collegati da corridoi, scale, cisterne, un “pozzo di discesa”, camminamenti e svariati altri piccoli ambienti di probabile destinazione funeraria sulla sommità del versante. E ciò che ci affascina è sapere che siamo davanti a un'architettura ipogeica, rivestita originariamente con legname e tavolati colorati e decorati, come testimoniato dagli spessi strati di nerofumo catramoso depositati sulle sue pareti, segno sicuro di un definitivo

grande incendio distruttivo: quello che noi vediamo adesso, in sostanza, non è che uno “scheletro”. Ci dice la nostra guida: «Il suo costruttore mostra di conoscere la memoria dei modelli di case-tombe a thòlos ciprioti di Choirokotia e del Megaron ligneo anatolico-frigio di Gordion. Inoltre, proprio perché la thòlos della Gurfa è la più grande del Mediterraneo, con caratteri simbolici unici e originari perfino rispetto alla celebrata thòlos di Atreo a Micene, bisogna pensare che il suo costruttore abbia avuto una notevole sapienza architettonica».

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I DINTORNI A PASSEGGIO TRA STORIA, CULTURA, NATURA E SAPORI

AZIENDA AGRICOLA FEUDO MONTONI [CAMMARATA] LA FILOSOFIA ARTIGIANA DEL FARE VINO, GRANO E OLIO

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’arrivo all’azienda Feudo Montoni è un’esperienza di per sé: la campagna è sublime ed è un susseguirsi di dossi, collinette, verde, fiori e stradine mozzafiato. Ciò che sorprende è trovare i circa ottanta ettari di vigna all’interno di un vastissimo territorio coltivato a frumento, come se Feudo Montoni fosse una pennellata verde d’artista in un grande quadro monocromatico giallo come il colore del grano. Ci attende Fabio Sireci, da anni nel novero dei produttori di grande qualità, custode di una tradizione vitivinicola

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eccezionalmente nobile. Ci dice Fabio: «Qua, proprio sotto i nostri piedi, si produce vino dal 1469 e i nostri vigneti accolgono un antico clone di Nero d’Avola riprodotto da secoli con la tecnica dell’innesto su pianta selvatica. Questo baglio è la memoria storica della famiglia aragonese Abatellis che nell’allora Principato di Villanovo trovò dimora e iniziò questa coltivazione che ha già festeggiato i suoi primi seicento anni». Fu il nonno di Fabio, Rosario, ad acquistare il feudo e da allora la famiglia Sireci ha fatto il vino:

prima Rosario, poi suo figlio Elio e oggi suo nipote Fabio, sempre con quella ‘filosofia artigiana’ che ha permesso di fare qualità da sempre. Feudo Montoni rappresenta un’eccellenza vitivinicola italiana e tra le sue etichette ricordiamo Vrucara (un rosso morbido e aromatico), Vigna Lagnusa (un rosso ideale per carni rosse e arrosti) e Cataratto (un vino bianco, fresco e aromatico). Ma l’azienda di Fabio non si ferma al vino: qua si coltiva grano duro siciliano e olio proveniente da cinque ettari di culture siciliane.

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I DINTORNI A PASSEGGIO TRA STORIA, CULTURA, NATURA E SAPORI

COLLE SAN VITALE [CASTRONOVO DI SICILIA] UN GIACIMENTO ARCHEOLOGICO

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astronovo di Sicilia mostra oltre a quelle spagnole, vestigia arabe, bizantine, romane, greche e naturalmente ha radici ancora più antiche, che si spingono giù sino alla carsica storia dei Sicani; ipotesi accreditate indicano che sul Kassar - l’altopiano in cui, insieme con l’antico insediamento del Colle San Vitale trasmigrarono per ragioni difensive gli antichi abitanti - sorse nel VII secolo a.C. la città sicana di Krastos, la stessa che due secoli dopo diede i natali al filosofo e poeta siceliota Epicarmo, ritenuto

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da Platone l’inventore della commedia. E recenti studi inducono a ipotizzare che questo paese costituì il centro urbano dell’antica Petra siciliana, citata da Plinio come ‘città stipendiaria’ durante l’età imperiale. Mano a mano che si sale sul Colle San Vitale lo sguardo spazia su una visuale circolare di colline verdeggianti, tappezzate anche da pinete e cipressi. Si ritiene che su questo monte sia sorta l’antica Aliciae, durante la dominazione romana una delle cinque città immunes ac liberae, un sito che offre un concentrato di testimonianze

architettoniche in maggioranza databili tra la fine del VII e tutto il XVI secolo. Sono ancora visibili cisterne e sotterranei, ma soprattutto la cinta muraria del castello con alcuni ambienti, i ruderi della grande chiesa del Giudice Giusto, quelli del mulino a vento e ciò che resta della Chiesa dei Miracoli e dell’Hospitales dei Cavalieri Teutonici. In base a recenti ricostruzioni storiche questo territorio fu attraversato dalla Via Francigena, il più importante canale di comunicazione dell’Europa medievale.

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I DINTORNI A PASSEGGIO TRA STORIA, CULTURA, NATURA E SAPORI

AGRITURISMO SORGENTE REFALZAFI [CASTRONOVO DI SICILIA] OASI A FILIERA CORTA

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poca distanza del piccolo e delizioso bacino artificiale del Lago Fanaco, siamo completamente immersi nella natura. Occorre un minimo di pazienza per raggiungere l’Agriturismo Sorgente Refalzafi, ma lo sforzo è davvero ben ripagato dal panorama mozzafiato e dalla straordinaria cucina tipica proposta, tutta a filiera corta. Siamo accolti da Gino, sua moglie Maria e il figlio Antonio Giulio, fresco di laurea in agraria: sono loro a gestire l’agriturismo e a loro va

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riconosciuto il merito di aver compiuto una ricerca profonda sulle ricette della tradizione rurale dell’entroterra siciliano. Ne è un esempio il ‘pitirri’, una minestra di semola di grano duro mescolato a erbe selvatiche che ha una ricetta vecchia di duemila anni, un pasto povero che veniva consumato dalle famiglie dei minatori di zolfo sul territorio di Lercara Friddi. Alla Sorgente Refalzafi si mangia ciò che viene prodotto in casa (dal pane alla frutta passando per la verdura) e anche quando ci

viene offerta la ricotta o la ‘tuma alla pizzaiola’, ci viene detto che si tratta di prodotti scelti con grande cura dai produttori della ‘Via del Formaggio’ che attraversa i Monti Sicani. Qua si fa realmente cucina tipica e i piatti offerti cambiano con il ciclo della stagione. Gino ci racconta il suo lavoro con entusiasmo e slancio emotivo e ci tiene a ricordare quanto siano attenti alla qualità e all’accoglienza, tanto da sentirsi le prime ‘guide turistiche’ del territorio.

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MONTE CARCACI [CASTRONOVO DI SICILIA] SENTIERI NEL CUORE DELLA NATURA

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Giovanni Vallone, blogger turistico ed editore di mammasicily. com, ad introdurci in questa straordinaria riserva naturalistica. «Fra Prizzi e Castronovo di Sicilia – ci dice - insiste una riserva naturale che comprende due rilievi, il Monte Carcaci e il Pizzo Colobria. Si accede alla riserva da Portella Riena dove il paesaggio si presenta con una vegetazione arbustiva, costituita da fitte siepi ricche di gustosi frutti per i volatili, quali i rossi cinorrodi e le squisite more del rovo. Monte Carcaci è un massiccio carbonatico

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costituito da rocce calcaree formatesi in un lungo periodo dal Triassico al Miocene e presenta la tipica macchia mediterranea». Da qua partono più sentieri che vanno dritti nel cuore della natura e che sfiorano antichi pagliai e si può arrivare sulla cima del monte da dove si può godere di un panorama incantevole: e lo sguardo si orienta verso la Rocca Busambra, le Serre di Ciminna e infine su Pizzo Cane e Pizzo Trigna. La nostra passeggiata prosegue tra ambienti sempre diversi, tra praterie assolate e boscaglie naturali, tra ambienti

rupestri e all’ombra di alti lecci, pioppi e l’odore forte di biancospino, rovi, fioriture, pungitopo e infinite specie erbacee; ed è bello notare che la vegetazione si mischia con numerosi corsi d’acqua e stagni, aree umide come il laghetto stagionale che emerge all’altezza del rifugio forestale Colobria-Carcaci a circa mille metri s.l.m. C’è pace tutt’intorno ed è un piacere notare la cura con cui questi sentieri sono mantenuti, protetti e curati: un percorso che può essere vissuto anche dai più pigri e da nuclei familiari.

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I DINTORNI A PASSEGGIO TRA STORIA, CULTURA, NATURA E SAPORI

BORGO REINA [CASTRONOVO DI SICILIA] IL PAESE FANTASMA

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’arrivo a Borgo Reina provoca sentimenti contrastanti: fascino, stupore, malinconia, sofferenza e stupore. Borgo Reina è un piccolo villaggio costruito tra il 1941 e il 1943 e oggi è completamente abbandonato, sovrastato da piante, alberi e ruderi. Siamo nel territorio del Comune di Castronovo di Sicilia e questo paese fantasma, come molti altri costruiti un po’ in tutta Italia in epoca fascista, venne edificato come tentativo di colonizzare, e quindi urbanizzare, il

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latifondo isolano e le aree rurali interne; ma evidentemente il progetto fallì. Siamo davanti a una bellezza che fa male perché si tratta di un’esperienza effettivamente unica e rara. Oggi c’è uno strano silenzio e c’è chi dice che a partire dal 1950, quando il paese fu definitivamente abbandonato, Borgo Reina fu abitato da un solo personaggio, tale Totò Militiello, un condannato all’ergastolo che così, pare, riuscì a evitare la condanna. Leggenda o verità che sia, camminare tra le rovine

di questo villaggio significa scivolare nel tempo e tra gli edifici dismessi si riconoscono una chiesa (dove fa bella mostra di sé un campanile, ancora eretto e sovrastato da una grande croce latina), un’ambiente probabilmente destinato ad uso scolastico e altre tre strutture abitative. Si tratta di una piccola monade urbana isolata da tutto e immersa tra i campi di grano e vicino alla SP36bis, a ridosso della Riserva Naturale Orientata Monte Carcaci.

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I DINTORNI A PASSEGGIO TRA STORIA, CULTURA, NATURA E SAPORI

CASALE SAN PIETRO [CASTRONOVO DI SICILIA] MEMORIE DEL PRIMO PARLAMENTO DEL REGNO SICILIANO

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poca distanza dalle sponde del fiume Platani, a valle, a vicino a Castronovo di Sicilia, eccoci davanti a una struttura turrita che mostra purtroppo evidenti segni di cedimento. È il casale San Pietro, risalente al periodo bizantino. La funzione di questo antico manufatto, affiancato da una chiesa ormai sconsacrata, fu di stazione di sosta lungo l’antico tracciato romano che collegava Agrigento a Palermo, conosciuto come itinerario di Antonino. Ma è importante

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soprattutto come sito in cui venne riunito il primo Parlamento del Regno siciliano. Questa la storia: il 10 luglio 1391 Manfredi Chiaramonte, conte di Castronovo, che aveva preso impegno con il papato di far cessare le discordie interne nella Sicilia, convocò una seduta solenne dei baroni per deliberare la decisione (il cosiddetto giuramento di Castronovo) di opporsi all’avvenuta incoronazione di Martino D’Aragona a Re di Sicilia; decisione disattesa, però, dal corso degli eventi successivi

perché nel 1398 Martino riuscì ad avere la meglio sui suoi oppositori e, con la moglie, a riprendere a governare su tutta l'Isola. Tale evento è ricordato anche in un famoso canto popolare siciliano: «A Castrunovu cinquanta baruna di lutti li paisi e li citati ecu arcieri, ccu cavaddi e ecu piduna juraru supra di li spati. Po', mannaru un curreri a la Curuna: Semu cca, tutti pronti e boni armati a sirvimentu di la Sacra Curuna, a difesa di Vostra Maistati».

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APPUNTI


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gli itinerari turistici rurali

NELLA VALLE DEL TORTO E DEGLI ANTICHI FEUDI DELLA SICILIA


VI CAMPOFELICE DI FITALIA TERRA DEL GRANO

I COLORI DI TERRA E MARE

CAMPOFELICE DI FITALIA TERRA DEL GRANO Campofelice di Fitalia, con i suoi cinquecento abitanti, è il più piccolo dei comuni di questo nostro territorio. Si tratta di un centro abitato che si è sviluppato nel XIX secolo ma che trae origine da un più antico insediamento ancora visitabile, il casale quattrocentesco. Qua l’agricoltura fa coesione sociale e reddito

DI ANTONIO SCHEMBRI E LUCIANO VANNI

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VI CAMPOFELICE DI FITALIA TERRA DEL GRANO

CAMPOFELICE DI FITALIA, GRANAIO DI SICILIA

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IL GRANO, SU TUTTO

STORIE DI ACCOGLIENZA

Il tragitto che ci conduce da Mezzojuso a Campofelice di Fitalia è semplicemente straordinario. Si tratta di percorrere poco più di sei chilometri lungo la SP55 immersi nella natura più incontaminata e la parola d’ordine è fare tutto con calma e prendersi il tempo necessario per godere a pieni polmoni di un panorama agreste incontaminato che racconta di un mondo così come dovrebbe essere. Qua è il vero architetto del paesaggio è il contadino e la vocazione cerealicola di questo territorio ha determinato da sempre lo sviluppo economico e sociale contribuendo a formare una vera e propria identità culturale; e perché no, anche politica, perché queste terre hanno visto compiersi quel ciclo di lotte agricole che hanno portato i contadini a un sensibile miglioramento delle proprie condizioni di vita.

Percorriamo le ultime curve di questo nostro viaggio ammirando il profilo di Pizzo Marabito, un rilievo che punta dritto al cielo. Quando arriviamo a Campofelice di Fitalia, ad attenderci c’è l’architetto Domenico Gambino, storico e ideatore del “Museo del Grano e della civiltà contadina siciliana”. Domenico ha grande energia ed è una persona eccezionalmente solare e positiva: per certi versi è la memoria storica di questo paese dell’entroterra siciliano, un piccolo borgo di appena cinquecento abitanti. Incontriamo Domenico proprio davanti al suo nuovo museo ed entriamo subito in confidenza: il suo racconto è dettagliato, ricco di particolari e carico di suggestioni. Arriviamo in paese da corso Vittorio Emanuele, una lunga strada che taglia in due il centro.

I pochi edifici raccolti attorno al corso principale sono bassi e offrono uno sguardo su un bel campanile. C’è pace tutt’intorno e un odore forte di campagna. Domenico parla del suo paese con amore e ci fa vedere una piccola biblioteca che ha allestito nel suo museo, una serie di volumi scritti anche dal nostro preziosissimo accompagnatore, Mario Liberto, che raccontano le tradizioni, le celebrazioni religiose e anche i giochi del tempo che fu. E di una cultura dell’accoglienza che non è mai scomparsa. Anche grazie a Domenico e Mario riusciamo a saperne di più di questo paese. A partire dal suo nome, Campofelice di Fitalia, che è di per sé evocativo: ‘campo’, perché tutt’intorno siamo immersi in uno dei territori più fertili di tutta la Sicilia; ‘felice’, perché questo paesetto di appena cinquecento anime, è stato sempre abbondante di grano; e "Fitalia" è il termine greco che indica una terra fruttifera. Anche nel gonfalone del comune, a osservare bene, emergono due mazzi di spighe che richiamano evidentemente la straordinaria importanza che la produzione agricola ha sempre assunto nella storia del paese.

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VI CAMPOFELICE DI FITALIA TERRA DEL GRANO

TRA PASSATO E PRESENTE

La complessa storia di questo borgo, a lungo frazione di Mezzojuso, e il cui vasto territorio rappresentò il ‘granaio di Sicilia’, si identifica con una cultura rurale millenaria. Comune di nuova fondazione, sorge nel territorio dell'ex Stato di Fitalia, costituito feudo nel 1101. Le sue vicende partono dalla sconfitta degli Arabi a opera dei Normanni, da cui si susseguì una serie di concessioni di privilegi. Il primo fu quello accordato da Ruggero II a Goffredo di Palermo per remunerarlo dei servigi ricevuti: e direttamente da lui, il feudo di Fitalia - uno dei più vasti della Sicilia - venne ereditato dal nipote, Matteo Calvello, al quale l'imperatore Federico II confermò il privilegio, nel 1229. Dopo un periodo di forte spopolamento

fra il Trecento e il Quattrocento, il feudo di Fitalia ricomincerà a riempirsi nel secolo successivo, alla fine del quale Michele Settimo Calvello ottenne (nel 1594) la "licentia populandi" dal vicerè spagnolo, per fondare un nuovo centro abitato. Fu, quello, un progetto che fallì a causa della prematura morte di don Michele. Dovettero trascorrere più di due secoli, nei quali lo Stato di Fitalia si trasformò intanto in principato, per vedere avviato un ripopolamento del territorio, mediante un vero e proprio centro urbano, definitivamente costituito soltanto nel 1810, quando il principe di Fitalia, don Girolamo Settimo Calvello ebbe riconfermata da Ferdinando IV di Borbone la ‘licentia populandi’ concessa al suo antenato.

CAMPOFELICE DI FITALIA A sinistra Pizzo Marabito In basso Chiesa madre di San Giuseppe Foto di Riccardo Frisco

L’atmosfera ovattata che accoglie il visitatore quasi dissimula la ricchezza storica di questo paesino, negli ultimi tempi tornato a far parlare di sé in quanto luogo d’origine della famiglia Bongiorno, quella da cui nacque in America l’indimenticabile Mike. Sul suo corso principale vale la pena entrare in quel piccolo mondo antico che è il locale Museo della civiltà contadina. A guidarci è il suo curatore a animatore, Domenico Gambino. Ancora oggi Campofelice di Fitalia detiene il primato della più alta produzione cerealicola della Sicilia. Nel territorio operano infatti ben dodici mietitrebbia; molti, per un’agricoltura che in Sicilia, come altrove, arranca o arretra; e ciascuno di questi riesce ogni giorno a falciare almeno otto ettari di campo coltivato a grano.

I MOTI DEL XIX SECOLO

MEMORIE DELLA TERRA

IL MUSEO DEL GRANO E DELLA CIVILTÀ CONTADINA SICILIANA A Campofelice di Fitalia c’è un luogo che raccoglie oggetti simbolo del mondo rurale siciliano, il “Museo del Grano e della Civiltà Contadina siciliana”, e il suo fondatore e curatore, Domenico Gambino, ci dice che qui dentro ha «raccolto un compendio di valori di vita espressi da oggetti, oggi dimenticati del tutto, che invitano a riflettere su un mondo ormai spazzato via». Più che un museo si tratta di una casa museo dove la collezione esposta ha l’obiettivo di ricercare, conservare e comunicare la tradizione etno-antropologica del paese. Lo sguardo rotea tra dozzine di manufatti appesi al muro o sistemati per terra: tazze, sportelli in ferro per forni a legna, scolapasta smaltati, lanternine a gas, pale per frumento;

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e ancora imbuti in alluminio, ‘quartare’ di zinco, misurini, accette, campane per mucche, giare, torchi per produrre la pasta e poi aratri, selle per muli e cavalli; e infine capi d’abbigliamento intimo, come mutande da donna ricamate. «Testimonianze di una vita e valori oggi scomparsi, raccolte attraverso il recupero di oggetti di famiglie locali o donazioni dei concittadini». L’intento dell’allestitore è di «recuperare l’identità storicoculturale della comunità campofelicese legata al ciclo del grano». INFO | corso Vittorio Emanuele, 17 – 90030 Campofelice di Fitalia (PA) 366.3976039 www.museodelgrano.it

È ancora Domenico Gambino a tracciare con dovizia di particolari storici alcuni dei momenti più rilevanti della cittadinanza campofelicese che ha sempre dimostrato orgoglio e identità. «Nel 1856 da Campofelice al grido di “viva la Libertà” prese avvio la sortunata rivolta organizzata da Francesco Bentivegna contro il dispotismo borbonico che fu presto soffocata e finì nel peggiore dei modi. Il Bentivegna fu condannato a morte e fucilato nella piazza di Mezzojuso; tra i condannati a morte con pena commutata a diciotto anni di carcere duro anche sette campofelicesi. Nel 1860 furono liberati dai picciotti che si unirono a Garibaldi, e diedero il loro contributo all’unità d’Italia.

Nel 1866, quando a Palermo scoppiò la sommossa popolare detta “del Sette e Mezzo”, Campofelice fu tra i paesi dell’entroterra palerminato dove il risentimento popolare si sollevò in modo assai violento e l’ordine fu ristabilito soltanto quando dalla città sopraggiunse un battaglione di soldati. Nel 1893, sull’esempio di altri comuni, anche a Campofelice fu costituita una sezione dei “Fasci dei lavoratori”, fondata con altre organizzazioni e con Bernardino Verro, corleonese e leader del movimento». CHIESA MADRE

Il bel campanile, elegante e in stile liberty, che sovrasta i tetti di ogni abitazione del paesino fa parte del complesso architettonico della chiesa madre dedicata a San

Giuseppe, il santo patrono di Campofelice di Fitalia: si erge ai lati di corso Vittorio Emanuele e la si raggiunge a pochi metri dal “Museo del Grano e della civiltà contadina siciliana”. La storia narra che fu costruita agli inizi del XIX secolo ma nel corso degli anni, anche recentemente, ha subìto numerosi interventi di riqualificazione – come quelli recenti del 1990, che hanno interessato buona parte della struttura - che rendono questa chiesa quanto mai variegata. La facciata esterna è semplice e sarebbe importante poter riaprire l’antico finestrone sul fronte e dare nuovamente splendore ai grossi conci di pietra. All’interno domina il colore giallo ed è assai interessante da vedere un gruppo scultoreo di San Giuseppe e Gesù Bambino.

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VI CAMPOFELICE DI FITALIA TERRA DEL GRANO

ANTICO CASALE foto di Riccardo Frisco

UNA PASSEGGIATA, TRA PREISTORIA E NATURA

Per chi ama il trekking storico-naturalistico, da queste parti c’è l’imbarazzo della scelta. Perché a poca distanza da Campofelice di Fitalia si possono raggiungere Pizzo Marabito e Pizzo di Casi, due rilievi che possono essere scalati a piedi o in bike, senza grandi difficoltà: e da sopra l’orizzonte è lungo, su quella valle sterminata che un tempo fu il territorio dell’ex Stato feudale di Fitalia; da qua si comprende il motivo per cui si parla di Campofelice come “Paese del Grano” vista l’estensione delle aree coltivate a frumento. A nord est del paese, invece, seguendo

L’ANTICO CASALE

Ciò che affascina di questo paese è che il suo centro storico è periferico. Ebbene sì, perché la parte nuova di Campofelice di Fitalia, che si è sviluppata nella prima metà del XIX secolo, trae origine da un più antico insediamento in un piccolo borgo di casette quattrocentesche, il cosiddetto antico casale, un tempo centro amministrativo dello stato feudale di Fitalia. Ci dice Domenico: «C’è un forte legame che unisce il nuovo e l’antico centro abitato di Fitalia tanto che ai primi del Novecento non c’era distinzione alcuna e si chiamavano entrambi semplicemente Fitalia. I due luoghi sono uniti da una stradina acciottolata detta a scinnuta ri Fitalia e ricordo ancora che da piccolo questo borgo era per noi un luogo affascinante, abitato ancora da una, due famiglie». Ciò che emerge dal passato del borgo di Fitalia è un insieme di fabbricati diroccati in pietra arenaria, carichi di una storia e di infinite storie legate, come è ovvio che sia, alla vita rurale e al ciclo di produzione del grano. «Sappiamo che in epoca feudale, nella vicina contrada cozzu ra furca - prosegue Domenico – veniva innalzata una forca a ricordare l’amministrazione della giustizia esercitata dai signori di Fitalia in quel vasto territorio. Nel cosiddetto Stato di Fitalia, il centro del potere feudale era gestito e amministrato nella palazzina dei Settimo, ubicata nel baglio del borgo, comparata a castello». Ancora oggi è possibile dare uno sguardo al passato di Fitalia ed è affascinante notare che emerge un impianto urbanistico intatto, fatto di stradine, archi, chiese e abbeveratoi: una rara testimonianza di comunità rurale agro-pastorale che riporta alla memoria il medioevo siciliano. «In quel casale c’è il passato e il futuro di Campofelice di Fitalia. Un buon intervento

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il corso del torrente Carcilupo, è decisamente affascinante un bel complesso funerario che viene fatto risalire alla preistoria, databile probabilmente alla prima età del bronzo: i campofelicesi lo

chiamano o puntali ri saracini, e si presenta come un grande masso dalla superficie piatta caratterizzato da cinque loculi sul fronte orizzontale e da un altro loculo sul fronte verticale.

LA PREGHIERA

SAN GIUSEPPE NELLA TRADIZIONE DEI CAMPOFELICESI

di restauro e il suo recupero riuscirebbero a conservare la nostra memoria e al tempo stesso a fornire un esempio di promozione turistico culturale del nostro territorio». I 'DUE SAN GIUSEPPE'

Gli abitanti di Campofelice di Fitalia hanno grande devozione per San Giuseppe, santo patrono del paese e in quanto padre adottivo di Gesù, simbolo dei bisognosi e protettore dei poveri. Ma in questo paese le celebrazioni del santo assumono un’identità particolarmente curiosa: perché viene omaggiato ben due volte, il 19 marzo, con la festa di San Giuseppi puvureddu, e a fine agosto, il 22 e 23, con la festa di San Giuseppi riccu. Si tratta non esclusivamente di due manifestazioni religiose ma di due diversi modi

di aggregare la comunità e di celebrarne l’identità: in occasione di San Giuseppi puvureddu si rinnova la tradizione della tavulata, ovvero di una ricca tavola riccamente imbandita che un tempo veniva offerta dai fedeli ai più poveri della comunità ed è sempre carica di attesa l’arrivo della pignata cu a pasta ri San Giuseppi; la festa di San Giuseppi riccu, invece, vuole rendere omaggio al benessere raggiunto e per l’occasione si celebrano riti religiosi (processioni degli ex-voto, a piedi scalzi o sfilando a cavallo, e processione con la vara del Santo) e manifestazioni civili. Si tratta di due momenti importanti per tutta la comunità che si ritrova stretta attorno alla propria fede e alle antiche tradizioni.

Diu vi salva Giuseppi, Gesù cu Maria, sta bedda cumpagnia a Vui fu data. A vui fu cunsignata sta Matri accussi bedda, ca fu spusa e virginedda Matri di Diu. Ri lu celu scinni Lu Spiritu Santu E ri lu tempiu santu A Vui tuccà. La chesa triunfa Vui siti lu patruni Vui siti lu prutitturi Nostru avvucatu. Stu Diu ringraziati Ri sta bedda cumpagnia E da vui salve Giuseppi, Gesù e Maria

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VI CAMPOFELICE DI FITALIA TERRA DEL GRANO

A COLLOQUIO CON DOMENICO GAMBINO STORIE DI STORIE Storico e architetto, autore di pubblicazioni di notevole interesse sul proprio paese nativo e fondatore del “Museo del Grano e della Civiltà Contadina siciliana”, Domenico Gambino ha avuto anche l’incarico ad honorem di realizzare i disegni dello stemma e del gonfalone del Comune di Campofelice di Fitalia. È lui il nostro cicerone nella visita di questo paese e a lui chiediamo di raccontarci qualcosa delle sue memorie DI FRANCESCO BUONOMANO

IL RITO COLLETTIVO DEL LAVORO

Nelle sue parole c’è un velato sentimento melanconico. «La verità è che siamo impoveriti, in tutti i sensi. E non solo a livello economico, per certi versi un danno superabile: nel corso degli anni abbiamo perso la nostra identità rurale, e nello specifico i giovani hanno sempre meno consapevolezza del ruolo sociale legato alla coltivazione del grano; che era un lavoro lungo, perché lungo era il tempo per mietere e perché lunga era la fase della trebbiatura. Allora c’era una collaborazione familiare, perché durante la trebbia giovani e vecchi si scambiavano il lavoro. Ricordo, poi, che la mietitura era davvero un rito collettivo e venivano tantissime persone, tra braccianti e amici, anche da fuori paese, da Misilmeri, Bolognetta ma da anche dalla provincia di Messina e Catania. Allora Campofelice di Fitalia dava lavoro a molte famiglie e nel primo dopoguerra il paese contava oltre millecinquecento abitanti».E prosegue: «Oggi siamo rimasti in cinquecento e il paese torna a essere veramente se stesso e a rivivere come nel passato solo in estate, quando molti campofelicesi di prima o seconda generazione ritornano a casa» LA NASCITA DEL MUSEO

LA DOLCEZZA DELLA SEMPLICITÀ

Ogni borgo, paese, città o metropoli ha i suoi punti di riferimento culturali, chi si sforza di tenere in vita l’eredità della tradizione e del passato creando altresì occasioni di sviluppo per il futuro. Domenico Gambino, senza ombra di dubbio, è la personalità più attiva sotto il profilo culturale della sua Campofelice di Fitalia, dove nasce nel 1953.

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Sua, perché quando si parla di questo piccolo paesino dell’entroterra siciliano, a Domenico si inceppa la voce tanto è forte l’emozione e la passione del suo racconto. Gli chiediamo di chiudere gli occhi e portarci in viaggio nei suoi primi ricordi di bambino. «Mio padre era un impiegato delle poste e mia madre casalinga. La mia infanzia è stata umile ma estremamente felice.

Ricordo bene l’ambiente di paese, un paese che ancora non risentiva delle trasformazioni sociali di fine anni Sessanta. I bambini stavano molte ore fuori di casa, all’aperto, e facevamo giochi semplici con legni, sassetti, corde, palle e ci dedicavamo a dei divertimenti e passatempi che poi sono andati persi. Allora era ancora forte il senso della tradizione»

Ciò che ci stupisce di Domenico è che non siamo davanti a una persona nostalgica e abbattuta. Anzi, l’amore per il suo paese è sempre intatto così come la fiducia che ogni giorno si possa e si debba fare qualcosa per valorizzarlo anche, semplicemente, parlandone bene ad amici. «Di Campofelice – ci dice – mi piace la tranquillità, ci sono molto legato e cerco sempre di raccontare cose positive». Ma non solo. Domenico è un cittadino attivo e il più grande atto d’amore per il suo paese è senza ombra di dubbio la nascita del “Museo del Grano e della Civiltà Contadina siciliana”. «Si, proprio così, è stato un atto d’amore. L’ho creato nel 2013 recuperando gli oggetti di famiglia, in particolare di genitori, zii e suocero. Molta gente nel paese mi ha regalato i suoi antichi oggetti e al momento si contano ben trentatré donatori locali. Sono esposti oggetti di vita quotidiana come tazze, sportelli in ferro per forni a legna,

scolapasta smaltati, ancineddi, lanternine, lampade a gas e a batteria, pale per frumento, imbuti in alluminio, quartare in zinco e misurini per olio. Ma non mancano anche oggetti che raccontano il lavoro nei campi come le campane per mucche, coperchi di giare, campanelle in rame e poi aratri, selle per mulo e per cavallo». IL DESIDERIO PIÙ GRANDE

E proprio quando il nostro dialogo tocca il museo, capisco di aver fatto un grande errore presentandolo come “suo”: «Non è mio, perché questo museo si lega alla storia del paese. Tutta la storia di Campofelice di Fitalia parla di grano e allora ho pensato di raccogliere oggetti che potessero raccontare le storie legate alla civiltà contadina. Ciò che più mi rende felice è che molti campofelicesi si riconoscono e identificano in questo museo». E allora nasce spontanea la domanda più semplice: il tuo più grande desiderio? «Semplice: che tutti i cittadini di Campofelice di Fitalia siano le guide di questo museo. Vorrei che in questi spazi tutti i miei concittadini si sentissero a casa loro. Perché in queste sale sono raccolte, con molta probabilità, oggetti che un tempo appartenevano ai loro genitori e ai loro avi. Qua dentro è sedimentata una memoria collettiva e per questo è da condividere. Questo il mio più grande desiderio». LE TAVULATE

A Campofelice di Fitalia si festeggia ogni anno il santo patrono, San Giuseppe, per ben due volte: il 19 marzo, con la festa di San Giuseppi puvureddu, e a fine agosto con la festa di San Giuseppi riccu. Su queste due celebrazioni Domenico ha scritto pagine importanti nei suoi testi e sul profilo facebook del suo museo circolano numerose testimonianze di quei giorni di festa. «Si tratta di due feste che nascono per devozione a San Giuseppe ma anche su questo fronte c’è una grande differenza rispetto al passato anche se la tradizione continua a mantenersi viva fino ai giorni d’oggi. Per esempio, in occasione delle tavulate di San Giuseppe puvureddu, si allestivano banchetti per i poveri e

in quella circostanza le famiglie più benestanti, per devozione e per promessa, allestivano la loro tavulata e invitavano tre bambini delle famiglie più povere. Oggi di famiglie povere non ce ne sono più ma la tavulata resta come tradizione e nella circostanza si riunisce la comunità cittadina: tutto il paese partecipa e ognuno prepara qualcosa da portare alla tavulata allestita nella sala parrocchiale». Le immagini delle tavulate di Campofelice di Fitalia raccontano di donne, uomini e bambini alle prese con la cucina di una quantità sterminata di prelibatezze. Ce le facciamo raccontare: «C’è la pasta di san Giuseppe, spaghetti spezzettati, cucinati e conditi con lenticchie e finocchietti selvatici. E poi è tradizione sfornare il pane di san Giuseppe, che ha un sapore dolce e che viene servito con il tuorlo dell’uovo passato con un pennello sopra la crosta; si tratta di un pane votivo che quindi assume forme particolari, come una palma oppure come una scala o un martello per richiamare antichi mestieri. E poi arrivano le ricotte, le frittate e tante altre bontà che arricchiscono questa straordinaria tavola. La tavulata, ancora oggi, è una festa che coinvolge tutti i campofelicesi». A TAVOLA!

A questo punto concludiamo la nostra conversazione con un invito; nel senso che ci invitiamo a casa sua e gli chiediamo cosa metterà a tavola per farci assaggiare il suo territorio. «Beh, cambierebbe a seconda del periodo dell’anno perché per noi è naturale seguire il ciclo delle stagioni. Partirei con la paista milanisa, pasta condita con finocchietti, sarde salate e salsa di pomodoro, con un’aggiunta di pan grattato che viene passato in padella con lo zucchero. Se vieni a trovarmi in primavera ti servirei una buona minestra o la pasta con le fave, possibilmente aggiungendo anche della ricotta fresca nel piatto. Come secondo metterei sul piatto un ottimo agnello aggrassato, fatto al forno con patate oppure la caponata di melanzane. E per dolce come non finire con qualche cannolo con la ricotta fresca! E se vieni per Natale sarai deliziato dai nostri cucciddata, dolci di fichi o mandorle».

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VI CAMPOFELICE DI FITALIA TERRA DEL GRANO

AZIENDA AGRICOLA DI FRANCESCA BUTTACAVOLI Qua si mangia una meravigliosa ricotta fresca di vacca e di pecora, quest’ultima molto raffinata; e poi c’è la ricotta salata che viene fatta asciugare con il sale e che poi è utile anche per essere grattugiata. Si tratta di una produzione a conduzione familiare e a filiera corta: pochi prodotti ma di grande qualità, come il caciocavallo, un prodotto che si fa con il latte di mucca. E poi l’azienda agricola serve anche dell’ottimo formaggio pecorino.

Contatti: Via Castello, 48 - 90030 Campofelice di Fitalia (PA)

PANIFICIO DI ANTONIA TRUZZOLINO Si tratta dell’unico forno del paese e fortunatamente per tutti i campofelicesi, Antonia Truzzolino è garanzia di qualità e genuinità. Si assaggiano i cuddiruni (una pizza speciale, condita con salsa di pomodoro, cipolla, acciughe, cacio, mollica, origano e un filo d’olio), i sarviati (savoiardi) e poi gli ottimi biscotti tetù, che vengono realizzati nel periodo della festa dei morti. E poi, come naturale che sia, sul bancone non mancano mai pane e biscotti e tra le specialità del forno dobbiamo ricordare anche delle splendide bucce di cannoli. In occasione di Santa Lucia, nel mese di dicembre, quando non si mangia pane, il panificio sforna anche deliziose arancine.

Contatti: Corso Vittorio Emanuele, 36 - 90030 Campofelice di Fitalia (PA)

CASALE SAN LEONARDO Il Casale San Leonardo è immerso nella storia secolare delle colline di Fitalia, uno dei più antichi feudi presenti sul territorio siciliano. L'ampia struttura, composta da due sale (denominate Montmartre e Pyramide), un incantevole giardino e la suggestiva terrazza panoramica, è la cornice ideale per grandi eventi quali matrimoni, cerimonie e meeting aziendali. A questi eleganti ambienti si abbinano una selezionata offerta enogastronomica, radicata nel territorio e frutto di un'accurata scelta di materie prime, l'alta professionalità del servizio e la cura del dettaglio.

Contatti: Contrada Valle di Zasa - 90030 Campofelice di Fitalia (PA) Tel: 091.8207156 E-mail: info@casalesanleonardo.com • Web: www.casalesanleonardo.com

MACELLERIA BARBARIA GIUSEPPAPALME”“SANTA FORTUNATA” I banconi della macelleria di Giuseppa Barbaria custodiscono sapori e tradizioni del territorio siciliano, esibendo alcuni prodotti tipici locali quali le deliziose salsicce secche speziate, caratteristici insaccati insaporiti con pepe o peperoncino. Non mancano, ovviamente, i pregiati tagli di carne, in particolare bovina e suina, proveniente da rinomati allevamenti siracusani. Un angolo del gusto, esaltato dall'esperienza dei suoi titolari e dalla certificata qualità dei prodotti proposti.

Contatti: C.so Vittorio Emanuele, 90 - 90030 Campofelice di Fitalia (PA) Tel: 091.8200007

SOSTE DI GUSTO Soste gourmet selezionate sul territorio: locande, trattorie, ristoranti, agriturismi ma anche pasticcerie, rosticcerie, pizzerie, forni; e perché no, anche aziende agricole, produttori di eccellenze enogastronomiche, produttori di vino, olio, formaggi e confetture. E buon appetito!

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MACELLERIA UBALDINI PIETRO Entrare nella macelleria di Pietro Ubaldini vuol dire immergersi in una realtà d'altri tempi, dove i rapporti umani rappresentano ancora un valore imprescindibile. E in questa atmosfera familiare si possono recuperare i sapori tipici dell'antica tradizione siciliana, a partire dai gustosi insaccati, quali salsicce e salami (semplici o speziati), per poi proseguire spostando la propria attenzione verso le pregevoli proposte di carne bovina e suina, che non mancheranno di ingolosire anche i palati più raffinati.

Contatti: C.so Vittorio Emanuele, 141 - 90030 Campofelice di Fitalia (PA) Tel: 091.8200061

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VII VICARI LO SGUARDO FIERO, DALL'ALTO

VICARI LO SGUARDO FIERO, DALL'ALTO Vicari domina dall’alto con il suo antico Castello. Qui si intrecciano infinite storie di popoli che l’hanno vissuta, dai greci ai romani, passando per i normanni e gli arabi, in un incrocio di culture che ancora oggi hanno determinato un’identità particolarmente tipica e a suo modo unica

DI FRANCESCO BUONOMANO, ANTONIO SCHEMBRI E LUCIANO VANNI

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VII VICARI LO SGUARDO FIERO, DALL'ALTO

IL PAESAGGIO, BELLEZZA PROFONDA

Per raggiungere Vicari da Campofelice di Fitalia tagliamo trasversalmente questa valle verso est: si tratta di due paesi che dominano gli spazi circostanti perché entrambi poggiano su dorsali a oltre settecento metri di altezza sul livello del mare. Anche Vicari, come gli altri paesi di questa valle chiusa tra il fiume Torto e il fiume San Leonardo, ha un’economia prevalentemente agricola ma qua, a dominare la scena, c’è la mandorla e una buona coltivazione di ulivo. Il paesaggio è quello che abbiamo già conosciuto: colline, dossi, campi e qua e là, all’orizzonte, spuntano le pale eoliche.

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Il primo tragitto, fitto di curve, ci porta a valle, tra i campi di frumento, e poi, lungo la SS121, è tutto un susseguirsi di orizzonti che meritano numerose soste per ammirarne la purezza e la bellezza profonda. Abbiamo la fortuna di avere al nostro fianco una serie di ‘ciceroni’ quanto mai preziosi come la professoressa Giusì Barbaccia, suo fratello Epifanio, Mario Liberto, Antonio Licata, Gianfilippo Geraci e Pippo D’Amico, la guida del castello e il presidente dell’associazione culturale Santa Maria del Castello, che anima anche un gruppo di sbandieratori. Con loro iniziamo il nostro cammino tra le stradine di Vicari.

LO SGUARDO DEL PASSATO

Lo sguardo su Vicari, dalla piana, è sorprendente: domina su tutto il suo castello, posto nella parte più alta della cittadina sul pizzo di una rupe che sembra modellarsi attorno alla sua cinta muraria. Ci si annuncia un paese ricco di storia ed è proprio così. A partire dal suo toponimo che ha origini antiche: boikos, in greco, biccaris, in latino, rappresenta l’antica attività dei vaccari. Di certo Vicari è stata abitata sin dall’VIII secolo a.C. da popolazioni stanziate nei dintorni della strategica rupe, sulla sommità dello stesso colle che avrebbe poi ospitato l'antico castello.

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VII VICARI LO SGUARDO FIERO, DALL'ALTO

Vicari è un paese in continuo fermento e ci imbattiamo in ragazzini che corrono e anziani che compiono lavori quotidiani

SAPORI D’ORIENTE

TERRA DI CONQUISTE

Nel corso dei secoli, Vicari ha vissuto infinite storie, conquiste e dominazioni perché eternamente contesa tra le popolazioni locali, prima, e dai grandi popoli venuti da Oriente e da Nord, poi. Ed ecco emergere tracce dell'influenza e della dominazione greca, che avrebbe poi lasciato il passo e il controllo del territorio, ai nuovi conquistatori latini.

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La sua posizione è stata sempre considerata strategicamente utile come baluardo difensivo della valle e ciò rese Vicari centrale nei processi storici e antropologici di questo territorio. A voler sintetizzare la sua incredibilmente ricca storia notiamo che questo piccolo paese passò dal controllo greco a quello dei romani, dagli arabi ai normanni, e ciò significa conservare tracce di un passato nobile.

Il castello, simbolo di Vicari, si erge sul monte Sant’Angelo: fu probabilmente costruito dai romani e in seguito venne edificato nella sua nuova struttura nel 1077 da Ruggero d'Altavilla; e infine fu rifondato nel Trecento da Manfredi Chiaramonte. Rispetto a quelli che punteggiano il territorio tra i fiumi Torto e San Leonardo, questo castello è il più possente e storicamente importante e attorno a lui si è formata una comunità che oggi conta tremila abitanti circa. Gli arabi, come le altre importanti popolazioni passate sul suolo siculo, arricchirono il territorio con le loro opere e con la loro nobilissima cultura: merita a tal proposito una visita una testimonianza ancora ben conservata, l’antica bocca di una cisterna, la Cuba araba di Ciprigna. Proprio in queste terre, la resistenza ai musulmani durante la conquista del IX secolo, fu fortissima. I mori passarono dopo la capitolazione di Corleone e la presa della valle, una volta conquistate e messe al sicuro Mazzara e Marsala, fu concretamente realizzata. La presenza araba si sente ancora nei nomi dei luoghi e dei quartieri: Miralaxas, Burgonegis e Ciprigna stessa. La nostra passeggiata inizia dalla piazzetta del municipio e già alla nostra destra lo sguardo non può non poggiarsi sulla possente rocca: da questa parte si vedono nel dettaglio anche una notevole sezione degli antichi merli rimasti intatti. Ed è il castello la nostra prima meta, un percorso che ci porta su stradine cariche di fascino che trasmettono serenità, pace ma anche grande vitalità. Vicari è un paese in continuo fermento e ci imbattiamo in ragazzini che corrono e anziani che compiono lavori quotidiani; e ci colpisce la serenità di una coppia seduta davanti a un paniere carico di mandorle da sgusciare.

LA CUBA MEMORIE ARABE

LE BATTAGLIE E I MISTERI TRA I MERLI DEL CASTELLO

Il castello ha permesso a Vicari di aumentare il suo rilievo nella regione come luogo di difesa ma anche come oggetto di contese per quanti ambivano alla conquista dello strategico territorio circostante. Annoverato nel 1278 tra le fortezze regie di Sicilia, il Castello venne ricostruito nel 1390, per volere dei Chiaramonte, la

potente famiglia arrivata dalla Francia al seguito dei Normanni. Di questa fortezza, oggi, rimangono visitabili solo alcune sezioni: una parte delle mura merlate, alcune vestigia delle cisterne, la torre del mulino e i resti della postierla, ossia la porta che venne denominata ‘fausa’ (falsa), in quanto consentiva di abbandonare di soppiatto il bastione mediante una scaletta incisa sul vertiginoso dirupo.

Passeggiando per Vicari si apprende che la sua pianta urbana è di origine araba ed è stata descritta per la prima volta dal grande geografo El Edrisi. Emblematica testimonianza del passaggio arabo in questa cittadina è la Cuba, utilizzata in origine come cisterna. Fortunatamente è ancora intatta e ben conservata e spicca su tutto la sua copertura a cupola e le quattro aperture ad arco rivolte verso i punti cardinali: siamo all’interno del quartiere Ciprigna, termine greco con cui nel periodo classico veniva indicata la dea Venere. Si tratta di una presenza nobile, elegante, raffinata e seppure di piccole dimensioni non passa di certo inosservata.

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VII VICARI LO SGUARDO FIERO, DALL'ALTO

Il percorso che conduce al castello è semplicemente straordinario così come la vista che ci si apre una volta giunti in cima

IL CASTELLO: UN LUOGO FITTO DI MISTERI

Insomma, si è capito, il castello gioca un ruolo storicamente importante per Vicari ed evocativo e da qui è passata buona parte della storia della Sicilia: secondo la ricostruzione di Michele Amari fu infatti in questa mole che nel 1282, nel pieno delle battaglie de Vespri con cui i siciliani si liberarono alla fine dal giogo dei francesi, fu ucciso il ministro di Carlo d’Angiò, Giovanni di Saint Remy. La presenza dei francesi a Vicari, comunque, caratterizza ancora oggi molte inflessioni dialettali: per esempio, la parola siciliana putìa, che significa negozio, qui diventa puté. Un luogo anche fitto di misteri, il Castello di Vicari. Anticamente, dalla struttura, la

comunicazione con i bastioni di Caccamo, Cefalà Diana e della Màrgana (nel territorio di Prizzi), avveniva per mezzo di segnali di fumo. Ma si suppone altresì che tra i castelli di Vicari e Caccamo esistesse un prodigioso sistema di collegamento mediante cunicoli sotterranei. DALLA FONDAZIONE AI CHIARAMONTE

Il percorso che conduce al castello è semplicemente straordinario così come la vista che ci si apre una volta giunti in cima. Con noi c’è Pippo D’Amico, la guida ufficiale del castello, e con lui rimaniamo in silenzio per qualche istante rapiti da un orizzonte vasto che porta lo sguardo su un panorama mozzafiato. «Oggi il castello

viene visitato da non più di settecento persone all’anno – ci dice Pippo -. Poche, pochissime rispetto alle potenzialità turistiche di questo sito. Vi si trovano, puntellati da una struttura metallica, i resti di un antico convento bizantino e di ciò che rimane della Chiesa di Santa Maria del castello, ovvero Santa Maria di Boikos, risalente al 1061, anno dell’arrivo dei Normanni in Sicilia, che - ci dice la guida - è la seconda chiesa più antica d’Europa. In questa costruzione è stata ritrovata la statua di san Giovanni Battista, custodita nella chiesa di San Marco a Vicari. Il Castello di Vicari risale al II secolo a. C. Lo iniziarono i Romani, gli Arabi ci misero senz’altro del loro ma il grosso della struttura venne terminata intorno all’anno mille dai Normanni. Il primo sovrano che abitò il bastione fu il conte Ruggero. La storia racconta che il castello fosse collegato a quello di Caccamo attraverso un prodigioso sistema di cunicoli, gallerie comunque mai scoperte, si tratta di supposizioni, anche se alcuni vi hanno messo animali mai più tornati indietro. La prima grossa operazione di restauro del Castello di Vicari risale al 1390 e si deve alla famiglia più potente e nobile della Sicilia, i Chiaramonte».

VICARI Castello di Vicari

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PALAZZO PECORARO-MAGGI DA RESIDENZA PRIVATA A PUBBLICO SERVIZIO

IL BELLO CHE FA MALE

Giungiamo nella parte del castello in cui la merlatura si è mantenuta ancora integra. È in questo versante del bastione che in occasioni di allarmi, in genere legati ad attacchi nemici, la popolazione trovava rifugio. Da una di queste feritoie si comunicava con le torce la presenza di pericoli con il Castello di Cefalà Diana e della Màrgana. «Il Castello di Vicari – prosegue la nostra guida - testimonia come l’intera Sicilia abbia convissuto con la costante paura di assedi». Arriviamo alla zona delle cisterne, a nordovest del castello, nei pressi di una torre che indica l’area dei magazzini. Lungo il sentiero, macchiato dai licheni, troviamo i ruderi di quelle che sarebbero dovute essere le stanze reali sebbene a Vicari abbiano transitato più nobili che teste coronate. «La zona delle cisterne, dei magazzini e il muro di cinta è stata interessata da un intervento di tutela e recupero, risalente a venti anni fa: erano stati sistemati pannelli plastificati che però il vento si è portato via da molti anni,

lasciando solo una brutta griglia metallica che sta ancora lì». Proseguiamo e ci troviamo in mezzo a un ammasso di pietre, probabilmente stanze del castello (gli scavi sono interrotti da tempo): purtroppo il maniero è stato utilizzato come vera e propria cava e con questa pietra venne costruito l’antico abitato di Vicari. Sulla parte nord occidentale, troviamo la torre della cosiddetta porta fausa: «La ristrutturazione del Castello di Vicari è un’emergenza – conclude – e ahimé esemplifica lo stato di abbandono di larga parte della Sicilia artistica e storica». In effetti questo enorme bastione potrebbe essere più tutelato. La sua posizione panoramica, esposta ai quattro punti cardinali, è straordinaria: si vede perfino il mare in direzione di Caccamo. Da qua si ha una vista profonda sui tetti del centro storico di Vicari, in tipico cotto siciliano, su cui però spiccano decine di recipienti in plastica di colore azzurro, viola, verde e grigio: pugni sugli occhi in un contesto di così alto livello turistico.

L’identità di Vicari non poggia solo ed esclusivamente sul suo castello arroccato. Lungo i basolati del centro storico si distinguono belle case a corte ed edifici baronali. Tra questi, il più vasto e architettonicamente rilevante, è il Palazzo Pecoraro-Maggi, oggi sede della biblioteca e di altri uffici comunali. Un edificio di cui la cittadinanza si è riappropriata quindici anni fa e di cui è in corso un complesso processo di recupero. Il recente restauro ha restituito eleganza a questa nobile residenza che un tempo fu casa di una famiglia importante, quella dei Pecoraro, che qua ha vissuto per ben quattrocento anni, dal XVII secolo fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Vi si accede attraverso un piccolo e delizioso chiostro ma a colpire sono le sue stanze, finemente decorate con preziosi stucchi, marmi e perfino un piccolo altare che si apre all’improvviso, incastonato in una parete. Ovunque fanno bella mostra di sé mobili e quadri d’antiquariato ed è sorprendente la bellezza dei dettagli della pavimentazione. Ci sono anche ambienti decisamente più rinnovati, in parquet, stanze oramai utilizzate per riunioni o incontri cittadini.

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VII VICARI LO SGUARDO FIERO, DALL'ALTO

I vicoli di Vicari sono davvero straordinari perché in molti casi riescono a farci immergere nel passato, nell’antico quartiere arabo, che per estensione e qualità storica potrebbe diventare un potenziale albergo diffuso

SOTTO LE MURA

Dal castello scendiamo giù nel paese e passiamo dinanzi alla Chiesa di Santo Spirito (oggi sconsacrata, in passato funzionò come ospedale), prima di raggiungere la Chiesa madre. I vicoli di Vicari sono davvero straordinari perché in molti casi riescono a farci immergere nel passato, nell’antico quartiere arabo, che per estensione e qualità storica potrebbe diventare un potenziale albergo diffuso di grande interesse turistico; l’area, in parte, è stata ristrutturata con fondi pubblici. Giungiamo al quartiere Terravecchia,

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l’antico nucleo abitativo di Vicari, circondato da spesse mura, una zona chiamata per l’appunto ‘sotto le mura’. Terravecchia ha una conformazione ad anello, e la via Vanella Lunga (vanella significa strada) circonda il quartiere risalendo alla parte superiore del paese: qui si notano le antiche case a corte interna. Camminiamo lungo il corso e incontriamo stradine pittoresche, come via dei Torchi, in cui anticamente operavano opifici adibiti alla spremitura di olive e uva. Lungo le stradine più ripide si notano diverse scalinate; un tempo erano parecchie ma

soprattutto negli anni Settanta furono trasformate in strade rotabili per consentire l’accesso ad auto e mezzi agricoli su ruote che nel corso degli anni sostituirono i muli e che consentivano di arrivare fino alle porte delle case per scaricare mandorle e grano, i prodotti principali della storia agricola di questo paese. UNA CITTÀ CARICA DI ENERGIA

C’è una cosa che ci colpisce di Vicari: la sua grande vivacità. Ebbene sì, Vicari trasuda energia e vitalità e ce ne rendiamo conto dalla quantità di associazioni che operano sul territorio, a partire da “I giovani del Castello”, un gruppo di sbandieratori e musici che agisce in corteo storico con splendidi abiti d’epoca. Ma non solo. A Vicari sono attive due compagnie teatrali, “Arte e Cultura” e “Carpe Diem”, testimonianza di una vivace attività culturale, due associazioni che operano tutto l’anno e che portano un messaggio di integrazione e inclusione sociale; e la stessa cosa si può dire della parrocchia che ha diversi gruppi ecclesiali attivi tutto l’anno. Un tempo il paese aveva anche una Pro Loco, oggi sciolta, ma la sua eredità operativa è stata raccolta dall’Associazione San Giorgio che porta avanti da anni i festeggiamenti in onore del Santo patrono: l’associazione nasce nove anni fa, quando fu commissariato il Comune.

LA SPIRITUALITÀ

A fianco delle nostre guide iniziamo un piccolo trekking urbano sulle tracce dei luoghi di culto con a fianco Giusi Barbaccia, una storica del paese particolarmente devota. «Il patrono di Vicari è San Giorgio – ci dice – e la sua celebrazione è inserita nel contesto della Sagra della Mandorla: per l’occasione realizziamo una rappresentazione sacra di San Giorgio che sconfigge il drago che da sempre identifica il male. La pietà popolare ha a cuore l'Addolorata: c'è una meravigliosa statua del Bagnasco che è protagonista di una processione molto partecipata per le vie dal paese. Nei riti della Settimana Santa, invece, c'è una vera e propria azione liturgica da una chiesa all'altra: i

cosiddetti “viaggi del Sabato Santo”, che io sappia, sono solo a Vicari e vengono dalla tradizione medievale dei Flagellanti di Jacopone da Todi. Le Confraternite dalle varie chiese giungono in quella di San Vito fin dall'alba e percorrono il tragitto in ginocchio sino ad arrivare sotto l'altare dove baciano a terra il Cristo Morto e poi la Madonna Addolorata. Si tratta di un rito veramente suggestivo e atteso da tutti». Visitiamo San Marco e la Chiesa madre, due luoghi di culto particolarmente amati dalla comunità. All’interno di San Marco, una chiesa del XVII secolo, fanno bella mostra di sé gli stucchi della scuola del Serpotta e le statue lignee manieristiche di San Giovanni Battista e San Marco; domina un colore bianco, tenue,

decisamente aggraziato. E poi c’è la chiesa madre, con un bel pulpito in legno dove un tempo predicava il sacerdote specialmente durante la Settimana Santa; ci colpisce la maestosità dell’impianto a croce latina, con tre belle e ampie navate, una centrale e due laterali, a cui si accede da possenti colonne. Prosegue Giusi: «Tra gli eventi liturgici è giusto ricordare anche la Cavalcata di S.Michele, una manifestazione equestre inserita nella festa di San Michele Arcangelo dell'8 Maggio e che ricorda l'apparizione sul Monte S.Angelo. Per l’occasione sfilano cavalli bardati a festa con i cavalieri che hanno in mano le cosiddette torce, elementi intrecciati con nastri, fiori e santini devozionali».

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VII VICARI LO SGUARDO FIERO, DALL'ALTO

IL REGNO DELLA MANDORLA

La mandorla regna sovrana ed è al centro di numerose ricette ed è grazie a Giusi Barbaccia se riusciamo a saperne di più. Ciò che ci colpisce di Vicari è che possiede una sua propria identità gastronomica che è un po' la sintesi delle tante storie vissute nel corso dei secoli. E Giusi parte con la sua descrizione: «La nostra cucina tipica profuma di essenzialità, di genuinità e rappresenta un tuffo in una tradizione trascorsa ma mai dimenticata. I produttori di mandorle, olio e miele sono quasi tutti

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i cittadini di Vicari che in un rapporto diretto dal produttore al consumatore favoriscono la possibilità di consumare prodotti tipici e biologici. I passavolanti si mangiavano soprattutto nei banchetti di nozze (sono stati chiamati così perché nel corso degli sposalizi passavano velocemente da una persona all’alta, ndr) e furono ideati per caso dai monaci in occasione delle nozze della principessa Bosco che abitava nel Castello di Vicari; si tratta di mandorle a pezzetti e uova che si battevano la sera prima di essere sfornati; il giorno successivo, dopo aver

fatto il pane sul forno a legna, quando la temperatura si abbassava, i passavolanti venivano cotti. I primamuri hanno lo stesso impasto dei passavolanti ma la mandorla è a pezzettini molto piú piccoli e si preparavano in occasione dei fidanzamenti, o come si diceva un tempo, per il primu amuri. I Sasameli, invece, sono a base di mandorle tritate, vino cotto e un po’ di miele: si tratta di un dolce povero perché in tutte le case c'erano le mandorle ed erano biscotti che si davano ai bambini quando stavano mettendo i dentini perché erano duri, ma non troppo».

SAGRA DELLA MANDORLA UN INNO ALLA GOLOSITÀ

Nel mese di giugno la comunità vicarese si stringe attorno al suo seme prediletto già presidio Slow Food: la mandorla. Terra d’elezione per la produzione e la cucina della mandorla, Vicari può mettere in scena ben quattordici varietà - Kuti, Favarò, Tessitura o Fellamasa, Muddisa regina, ecc. – un primato che viene celebrato annualmente dall’Associazione San Giorgio Martire, particolarmente attiva anche per quanto concerne i festeggiamenti in onore del santo patrono, per l’appunto San Giorgio. In occasione della sagra vengono allestiti stand per degustazioni gastronomiche ed è possibile

assaggiare bontà tipiche della tradizione locale come i passavolanti, i primamuri, i sasameli e la cubbaita. Cubbaita è il nome di un torrone tradizionale che viene preparato in occasione della Sagra della Mandorla: il suo nome deriva dall'arabo "qubbayta” che significa per l’appunto “mandorlato”. Furono gli arabi che introdussero e diffusero a Vicari questa ricetta così com'è; merito loro se ancora oggi ci si delizia con i cudduruni (pizze cotte nel forno a legna con la cipolla) e i cuddureddi (ciambelline preparate con buccia di arancia, un goccio di vino e un pizzico di cannella).

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VII VICARI LO SGUARDO FIERO, DALL'ALTO

A Vicari, dai prodotti dell’orto al pane, passando per i dolci e l’uncinetto, sappiamo far tutto bene e di qualità. Ma non sappiamo trasformarlo in industria. Tutto è artigianale, a conduzione domestica

MARIA E L’UNCINETTO

A TAVOLA!

Dalla voce di Giusi emergono racconti delle tradizioni sociali, culturali e spirituali di questo paese. Ed è a lei che chiediamo di descriverci un menù di degustazione che potrebbe mettere a tavola per gli amici più cari. «A questo punto inviterei voi – ci dice – e come antipasto, vi servirei broccoli e carciofi in pastella, salsiccia asciutta e formaggio primo sale, olive nere all'agrodolce, ricotta fritta con le uova e pezzettini di cudduruna. Così, tanto per iniziare. Come primo sceglierei la pasta cu vrocculu affucato (ovvero broccoli con salsiccia

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e mollica di pane arrostita, ndr) o con le fave ammaccu, e come secondo salsiccia e agnello ammunicato. Per dolce ti preparerei minni di vecchia con ricotta, passavolanti, primamore e un po' di cubaita. Come vino, ovviamente, metterei a tavola il nostro buon vino locale ma il pranzo potrebbe concludersi con un limoncello prodotto con i nostri limoni: non trattati, ovviamente». Arrivano le prime luci della sera e Giusi ci invita a casa sua per davvero, a dimostrazione che da queste parti il concetto di ospitalità non è convenzione e circostanza ma un rito quotidiano.

Quando stiamo per uscire da casa di Giusi e di suo fratello Epifanio sentiamo un chiacchiericcio che viene da una casa lì vicino. Ci avviciniamo e conosciamo Maria Levatino, una signora straordinariamente carica di vitalità ed energia, esuberante e trascinante. Ci invita a casa sua e iniziamo a parlare di Vicari e della sua vita, tra racconti e aneddoti. Ed ecco che entriamo fortunatamente in contatto con una tradizione che rischia di perdersi, quella del ricamo e dell’uncinetto. «In tutte le case di Vicari – ci dice Maria – le madri di famiglia dedicavano ore all’uncinetto, al chiacchierino, all’intaglio e anche al ricamo dei paramenti sacri. Qua da noi c’è sempre stata una bella tradizione che è a rischio estinzione». Maria parla di sé, con grande ironia e del resto è abituata da sempre a stare davanti al pubblico: è stata per anni al bancone del suo negozio di generi alimentari proprio accanto a casa sua, che ora viene gestito dai figli. «Lavoro all'uncinetto da sempre, fin da quando ero piccola». Tutt’intorno, in questa ampia sala d'ingresso, c'è un brulichio di centrini, maglie e orli: la vitalità di Maria fa il pari con il colore delle pareti e dei tanti oggetti – soprattutto votivi – che emergono in ogni angolo. Ci guarda, parla e continua a lavorare: «Un tempo ero anche una ballerina provetta di liscio – e sorride – e ricordo che da bambina non mi perdevo un veglione e una serata di ballo». I suoi occhi luccicano di vita. «A Vicari, dai prodotti dell’orto al pane, passando per i dolci e l’uncinetto, sappiamo far tutto bene e di qualità. Ma non sappiamo trasformarlo in industria. Tutto è artigianale, a conduzione domestica». Salutiamo e abbracciamo Maria. Ci sentiamo già di casa.

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A COLLOQUIO CON EPIFANIO BARBACCIA ESTRO D’ARTISTA Epifanio Barbaccia racchiude in sé tante passioni: quella per l’insegnamento, per l’arte, per il restauro, per la politica e soprattutto per il suo paese, Vicari, che non manca mai di raccontare con gli occhi pieni di gioia. Siamo entrati nel suo atelier e studio d’arte ed è nata una bella amicizia DI LUCIANO VANNI

ESSERE SCOPPIETTANTI

Conosco Epifanio Barbaccia non appena facciamo ingresso a Vicari: è un fiume in piena, carico di adrenalina, sferzante e ironico, appassionato e militante. Epifanio dimostra fin da subito di avere grande amore verso il suo paese e una notevole cultura, anche di storia locale. Mi colpisce quando dice che «Vicari é un crocevia di tante dominazioni e si respira la storia antica, qui si possono trovare vere amicizie e valori importanti». C’è subito feeling tra di noi: un abbraccio e siamo subito in sintonia. Porta uno strano berretto grigio e una borsa a tracolla arancione. Mi viene

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naturale chiedergli qualcosa dei suoi primi anni di vita a Vicari: «Ricordo un’infanzia scoppiettante, gioiosa, ricca di incontri, giornate passate in strada a giocare con i carruzzuna, rudimentali carretti con le ruote con i quali ci lanciavamo dalle tante discese, o sciusciuni di figurine di calciatori, e ancora a prender uccellini dai nidi che prima ingabbiavamo e poi liberavamo. E poi mi vengono in mente i pomeriggi trascorsi in parrocchia, dove partecipavo a tante attività teatrali e ricreative con gli scout o dove organizzavamo recital a sfondo religioso. E poi serenate, balli, feste paesane e mostre d'arte per beneficenza».

«Amo ogni angolo del mio paese – ci dice -. Il castello, le chiese e in particolare quella di San Marco che si trova nel mio quartiere». Epifanio è molto credente e tra i suoi ricordi più intensi ci sono le celebrazioni religiose: «La Settimana Santa, fin dalla mia infanzia, è stata sempre un momento fondamentale per la mia fede: sono molto legato anche ai ricordi dei festeggiamenti di Santa Rosalia così come a quelli per la vecchia strina, la Befana, che arrivava la notte, quando i miei genitori nascondevano i regali». Ma Epifanio non è una persona capace di fare solo lo spettatore, di assistere passivamente al corso degli eventi, e non a caso è tra i soci fondatori dell’Associazione San Giorgio Martire, attiva per i festeggiamenti in onore del Santo patrono, per l’appunto San Giorgio, e promotrice della Sagra della Mandorla. Ma tra le sue parole emergono segni di una notevolissima sensibilità e allora gli chiedo di suggerirmi il modo migliore per vivere e comprendere il suo paese: «Lasciarsi trasportare dalla memoria storica, dai profumi, dai sapori e soprattutto dai suggestivi incontri al bar con persone sempre accoglienti e ospitali. E poi una passeggiata sul castello per ammirare tutta la valle: perché solo da lì veramente si può capire il senso del proverbio ‘c'é ancora suli a Vicari’»

L’ARTE, NEL SUO MISTERO

Entriamo nella sua casa studio e siamo circondati da tele, pubblicazioni, scatole, colori, giornali, colle, solventi, piccoli crocifissi e strumenti musicali. Fanno bella mostra di sé anche una serie di quadri in equilibrio tra forma e astratto, appoggiati per terra oppure appesi sulle pareti. Sono opere sue e allora iniziamo a parlare di stili, linguaggi e tecniche: «Sono un artista eclettico e ciò che metto su tela è la sintesi tra l'espressionismo e l'arte informale. Mi piace anche la fase di educazione all’arte e a scuola cerco di coinvolgere gli alunni in percorsi artistici per la realizzazione di presepi, uova di Pasqua dipinte e maschere d'autore. Adoro il restauro e ho lavorato su statue lignee. Mi dedico all'antiquariato nel tempo libero e ho dipinto diversi murales a Vicari e nei paesi limitrofi». Si vede che questi spazi sono concepiti non esclusivamente come luogo privato e atelier perché ci sono molte sedie: «Vero, proprio così. Il mio studio è un luogo di incontro tra amici che discutono e fruiscono d'arte». E anche noi lo viviamo così.

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VII VICARI LO SGUARDO FIERO, DALL'ALTO

A COLLOQUIO CON ROSA GIORDANO IL PROFUMO DEL PANE Rosa Giordano è la voce più autentica dell'arte della panificazione siciliana e i suoi ricordi raccontano di una donna da sempre dedita al lavoro fatto con grande passione e profonda attenzione alla qualità. Vederla lavorare è un'emozione intensa DI LUCIANO VANNI

LA MIGLIORE ROSA

«Chi arriva a Vicari deve assolutamente assaggiare i cudduruna e i passavolanti della signora Rosa del panificio Giordano. Con il suo forno a legna fa cose straordinarie e qua il pane viene impastato con una lievitazione rigorosamente naturale». Ce lo dicono tutti qua a Vicari e allora facciamo in modo di conoscerla e andiamo a trovarla all’interno del suo laboratorio. Ci accoglie con un bel sorriso e fortunatamente sta preparando i suoi celeberrimi passavolanti. Ci guarda e con un pizzico di timidezza inizia a raccontarci la sua vita. «Ho iniziato a fare il pane a nove anni – ci dice - perché allora si faceva in casa, in ogni famiglia. Ho dovuto imparare presto. Sono rimasta senza la mamma, purtroppo, dovevo badare alla casa, alle mie sorelle, e il pane era indispensabile. Da allora faccio tutto allo stesso modo, col forno a legna, pronto quanto diventa bianco di calore». QUANDO IL PAESE DORME

Ebbene, anche Vicari ha il suo forno a legna, l’unico del paese, e da anni produce pani e dolci della tradizione. Ogni notte Rosa Giordano e la sua famiglia danno inizio alla loro opera, mentre ancora la cittadina dorme. Di buon ora, così, prendono forma passavolanti, primamuri, cuddureddi e cudduruni, dolci e rustici dalle ricette antiche, cotti a legna e pronti già all’alba, per dare il buon giorno al paese che si risveglia.

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E QUANDO L’ARIA S’IMPROFUMA

DA NOI, SI USA COSÌ

STORIE DI SAPORI

Inizia prestissimo il lavoro di Rosa, alle due e mezza. S’incipria di farina, Rosa, che ha il fascino di chi conosce le ricette di un tempo, produce, sforna, dà la sveglia al paese col dolce profumo del pane e dei dolci. Tutto come un tempo. Rosa prepara le sue paste per il pane col lievito madre, senza aggiunte, perché così è veramente buono. Prima delle sei ha già sfornato i primi pezzi di pane. «S’inizia ogni notte, dopo le due. S’impasta, poi s’adagia, perché l'impasto lievita naturalmente e il pane ha bisogno di riposare. Devo essere accorta, controllare il forno, il colore delle pagnotte che spezziamo a mano, perché per le sei la prima sfornata dev’essere pronta. Di buon mattino l’aria s’improfuma e sai così che è iniziata bene la giornata». Si passa quindi ai dolci, ai rustici dalle ricette antiche, dei ricordi, della tradizione. «Dopo il pane, che è il più del nostro lavoro, passiamo ai dolci o ai rustici, che sono sempre quelli delle nostre tradizioni. Passavolanti, primamuri, cuddureddi e cudduruni. Tutte ricette dei tempi andati, li facciamo da sempre con la stessa attenzione per i sapori e i profumi. Partendo dagli ingredienti, le mandorle della nostra terra, le farine più buone e tanto, tanto lavoro.»

Primamuri, passavolanti, nomi che sembrano i protagonisti di un racconto di Italo Calvino. In questo momento Rosa sta facendo l’impasto, con calma e serenità, ma ne ha pronti su uno scaffale di già fatti. Tutto avviene secondo gesti ritmati e misurati. «Ora ve li faccio assaggiare - ci dice - Sono buonissimi! I passavolanti e i primamuri son dolci molto simili, di antica tradizione, c’è qualcuno che racconta addirittura che, come tanti dolci siciliani, siano di ricetta araba. Si parte dalle nostre mandorle, che vanno pulite e abbrustolite al forno. Poi si tritano e per i primo amore si usa una grana più fine, è questa la differenza. I passavolanti invece hanno pezzetti di mandorle più grossi, che scrocchiano. Quindi s’impasta: zucchero e uova fresche lavorati a mano fino alla giusta consistenza. Alla fine, se serve per amalgamare, ci mettiamo un po' di farina. Per i primamuri, di solito, non serve, perché le mandorle son tritate fine. Si sistemano in teglia, a morsetti, mezz’ora di forno a legna e son pronti. Buonissimi! I passavolanti si usano in tutte le feste, i primamori, che per la grana fine sono più lavorati, accompagnano pranzi e cene di matrimoni e nascite. Dalle nostre parti si usa così». Per fortuna, diciamo noi.

Dietro una ricetta c’è una storia: questa è la forza della tradizione. «I passavolanti, si racconta, son nati qui a Vicari, secoli fa – prosegue Rosa - Il signore della nostra terra dava in sposa sua figlia e per l’occasione invitò al castello i monaci del convento. Questi si preoccuparono di preparare qualcosa di speciale, di veramente buono, e pensarono alla dolce pasta alle mandorle. Giunti alla festa s’accorsero subito che questi non sarebbero bastati per i loro ospiti. Così, arrivato il momento di presentare i profumati doni, si occuparono loro stessi di distribuire la specialità. E lo fecero di corsa, per evitare che gli invitati ne prendessero più d’uno. Fu così, per quella corsa, per quell’assaggio portato in volata, che i dolci furono chiamati passavolanti. Poi ci sono cuddureddi e cudduruni, i primi son dolci a ciambella, fritti e profumati con scorza di limone e cannella, gli altri sono rustici preparati per le feste. Sono davvero buoni, fatti con focaccia ricoperta di acciughe, cipolle, pecorino, origano, olio e pomodoro. Che dire, ancora, delle sfornate di pane per San Giuseppe che cuociamo in grosse pagnotte da oltre due chili per onorare la festa. Dovete venire, partecipare e assaggiare. Noi v’aspettiamo!». Alla prossima!

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VII VICARI LO SGUARDO FIERO, DALL'ALTO

PANIFICIO GIORDANO

La cura nella lavorazione delle materie prime e la scelta di ingredienti genuini, affiancate alla riproposta di antiche ricette derivate dalla tradizione popolare, rappresentano un impegno quotidiano per Rosalia Giordano, titolare dell'omonimo panificio ubicato nel centro di Vicari. Dal suo forno, rigorosamente a legna, spuntano fragranti pani, frutto di una lunga lievitazione naturale, squisiti sfincioni e cudduruni (varietà locali di pizza), e golosi dolci a base di mandorle come i passavolanti e i primo amore.

Contatti: Via Dante Alighieri, 48 - 90020 Vicari (PA) Cell: 320.0238634

AZIENDA BRUSCATO SALVATORE L'azienda di Salvatore Bruscato, erede di una lunga tradizione casearia, con i suoi trenta ettari di terreno seminativo e l'allevamento di bestiame che vanta oltre trecentosessanta capi di specie ovina e bovina, si pone tra le più importanti realtà del settore presenti attualmente in Sicilia. Tra le varie tipologie di formaggi prodotti, vere e proprie eccellenze del territorio legate alla zona di origine, vanno senz'altro menzionati il canestrato (a pasta dura e semicotta), il caciocavallo, la vastedda palermitana (a pasta filata), la provola, la ricotta e il pecorino.

Contatti:

SOSTE DI GUSTO Soste gourmet selezionate sul territorio: locande, trattorie, ristoranti, agriturismi ma anche pasticcerie, rosticcerie, pizzerie, forni; e perché no, anche aziende agricole, produttori di eccellenze enogastronomiche, produttori di vino, olio, formaggi e confetture. E buon appetito!

Contrada Montagnola - 90020 Vicari (PA) Tel: 091.8216150

PANIFICIO “DA SCIANNARO” Non solo panificio, come ci racconta il suo nuovo titolare Alessandro Gaggenti, ma anche pasticceria e rosticceria. Proprio così, perché da tre anni il panificio “da Sciannaro” vanta una nuova gestione, giovane e dinamica, che alla tradizionale produzione di pane artigianale, cotto rigorosamente nel forno a legna, affianca la preparazione di torte, colombe, biscotti, panettoni e dolci tipici della zona quali passavolanti, pupi cull'ova e pasta di mandorle, nonché una serie di specialità salate come cudduruni, sfincioni e schiacciate.

Contatti: Via Vittorio Emanuele, 54 - 90020 Vicari (PA) Tel: 091.8216272

MACELLERIA BUONGIORNO GIUSEPPE Alla Macelleria di Giuseppe Buongiorno la selezione dei più pregiati tagli di carne bovina e suina e la qualità degli insaccati esposti (tra cui salsicce secche speziate, salami e pancetta) sono certificate dal Consorzio “Carni di Sicilia”: quest'ultimo costituisce una filiera, della quale fa parte anche la rinomata macelleria di Vicari, che nasce dal volere comune di allevatori, centri di macellazione e punti vendita dislocati sul territorio dei Monti Sicani, ed è volta a garantire al consumatore l'affidabilità del prodotto finale.

Contatti: Via R. Settimo, 21 - 90020 Vicari (PA) Tel: 091.8216443

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MACELLERIA PRIMAVERA VITTORIO La piccola bottega, situata nel cuore di Vicari, ha mantenuto inalterato quello spirito artigianale che da sempre la contraddistingue, così come la voglia di preservare antichi valori e tradizioni locali. Le carni esposte, di origine bovina e suina, provengono da allevamenti del territorio la cui qualità è certificata e garantita, a testimoniare un autentico desiderio di offrire, attraverso una continua ricerca dell'eccellenza, prodotti che possano soddisfare sia il consumatore abituale sia l'esigente buongustaio.

Contatti: Via Vittorio Emanuele, 2 - 90020 Vicari (PA) Tel: 091.8216208

PANIFICIO “SANTA ROSALIA”

AZIENDA AGRICOLA GAMBINO ROSARIO

Il punto vendita di Giorgio Provenzano è ben noto ai vicaresi: da sempre sinonimo di qualità e cordialità, rappresenta un punto di riferimento per chi ama riscoprire i sapori tradizionali e un'antica passione artigianale. Diverse le tipologie di pane proposte, così come di dolci tipici del territorio, quali i passavolanti (a base di mandorle e aromatizzati con limone e cannella) e i cartocci (ripieni di crema). Tra le specialità del panificio “Santa Rosalia” sono inoltre da segnalare i deliziosi biscotti, gli immancabili cannoli, gustose torte, nonché schiacciate, pizze (fra cui lo sfincione e il cudduruni) e sfiziosi prodotti di rosticceria.

L'azienda, attiva dal 1986, si estende su un'area di oltre cento ettari dedicati quasi esclusivamente alla produzione di grano, coltivato con metodi tecnologicamente avanzati e non invasivi che ne garantiscono l'assoluta qualità. Ma il grano non è l'unica eccellenza prodotta dalla famiglia Gambino: un'altra prestigiosa impresa di sua proprietà, ubicata anch'essa nei dintorni di Vicari, si sviluppa per circa venti ettari di terreni, adibiti alla produzione di olio extravergine d'oliva (rigorosamente biologico) e all'allevamento di una specie faunistica autoctona, l'asino ragusano.

Contatti:

Contatti:

Via Ricasoli, 59 - 90020 Vicari (PA) Tel: 091.8258020

Contrada Santa Rosalia - 90020 Vicari (PA) Cell: 380.5310383

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GLI ITINERARI TURISTICI RURALI

NELLA VALLE DEL TORTO E DEGLI ANTICHI FEUDI DELLA SICILIA


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