Che Spettacolo 2013 - Numero 02 - Dicembre

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Anno I - Numero 2 - Dicembre 2013

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Periodico di Musica, TV, Cinema, Teatro e Arte

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il magazine che non t'aspetti (tutti i colori dell'intrattenimento)

«Amo quello che faccio e rispetto profondamente il pubblico: in tv non è difficile esserci, ma costruire una carriera credibile» Tessa Gelisio, sul piccolo schermo ormai da dodici anni, si racconta fra passione per l’ambiente (è presidente di «for Planet Onlus») e conduzione della rubrica «Cotto e mangiato - il menù del giorno» su Italia Uno

MUSICAL

Justine Mattera Lisa Angelillo TEATRO

LA STORIA DELLA CANZONE ITALIANA

Pietro Genuardi Betty Lusito

Piero Cassano Carlo Marrale


Anno I - Numero 2 - Dicembre 2013 FONDATORE, DIRETTORE EDITORIALE E RESPONSABILE Gianluca Doronzo GRAFICA E IMPAGINAZIONE Emmebi - Bari HANNO COLLABORATO Federica Signorile (autrice delle foto di Betty Lusito, Pietro Caramia e di uno scatto di Emiliana Dorno), Stefania Pellizzaro, Irene Zambigli, Elisa Rampi, Luca Patrone (fotografo di Tessa Gelisio) e Giovanna Marino (per le foto del musical «A qualcuno piace caldo»). SI RINGRAZIANO Tessa Gelisio, Justine Mattera, Christian Ginepro, Pietro Pignatelli, Lisa Angelillo, Carlo Marrale, Piero Cassano, Pietro Genuardi, Fabio Giacobbe, Betty Lusito, Maria Giaquinto, Emiliana Dorno, Pietro Caramia per le interviste concesse; Valerio Giacomoni di «Found srl»; Sara Di Paolo di «Words»; Maria Giulia Grippa di «Goigest»; Alessandra Paoli ufficio stampa «Oltre@Parole»; Barbara Grilli - Alfredo Vasco di «Espressioni contemporanee»; «Daniele Mignardi Promopressagency». INDIRIZZO REDAZIONE Via Monfalcone, 24 – Bari gianlucadoronzo@libero.it tel. 347/4072524 FACEBOOK E la notte un sogno Autorizzazione del Tribunale di Bari n. 16 del 26/09/2013

L'emozione del ritorno. La stima e l'affetto di chi ha sempre creduto in me, anche nei momenti bui, di “stop forzato”. L'entusiasmo nell'aver realizzato un “piccolo grande sogno”, da solo, con le mie umili forze, mettendo a frutto tutti i sacrifici, gli incontri maturati negli anni, le idee e, soprattutto, perseguendo un'impaginazione elegante, glamour e fashion (grazie alla complicità grafica di Benny Maffei), come avrei voluto fare da tanti anni a questa parte. Spiazzando tutti quanti (chi mi conosce, da buon ariete, sa che sono fatto esattamente in questa maniera: avverso la prevedibilità e ne ho puntualmente una nuova nel cassetto. Non a caso, simpaticamente, mi definiscono “vulcanico”), non posso che ringraziare per i pieni consensi ottenuti dal primo numero di “Che spettacolo – il magazine che non t'aspetti (tutti i colori dell'intrattenimento)”, da me fondato, diretto e curato in ogni minimo dettaglio, spaziando dalle interviste, fra l'altro, alla Chiabotto e Carlucci, a quelle ai promettenti pugliesi Conversano, Ciavarella e Petracca, non perdendo di vista il teatro, il cinema, l'arte, la letteratura e la musica (Mario Lavezzi e il ritorno di Gazebo, dopo trent'anni, sono stati la ciliegina sulla torta). Pagine Facebook piene di articoli tratti dalla rivista (dalla cantante Marinella Dipalma al jazzista Riccardo Arrighini, per citarne alcuni), uffici stampa nazionali (Rai, Mediaset e La5) soddisfatti della resa delle dichiarazioni dei loro artisti e recensioni ben accolte (Carlo Formigoni in primis). Il tutto all'insegna di una nuova linfa, di un nuovo respiro per me, in un 2013 che sembrava dovesse concludersi “in sordina” (la crisi, la crisi, maledetti piagnistei sulla crisi: dobbiamo imparare a prendere il coraggio a quattro mani, “lanciandoci” in imprese innovative, assaporando il gusto del rischio. Con poco si può osare perché, come dice con trasporto il giovane attore Fabio Giacobbe, che troverete nelle pagine di questo numero: “Se fai cresce il coraggio, se non fai cresce la paura”), dopo mesi trascorsi in tournée con spettacoli tratti dai miei libri (l'ultimo dei quali mi ha visto nei panni di regista, lo scorso 16 luglio, al Duse di Bari in un autentico “sold out”) e, invece, mi ha motivato a credere in me stesso, SENZA PADRONI e PADRINI, elaborando l'impresa editoriale più importante “nel mezzo del cammin” della mia vita professionale. Ben 64 pagine a colori, scritte con passione, attenzione al dettaglio e rispetto, soprattutto, dell'interlocutore: ciò che ho sempre amato del giornalismo, portato avanti nell'ambito della cultura e spettacolo per ben quasi tre lustri. E, non a caso, nel numero di dicembre (in copertina una solare Tessa Gelisio, pronta a raccontarsi in esclusiva, facendo un bilancio del suo percorso sul piccolo schermo in ben 12 anni) si sono moltiplicate le chiacchierate con gli artisti, creando un equilibrio fra stampo nazionale (da Justine Mattera a Lisa Angelillo, passando per Pietro Genuardi, Piero Cassano e Carlo Marrale) e “eccellenze” (a mio parere) regionali (Betty Lusito, Maria Giaquinto, Emiliana Dorno e Pietro Caramia, ad esempio). Il tutto con una precisa volontà: mostrare l'universo delle “persone” (non personaggi), dietro le quinte, “fuori dal coro”, sviluppandone intimismi, potenzialità umane e pensieri, come non accade in altri giornali (pronti, in antitesi, a fare del gossip il motivo conduttore). Ovviamente, non tralasciando gli spazi dedicati alla drammaturgia contemporanea, alle sonorità classiche e pop, al grande schermo e ai libri, in virtù di quanto fatto in precedenza. E non finisce qui: per me si tratta del primo “Natale” con la mia rivista. Non riesco a contenere le lacrime di commozione per quello che sto vivendo: vi auguro non solo di trascorrere serene festività ma, in particolar modo, vorrei che i vostri desideri si realizzassero (come buon proposito per il 2014), imparando ad ascoltare chi ci è accanto, dandosi con generosità, temperamento e altruismo, avversando quell'insopportabile individualismo che, onestamente, non fa andare molto lontano e risulta déjà vu. Sperando di essere sempre all'altezza delle vostre aspettative (dice Simona Ventura: “Il pubblico è sovrano”), sappiate che col cuore vi aspetto per l'anno prossimo, con tante sfide da portare avanti (il mio terzo libro in uscita, di stampo musicale, sarà un'altra bella avventura), in nome di una sana pulizia intellettuale. Perché essere brave (e umili) persone è un valore aggiunto nella vita. Ricordatelo! Buon “Che spettacolo” a tutti. Gianluca Doronzo


Sommario IL PERSONAGGIO IN COPERTINA Tessa Gelisio «Sono entusiasta di quello che ho fatto in tv: oggi la vera difficoltà è durare in video il più a lungo possibile» MUSICAL - L'INCONTRO Justine Mattera «Il teatro oggi mi rappresenta come artista a tutto tondo: mi sento fortunata e non potrei chiedere di più» MUSICAL - L'INCONTRO Christian Ginepro «Ho costruito la mia carriera senza padroni e padrini: amo il mondo dello spettacolo e il musical è la mia dimensione» MUSICAL - L'INCONTRO Pietro Pignatelli «Il nostro musical ha un preciso messaggio: bisogna rispettare la diversità, perché è fonte di arricchimento per tutti»

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POP MUSICAL - IL PERSONAGGIO IN ASCESA Lisa Angelillo «Festeggio i miei 25 anni di carriera finalmente con un ruolo da protagonista: che emozione!» 18 POP MUSICAL - L’ILLUSTRE AUTORE Carlo Marrale «Cresco umanamente come autore teatrale di un lavoro a quattro mani con Marco Marini, ma mi piacerebbe tornare a Sanremo: magari in duetto con Lisa Angelillo»

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TEATRO Al Duse di Bari in scena la coralità, con adattamento e regia di Alfredo Vasco (da «La Traviata» di Verdi a «Liolà» di Pirandello) 26 TEATRO - IL MAESTRO Pietro Genuardi «Essere artisti oggi vuol dire libertà, mettere in scena quello che si vuole senza condizionamenti e, soprattutto, vivere in maniera autentica»

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TEATRO - LA GIOVANE PROMESSA Fabio Giacobbe L'anno zero di Fabio Giacobbe con uno spettacolo su Franco Califano, convinto che «se fai cresce il coraggio, se non fai cresce la paura» 32

TEATRO - LA GIOVANE PROMESSA Betty Lusito «Amo la musica di tradizione popolare e la difendo da interprete: in futuro mi piacerebbe pubblicare un cd ed affrontare un ruolo comico a teatro»

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TEATRO - LA GIOVANE PROMESSA Pietro Caramia Pietro Caramia e il suo essere «un viaggiatore alla ricerca»: storia di un talento «made in Puglia» con formazione romana ad hoc

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CAMERATA Stefan Milenkovich, Grandi & Bollani e il Quartetto di Cremona: passione, competenza e spessore interpretativo in primo piano

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MUSICA - LA STORIA DELLA CANZONE ITALIANA Piero Cassano «Con i miei 40 anni di carriera mi metto al servizio delle nuove leve musicali, cercando di dare suggerimenti per il loro futuro»

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MUSICA - LA RIVELAZIONE Maria Giaquinto Un'anima vocale «mediterranea» e ricca di teatralità: Maria Giaquinto e la magia delle sue «voci di frontiera»

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DANZA Emiliana Dorno «Sul palco (come nella vita) la personalità fa la differenza, assieme a stile, musicalità e tanta passione»

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VISTI PER VOI Da «Fuga di cervelli» alla Palermo Anni '80: il grande schermo si tinge di commedia, motivando anche la riflessione

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ASCOLTATI PER VOI Pop, soul e musica elettronica: il meglio del momento per trascorrere «sonore» festività

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LETTI PER VOI Brizzi, Weisberger, Eggers e Stoppa: gli autori da leggere «d'un fiato»

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Tessa Gelisio


IL PERSONAGGIO IN COPERTINA

Chiacchierata con Tessa Gelisio, da ben dodici anni protagonista del piccolo schermo, impegnata in programmi ambientali e naturalistici (conduce «Pianeta Mare», ogni domenica su Rete4, alle 10.50)

«Sono entusiasta di quello che ho fatto in tv: oggi la vera difficoltà è durare in video il più a lungo possibile»

Televisivamente è una delle poche donne ad occuparsi di tematiche ambientali. In dodici anni ha condotto numerosi programmi, facendo dell'approfondimento una costante, utilizzando un linguaggio “semplice e immediato”. Non perdendo mai di vista il sorriso, l'empatia e la professionalità. Tessa Gelisio (presidente anche dell'associazione “for Planet Onlus”) ha un record: da ben dieci stagioni conduce “Pianeta Mare” su Rete 4 (ogni domenica, ore 10.50), ottenendo puntualmente più di un milione di spettatori in media, con buone percentuali di share. Non solo: siccome è un'esperta di cucina (per sua stessa ammissione “le piace mangiare”), Italia Uno ha pensato di affidarle la rubrica “Cotto e mangiato – il menù del giorno” (dal lunedì al venerdì, ore 12.10), non deludendo le aspettative del pubblico, con ottimi risultati d'Auditel. In sostanza: un re Mida. Tutto quello che la riguarda, ha un ottimo gradimento (quest'anno ha conquistato il “Premio Rossana Maiorca” alla carriera, fra l'altro). E, dulcis in fundo, è in tutte le librerie d'Italia con “Ecocentrica” (Giunti Editore), manifestando la necessità di “dare un senso ecologico alla nostra esistenza”. A voi il ritratto del suo universo. Domanda – Tessa, dal debutto televisivo sono trascorsi ben dodici anni: che bilancio si sentirebbe di fare in merito alla sua carriera? Risposta – Direi che potrei parlare di un bilancio estremamente positivo, alla luce dei risultati conseguiti e delle trasmissioni condotte. In verità oggi è facile lavorare in tv, ma difficile durare più di una stagione. Io posso dire di aver fatto un po' di cose e Mediaset, la mia azienda, ha sempre creduto in me e lo fa tuttora. Non mi resta che esserne lusingata. D . – Se dovessimo definire il motivo conduttore dei suoi programmi, potremmo sintetizzarlo nella “divulgazione scientifica su problematiche ecologiche e ambientali” (non è un caso che lei sia presidente dell'associazione “for Planet Onlus”). Si è, pertanto, ritagliata un ruolo quasi unico “al femminile” in tv, in questo senso: no? R . – Penso proprio di sì. Direi che sono una delle poche conduttrici ad affrontare tematiche ambientali, a 360°, utilizzando una mia cifra, uno stile tutto personale. Ho informato, mi sono documentata e, parafrasando il titolo del mio ultimo libro, ho motivato la riflessione del pubblico attorno ad uno stile “ecocentrico”. D . – Ben detto: ma il suo amore per l'ambiente da dove nasce? R . – In un certo senso è dettato dall'amore per gli animali e dal bisogno viscerale di apprezzare (e valorizzare) il sistema terra, decidendo di reagire e fare qualcosa per salvaguardarne le sorti. I miei genitori fin da piccola mi hanno trasmesso la consapevolezza attorno a determinate tematiche, educandomi verso il meglio: io ho fatto frutto dei loro insegnamenti e ho deciso di perseguire nella vita la strada che sto continuando ancora a percorrere. D . – Tornando alla tv, uno dei suoi programmi di maggior successo ancora oggi è “Pianeta Mare”: quali, secondo lei, le ragioni di un gradimento decennale? R . – Penso che la semplicità del nostro linguaggio sia la vera

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IL PERSONAGGIO IN COPERTINA

chiave di forza della trasmissione: abbiamo uno stile spontaneo, non pedante o retorico, e invitiamo le persone dei posti dove andiamo ad essere loro stesse, in maniera schietta, senza sovrastrutture. Credo che in tutto ciò il pubblico da casa si identifichi. D . – Ad un certo punto del suo percorso, però, dopo qualche incursione in programmi più leggeri, di intrattenimento (come “Concerto di Natale” nel 2007 e “Sfilata d'amore e moda” nel 2011), è arrivata dal direttore di Italia Uno la proposta di condurre “Cotto e mangiato – il menù del giorno”. Un cambiamento dettato da quale ragione? R . – Premesso che già in “Pianeta Mare” avevamo l'angolo della ricetta, per cui la tematica culinaria non mi era proprio nuova, la ragione principale dell'aver accettato “Cotto e mangiato – il menù del giorno” è stata nel fatto che mangiare è fondamentale e a me piace tanto. Ma, soprattutto, è importante mangiar bene: di conseguenza, ho introdotto tematiche nuove nel programma, con prodotti biologici, consigli per celiaci, suggerimenti per le intolleranze. Insomma abbiamo fatto in modo che il tutto diventasse un contesto di servizio. D . – E ciò ha fatto la differenza rispetto all'inflazione di show culinari, che impazzano sul piccolo schermo. R . – Di sicuro questa è stata una delle differenze. Ma la verità è che le nostre sono ricette semplici, alla portata di tutti. Il che motiva interazione e interesse da parte di chi sta a casa. E' il nostro obiettivo, no? D . – Certamente e i risultati confermano il successo della vostra missione. Cambiando argomento, arriviamo ad affrontare i suoi libri, l'ultimo dei quali si intitola “Ecocentrica” (con Edgardo Fiorillo e Emanuela Busà), edito da Giunti: in primo piano “la necessità di vivere a basso impatto ambientale, cercando di perseguire felicità e benessere”. R . – Il mio libro affronta una variegata gamma di tematiche: oltre a spiegare il perché dell'utilizzo di certi prodotti salubri,

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dichiara la necessità di mantenere alta la qualità della vita, con consigli a basso impatto ambientale. E' necessario avere uno stile quotidiano legato alla naturalità, anche e soprattutto rispetto al nostro corpo, alla pulizia della casa e a tutte quelle soluzioni pratiche (ed efficaci), che ci consentono un miglior tenore di andazzo di cose in generale. D . – Ora, se alla Feuerbach “l'uomo è ciò che mangia”, come siamo oggi? R . – Siamo esattamente quello che mangiamo: se, ad esempio, buttiamo in mare delle scorie, il tutto entra in circolo e ce lo ritroviamo a tavola. Bisogna capire che non si deve inquinare, altrimenti è la fine. D . – Nel suo percorso ha ottenuto numerosi riconoscimenti, sia a livello televisivo che nell'ambito della salvaguardia ambientale e naturalistica: da presidente della “for Planet Onlus” cosa si auspica? R . – Mi auguro che sempre più persone intraprendano un percorso di vita, come ho ribadito prima, “ecocentrico”: questa è la ricetta per essere consapevoli di quanto è importante il nostro benessere psicofisico, nel rispetto della natura e dell'ambiente, utilizzando le forze al meglio. D . – Televisivamente cosa vorrebbe potesse accadere ora? R . – Mi piacerebbe occuparmi di questi temi, di cui abbiamo parlato in questa chiacchierata, in un bel programma, diffondendo sempre di più il mio amore per la natura e la vita. D . – Magari in prima serata? R . – Quello è un po' difficile. Ma noi andiamo avanti e speriamo sempre verso il meglio. D . – Siamo alla fine della nostra intervista: si immagini, metaforicamente, allo specchio. Come si riflette? R . – Onestamente in questi giorni mi sento un po' distrutta, visto che ho dormito poco (e ride al telefono, ndr). Scherzo, scherzo. In tutta onestà, mi vedo ancora molto lontana dai traguardi da raggiungere. Gianluca Doronzo


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Justine Mattera


MUSICAL - L’INCONTRO

Justine Mattera racconta il suo momento in ascesa nel musical «A qualcuno piace caldo» (dall'omonimo film del '59 con la Monroe), in tournée al «Politeama» di Genova il 20 e 21 dicembre

«Il teatro oggi mi rappresenta come artista a tutto tondo: mi sento fortunata e non potrei chiedere di più»

Il musical è diventato “il motivo conduttore della sua carriera” negli ultimi dieci anni. Nata a New York (da una famiglia di origini italiane), laureata alla Stanford University, Justine Mattera ha trovato nel Belpaese la sua dimensione espressiva: dagli esordi come cantante (notata dal dj Vannelli, ha venduto decine di migliaia di copie nei '90 col brano “Feel it”), passando per la tv (accanto a Paolo Limiti, spesso nel ruolo di sosia di Marilyn, dal '96 al 2003), ha vissuto stagioni di successi teatrali con “Victor/Victoria” (2003-'04), “Cantando sotto la pioggia” nel 2005, “Chiedimi se voglio la luna” (2008-'09) e “Tre cuori in affitto” (2012), fra l'altro. Non disprezzando qualche apparizione in film del calibro di “Go Go Tales” di Abel Ferrara (2007). Oggi, dopo aver dato alla luce due bambini, sta vivendo un fortunato momento (nei panni di Sugar, sul grande schermo “vestiti” dalla Monroe, nell'omonima pellicola del '59) con la ripresa autunnale di “A qualcuno piace caldo”, per la regia di Federico Bellone, prodotto da Wizard Service. Ad affiancarla: Christian Ginepro e Pietro Pignatelli (in tournée il 20-21 dicembre al “Politeama” di Genova). Domanda – Justine, ci ritroviamo a distanza di quasi un decennio dall'ultima volta in cui abbiamo chiacchierato a proposito di teatro: per entrambi sono di sicuro accadute un bel po' di cose. Attualmente, dopo tante attestazioni nel Belpaese, è impegnata nella ripresa autunnale del musical “A qualcuno piace caldo”, per la regia di Federico Bellone, prodotto da Wizard Service. Come sta andando? Emozioni, stati d'animo? Risposta – Ha ragione quando dice che, per entrambi, sono accadute un bel po' di cose: ritrovarla fondatore e direttore di un mensile è una bella soddisfazione. Ricordo benissimo la sua passione per lo spettacolo: sono contenta ci sia riuscito. Per quel che mi riguarda, ho fatto tanto in queste stagioni, soprattutto a livello teatrale: io sono una perfezionista e voglio sempre dare il meglio nel mio lavoro. Abbiamo già messo a punto un bel po' di date e stiamo superando la cosiddetta “fase di rodaggio”: consideriamo che per me si tratta di uno spettacolo complesso, con ben 5 pezzi interpretati e una resa che non deve mai abbassare la guardia. Ma sono molto contenta e gratificata, anche e soprattutto per l'affiatamento con i miei compagni di scena. D . – A che punto del suo percorso è arrivata la proposta di “A qualcuno piace caldo”? R . – Diciamo che è arrivata in un momento particolare: io, in fondo, ho sempre fatto Marilyn, giocando un po', soprattutto da un punto di vista televisivo. Ora, teatralmente parlando, ho la c o n s a p evo l e z z a d i a f f r o n t a r e i l r u o l o c h e f u , cinematograficamente, di un'icona mondiale. Credo di avere una certa maturità per farlo, con conoscenza giusta e criterio: il mio è un personaggio ricco di sfumature, pieno di note e di malinconia. D . – Cosa l'ha più gratificata finora della sua “Sugar”? R . – A me ha commosso il solo pensiero di interpretarla: è un personaggio vincente, soprattutto verso la fine. E, in tutta onestà, simili aspetti ti fanno scendere la lacrima. E' davvero spiazzante. Emozioni a mille.

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D . – Potremmo dire che il musical è la forma espressiva a lei più congeniale? R . – Forse sì: essendo poi io americana, di New York, di sicuro mi è più familiare. E' un genere che mi fa sentire a mio agio, anche se non sono una ballerina, ben inteso. Come cantante e interprete ho cercato di raggiungere una mia credibilità: mi rendo, tuttavia, benissimo conto di far parte di una nicchia. Ho, come dire, la consapevolezza dei miei limiti e potenzialità. D . – Televisivamente per lei non c'è più nulla che possa rappresentarla? R . – No, non c'è niente. Faccio le ospitate di tanto in tanto, soprattutto come opinionista, ma nulla di più. La tv sta morendo: ormai siamo nell'epoca digitale, di Internet e dei

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social network. A 42 anni, con tanto di figli al seguito, credo che il teatro sia la mia casa pienamente. Non c'è collocazione per me sul piccolo schermo, soprattutto perché non ho “santi in paradiso”. La tv è cambiata dai miei esordi. D . – Anche il varietà non c'è più? R . – Quella attuale è una tv che non mi appartiene. Persino il Bagaglino è morto. Sì, ci sono “Ballando con le stelle” e “Tale e quale show” su Raiuno, ma il varietà in senso stretto (e classico) non esiste più. Sarà difficile, se non impossibile, farlo tornare in auge. D . – E al potenziamento del cinema non ha pensato, visto che ha già partecipato ad alcuni film in passato? R . – Ma, a dire la verità, anche in quel campo sembra essere


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tutto blindato, chiuso, limitato a pochi. Sempre gli stessi. Non faccio tanti provini, anche perché il mio accento spesso mi limita. Punto, tuttavia, su numerose imprese e mi impegno in tantissime cose in contemporanea. Il fatto è che con il mio modo di parlare sono molto riconoscibile e non riuscirei a fare altro che personaggi caricaturali. Come dire: per molti registi non sarei credibile in panni drammatici o altro. Purtroppo non siamo negli Stati Uniti, dove un artista è tale, senza schemi, esprimendosi a tutto tondo. Qui siamo molto schematici e, se non conosci la gente giusta, difficilmente c'è posto per te. D . – Cosa bolle in pentola per il futuro, Justine? R . – Lavorerò in radio e continuerò col teatro. Vivo nel presente e non ho ansie sul futuro o smanie da protagonismo. Sono fortunata, in fondo, in quanto ho la mia famiglia, dei figli stupendi e la possibilità di fare tante serate in Italia. Ringrazio, onestamente, tutti dello spazio che mi si dà. C'è sempre molto affetto attorno a me. Le pare poco? Gianluca Doronzo

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Christian Ginepro


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Schietto, istrionico e profondamente simpatico: Christian Ginepro è Jerry (nel ruolo che sul grande schermo fu di Jack Lemmon nel '59) in «A qualcuno piace caldo», dal 17 al 19 dicembre allo «Stabile» di Verona

«Ho costruito la mia carriera senza padroni e padrini: amo il mondo dello spettacolo e il musical è la mia dimensione»

Schietto, istrionico e profondamente simpatico. Christian Ginepro è, a ragion veduta, ritenuto “il maggior esponente della nuova via italiana del musical”, alla luce di una carriera scandita da gratificazioni teatrali, ormai da 15 anni a questa parte. “Cabaret” con Michelle Hunziker, “Il giorno della tartaruga” di Saverio Marconi e “Vacanze romane”, per la regia di Garinei, sono solo alcuni titoli che arricchiscono il suo curriculum, avendo lasciato puntualmente il segno. E, non a caso, è fra gli attori più premiati a livello scenico (dall' “IMTA 2004” come miglior performer maschile al “Massimini 2005”, fino alla “Personalità Europea 2006”). Attualmente è fra i protagonisti di “A qualcuno piace caldo” (dall'omonimo film del '59 di Billy Wilder), per la regia di Federico Bellone, nei panni di Jerry (vestiti da Jack Lemmon sul grande schermo), accanto a Justine Mattera e Pietro Pignatelli (in tournée dal 17 al 19 dicembre allo “Stabile” di Verona), per la Wizard Service. Domanda – Christian, lei è uno degli esponenti più illustri (e premiati) del musical italiano: a che punto del suo percorso è arrivata la proposta di interpretare Jerry in “A qualcuno piace caldo”? Risposta – Mi preme, innanzitutto, ringraziarla per quello che ha detto all'inizio della domanda: è bello, dopo tanti anni di carriera, sentirsi dire che, in un certo modo, si sta lasciando qualcosa in quello che si fa. Nello specifico dello spettacolo, ammetto che la proposta mi è arrivata in un momento particolare: erano cinque anni che non facevo un musical e, in questo lasso di tempo, mi sono dedicato molto alla televisione, interpretando fiction e partecipando a programmi (come quello di Baudo e Vespa nel 2011 sui 150 anni dell'Unità d'Italia, ndr). Spesso molti colleghi, pur di essere sul palco, accettano ruoli e non personaggi da interpretare: io sono del parere che un lavoro di qualità vada fatto sulle sfumature del singolo, sulle sue caratteristiche e, dato non irrilevante, sugli accenti. Nell'omonimo film, da cui è tratto il nostro lavoro, Jack Lemmon è stato un personaggio a tutto tondo e ciò mi ha stimolato ad esserci. Per questo ritengo che il prodotto finale, molto corale, sia estremamente divertente e, ovunque voi siate in Italia, vi massacrerete dalle risate, venendoci a vedere. Siamo davvero affiatati, grazie alla regia di Federico Bellone e ad una produzione come la Wizard Service. D . – Quale la modernità del messaggio del vostro musical, a più di 50 anni dall'omonimo film? R . – Direi che i messaggi sono due: innanzitutto se una pellicola è arrivata da più di cinque decenni fa al XXI secolo, nel quale viviamo, vuol dire che c'è un'estrema modernità insita nel film stesso, per stile, resa dei personaggi e storia. Il che è già una garanzia. Ma, a mio avviso, il dato valoriale aggiunto è nella estrema creatività di fondo: ci sono gag continue, si ride, ci si traveste (ma non è uno spettacolo en travesti) e l'uomo si prende in giro. Non è come essere lupi in un branco di pecore, bensì “come pecore in un gregge di pecore”. Ovvero: comunichiamo tutti in scena il bisogno spasmodico di non prenderci troppo sul serio e di “travestirci” , cioè di fare della nostra esistenza un gioco, un aspetto ludico,

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sonoramente ilare. Sarà che io poi, siccome sto per sposarmi, vedo tutto allegro e ricco di colore (e ride, ndr)! D . – Il musical rappresenta, dunque, la dimensione a lei più congeniale, essendone universalmente ritenuto “uno dei più illustri esponenti”? R . – Assolutamente. Le faccio un esempio: quando vado allo stadio a vedere la mia Juventus, se vince non posso rimanere immobile. Devo vivere la mia emozione, cantando e ballando. C'è un click che mi fa esplodere. Così è a teatro, soprattutto nel musical: danzare, cantare e recitare è una festa, un'urgenza espressiva, di cui non posso fare proprio a meno. D . – Christian, veniamo al dunque: alla luce di tutti i riconoscimenti e successi conseguiti negli anni, quanto si sente valorizzato dall'Italia? R . – (Dopo un attimo di silenzio al telefono, ndr) Perché mi fa questa domanda? D . – Perché vorrei portarla a darmi proprio una precisa risposta. R . – Lei è molto intuitivo e va oltre: davvero si differenzia dalla categoria alla quale appartiene. Ed ora le dico quello che vuole sentire, tanto non ho problemi: io non ho padroni e padrini. Ho conquistato tutto quello che ho raggiunto nel tempo con le mie forze e non vendo poltrone o, meglio, non mi affianco al più potente. Vado in scena con i miei meriti, con le mie forze e per quello che sono. In Italia è più facile andare sul palco se si sta nei soliti giri. Io sono quello che sono: amo il teatro, adoro il musical e non mi faccio comprare per far parte di uno spettacolo in maniera più facile e ruffiana. D . – Conoscendola da un po', era quello che pensavo. Giusto ciò che dice: e da un punto di vista televisivo, la situazione com'è? R . – Fortunatamente devo ammettere di avere lavorato molto nella fiction, negli ultimi tempi: soprattutto in diversi sceneggiati Rai ho ottenuto risultati buoni. Certo, fossi stato un nome famoso avrei avuto la parte per una serie su uno sportivo, andata in onda di recente sulla tv di Stato, la cui somiglianza sarebbe stata ad hoc. Ma va bene così. L'importante è lavorare ed essere onesti, con la consapevolezza della propria natura da persone perbene. Questa è la mia spinta emotiva. D . – Condivido pienamente il suo pensiero. A proposito di tv si parla tanto di “talent show”: secondo lei, cosa vuol dire avere talento oggi? R . – Una volta lessi da qualche parte, in merito ad un prodotto commerciale, che il talento è l'1% di ispirazione e il 99% di traspirazione. Ora, al di là della battuta, ritengo sia un dono che va coltivato e supportato da chi ti è accanto, dalla famiglia in

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primis. Non bisogna essere repressi in quello che si vuole fare, altrimenti è la fine. Si muore e si ha come un senso di incompiuto. D . – Un po' tipo “I giganti della montagna” di Pirandello. R . – Esatto, geniale quello che dice. Lei è troppo forte. D . – Grazie, ma qui quello “troppo forte” è lei (e, dopo una risata comune si riprende la chiacchierata, ndr). Christian, senza il mondo dello spettacolo, cosa sarebbe la sua vita? R . – La mia vita è il mondo dello spettacolo: io nasco danzatore e, successivamente, mi sono formato come attore e interprete canoro. Non potrei immaginarmi diversamente da quello che sono oggi. D . – Mettiamola così, allora: quanto coraggio ci vuole attualmente per “essere nel mondo dello spettacolo”, senza “padroni e padrini”? R . – Lei mi provoca ed io l'accontento (e scoppia un'altra risata, ndr). Scherzi a parte, oggi ci vuole molto coraggio, soprattutto nel fare teatro: ma, ben inteso, anche il cinema e la tv non sono messi meglio. Il governo, purtroppo, non ci sostiene e la cultura troppo spesso sembra un optional. Detto questo, mi pare che gli spettatori stiano prendendo coscienza di tutto ciò e, col loro seguito, stiano facendo in modo che le cose cambino: vengono a vederci a teatro con curiosità, entusiasmo e passione. Ciò consente di investire in nuovi progetti: chissà, caro Gianluca, che io e lei fra 10/20 anni non ci ritroviamo a chiacchierare, proprio in merito al cambiamento degli eventi! D . – Me lo auguro, Christian: vorrebbe dire che entrambi, a nostro modo, abbiamo avuto “il coraggio delle idee”. R . – E' bello il coraggio delle idee: anche se mancano i soldi, si può fare la differenza con la creatività e la fantasia. Nessuno può privarci di tutto ciò. D . – Come vorrebbe, infine, potesse proseguire il suo percorso? R . – Onestamente avverto che, soprattutto in televisione, sta aumentando l'interesse attorno a me: spero di poter raccontare storie, che emozionino e coinvolgano il pubblico. Del resto, cosa posso chiedere di più? Sto per sposare la compagna della mia vita, Viola. L'entusiasmo è a mille. D . – Auguri, Christian. R . – Grazie. Posso aggiungere un'ultima cosa? D . – A sua disposizione. R . – Gianluca, la spinta della sua intervista è stata bellissima: davvero complimenti! Ai lettori vorrei dire di venirci a vedere a teatro, perché ci si diverte tanto e, soprattutto, si evade dalla routine quotidiana. Vi aspettiamo con calore e affetto. Gianluca Doronzo


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Pietro Pignatelli


MUSICAL - L’INCONTRO

Un «fiume in piena» di nome Pietro Pignatelli: dalla formazione accademica (al «Bellini» di Napoli) ai panni di Joe in «A qualcuno piace caldo», per la regia di Federico Bellone, il 31 dicembre e 1° gennaio al «Fraschini» di Pavia

«Il nostro musical ha un preciso messaggio: bisogna rispettare la diversità, perché è fonte di arricchimento per tutti»

Semplicemente un “fiume in piena”. Pietro Pignatelli (napoletano ad hoc, classe 1971) al telefono si racconta con entusiasmo, freschezza e tanta curiosità. Dagli esordi all' “Accademia d'arte drammatica del Teatro Bellini” del capoluogo partenopeo (“ricordo che fui cacciato dal professor Vicentini”), fino alla tv per ragazzi (ha condotto “L'albero azzurro” per la Rai, dal '98 al 2003), ripercorre le sue esperienze teatrali (“Grease” con la Cuccarini, “Peter Pan” e “Pinocchio”), non dimenticando i maestri che l'hanno formato (“Renato Carpentieri” in primis). Con un occhio vigile “al teatro civile, magari con un lavoro da tradurre in inglese in futuro”, finalizzato alla riflessione e all'approfondimento. Attestazioni di pubblico, critica, premi ed ora i panni di Joe (che furono di Tony Curtis sul grande schermo, nell'omonimo film del '59) nel musical “A qualcuno piace caldo”, per la regia di Federico Bellone, prodotto da Wizard Service. Compagni di viaggio: Justine Mattera e Christian Ginepro, fra gli altri (proseguimento di tournée il 31 dicembre-1°gennaio al “Fraschini” di Pavia). Chiacchierare con lui è talmente piacevole, che si ha l'impressione di conoscerlo da tanto. Leggere, per credere. Domanda – Pietro, gli ultimi anni del suo percorso sono stati caratterizzati da continui successi teatrali nel musical, con numerosi riconoscimenti conseguiti: la proposta di “A qualcuno piace caldo” quale valore aggiunto rappresenta? Risposta – Direi che ha un potenziale enorme, visto che davvero c'è un affiatamento corale in scena ed una regia magistrale di Federico Bellone. La proposta, onestamente, mi è arrivata in un momento molto attivo, teatralmente parlando: ero in tournée con “Peter Pan” e uno dei produttori della Wizard Service mi ha contattato per sottopormi lo spettacolo. Sta di fatto che, già ai tempi di “Grease” con Lorella Cuccarini, ero stato notato da loro: finalmente è arrivato il momento giusto per “incontrarci” e collaborare. Ammetto di essere stato davvero fortunato perché, con la crisi che c'è in giro, in particolar modo in teatro, lavorare con opere di qualità e spessore è un privilegio. Non potrei chiedere di più. D . – Quale, a suo parere, l'attualità dei contenuti del musical, a distanza di un cinquantennio dalla pellicola? R . – In primo luogo mi verrebbe da dire che, alla resa dei conti, il messaggio di fondo è nella massima: “Signori, nessuno è perfetto”. Il tutto con una chiave estremamente divertente. Ma, scavando scavando, la vera considerazione da fare è nel rispetto della diversità, una tematica molto, molto attuale. Bisogna vivere e saper lasciar vivere gli altri: nella diversità c'è arricchimento. D . – Benissimo, Pietro. Passando in rassegna la sua formazione, lei ha iniziato all' “Accademia d'arte drammatica del Bellini” di Napoli. Che ricordi ha? R . – L' “Accademia Bellini” di Napoli è stato uno dei miei primi luoghi di formazione: nel mio percorso ho avuto davvero illustri docenti. Mi ricordo che all'epoca avevo una grande fame di teatro: volevo studiare e facevo anche tanti laboratori, il più famoso dei quali è stato con Renato Carpentieri. A lui,

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onestamente, devo tanto. Tornando, invece, all'Accademia pensi che fui mandato via dal professor Vicentini, me lo ricordo ancora: nella mia vita sono riuscito a farmi cacciare da un po' di posti, ma poi la passione per la recitazione ha avuto la meglio. E col musical “Grease”, accanto alla Cuccarini, c'è stato l'exploit. D . – Televisivamente, però, la si ricorda come uno dei conduttori de “L'albero azzurro” per la Rai (dal '98 al 2003), fra gli ultimi programmi esistenti per ragazzi. R . – Lei dice una cosa giustissima: oggi non c'è più la fascia dedicata alle trasmissioni per ragazzi. “L'albero azzurro” accompagnava i bambini nel loro percorso formativo e, onestamente, era fatto molto bene. L'orario, però, non era dei migliori, visto che fu ridotto al sabato mattina, sul presto. Io protestai e feci una raccolta firme per difenderlo, sottoponendo il tutto al direttore di rete d'allora, che mi rispose con una bella risata. Riuscii a farmi cacciare anche da lui (e ride, ndr). D . – Pietro, ma come dobbiamo fare con lei: si fa cacciare da tutti? R . – E' nel mio destino, dall'Accademia in poi (e la risata diventa più che comune, ndr). D . – Veniamo a noi: alla luce dei numerosi riconoscimenti conseguiti negli anni, quanto si è sentito valorizzato in Italia? R . – Dico la verità: mi sono sentito un po' “nemo propheta in patria”. Ho fatto tanto in questi anni, mi sono formato da solo,

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con le mie forze e qualche attestazione in più non mi sarebbe dispiaciuta: ironia della sorte a dicembre, dopo tanto aver vagato e anni di sacrifici, riceverò al “Sannazaro” di Napoli un riconoscimento e credo che farò contenti finalmente i miei genitori. E' come se si realizzasse un sogno nel cassetto. D . – Altri sogni? R . – Se avessi la famosa lampada di Aladino, ne avrei tanti da voler realizzare: innanzitutto io sono un gran sostenitore del “teatro civile”, avendo l'associazione “Poeta volante”, con cui racconto le storie di personaggi che hanno davvero fatto imprese straordinarie. Mi piacerebbe continuare su questa scia, raccontando il tutto anche in inglese, con spettacoli sull'adolescenza e testi molti crudi, che facciano riflettere. Per il resto vorrei sempre fare teatro. Il cinema mi piace un po' meno, mentre con la tv ti fai i soldi. Così è, se vi pare. D . – Si parla tanto di “talento”, a causa dell'inflazione di show televisivi che abusano il termine nei titoli: ma cosa significa averlo? R . – Perfetto quello che dice: se ne parla troppo spesso, televisivamente, quando ci sono i “talent show”. Esserne in possesso significa avere qualcosa che serve come il “la”, una sorta di pedana di lancio, per poi arrivare al successo. Ma, purtroppo, è radicato il suo concetto oggi mediaticamente ai soldi, alla carriera e all'immagine. Il talento puro è scevro da tutto ciò. C'è e lo riconosci subito, senza troppi orpelli. Gianluca Doronzo


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Lisa Angelillo


POP MUSICAL - IL PERSONAGGIO IN ASCESA

La pugliese Lisa Angelillo affronta con versatilità e determinazione i panni di Cinzia Conti nel primo pop-musical italiano, dal titolo «SOLO TU!», scritto da Carlo Marrale e Marco Marini, in tournée dal 3 all'8 dicembre a Milano

«Festeggio i miei 25 anni di carriera finalmente con un ruolo da protagonista: che emozione!»

Una gavetta iniziata ad appena 16 anni nel mondo dello spettacolo. Versatilità, passione e talento ne hanno scandito la formazione, spaziando dalla danza al canto, affiancando scenicamente i volti più illustri del panorama nazionale (da Barbara d'Urso a Maurizio Micheli, non dimenticando il “suo Pigmalione” Gigi Proietti, il primo a darle una chance importante in “The full monty” nel 2001). Lisa Angelillo, pugliese ad hoc, ha davvero fatto del “sangue, sudore e lacrime” il suo tratto distintivo, arrivando alla “quadratura del cerchio”: quasi tre decenni di carriera e, finalmente, il tanto “auspicato” ruolo da protagonista (nei panni di Cinzia Conti) nel pop-musical “SOLO TU!”, scritto da Carlo Marrale (fondatore dei Matia Bazar) e Marco Marini (musicista, regista e produttore genovese), per la direzione di Elena Dragonetti (show designing di Emiliano Morgia e coreografie di Antonietta Scuderi). Oltre cinquecento candidati ai casting e un “sogno realizzato”. Dal debutto al “Politeama” del capoluogo ligure, la tournée proseguirà al Teatro della Luna di Milano a dicembre (il 3-5-7 alle 21 e l'8 alle 15.30). Con entusiasmo e humour, ecco il ritratto di un'artista camaleontica e, soprattutto, irrefrenabile nelle idee. Domanda – Lisa, una gavetta iniziata all'età di 16 anni ed oggi, finalmente, dopo svariate esperienze di successo al fianco dei volti più autorevoli del mondo del teatro, affronta un ruolo da protagonista nel primo “pop-musical” del nostro panorama, dal titolo “SOLO TU!”. Come sta vivendo questo momento? Risposta – All'inizio è stato panico misto a incredulità e diffidenza. Fatti i conti, questo dicembre festeggio assieme ai miei 42 anni anche i 25 di teatro. Il senso di responsabilità in un primo momento è stato paralizzante, poi mi sono detta che era finalmente arrivato quello per cui avevo tanto lottato e tenuto duro: quindi ho mandato al diavolo tutte le frustrazioni e le paure, godendomi il mio sacrosanto e sudato momento di gloria. Per il “David di Donatello” aspettiamo il 50esimo anniversario e per l'Oscar mi sa che non farò in tempo (e ride, ndr). D . – Com'è andato il debutto in quel di Genova e quali aspettative per il Teatro della Luna di Milano? R . – Eternamente sarò grata a Genova e al suo pubblico. Le due date previste al “Politeama” hanno fatto sold out. Gli spettatori, calorosissimi e attenti, erano già conquistati alla fine del primo tempo. Alla conclusione del secondo abbiamo assistito a standing ovation e, invece che constatare il solito “fuggi fuggi” verso l'uscita, erano tutti in piedi ad applaudire, cantando con noi e Carlo Marrale. Emozione pura. Milano mi ha dato moltissimo, quando sono stata in scena 6 mesi con “Mamma Mia!” nel ruolo di Tanya: spero che il pubblico meneghino resti fedele, venga a vederci, ci supporti e sostenga, lasciandosi andare a due ore e mezza di divertimento, con tanta bella musica, tutta “made in Italy”. D . – L'incontro con gli autori, Carlo Marrale e Marco Marini, in quale modo è avvenuto? R . – Avevano già visto tanta gente, ma cercavano una Cinzia Conti (questo è il nome del mio personaggio) che potesse

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interpretare le canzoni dei Matia Bazar, senza troppo rimandare alla voce sopranile (ad aggiungo unica) di Antonella Ruggiero. Ho fatto un provino: ho inviato il materiale in ritardo e mi hanno inserita l'ultimo giorno alle 10 del mattino, perché non avevano altri spazi. Credo sia stato amore a prima vista con Marco, Carlo e con la nostra bravissima regista, Elena Dragonetti. Sono rimasta lì un'ora e mezza e poi mi hanno telefonato per darmi la buona notizia. Penso che la mia capacità di improvvisazione li abbia sorpresi e ritengo abbiano apprezzato, soprattutto, il mio saper “personalizzare” le canzoni. D . – Nella definizione di “pop-musical” c'è il connubio fra canzone italiana d'autore e un genere teatrale moderno: innovazione rispetto al solito scenario, no? R . – Di veramente nuovo c'è l'amore con cui si è dato vita al progetto. E' una produzione neonata, al suo spettacolo d'esordio: è come aspettare il primo figlio. Cerchi, dai e vuoi il meglio. Poi le sonorità dei Matia si sposano benissimo con il genere “musical”. Marco Marini ha inventato una storia per “raccordare” le canzoni di Carlo Marrale e il tutto non fa una piega. Innovazione, amore e un prodotto interamente italiano. D . – Lisa, se lei fosse stata in America, con la competenza raggiunta in così tante discipline nel mondo dello spettacolo, avrebbe già spopolato a Broadway: perché in Italia bisogna aspettare più di vent'anni (per non dire trenta) per ottenere un ruolo da protagonista? R . – Mi avvalgo della facoltà di non rispondere (ride, ndr)! Scherzo, scherzo. Non so se io a Broadway avrei spopolato. Certo è che in America, Francia e Germania, il nostro lavoro è una cosa seria. Tutelato, apprezzato, pagato e i professionisti sono molto preparati. Qui c'è molto talento sprecato e tanta approssimazione. Gli spettacoli vengono fatti quasi sempre con la voglia di arricchirsi e non con quella di lasciare un segno. Il teatro dovrebbe puntualmente “insegnarci” qualcosa. Garinei ha fatto la storia perché voleva farla. La maggior parte dei produttori si limita a comprare cose già proposte altrove, trite e ritrite, che spesso non c'entrano nulla con la nostra cultura o con i nostri gusti. E, cosa peggiore, le propinano al pubblico, che ormai applaude mansueto anche ad attrici ed attori di poco talento. Ci siamo un po' troppo abituati alla mediocrità e a teatro non si usa più buttare giù dal loggione fresche verdure di giornata. Per educazione, in antitesi, si battono le mani. Io in questo sono “vegetariana” (e la sua risata diventa il motivo conduttore della chiacchierata, attestando un innato humour, ndr). D . – A quali maestri sente di dover dire grazie? R . – Ne ringrazio due per tutti, che mi hanno segnata agli esordi: il mio professore d'università, Franco Ruffini, il primo vero “maestro” che ho visto all'opera e Gigi Proietti, che mi ha dato la prima grossa chance nel teatro nazionale italiano, un uomo semplice (e divertente) in tv (ed anche nella vita). Poi

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vorrei ringraziare tutti quei non-maestri che mi hanno dispensato pessimi esempi di teatro e umanità, perché attraverso loro ho imparato cosa non volevo essere. E, infine, vorrei ringraziare mio marito, Paolo (Daniele, ndr), in quanto ritengo sia la persona più competente e lungimirante che io abbia mai conosciuto: ha creduto in me da sempre. D . – Lisa, da anni sostengo la sua causa sanremese, in ogni intervista che si rispetti: vogliamo proporre al signor Marrale un duetto per il prossimo “Festival” di Fazio? R . – Un duetto con Carlo? Magari! Beh, io ho provato diverse volte la via sanremese: l'ultima avevo 29 anni e mi fu detto, senza mezze misure, che ero troppo vecchia. L'era delle interpreti come Mia Martini, Fiorella Mannoia, Patty Pravo e Anna Oxa era chiusa e non credo si sia più riaperta. Oggi vai a “Sanremo” se hai 15 anni o se sei un cantautore ma, soprattutto, se piaci alle masse. Io non scrivo: interpreto. Aspetto, comunque, di sentire cosa le risponderà Carlo a questa domanda: se a lui andasse, perché no? D . – Danzare, cantare e recitare: cosa sarebbe Lisa Angelillo senza? R . – Più libera, più serena, più tranquilla, più riposata…ma meno felice. D . – Come vorrebbe potesse proseguire il suo percorso? R . – Io vorrei sempre (e solo) poter lavorare con dignità e rispetto. E con professionisti seri, unicamente “talentati”. Raramente accade: credo sia una assurdità tutta italiana. Una delle tante. D . – Cosa ci dobbiamo aspettare per il suo futuro, essendo “un vulcano” di idee e talento? R . – La ringrazio per i complimenti, ma ripeto: finché in Italia il nostro lavoro non sarà riconosciuto come tale e quindi regolato, protetto e rispettato, le idee resteranno nel vulcano. E al vulcano viene l'ulcera. Comunque, non mollerò mai. D . – Ci mancherebbe: mai mollare. A proposito: oggi si parla tanto di “talento”, ma cosa significa averlo? R . – La Garland le avrebbe risposto: “Essere una star è stato facile, vivere è stato difficile”! Il problema degli artisti, di solito, è la vita: il talento se c'è, e quando c'è, basta coltivarlo e averne cura. Solo così rifiorisce sempre. A volte sembra esaurito, quasi non ce ne fosse più, ma poi rinasce e, se sei fortunato, ne possono godere in molti. D . – Infine, cosa suggerirebbe ad un giovane che avesse il “sacro fuoco” dello spettacolo? R . – Di essere sempre preparato, allenato e pronto. Mai rimandare a domani. Mai adagiarsi, lasciarsi andare, trascurare. Dare vita e forma a tutto ciò che si riesce a creare, perché quando la chance arriva non aspetta, non ha pazienza e, di solito, devi saperla “abbagliare” più di tutti. Soprattutto se sei un artista, senza troppi santi in paradiso (e conclude con una risata, ndr). Gianluca Doronzo


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Carlo Marrale


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Carlo Marrale, dal '75 al '93 storico componente dei «Matia Bazar» (che ha fondato), firma il primo pop-musical italiano, dal titolo «SOLO TU!», al «Teatro della Luna» di Milano dal 3 all'8 dicembre

«Cresco umanamente come autore teatrale di un lavoro a quattro mani con Marco Marini, ma mi piacerebbe tornare a Sanremo: magari in duetto con Lisa Angelillo»

Ha scritto brani che sono entrati a far parte della storia della musica italiana: “Vacanze romane”, “Ti sento”, “Per un'ora d'amore” e “C'è tutto un mondo intorno”, fra le altre. Dal '75 al '93 è stato un pilastro dei “Matia Bazar” (avendo contribuito alla fondazione), animando concerti internazionali (“è stato bello girare dappertutto, poco più che ventenne, percependo l'amore e la stima del pubblico”), lasciando una traccia di sé. Nel '94 ha iniziato la carriera da solista (con l'album “Tra le dita”, a cui ha fatto seguito nel 2007 “Melody maker”), diventando una firma ancora più autorevole (il suo “Odissea” per i tenori Salvatore Licitra e Marcelo Alvarez ha scalato le classifiche statunitensi nel 2004). Carlo Marrale, nel pieno della maturità, oggi è autore (con Marco Marini) del primo “pop-musical” italiano, dal titolo “SOLO TU!”, interpretato dalla pugliese Lisa Angelillo (“se a lei andasse bene e volesse, potremmo duettare al Festival di Sanremo con una stupenda canzone, nelle sue corde, essendo brava, bella e simpatica”), Michele Carfora e Andrea Bottesini, per citarne alcuni. In tournée al “Teatro della Luna” di Milano (il 3-5-7 dicembre alle 21 e l'8 alle 15.30), fa il punto della situazione sul mercato discografico, sul valore delle melodie attuali e, soprattutto, sulla definizione dei “talenti” (essendone un emblema, acclamato universalmente: suoi pezzi sono stati cuciti su misura per Mina, Pet Shop Boys e Miguel Bosè). Domanda – Signor Marrale, come nasce l'idea di “SOLO TU!”, primo “pop-musical”, se vogliamo, nella storia del teatro italiano? Risposta – La vita è l'arte degli incontri. L'idea del musical nasce dall'incontro fortunato con Marco Marini. Circa due anni fa mi contattò, proponendomi di collaborare alla stesura di un copione, al quale stava mettendo mano. L'idea mi piacque subito, perché trovai la storia simpatica, interessante e molto attuale. Inoltre offriva la possibilità di rendere omaggio all'operato di un gruppo musicale storico, i “Matia Bazar”, del quale mi pregio di aver fatto parte per tanti anni, contribuendo alla formazione. Ma, soprattutto, dando vita a testi scritti da Aldo Stellita, amico indimenticabile, prematuramente scomparso, bassista e vera anima catalizzante di tutti noi all'epoca. Siccome sono i testi delle canzoni dei “Matia Bazar” a costituire la trama dei dialoghi tra gli attori, decidemmo di metterci a lavorare a quattro mani ed il copione definitivo, in tempi abbastanza brevi, fu pronto. D . – La sua è stata una carriera autorevole, caratterizzata per molti anni dalla presenza e successo dei “Matia Bazar” (di cui è stato fondatore): che ricordo ha del gruppo? R . – Naturalmente ho ricordi bellissimi: girare il mondo, poco più che ventenne, con quattro amici, cantando le proprie canzoni e ottenendo un successo internazionale, non è cosa da poco. Mi ritengo un privilegiato: ho avuto la grande fortuna di vivere un sogno. Il sogno che ho sempre accarezzato. D . – Cosa hanno rappresentato i “Matia Bazar” nella storia della musica italiana? R . – Indubbiamente la musica che abbiamo prodotto ha rappresentato molto nel panorama italiano ed estero,

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risultando originale, raffinata ed innovativa, al di fuori dei capricci e delle mode. Di questo, da autodidatta, ne sono fiero. D . – Fare l'autore musicale per il teatro, cosa vuol dire per lei oggi? R . – Una nuova e stimolante occasione di crescita personale, umana e lavorativa, insieme ad una produzione (“MARTE”), fatta di giovani con grande passione, talento e, soprattutto, professionalità. Con Emiliano Cioncoloni mi sono direttamente occupato degli arrangiamenti musicali, ma ho potuto seguire da vicino, ed apprezzare, il lavoro della regista, Elena Dragonetti, le luci dello show designer Emiliano Morgia, la scenografia di Laura Benzi e le coreografie di Antonietta Scuderi. Tutti aspetti fondamentali per la riuscita di un musical di alto livello. Anche il cast è composto da giovani talenti emergenti, insieme a professionisti già affermati, come Lisa Angelillo, Michele Carfora e Andrea Bottesini (genovese come me). D . – Ritiene ci sia più attenzione verso il musical, in generale, rispetto al passato? R . – Penso di sì, grazie anche alla spettacolarizzazione che le nuove tecnologie consentono. E' auspicabile che i produttori italiani impegnino le loro risorse nella realizzazione di opere nuove, come vuole essere “SOLO TU!”. Non riproponendo esclusivamente i classici del passato, in prevalenza di matrice estera. In questa direzione ci può essere una crescita artistica e culturale di un patrimonio che ci appartiene da tempo: sto

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parlando della commedia musicale. D . – Lei ha scritto brani che hanno fatte parte della storia della musica italiana (“Vacanze romane”, “Ti sento”, “Stasera che sera” e “C'è tutto un mondo intorno”, per citarne alcuni): attualmente che fase sta attraversando la canzone nazionale? R . – La musica italiana, dopo il nefasto avvento delle major, ha perso le sue caratteristiche che tanto la facevano amare nel mondo: l'esterofilia crescente e la ricerca di risultati immediati, imposti dalle multinazionali, le hanno fatto perdere competitività, non essendo più immediatamente identificabile con la nostra cultura e tradizione. Personalmente, sento la mancanza di una linfa nuova e della pluralità di espressioni artistiche, che potevano apportare le case discografiche con dietro un imprenditore il quale, rischiando “di proprio”, cercava di far crescere i talenti nei quali credeva, offrendo loro la possibilità di sviluppare nel tempo un linguaggio espressivo personale. Adesso, se un giovane non “buca” al primo tentativo, non avrà mai più la possibilità di un'altra chance. Le poche etichette rimaste faticano tantissimo a promuovere i loro affiliati, perché i costi sono proibitivi e la maggior parte delle radio, paradossalmente, non è più al servizio della musica, bensì di chi ha la forza economica di “comperare” spazi pubblicitari. D . – Quali, a suo parere, i giovani autori più interessanti nel nostro panorama? R . – Proporrei dei nomi che nessuno conosce…


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D . – E dei “talent show”, allora, cosa pensa? R . – Non li seguo molto, ma noto che alle volte il giudicato sia meglio del giudicante. E questo mi sembra quantomeno imbarazzante. Inoltre non trovo giusto che vengano proposte canzoni eseguite in inglese, così come non mi piace che non siano mai sottotitolati gli autori delle stesse: se ci ricordiamo di nomi come Mogol, Pace, Panzeri, Bigazzi e tanti altri che hanno fatto la storia della musica italiana, è perché qualcuno ce lo ricordava. Adesso, anche le radio, a malapena, annunciano il nome del cantante. D . – Che vuol dire avere talento? R . – Il talento, non necessariamente artistico, è un dono del cielo. E penso che ognuno di noi ne sia dotato. La fortuna è scoprirlo e avere la possibilità di coltivarlo. D . – A “Sanremo” come solista manca dal '94: ci tornerebbe? R . – Ci tornerei perché è rimasta l'unica “vetrina” per poter rapidamente arrivare al grande pubblico: ma, non avendo contropartite da offrire, se non la musica che mi riguarda, non penso che una figura come la mia possa interessare gli organizzatori. D . – Farebbe un duetto con Lisa Angelillo (protagonista di “SOLO TU!”), visto che meriterebbe, dopo tanti successi

teatrali, il palco dell' “Ariston”? R . – Ho già avuto il piacere di duettare con Lisa Angelillo: brava, bella e simpatica. Certo che meriterebbe una bella apparizione al “Festival”, cosa che le augurerei con tutto il cuore. E se dovesse avvenire potrei, a lei piacendo, scriverle una canzone degna del suo talento e anche cantarla insieme. Perché no? D . – Cosa si aspetta da “SOLO TU!”? R . – Penso che “SOLO TU!” abbia il potenziale per diventare un “cult” che duri nel tempo, così come lo sono molte delle canzoni che ne fanno parte. Ecco: diciamo che mi farebbe tanto piacere se ciò avvenisse. D . – Cosa vorrebbe leggere sul suo “pop-musical”? R . – Che ha divertito, emozionato, commosso e fatto riflettere. E che ha consentito di trascorrere tre ore con il cuore contento. D . – Quando un nuovo disco? R . – Viviamo un tempo in cui ci sono più persone che fanno dischi rispetto a chi li acquista. Però non ha neanche senso continuare a scrivere musica e tenerla nel cassetto. Per cui penso che in primavera potrei pubblicare un album di belle canzoni, per fare un dono a chi mi stima e segue da tanto. Gianluca Doronzo

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Teatro Duse


TEATRO

Prosegue con attestazioni di pubblico e critica la stagione di prosa, diretta artisticamente con coraggio da Mia Fanelli, fra pièce classiche e innovative

Due spettacoli “corali”, con un ritmo in crescendo, accomunati da un preciso leitmotiv: l'adattamento e la regia di Alfredo Vasco, fra i più autorevoli esponenti della sfera drammaturgica (non solo) pugliese. Location: il teatro “Duse” di Bari, per la direzione artistica di Mia Fanelli (coraggiosa e puntualmente attenta alla promozione delle leve più promettenti della scena attuale), all'insegna di una stagione “classica e innovativa” allo stesso tempo, con buone attestazioni di pubblico e critica.

Al Duse di Bari in scena la coralità, con adattamento e regia di Alfredo Vasco (da «La Traviata» di Verdi a «Liolà» di Pirandello)

“La Traviata” – Messa in scena in occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi (con riferimenti al libretto di Francesco Maria Piave, “ripescando” da “La signora delle c a m e l i e ” d i D u m a s ) , p r o d ot t a d a “ E s p re s s i o n i Contemporanee”, si è sviluppata per quattro atti (due dei quali è come se fossero uno solo), con suddivisioni di “buio” fra una pausa e l'altra. Visivamente d'impatto (costumi di Annamaria Deflorio, ambientazione di Michele Puntillo e coreografie di Mimmo Iannone) ha, ad onor del vero, rivelato il suo autentico valore aggiunto nella protagonista: Antonella Carone, nei panni di una “Violetta” credibile, intensa, ricca di suggestioni e decisamente poetica, fino ad un epilogo struggente. Dignitosa anche la presenza di Patrizia Labianca (lodevole il suo aver sostituito una “titolare”, assente per malattia), Stella Addario, Luana Loiacono e Cristina Siciliano (verosimile nei movimenti e nell'interpretazione della zingara: peccato il suo sia un piccolo intervento!). Meno, ad onor di recensione, convincenti le performance maschili, ad eccezione di Mauro Milano e Loris Leoci. Da smussare la trovata degli interventi angolari in platea, rischiosi (alla lunga) per l'economia generale del lavoro e, soprattutto, delle istanze legate alle dinamiche di fondo. Molto intensi, da un punto di vista stilistico, i “racconti” di gruppo (con musiche sincere e originali che, però, a tratti sovrastano il recitato). “Liolà” – Ritenuta “la più giocosa” delle commedie di Pirandello (scritta prima in dialetto e poi in italiano), ha convinto dall'inizio alla conclusione dei tre atti per una ragione essenzialmente: la pulizia espressiva, elegante e sentita dei protagonisti, avversando slabbrature e pedanteria. Buona la resa (a dispetto de “La Traviata”, dove nell'incipit appare più sincopato e non “in ruolo”) del protagonista, Antonio Marzolla: dalla platea al palco si destreggia con disinvoltura, non peccando mai di eccessi anche nello slang “siculo”. Meritevoli: Cristina Angiuli (zia Croce), Barbara Grilli (zia Ninfa/Mita), Claudia Loseto (Tuzza), Caterina Paparella (Ciuzza) e Antonella Radicci (Gnà Gesa). Alfredo Vasco è uno zio Simone misurato e, al momento opportuno, capace di virare registri per far venire fuori tutta la sua passionalità e presenza attoriale. Buoni i giochi di luci e, soprattutto, meno ridondanti e lente de “La Traviata” le pause fra un cambio e l'altro: un dato non irrilevante, ai fini dello sviluppo generale della pièce, favorendo l'attenzione del pubblico, senza creare distacco fra un “segmento narrativo e l'altro”. A ciascuno il suo. Gianluca Doronzo

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Pietro Genuardi


TEATRO - IL MAESTRO

Pietro Genuardi, volto popolare della soap «Centovetrine» nei panni di «Ivan Bettini», firma la regia dello spettacolo «Un bastardo venuto dal sud» (al «Cometa Off» di Roma dall'1 al 6 aprile alle 21), scritto e interpretato dal pugliese Fabio Giacobbe

«Essere artisti oggi vuol dire libertà, mettere in scena quello che si vuole senza condizionamenti e, soprattutto, vivere in maniera autentica»

Stima, amicizia, profonda volontà di credere “nelle potenzialità di una giovane promessa del teatro”. E' quanto Pietro Genuardi (popolare volto della soap “Centovetrine” su Canale 5, nei panni di “Ivan Bettini”) sta dimostrando nei confronti del 32enne pugliese Fabio Giacobbe (autore e interprete), avendo deciso di curare la regia dello spettacolo “Un bastardo venuto dal sud (vita, rinascite e miracoli di Franco Califano)”, al “Forma” di Bari il 22-23 gennaio, proseguendo la tournée fino al “Cometa Off” di Roma dall'1 al 6 aprile 2014 (rigorosamente alle 21). Una carriera autorevole (diplomato al “Piccolo” di Milano nell'87, ha fatto diversi film con Dario Argento, partecipando successivamente a fiction come “L'uomo sbagliato” di Stefano Reali: in questi giorni è sul set della serie “Solo per amore” con Kaspar Kapparoni e Antonia Liskova, fra gli altri), uno spiccato senso di altruismo e, soprattutto, una schiettezza che ne fanno un esponente “fuori dal coro” nel mondo dello spettacolo odierno. Incontrarlo per un'intervista non può che essere un valore aggiunto nel percorso di chi lo sta ad ascoltare: disponibilità, passione nel raccontarsi e tanta propositività verso le future generazioni (“da sostenere con i finanziamenti pubblici, che non devono essere destinati solo a chi ha sempre le spalle coperte”). Domanda – Signor Genuardi, qual è stata la ragione che l'ha motivata a curare la regia dello spettacolo “Un bastardo venuto dal sud” e, soprattutto, com'è nata la collaborazione con Fabio Giacobbe? Risposta – Conosco Fabio da parecchio: ci sono state svariate vicissitudini condivise in passato, in quanto abbiamo un amico in comune, mio socio in un'impresa di comunicazione a Trani che, per fortuna, funziona bene. Di lui ho avuto modo di apprezzare, soprattutto, la persona che, a mio avviso, ha un enorme potenziale. In un secondo momento abbiamo iniziato a scambiarci, artisticamente, delle opinioni in merito al nostro lavoro, anche in relazione al modo in cui ci poniamo dinanzi alle dinamiche stesse che caratterizzano il nostro quotidiano. Detto questo, inutile che io ribadisca quanto sia complicato il periodo nel quale stiamo vivendo: le difficoltà per una produzione sono enormi. Avevamo, tuttavia, la necessità, l'urgenza espressiva, di fare una cosa assieme, in virtù della grande stima che nutro nei suoi confronti, indipendentemente dalla scelta del lavoro che poi abbiamo deciso di rappresentare. Fabio è uno che rispecchia il mio modo di operare: è, secondo me, un appassionato, uno dotato di una buona dose di capacità. Il che non guasta, in una fase in cui le persone si improvvisano attori ogni giorno, svegliandosi soltanto la mattina perché “è sempre meglio che lavorare”, come sosteneva qualcuno più autorevole di me. Già un po' di tempo fa lui aveva paventato la possibilità di mettere su uno spettacolo su Califano, anche perché, devo essere sincero, il vero fan è lui. Mi aveva proposto di curargli la regia, ma ero ancora impegnato in “Centovetrine”. Finalmente, dopo un po', siamo arrivati al punto di collaborare su questo progetto. Trovo, innanzitutto, molto bello il testo perché Fabio, pur non essendo nato come autore, è riuscito a sintetizzare in poche pagine un

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uomo estremamente articolato come poteva essere Califano. Non solo dal punto di vista degli stereotipi per i quali è conosciuto: anzi, quelli “universalmente” ritenuti tali, sono stati proprio non considerati all'interno della sua scrittura. Tanto per farle un esempio: Califano ha avuto problemi di droga? Il racconto che se ne fa in scena (non secondo una mia indicazione, ma per istinto di Fabio), non è certo di uno “che tira su di coca”. Le donne legate alla vita dell'artista sono figure assolutamente eteree, considerandole per il valore che hanno avuto per lui, in merito ad un sentimento puro. Il ritratto in primo piano è quello di un uomo che si innamora, ogni due per tre, ma è sincero. Non si affrontano aspetti legati ad un certo tipo di ambiente di Roma e Milano, alla gente con cui veniva in contatto o al suo essere vicino, nel bene o nel male, alla “Banda della Magliana”, o alla delinquenza romantica, di stampo meneghino. E' l'istantanea di un uomo con sentimenti

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meravigliosi, che vengono soprattutto sublimati dai pezzi stupendi che ha scritto, delle autentiche grandi poesie. Tant'è che il Califfo è stato cantato dai più grandi artisti in Italia. D . – Uno spettacolo come il vostro in che modo si colloca nel panorama teatrale odierno? R . – Come, innanzitutto, la volontà di fare qualcosa che ci piace. Punto. Detto questo, se poi lo si vuole inserire in un contesto o farlo diventare qualcosa di più, mi auguro sia tutto a favore nostro. L'importante è fare una cosa che mi sento di portare avanti, di cui ho il piacere di curare la regia. Non c'è l'ambizione di incassare milioni di euro, di diventare famosissimi o di farlo acquistare dai teatri più illustri in assoluto. E' un lavoro assolutamente delicato, dignitoso, che rispecchia la volontà di essere veramente artisti. Quella è la cosa piacevole. E' uno spettacolo sincero, come lo era Califano: siamo dinanzi ad un testo dove si dice “pane al pane e vino al vino”. D . – Ha citato spesso finora il termine “artisti”: cosa significa esserlo oggi? R . – Non avere tessere di partito, non essere vincolati all'imposizione (o obbligo) di qualcuno che ti dica cosa devi o non devi fare. Essere liberi. Anche Caravaggio nel '500 è sempre stato un uomo dissoluto, che non si legava a nessuno e andava contro il sistema: è stato un grandissimo, litigava per le piazze di Roma, ha rischiato di essere accoltellato dalla mattina alla sera, però veniva considerato dall'alto clero “un enorme artista”, benché fosse una persona dissacrante e scomoda. Califano, pariteticamente, era un uomo scomodo, con tanti aspetti positivi: noi, non porgendo il fianco ad alcuno, lo raccontiamo per la sua natura, nel suo essere “fuori dal coro”. Poi quello che succederà, succederà. D . – Quanta attenzione c'è da parte del teatro oggi nei confronti dei giovani autori o, anche, verso le nuove leve attoriali? R . – Per quanto ne sappia, esistono rassegne fini a se stesse: ci sono rapporti interpersonali che, attraverso la connivenza di uno con l'altro, ti possono permettere di avere l'idea che ci sia una grande considerazione attorno ad un'opera. Ma, in realtà, sulla vera libertà di espressione c'è pochissima attenzione. Ogni cosa nel teatro è finalizzata ad un tornaconto di qualcuno o qualcosa. Tant'è che Fabio si sta letteralmente dissanguando per la realizzazione del suo spettacolo. Lo stesso per quel che riguarda me: 4 anni fa ho fatto la mia ultima prova teatrale ed è andata bene da un punto di vista di pubblico ma, naturalmente, non sono riuscito a recuperare le spese. Ho avuto, tuttavia, la soddisfazione di aver fatto una cosa che era completamente mia e che interessava fare a me come “artista”, anche se non mi piace usare un simile termine, perché di solito è abusato e viene interpretato (o utilizzato) male. Questo è l'unico modo per sentirsi liberi in un ambiente, o in una professione, dove ci sono troppi diktat. D . – Lei si è formato al “Piccolo” di Milano: quali ricordi ha e un insegnamento del Maestro Strehler? R . – Guardi, io ho avuto un periodo difficile al “Piccolo” di


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Milano, nel senso che nell'86-'87, quando mi sono diplomato, era un momento particolare: sembrava che per essere “un artista vero” si dovesse semplicemente girare con la dolcevita nera e un paio di pantaloni di vigogna sformati sul ginocchio, perché questo era lo stereotipo. In funzione del fatto che il Maestro Strehler usava vestirsi così e, di conseguenza, tutti dovevano adeguarsi a questa regola. In realtà non è stato così. Ho un aneddoto da raccontare, che non ho mai detto a nessuno: mi sono diplomato nell'87 e sono andato davvero con quattro soldi a Roma, decidendo di trasferirmi. Ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare nel cinema, di serie b, ma sempre cinema era: film prodotti da Dario Argento, soprattutto per il mercato asiatico. E' andata bene: ho lavorato molto anche all'estero e avevo un grande orgoglio: ogni volta, pertanto, mandavo comunicazione ai miei docenti (o alla gente rimasta al “Piccolo”), dicendo quanto per merito loro ce la stessi facendo. Iniziavo a guadagnare col mio lavoro. Una volta tornato a Milano con grande soddisfazione personale, ho sperato di ricevere considerazione da parte di coloro ai quali tenevo, almeno apprezzando il fatto che avessi raggiunto risultati, rimboccandomi le maniche. Niente, mi sentii dire: “Ah, eccolo qua quello che è andato a fare il cinema a Roma!”. Una doccia fredda. Fui lasciato solo, come un cretino, in corso Magenta, in prossimità del “Piccolo”, sgomento e disarmato. Questo per dirle quanto il teatro dovesse essere fatto e interpretato in un certo modo, studiato secondo precisi criteri, assecondando i loro modi di essere e pensare. Forse, alla resa dei conti, il vero insegnamento interiorizzato è stato quello di “voler fare la mia strada”. Punto. Come dire: “Non ho bisogno di voi, vi sono grato per le indicazioni che mi avete dato, ma ora farò tesoro di alcune cose e altre le dimenticherò”. D . – Televisivamente, se non erro, sta girando una nuova fiction? R . – Sì. S'intitola “Solo per amore” e si tratta di dieci prime serate per Canale 5. Io ho fatto per tanti anni, ad eccezione di alcuni passaggi sporadici in serie come “L'uomo sbagliato” di Stefano Reali, la soap “Centovetrine”. Adesso lavorerò con un cast molto carino: da Antonia Liskova a Kaspar Kapparoni, da Massimo Poggio a Valentina Cervi. Davvero un bel gruppo. Andremo avanti per sedici settimane e speriamo bene. D . – Cosa auspicarsi, infine, per il teatro italiano? R . – Intanto che la maggior parte dei teatri e cinema italiani non diventino dei centri commerciali o, peggio ancora, dei multisala. Spero che non si impegnino i soldi pubblici, per quel che riguarda il drammaturgico, solo per le grandissime produzioni: bisognerebbe sostenere attività non dico innovative, ma dignitose come il nostro “Un bastardo venuto dal sud”, dando ai giovani la possibilità di emergere e, soprattutto, respirare, non dissanguandosi, dovendo attingere dalle proprie tasche. Ragazzi, non possiamo pensare che la recente alluvione in Sardegna possa risolversi con una donazione pubblica, attraverso 2 euro dati con un sms, in un momento di crisi in Italia come quello che stiamo vivendo. Non è giusto. Non si può andare avanti, ritenendo che il teatro

venga sovvenzionato dalle amicizie dei papà, zii e negozianti, pronti ad aiutarti per stima o favore personale, pur di far emergere il figlio giovane dell'amico o dell'imprenditore. Le nuove leve dovrebbero avere la possibilità di essere sostenute, anche solo minimamente. Gli Enti preposti non devono solo preoccuparsi di dare cento milioni di euro ai teatri per la lirica, perché devono pagare l'illustre direttore d'orchestra, la grande cantante o la scenografia straordinaria. Ci sono degli spettacoli che, anche in sordina, possono essere gradevolissimi: di recente, ad esempio, a Roma ne ho visto uno comico con Paolo Macedonio. Esilarante, dal ridere fino alle lacrime: eppure da 3 anni gira in piccoli centri, in attesa di una chance importante. Il nostro, in antitesi, è il racconto di una storia bella, che è il caso la gente inizi ad apprezzare proprio in relazione alle sfumature che Fabio Giacobbe abilmente ha messo su. Venire a vederci è il minimo che si possa fare. Gianluca Doronzo

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Fabio Giacobbe


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Il promettente e poetico attore 32enne pugliese sarà al «Forma» di Bari il 22 e 23 gennaio (ore 21), come interprete e autore di «Un bastardo venuto dal sud», per la regia di Pietro Genuardi (popolare «Ivan Bettini» in «Centovetrine» su Canale 5)

L'anno zero di Fabio Giacobbe con uno spettacolo su Franco Califano, convinto che «se fai cresce il coraggio, se non fai cresce la paura»

I suoi occhi trasmettono profondamente la passione per quello che fa: non ha mezze misure e, soprattutto, si racconta con onestà intellettuale, trasporto e tanta, tanta “voglia di fare” (il che lo pone decisamente in pole position fra le nuove leve del teatro). Il 32enne pugliese Fabio Giacobbe (una formazione romana, numerose pièce in Italia e all'estero, fiction ed una partecipazione nel film “Manuale d'amore 3” di Giovanni Veronesi) “riparte da zero” con uno spettacolo “cucito su misura”: stiamo parlando di “Un bastardo venuto dal sud (vita, rinascite e miracoli di Franco Califano)”, da lui scritto e interpretato, per la regia di Pietro Genuardi (il popolare “Ivan Bettini” della soap “Centovetrine” su Canale 5). In tournée a gennaio al “Forma” di Bari (dal 22 al 23) e il 31 al “Politeama” di Bisceglie, proseguirà il 7 marzo, fra l'altro, al “Norba” di Conversano e dall'1 al 6 aprile al “Cometa Off” di Roma, rigorosamente alle 21. Sul palco (in compagnia di una cantante e di un musicista) la “trama di un uomo, al di là del personaggio”, con echi poetici, romantici e tanti aneddoti curiosi legati al celeberrimo artista. L'occasione per uno scambio di battute è dettata dalle prove, a casa del protagonista: preparatevi ad “assistere” (perché è il verbo più appropriato) a scene di sano divertimento fra l'attore, il giornalista e il regista (pronto ad intervenire, di tanto in tanto, con uno spiccato humour). Si alzi il sipario! Domanda – Fabio, a che punto del suo percorso si colloca lo spettacolo “Un bastardo venuto dal sud (vita, rinascite e miracoli di Franco Califano)”? Risposta – Rappresenta l'anno zero: questo spettacolo è per me il punto di partenza. Non so, ma mi sento diverso, avverto che finalmente ho trovato la strada giusta, la quadratura del cerchio. Comincio tutto nuovamente a 32 anni (ne avevo 31, per la precisione, quando l'ho messo a punto). E poi, come ripeto sempre: “Voglio fare Califano tutta la vita”. Sa quanti paesini ci sono in Italia? Io voglio andare ovunque. D . – Perché? R . – Perché è giusto che si sappia e conosca, soprattutto, un lato di Califano ignoto alla maggior parte della gente: sto parlando degli aspetti legati alla persona romantica, all'uomo, al “bastardo” che riesce a scrivere delle cose grandiose per le donne. Penso alla Vanoni, a Mina (per la quale ha ideato un album intero), che è stata una delle poche, quando lui fu in carcere, a mandargli una lettera. Mi viene in mente Mia Martini, in una sorta di sinergia “benzina e fuoco”: due personalità che si accendevano e hanno fatto un paio di canzoni entrate nella storia della musica italiana (“Minuetto”, che è incredibile e “La nevicata del '56”). Il mio obiettivo è quello di raccontare l'aspetto che va “oltre le quinte”, visto che purtroppo il personaggio è sempre stato predominante nella vita di Califano, tranne alla fine, negli ultimi 4/5 anni della sua vita, quando è venuto fuori l'autore e ci si è accorti che c'era ben altro “dietro le apparenze”. In molti, quando finisco le repliche, vengono nei camerini a dirmi: “Ah, ma non sapevo Califano avesse fatto questo e scritto quello!”. Nessuno, ad esempio, potrebbe mai immaginare che Peppino Di Capri, con quell'aria

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da bravo ragazzo, pulito, con gli occhialini, vincesse “Sanremo” con “Un grande amore e niente più”, scritta proprio da Franco. Il “bastardo” Califfo con un ragazzo perbene: una sinergia dietro la quale ci sarebbero aneddoti lunghi da raccontare. I due, ad esempio, non si sono mai incontrati. Lo scambio di fogli avveniva di notte, quando Franco metteva sotto la porta di Di Capri quanto scriveva per lui: dopo la prima, seconda, terza volta, per dirgliene una, è nato quel capolavoro con cui è arrivato primo al “Festival”. Ma, in realtà, non si sono conosciuti di persona. Hanno comunicato telefonicamente. D . – Curioso ascoltare tutti questi aneddoti: se vogliamo, alla resa dei conti, la sua sfida (da giovane esponente scenico) è quella di raccontare teatralmente la storia di una “persona”, distante dal personaggio. R . – Esatto: porto sul palco la vicenda di un uomo, che si è rialzato tante volte. Se lei pensa che, la prima volta in cui è stato arrestato, era con Lelio Luttazzi e Walter Chiari: entrambi si sono ammalati per questa cosa e non sono proprio riusciti a venirne fuori. La seconda è stato arrestato con Enzo Tortora, che ne è morto, pur essendo innocente. Franco no: si è rialzato, è rinato, ha continuato a fare quello che sapeva fare, molto più incattivito di prima, però ce l'ha fatta. Tra l'altro, la seconda volta in cui lo hanno arrestato, nell'anno dei domiciliari, ha inciso un intero disco: non potendo incontrare alcuno, i discografici cosa hanno architettato? Avevano messo un furgone, fuori dalla villa in cui si trovava e gli hanno passato i fili del microfono, fin dentro, arrivando al salone. Immaginate, pertanto, la situazione: lui che canta con 'sto microfono nel suo salone, da solo, e quelli che registrano fuori, no? Anche questo è stato Califano: mentre gli altri si sono arresi dinanzi alle difficoltà, lui è rinato sempre, sempre, sempre. D . – Quali difficoltà, onestamente, nel portare avanti un progetto come il suo, avendo ribadito che rappresenta un “ripartire da zero”? R . – Le difficoltà sono non nel progetto in sé, che a tutti piace molto ed è accolto con entusiasmo: anche, per così dire, gli “esercenti” lo comprano con volontà. Bensì nel fatto che, essendo ripartito da zero, dovendo fare tutto da solo (non potendomi permettere ancora collaboratori), sono costretto a curare tutti gli aspetti. E, in franchezza, non è un gioco da ragazzi. Quindi, se avessi magari un po' di tempo libero, sarei capace di vendere più spettacoli rispetto a quanti ne sto confezionando ora. Tuttavia sta andando bene così, sto lavorando (per fortuna), ma le spese sono tante e, non avendo ancora il dono dell'ubiquità (prometto che mi sto impegnando per riuscirci), mi trovo in difficoltà perché, a volte, vorrei essere in un altro luogo da quello in cui sono. Fatto sta che in questo momento è complesso avere qualcuno che ti aiuti, anche perché tutti vogliono fare, tutti vogliono fare, ma alla fine non fa niente nessuno. Mi lasci passare il termine: non hanno voglia di fare un cazzo in giro. D . – Esatto, Fabio: siamo circondati solo da parole e chiacchiere, ma quando bisogna agire si tirano tutti indietro. La capisco perfettamente. E sa qual è la verità? Manca il coraggio

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delle idee. R . – Esatto, esatto (e interviene il regista, Pietro Genuardi, sostenendo: “Scusi se mi intrometto, ma credo lui si riferisca proprio alla manovalanza bieca: c'è gente che rimane a casa, a non fare niente, perché è meglio che andare a lavorare per un amico, aiutandolo in un'operazione. Purtroppo vige il diktat secondo cui se non trai profitto, non ti muovi”, ndr). Caro Gianluca, tanti anni fa i 99 Posse cantavano: “Voglio o salario garantito”. Loro facevano il discorso per cui “tutto è di tutti”. Però, forse, quel salario garantito lo vogliono tutti, a prescindere, che è diverso dal discorso filo URSS, prima della caduta del muro di Berlino. D . – Perché, Fabio, hanno paura a mettersi in discussione, in quanto è più comodo rimanere chiusi nel proprio metro quadro. R . – E' così. Io faccio prima a farla una cosa, che non a spiegarla, perché se la spiego, ci si mette troppo a comprendere. Se fai cresce il coraggio, se non fai cresce la paura. Ora sono veramente pieno di debiti, ma non me ne frega niente, perché sto credendo in un'idea, fortemente. Non voglio fare un paragone azzardato, però se pensiamo a Steve Jobs, ha investito tutto se stesso nelle sue idee ed è stato vincente. Io ci sto mettendo l'anima in uno spettacolo che, chiaramente, è ben diverso, puntando fondamentalmente sulle mie risorse. Che poi sia “Un bastardo venuto dal sud” o “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare, piuttosto che “La locandiera” di Goldoni, a me non importa: basta solo che io creda nel mio progetto e convinca chi ho davanti, perché se sono io il primo a non crederci, tu non ti convinci di ciò che vedi. Ecco perché le dico: hanno tutti paura. Però più non fai, più aumenta la paura; più fai, più hai il coraggio. D . – La sinergia con Pietro Genuardi è sinonimo di coraggio e supporto amichevole, no? R . – Esatto. Guardi, Pietro è una delle poche persone famose che io abbia conosciuto, capace di non mettere l'invidia fra me e lui (e aggiunge il regista: “Anche perché io sono molto più bello e giovane”. E si riprende dopo una risata comune, ndr). Ha capito che, non con me ma in generale, due teste pensano meglio di una e si può essere un valore aggiunto: avere accanto un'altra persona può dare velocità e scaltrezza, senza nulla togliere a quello che sei. Tuttavia questa verità non l'ammettono in molti, soprattutto in questo momento storico in cui il lavoro è poco: è come se gli altri, affiancandoti, ti volessero fottere. No, non è vero: se fai squadra, sei vincente: tre teste pensano meglio di due. Dico questa cosa e la ripeterò fino all'infinito: se pensiamo ai toscani, quelli divenuti famosi erano tutti amici da piccoli. E sono usciti tutti, dico proprio tutti: non solo i Pieraccioni, Veronesi, Conti e Panariello, ma anche i Monno, Pace e Benvenuti. Sono riusciti a fare squadra. I “Teatri Uniti di Caserta”, di Servillo, Renzi e Martone, fanno ben 300 spettacoli l'anno. Servillo sappiamo che è un mostro, ma lo era anche prima e, se per un periodo non fa film, affronta ben 200 repliche teatrali in una stagione e fa l'Attore con la maiuscola. Il dato di fatto è che è supportato da un gruppo di


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lavoro importante. Poi lo devi ammettere che è più bravo di te, quindi non puoi provare invidia: se un giorno mai mi capitasse di essere al suo fianco, non potrei far altro che imparare, “prendere” inevitabilmente un po' della sua luce e non esserne offuscato, perché è oggettivamente più bravo e basta. Purtroppo in Puglia, soprattutto a Bari, c'è tanta, ma tanta invidia. D . – E, soprattutto, domina il provincialismo. R . – Ce n'è troppo, troppo. Per questo se uno vuole fare squadra non può, perché vuole fare i cazzi suoi (mi lasci passare nuovamente il termine) e stanno tutti attaccati alla mammella dello Stato. Ragazzi, fra 4/5 anni i finanziamenti governativi finiranno e voglio vedere: cosa si farà? Quest'anno ha visto cosa è successo a Bari? Hanno chiuso tre teatri e non si sa più dove andare. D . – Il fatto è che i teatri rimasti (ad eccezione di pochi come il Duse) sono molto claustrofobici e portano avanti solo ed esclusivamente le proprie compagnie. R . – Certo, tranne il Forma, se ci pensa: non ha finanziamenti e chiude in attivo. Io sfido a trovare un teatro in Italia, Stabile compreso, che non chiuda in passivo con la crisi che c'è. Ed è assurdo, perché al Forma rischiano con i propri soldi. Tutti gli altri aspettano i finanziamenti dallo Stato, ma non c'è trippa per gatti. Io, ad esempio, sto rischiando del mio e la soddisfazione è molto più grande di qualsiasi altra. Certo, tutto questo mi fa paura, non dormo la notte, sto pieno di debiti: non fa niente, perché sto perseguendo un obiettivo anima, corpo, cuore, mani, piedi, corde vocali, occhi e tutto il resto. Le visioni positive generano reazioni positive. E torniamo a ciò che ho detto prima: “Se fai cresce il coraggio, se non fai cresce la paura”. D . – Alla luce della nostra chiacchierata, cosa vorrebbe potesse accadere teatralmente, da giovane esponente? R . - (Prima della risposta, replica Genuardi: “E basta con 'sto giovane. Quello sono io!”. Dopo l'ennesima risata, risponde, ndr) Vorrei portare lo spettacolo, come le ho detto prima, a più persone possibili, facendolo vedere a tutti. Califano era nazional-popolare: la percezione che si aveva di lui negli Anni '70 è la stessa che noi abbiamo oggi dei neomelodici alla Gigi D'Alessio, fatte le dovute proporzioni, ovviamente. Non le dico che vorrei riempire il “Sistina” di Roma o “La Pergola” di Firenze, dove ci sono gli incravattati che vengono a vederti a prescindere. Io vorrei andare a fare tournée ad Acilia, a Statte, a Quarto Oggiaro. Il teatro è di tutti e lo deve essere, perché prima era così: i grandi capocomici, non i divi della televisione, erano osannati per strada come delle star, in antitesi a quanto accade adesso. Bisogna riuscire a fare una politica per contenere i costi: ben inteso, questo non è un discorso comunista o staliniano. Perché per andare a vedere un'opera bisogna spendere 100 euro? Mi dice un po' chi ci va? Però poi

siamo sempre là: lo Stato dà i finanziamenti e si sta in perdita. Lo sa che il Petruzzelli ha un rosso di 18 milioni di euro l'anno? Che diamine: diamogli un imprenditore qualsiasi, che rischi di suo, e stia pur certo che le sorti si risollevano. Le persone vogliono andare a vedere quel teatro: è di tutti. E' un luogo che ti tira, un'istituzione: non è concepibile che abbia un simile disavanzo (e Genuardi afferma: “Anche perché dovresti pagare soltanto per vederlo, in quanto di per sé è uno spettacolo”, ndr). Certo, noi italiani siamo ridicoli: io sono andato a Parigi a fare la fila per andare a visitare il “Teatro dell'Opera”. A Milano non credo che un abitante sia mai stato a visitare il “Teatro alla Scala”. Noi ci mettiamo in fila per vedere e toccare, mi lasci passare il termine di colore, i coglioni di un toro a New York. E in Italia abbiamo l'80% del patrimonio artistico e culturale del mondo. Potremmo vivere di questo: cultura, spettacolo, arte e andiamo all'estero per toccare i coglioni di un toro. Io ci sono stato e mi sono sentito un imbecille. Facciamo il diavolo a quattro per andare ad Atene per il Partenone: percorriamo 80 km. a piedi per assistere alla “visione” di quattro colonne storte. Siamo il popolo delle contraddizioni (e Genuardi: “Pensate che Paestum ha i due tempi greci meglio conservati al mondo, più del Partenone e non lo sa quasi nessuno”, ndr). E noi, detto questo, dovremmo stare a casa a fare nulla? Ma per favore. Mi scusi se mi sono infervorato: sono sembrato un po' troppo politico (e ride, ndr)? D . – Assolutamente no: Fabio, lei è stato semplicemente se stesso. Dulcis in fundo: Longanesi sosteneva che “un'intervista è un articolo rubato”. Cosa le è stato sottratto durante questa chiacchierata? R . – (Guardando negli occhi l'interlocutore, con un po' di sgomento e disorientamento, ndr) Questa intervista diventerà un articolo (e Genuardi chiosa, con aria simpatica e divertente: “Minchia, meno male che non l'ha fatta a me questa domanda. E' tremendo 'sto ragazzo!”, ndr)? D . – (Conclusa la risata, ndr) Certo che diventerà un articolo. R . – (Tornando seri, ndr) Gianluca, non mi ha sottratto niente, perché se le cose che le ho detto dovessero anche arrivare ad una sola persona, vorrebbe dire che io ho vinto. E lei ha perso (e ride, ndr). D . – E no, vorrebbe dire che abbiamo vinto entrambi. R . – Scherzo, scherzo (e si continua a ridere, ndr). D . – Abbiamo vinto entrambi e vuol dire, soprattutto, che lei non riparte più da zero, ma è al livello uno. R . – Esatto, sono già a più uno. D . – Segno che la complicità è stata vincente. R . – Giusto: ha visto? Ecco che torna la teoria del “fare squadra” per vincere (e l'intervista si conclude con una risata comune e una stretta di mano, ndr). Gianluca Doronzo

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Betty Lusito


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Canta, danza, recita: tutti i colori dell'universo di Betty Lusito (originaria di Terlizzi, ma «cosmopolita» d'adozione), dagli esordi con Eugenio Bennato al gruppo Omphalos, ricordando Vito Signorile

«Amo la musica di tradizione popolare e la difendo da interprete: in futuro mi piacerebbe pubblicare un cd ed affrontare un ruolo comico a teatro»

Canta, danza, recita. L'universo di Betty Lusito (originaria di Terlizzi, in provincia di Bari, ma “cosmopolita” d'adozione) è ricco di colori, sfumature e talentuosità (“la musica ha fatto parte di me fin da piccola e i miei genitori, avendolo subito capito, mi hanno motivata allo studio del pianoforte e canto: devo a loro molto. Il teatro è stato un qualcosa di inaspettato, nel senso che in un momento della mia sfera personale, in cui ero molto giù, ho deciso di reagire, iscrivendomi ad un corso e da quell'istante non l'ho mai più abbandonato e non lo tradirò mai”). Scoperta e valorizzata nell'ambito della musica di tradizione popolare da Eugenio Bennato (“dal 2000 al 2003”), ha lavorato e fatto tournée all'estero con il gruppo “Omphalos” (vincendo assieme al fratello anche l' “Eurofolk” di Malaga nel 2007), affiancando in contemporanea da ben 12 anni l'Abeliano di Bari (“devo dire grazie a Vito Signorile, Tina Tempesta, Enzo Vacca e Roberto Petruzzelli”), spaziando con agio dal teatro-ragazzi a testi più drammatici (come il recente “Annie & Jennifer”). Con passionalità (e un sorriso disarmante) fa il punto della situazione sulla sua giovane vita artistica, non omettendo un obiettivo: “Realizzare un giorno un cd e interpretare un ruolo comico”. Che stia per nascere una nuova Monica Vitti? Domanda – Betty, lei è una fra le artiste più poliedriche del panorama pugliese: canta, danza e recita, con attestazioni internazionali. Se dovesse, in poche parole, sintetizzare quanto le è accaduto nel mondo dello spettacolo fino ad oggi, cosa risponderebbe? Risposta – Nasco, in realtà, come cantante, in quanto fin da piccola mi sono avvicinata alla musica popolare, soprattutto pugliese. In un secondo momento, mi sono data alla danza (avendo basi già di classica e moderna) tradizionale, visto che mi piaceva molto: la pizzica, ad esempio, è stata “amore a prima vista”. Tutto ciò mi ha fatto arrivare ad un punto in cui, veramente per caso, c'è stato qualcuno che si è accorto di me. D . – Di chi stiamo parlando? R . – Del maestro Eugenio Bennato: un giorno mi vide ballare ad un suo concerto e mi chiese il numero di telefono. In seguito ci siamo sentiti e da lì è partita la nostra collaborazione, che è durata per ben tre anni. E veramente mi ha dato molto: si è trattato di un'esperienza di vita, musicalmente molto forte. Ho calcato palcoscenici importanti, anche internazionali. D . – Ci stiamo riferendo a quali anni? R . – Diciamo che stiamo parlando della mia formazione, più o meno dal 2000 al 2003. E' stato un periodo forte, in quanto venivo da un percorso classico, avendo studiato pianoforte e fatto gli esami al Conservatorio, assieme al perfezionamento del canto lirico. Però il “verme” che era dentro di me era legato alla musica etnica, a quella del Mediterraneo e grazie ad Eugenio tutto ciò è venuto fuori, forse più velocemente di quanto pensassi. Da questo punto di vista è un grande maestro. D . – Un insegnamento di Eugenio Bennato interiorizzato nel tempo? R . – L'amore viscerale per il cantautorato pugliese. Mi ha fatto

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amare Matteo Salvatore, fino all'incredibile, assieme a coloro i quali sono legati alla nostra musica tradizionale, senza escludere il patrimonio del Sud Italia. Eugenio, in realtà, adora tutto ciò che ha a che fare col Mediterraneo. Ha motivato in me la scoperta di un universo che, onestamente, non conoscevo. D . – Il suo, dunque, è stato un percorso caratterizzato molto dalla difesa della tradizione popolare, sia nel canto che nella musica. R . – Assolutamente sì. Ancora adesso continuo nella mia missione. D . – Una decisione, se vogliamo, un po' controcorrente, soprattutto per una giovane promessa. R . – Bello quello che dice e, a dire il vero, mi viene anche ripetuto da diverse persone con cui vengo in contatto: mi piacciono cantautori legati alla nostra tradizione, anche anziani, e adoro tutto quello che è affine al melodico. C'è una poesia incredibile, ad esempio, nei testi dialettali. Ciò io l'ho “assorbito” proprio da Eugenio: lui mi ha fatto amare il canto popolare ed io, forse questa è la prima volta in cui lo ammetto, mi reputo un'interprete, a prescindere da tecnica, impostazione vocale e molto altro. Ho compreso la mia natura, solo studiando con illustri maestri, anche al Conservatorio. Mentre interpreti, ritengo ti emozioni tu ed emozioni gli altri, assimilando il testo e facendone poesia.

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D . – Non solo controcorrente nella difesa della tradizione popolare, ma anche nella definizione di se stessa come interprete: oggi vogliono fare tutti i cantautori, scrivendo quello che propongono. E, teatralmente parlando, vogliamo dire che è anche “controcorrente”? R . – (Dopo una risata comune, ndr) Lei pensa io sia “controcorrente” a teatro? D . – Secondo me ha fatto scelte “fuori dal coro”. R . – In merito all'esperienza teatrale, in realtà io metto in primo piano la drammaturgia per ragazzi, perché è qualcosa che ancora oggi animo dopo ben 12 anni che sto sulla scena. Adoro lavorare con i bambini. E' un genere che, scenicamente, trovo molto “nelle mie corde” (utilizzo un termine che si usa, soprattutto, quando si canta). I piccoli ti danno tanto e, forse, gli aspetti che riguardano il loro universo sono ancora poco valorizzati. Detto ciò, ringrazio chi mi ha dato la possibilità di fare teatro per tanto: in primis l'Abeliano, col quale vado avanti a lavorare da ben 12 anni. A seguire: Tina Tempesta, Enzo Vacca e Roberto Petruzzelli, i miei maestri di sempre, grazie ai quali mi sono avvicinata al teatro-ragazzi e poi ho anche fatto altro. Ad esempio, ho avuto esperienze di teatro musicale, anche nella forma di musical, e in più quest'anno ho affrontato persino ruoli un po' diversi da quelli fatti in precedenza, un po' più drammatici. Vito Signorile mi ha offerto la chance di prendere parte a “Annie & Jennifer”, in ripresa di recente. D . – Riflettendo sulla sua espressività completa, per il fatidico “salto di qualità nazionale” ritiene ci siano pregiudizi nei confronti dei pugliesi, oppure bisognerebbe prendere il coraggio a quattro mani ed esclamare: “Ok, adesso prendo la valigia e vado”? R . – Questa è una bellissima domanda. Rispetto alla mia esperienza, posso dire che quando sono stata fuori dalla Puglia, mi sono resa conto che anche un nostro conterraneo può davvero “spaccare”, detto in maniera esplicita. Eugenio Bennato ne è stato la dimostrazione, avendo creduto in me. Con i suoi concerti, in Italia e all'estero, faceva davvero migliaia di proseliti. Il Sud e la Puglia, nello specifico, hanno dato i natali davvero a tanti artisti: c'è molta sensibilità da noi. In merito alla questione del pregiudizio, credo sia più una chiusura nostra nel non riuscire a vedere l'arte a 360°, rendendola fruibile a tutti. Viene, forse, vista ancora un po' come qualcosa di nicchia. Magari ci sono in giro tanti ragazzi talentuosi, che non sanno come fare e dove andare, anche perché spesso i luoghi di cultura hanno chiuso i battenti (tanti teatri a Bari, ad esempio) o si è limitati verso le novità. D . – Non ritiene, pertanto, ci sia troppo provincialismo in Puglia? R . – E' giusto sprovincializzarsi, però a me farebbe tanto piacere portare delle novità proprio nella mia terra, piuttosto che altrove. Al pubblico bisogna dare tanto e c'è chi, come lei Gianluca, sta già facendo molto perché le cose cambino, attraverso romanzi, spettacoli, libri ed avventure editoriali, solo con le proprie forze. D . – Col coraggio delle idee, cara Betty, si può vincere, anche


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in una terra spesso ingrata, che ti volta le spalle, se non sei “nel giro giusto, fra i soliti noti”: vogliamo, ad esempio, parlare del fatto che a Bari c'è una sorta di chiusura teatrale nei confronti dei giovani, portando avanti sempre “le solfe trite e ritrite”? R . – Certo. Infatti io mi reputo abbastanza fortunata, perché da ben 12 anni lavoro con l'Abeliano, che crede fortemente in me. Purtroppo, come giustamente dice lei che da anni si sacrifica per tutti noi artisti, non sempre è così. Forse un giorno l'attenzione verso i giovani sarà potenziata e Bari diventerà davvero una fucina di talenti, a cui dare una ribalta, con giuste location e opportunità. Io amo il teatro, per me è fondamentale, nel senso che adoro il contatto col pubblico, in quanto non mi piace molto il cinema (vado a vederlo, ma non mi ci vedrei come interprete). Anche televisivamente, non mi ci colloco. D . – Questo perché, essendo un'interprete, non ama i filtri e le mezze misure, ma il contatto diretto col pubblico e l'emozione. R . – Esatto, per questo non mi sono mai proposta per provini televisivi o cinematografici: non sono ambiti a me consoni, pur essendo per molti stimolanti. Mi basta il teatro. D . – In quale progetto è impegnata attualmente? R . – Sono alle prese col progetto musicale “Omphalos”, assieme a mio fratello: abbiamo fatto tanto in passato e vinto

diversi festival (uno a Malaga, ad esempio, nel 2007). Siamo stati in concerto dappertutto. Il progetto più imminente? Far uscire un nostro cd: ci stiamo lavorando e siamo sulla buona strada. Il nostro auspicio è continuare, anche a livello internazionale, pur non essendo facile. Mentre nell'ambito teatrale, sono anche nella stagione di quest'anno dell'Abeliano di Bari, sia con lavori per ragazzi che per adulti, più uno di teatro popolare. D . – Come vorrebbe, infine, potesse proseguire il suo excursus? R . – Voglio continuare a completarmi e, tra l'altro, lo sto già facendo da un punto di vista musicale, studiando e approfondendo. Teatralmente vorrei crescere sempre di più come interprete di personaggi, non solo drammatici, ma anche comici. D . – Una nuova Monica Vitti fra di noi? R . – (Dopo una risata comune, ndr) Beh, la Vitti mi sembra un po' troppo. Diciamo che forse la comicità ce l'ho più dentro ed è venuta fuori facendo il teatro per i ragazzi, in quanto si mettono a punto spesso personaggi esasperati nei loro aspetti “ridanciani”. Per cui mi viene anche un po' spontaneo il tutto e ci vorrei provare. Gianluca Doronzo

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Pietro Caramia


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L’introspettivo regista e interprete pugliese racconta la sua nuova avventura teatrale, firmando lo spettacolo «Tutto il mio folle amore», scritto da Michele Ciavarella, dall'8 al 10 gennaio a Monopoli (presso «Musica d'attracco», ore 21)

Pietro Caramia e il suo essere «un viaggiatore alla ricerca»: storia di un talento «made in Puglia» con formazione romana ad hoc

“Un viaggiatore alla ricerca”. Così il giovane (e promettente) pugliese Pietro Caramia si descrive alla conclusione di un'intervista trasversale (quasi fosse metaforicamente allo specchio), affrontando le tematiche e gli argomenti più svariati, mostrando sensibilità e una spiccata propensione all'approfondimento. Un curriculum di tutto rispetto, una laurea in Lettere, una formazione attoriale “capitolina”, insegnamenti alla “Orazio Costa” e un amore per il “teatro shakespeariano”. Non solo: col coraggio delle idee, quasi in controtendenza in relazione alla maggior parte dei coetanei trentenni, “ha deciso di tornare nella sua terra”, credendo (“la gente ha fame di cultura”) fortemente nelle sue potenzialità (nei panni di interprete e regista), fino a creare l'associazione “Zingari in viaggio”, mettendo a punto lo spettacolo “Tutto il mio folle amore” (scenografia e costumi di Valentina Dibello), scritto dal cantante e autore Michele Ciavarella, animato anche dall'istrionica Monica Veneziani, in scena dall'8 al 10 gennaio alle 21 a Monopoli (presso “Musica d'attracco”). In primo piano gli aspetti legati alla vicenda biografica di Pier Paolo Pasolini, “coinvolgendo lo spettatore in un percorso emotivo e poetico, fino a riflettere sui giorni nostri”. Domanda – Pietro, dall'8 al 10 gennaio sarà impegnato come regista e interprete nello spettacolo “Tutto il mio folle amore”, scritto dal pugliese Michele Ciavarella. Di cosa si tratta? Risposta – E' un esperimento teatrale sulla figura umana di Pier Paolo Pasolini. Con questo spettacolo vorremmo arrivare a smuovere le coscienze. Ripercorrendo alcuni aspetti della vicenda biografica del celebre poeta, ci proponiamo di attraversare criticamente i temi centrali della contemporaneità, svelando quanto sia attuale il messaggio pasoliniano. L'obiettivo è stimolare lo spettatore ad una profonda analisi, coinvolgerlo in un viaggio emotivo e conoscitivo, allo scopo di “illuminare” l'interiorità di ciascuno con quella splendida lanterna, chiamata poesia. D . – Pier Paolo Pasolini cosa ha rappresentato per lei finora e qual è la collocazione di una simile personalità nella letteratura italiana? R . – Ho conosciuto e intuito la grandezza di Pier Paolo Pasolini ad una mostra, dedicatagli in occasione della “Festa del Cinema” di Roma, qualche anno fa. All'epoca ne sapevo pochissimo. Da quel momento ho cominciato a documentarmi, fin quando mi è venuta in mente l'idea dello spettacolo, parlando del nostro tempo attraverso questa splendida figura. Tuttora Pasolini continua a farmi riflettere e fin dal primo momento in cui mi sono avvicinato al suo mondo, si sono innescati in me una serie di interrogativi, che stanno modificando molti miei aspetti: innanzitutto il modo di vedere e vivere le cose. Non si può restare indifferenti all'incontro col suo universo. Purtroppo a scuola non lo si studia nella giusta maniera e questo è un vero peccato. Non si tratta solo di un letterato e intellettuale, ma c'è nella sua figura molto di più: è un profeta dei nostri tempi. E' riuscito a descrivere, con largo anticipo, quello che stiamo vivendo oggi. Credo che non sia abbastanza preso in considerazione, rispetto a quello che

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della stessa compagnia teatrale. Col tempo è diventata la mia migliore amica. Ricordo benissimo il momento in cui il nostro rapporto è diventato speciale: fu in una notte di giugno del 2008, nella quale rimanemmo ore e ore a parlare in macchina sua, facendoci delle confidenze reciproche. Il fumo delle tante sigarette consumate quella notte scandì le lacrime, i pensieri, i sorrisi e le emozioni di uno dei momenti più importanti della mia vita. Uso alcune sue parole, che mi piacciono molto, per identificare il nostro rapporto: “Noi non ci siamo capitati, ma ci siamo scelti”. Ho conosciuto Michele, invece, ad un suo concerto: in realtà, in quell'occasione, l'ho solo visto e ascoltato. Ricordo che quella sera riconobbi immediatamente lo straordinario talento di quel ragazzo, dagli occhioni azzurri ed espressivi. In seguito lo contattai ad è nata e cresciuta una bella amicizia tra noi. Ho subito riscontrato una spiccata sensibilità nella sua persona. Per definirlo artisticamente e umanamente, mi piace utilizzare la stessa frase che Moravia ha usato nei confronti di Pasolini: “Una persona di quelle che ne nasce una ogni cento anni”. Michele è un grande talento della scrittura e del canto e, oltre a queste due arti, il nostro

dovrebbe rappresentare. Anzi, è quasi accantonato. D . – Quali i suoi autori preferiti, sia a livello teatrale che letterario? R . – A livello teatrale sono un grande appassionato di Shakespeare: dal mio punto di vista ci ha regalato testi che tutt'oggi, a distanza di oltre 400 anni, hanno ancora molto da raccontare, affrontando tematiche di ogni tipo, in maniera molto incisiva, con estrema attualità. La cosa importante, a mio parere, quando ci si avvicina ad un testo shakespeariano, è riuscire a cogliere una inesauribile fonte tematica, studiando messe in scena innovative, proprio per rendere giustizia alla straordinarietà degli stessi testi. Mi piacciono moltissimo anche Pirandello e Jean Paul Sartre. Poi ho una grande predilezione per la poesia: fra i miei preferiti figurano Baudelaire, Ungaretti e Neruda. D . – Ad accompagnarla sul palco in “Tutto il mio folle amore” saranno l'attrice Monica Veneziani e il cantante/autore Michele Ciavarella: in che modo è avvenuto il vostro incontro e un aggettivo per entrambi? R . – Ho conosciuto Monica parecchi anni fa. Facevamo parte

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spettacolo lo vedrà impegnato in alcune parti recitate. Anche se sul palcoscenico siamo solo in tre, c'è un'altra persona importantissima che fa parte di noi: si tratta di Valentina Dibello, una giovane scenografa e costumista. Ho già lavorato in passato con lei, nella versione contemporanea di “Amleto”, di cui sono stato regista e attore. Devo dire che il suo talento e la genialità mi sorprendono sempre. Riesce a restituire, attraverso un lavoro accurato, i giusti significati che si vogliono veicolare negli spettacoli interpretati. Per “Tutto il mio folle amore” sta lavorando ad una scena, che io considero innovativa e funzionale, dandomi molteplici possibilità di scelta nel lavoro registico che mi accingo a fare. Io, Monica e Valentina, inoltre, abbiamo da poco fondato un'associazione, intitolata “Zingari in viaggio”. D . – Dalle sue origini pugliesi si è, negli anni, trasferito a Roma per completare la sua formazione a livello attoriale: qual è la situazione nella “caput mundi” nella sfera sia teatrale che recitativa? R . – Roma, come tutti possono immaginare, offre tantissimo a chi si occupa di teatro. Sia per chi lavora in quest'ambito che per chi è spettatore. Certo, è un momento difficile per la cultura, in generale, e quindi anche per il teatro. Io penso che ci sia, in questo periodo storico di crisi, un circuito di teatri off e sperimentali, pronto ad offrire opportunità maggiori. Il tutto per una ragione: forse si pensa più alla qualità e meno agli aspetti commerciali. D . – Con coraggio, lei ha deciso di tornare in Puglia: una scelta quasi controcorrente, no? R . – La Puglia sta diventando in questi ultimi anni un luogo in cui si può lavorare bene, artisticamente parlando. Certo, bisogna avere tanto coraggio, forza di volontà e, soprattutto, è necessario credere in se stessi, nelle proprie idee, non arrendendosi mai. Solitamente tutti quelli che si occupano di teatro e cinema tendono ad abbandonare la nostra terra, dirigendosi a Roma. Io ho studiato nella capitale e sto tentando di portare nella mia regione quello che ho imparato, magari sfruttando al meglio il bagaglio che ho acquisito nei miei anni di formazione. Fermo restando che si è sempre in cammino e la formazione per un attore è lunga quanto la vita. Poi chissà! D . – Quali i suoi maestri di vita e palco? R . – Nella vita si continua a imparare ogni giorno, soprattutto dagli esseri umani che frequentiamo. Penso che siamo un po' tutti maestri di vita, gli uni degli altri, in base alle situazioni che affrontiamo. Si comincia dai genitori, fino ad arrivare agli amici e, perché no, si impara anche dalle persone con cui non si va d'accordo o che ci fanno del male. Io penso di aver appreso molto da tutti, a partire dalla mia famiglia. Per quanto riguarda i maestri sul palco, sicuramente farei il nome di Orazio Costa: il suo metodo mi ha fatto crescere molto nel mio mestiere. Ne ho studiato e approfondito i principi, seguendo laboratori tenuti dai suoi allievi. Mi spiace, tuttavia, di non averlo conosciuto personalmente. D . – C o s a vo r re b b e p ote s s e a c c a d e re o g g i , drammaturgicamente parlando?

R . – Mi piacerebbe che chi si occupa di drammaturgia possa scrivere testi che suggeriscano ai registi novità, non solo da un punto di vista tematico, ma soprattutto scenico. Siamo in un momento in cui si è fatto tutto. Quindi nella scrittura, secondo me, bisogna trovare nuove formule che sorprendano prima di tutto gli addetti ai lavori e, di conseguenza, i lettori-spettatori. D . – Quali prospettive per i nuovi autori? R . – E' difficile oggi per un autore, specialmente di testi teatrali, farsi conoscere e poter affermarsi. Ma ci sono tanti veicoli per potersi far apprezzare e far leggere i propri scritti agli altri. Penso che Internet sia un mezzo importantissimo. Tutti gli autori se ne servono per far circolare i propri scritti. Per un autore teatrale è importante, soprattutto far rappresentare i propri testi. Quindi una strada sarebbe quella di trovare una compagnia che sia il banco di prova e di sperimentazione del testo stesso. D . – In Puglia sta trovando più sinergie o diffidenze in merito alla possibilità di mettere in scena gli spettacoli? R . – Devo dire che sto trovando un terreno abbastanza fertile. La gente ha fame di cultura e di teatro. Come in tutte le cose, ovviamente ci sono persone che ti supportano e altre più indifferenti. L'importante è non arrendersi mai. D . – Pietro Caramia, metaforicamente allo specchio: come si riflette? R . – In questo momento della mia vita mi definirei “un viaggiatore alla ricerca”. Credo di dover scoprire ancora molte cose di me e di quello che mi circonda. Certe volte il viaggio è faticoso, ma va bene così. Gianluca Doronzo

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Camerata Musicale Barese


LA STAGIONE DELLA CAMERATA

Elegante, d'impatto e coinvolgente: la 72esima stagione della Camerata, sostenuta da UBI-Banca Carime, continua fra Petruzzelli e Sheraton di Bari

Stefan Milenkovich, Grandi & Bollani e il Quartetto di Cremona: passione, competenza e spessore interpretativo in primo piano

D'impatto, autorevole e ricca di spessore: la 72esima stagione della Camerata, sostenuta da UBI-Banca Carime, per la direzione artistica del talentuoso Francesco Antonioni, va avanti fra Petruzzelli e Sheraton di Bari, senza esitazioni di sorta. Classica, soul e “da camera”: ecco quanto accaduto di recente, in occasione di ben tre appuntamenti. Stefan Milenkovich (violinista) e Srebrenka Poljak (pianista) – Un duo d'eccezione ha scandito una serata, caratterizzata da un inaspettato (e funzionale) humour da parte del violinista (classe 1977, originario di Belgrado), capace di formulare una competente “guida all'ascolto” (come non avveniva, ad onor del vero, da anni). In programma la “Sonata per violino e pianoforte in sol minore” (1917) di Debussy, con motivi a seguire di Ravel e Gershwin/Heifetz (“Tre Preludi”). Rentrée, dopo una doverosa pausa, con de Sarasate (“Fantasie de Concert sur des motifs de la Carmen op. 25 per violino e pianoforte”), Cajkovskij (“Serenade Melancolique per violino e pianoforte op. 26”) e Ravel (“Tzigane – Rapsodie de Concert per violino e pianoforte” del 1923). Imprevista interazione col pubblico, delineando una piacevole atmosfera “soft”. Irene Grandi & Stefano Bollani – Un Petruzzelli gremito in ogni ordine e fila per un concerto “soul, blues e black” allo stesso tempo. Due personalità completamente all'unisono, con echi di spessore interpretativo e assoli di Bollani “d'autore”. In scaletta: da “Dream a little dream of me” (Andree, Schwandt, Kahn) a “Costruire” (di Fabi), “Come non mi hai visto mai” (di Donà-Lanza), “A me me piace 'o blues” (di Daniele), virando verso “L'arpa della tua anima” (degli stessi interpreti “on stage”), “La gente e me” (di Veloso-Bardotti) e “Medo de amar” (De Moraes). Due ore di puro ascolto, senza orpelli o slabbrature, con un bis alla “Se tu non torni” di Miguel Bosè (da brivido). Quartetto di Cremona – A causa del maltempo, il Salone dello Sheraton del capoluogo non era particolarmente affollato: ciò, tuttavia, non ha inficiato la resa di un quartetto, fondato nel 2000 presso l' “Accademia Stauffer” di Cremona. Cristiano Gualco e Paolo Andreoli (violini), Simone Gramaglia (viola) e Giovanni Scaglione (violoncello) hanno eseguito: “Omaggio al suono rosso e al quadrato giallo” di De Biasi (Vittorio Veneto, 1977), brano vincitore del primo concorso nazionale di composizione “Francesco Agnello”; “Quartetto in la maggiore op. 18 n. 5” e “in do diesis minore op. 131” (1827) di Beethoven (Bonn, 1770 – Vienna, 1827). Indubbia competenza, esecuzioni di classe ma, talvolta, i ritmi sono apparsi un po' lenti. Di nicchia. Gianluca Doronzo

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Piero Cassano


MUSICA - LA STORIA DELLA CANZONE ITALIANA

Incontro con Piero Cassano, storico fondatore dei Matia Bazar, alle prese con la kermesse «AVIVAVOCE», primo «anti-talent» nazionale (serata conclusiva il 28 dicembre al Traetta di Bitonto)

«Con i miei 40 anni di carriera mi metto al servizio delle nuove leve musicali, cercando di dare suggerimenti per il loro futuro»

Fa parte della storia della musica con classe, eleganza e spessore nei testi, avendo scritto alcuni pezzi diventati internazionali (da “Per un'ora d'amore” a “E dirsi ciao”, fino a “Solo tu”, singolo che ha venduto più di due milioni di dischi nel mondo). E' stato fra i fondatori dei Matia Bazar, con i quali ha vinto ben due “Festival di Sanremo” ('78 e 2002), non dimenticando il terzo posto nel 2001. Grazie a lui hanno “preso il volo” carriere come quelle di Eros Ramazzotti e Anna Oxa (per fare solo alcuni esempi). Piero Cassano oggi, dopo tournée dappertutto e un percorso “di grandi soddisfazioni” (con una vis da produttore), si mette nuovamente in discussione, “al servizio delle nuove leve”, promuovendone “personalità e, soprattutto, determinazione”: è, infatti, il presidente di giuria della neonata kermesse “AVIVAVOCE” (promossa da “EuroTeam Produzioni Discografiche” e “Studi Adm”: informazioni sul sito www.avivavoce.net), primo “antitalent” del Belpaese, animando audizioni nazionali a Bitonto per cantanti, cantautori, gruppi, strumentisti, solisti e autori. Ai primi dieci selezionati la possibilità di incidere i brani inediti su un album “scaricabile”, tramite piattaforma originale (serata finale il 28 dicembre al teatro Traetta). A supportarlo nella scelta: Fabio Perversi (polistrumentista e arrangiatore dei Matia Bazar) e Nuccio Cappiello (produttore e ingegnere del suono). In primo piano l'emozione dell'incontro con un autentico Maestro (volutamente con la maiuscola). Domanda – Signor Cassano, “AVIVAVOCE” sembra davvero il primo “anti-talent” della storia della musica italiana: com'è nata l'iniziativa? Risposta – Innanzitutto diciamo che la mia presenza nel progetto ha genesi dalla storica amicizia col proprietario degli “Studi Adm” di Bitonto. Con lui condivido molti principi, in particolar modo in merito alla valorizzazione dei giovani talenti. Premesso ciò, non posso fare a meno di dirle che “AVIVAVOCE” è stato messo su, tenendo conto che, in qualità di storici esponenti della musica italiana, siamo perfettamente calati nella quotidianità e, ad onor del vero, oggi il mondo discografico è circondato da tanti “specchietti per le allodole”. Si fanno troppe promesse, ma poi sono solo pochi coloro i quali le mantengono, credendo nel prossimo. Il nostro obiettivo è quello, avvalendoci di un'esperienza ormai 40ennale, di scoprire nuove potenzialità, supportandole nei suggerimenti, con la volontà di costruire un sano percorso professionale. Nel mio piccolo credo che con i Matia Bazar abbiamo contribuito alla storia della musica italiana ed io, nello specifico, qualche responsabilità su alcune carriere l'ho anche avuta: cito Eros Ramazzotti ed Anna Oxa su tutti. Alla luce di ciò, di quello che si è fatto e di quanto si è rappresentato, ci si rende conto che attualmente l'ambiente discografico non è più legato alla concezione di “carriera”. Se, ad esempio, parliamo del “Festival di Sanremo” (ormai più evento televisivo che “della canzone italiana”), quanti giovani realmente nelle ultime dieci edizioni sono venuti fuori? Ne conteremmo forse quattro/cinque, non di più. Io sostengo che nella vita, mi lasci passare il termine, ci si debba “fare un culo” dalla mattina alla

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MUSICA - LA STORIA DELLA CANZONE ITALIANA

sera, per riuscire in quello che si vuole: non sono di certo, nell'ambito musicale, i talent a fare la differenza. Men che meno kermesse festivaliere o programmi televisivi. Con il nostro progetto, ci troviamo per la prima volta a fare delle “audizioni” dal vivo, selezionando ragazzi, a nostro avviso, meritevoli, avendo a disposizione uno studio di registrazione acusticamente valido: il che, nel Sud, non è da poco. Quanti hanno difficoltà nell'emergere al Meridione, dovendo scegliere Milano, ad esempio, per farsi notare in uno studio discografico? Io amo troppo il mio lavoro e ho deciso, pur avendo scritto delle canzoni che hanno fatto il giro del mondo (con una carriera di tutto rispetto), di mettere al servizio delle nuove leve la mia esperienza, puntando anche solo per il 10% su nomi da valorizzare a livello nazionale. Parliamoci chiaro, giovane amico mio: una volta c'erano 50-60 case discografiche. Oggi per i ragazzi è difficilissimo trovare una strada per farsi notare, a meno che non si vada per due mesi in tv a fare “X Factor” o “The Voice”. Ma anche lì: si promettono mari e monti. Poi, realmente, in quanti riescono a venire fuori, imponendosi all'attenzione del pubblico e, soprattutto, sul mercato? Io, Fabio Perversi e Nuccio Cappiello abbiamo pensato, contro tutto e tutti, di dedicare il nostro tempo a chi vorrà crescere, dando dei consigli su come maturare.

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Inizialmente erano stati previsti pochi giorni di audizioni a Bitonto: poi si sono moltiplicati, segno del successo della nostra iniziativa. Ad esempio, vorremmo puntare la nostra attenzione sui gruppi, uno degli handicap nel panorama nazionale. Mi dica lei, quanti ne sono venuti fuori da “Sanremo” negli ultimi anni? O da “X Factor”? Penso ai Modà e Negramaro, ma la storia l'hanno fatta i Pooh, i Nomadi e i Matia Bazar. Vorremmo far tornare a suonare i gruppi con basso, batteria e chitarra, ciò che televisivamente non accade più da molto. Ci sono, negli anni, stati esponenti di nicchia come gli Afterhours, ma non so come stiano proseguendo. Oppure mi vengono in mente Le Vibrazioni, ma poi si sono sciolti. C'è molta confusione in merito. Noi non dedichiamo cinque minuti e basta a chi si sottopone al nostro giudizio: tu non puoi capire se c'è stoffa solo con una battuta. Bisogna dare modo agli emergenti di esprimersi, proponendo pezzi in italiano e non in inglese. Oggi poi, giusto per concludere la nostra panoramica, si va molto anche per “rapper”: il loro difetto è che, musicalmente, non esiste il melodico, sebbene certi testi siano incredibili. Chi, secondo me, è riuscito alla grande a coniugare musica e parole è stato Tiziano Ferro. Oppure Jovanotti. Le nuove leve hanno bisogno di punti di riferimento e noi abbiamo l'obbligo morale di esserlo, con pulizia e onestà.


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D . – Bene, bene: con un pezzo della storia della musica italiana come lei, si potrebbe stare per ore ad ascoltare ciò che ha da dire. Continuiamo, però, nell'ambito del “talento”: che significa averlo? R . – Credo, in tutta onestà, che il talento sia un po' nel patrimonio genetico della persona: ci nasci oppure non lo hai. Anche coloro i quali vanno ad “X Factor” devono avere un “fattore in più”: la voce, ad esempio, la puoi aggiustare, educare, migliorare, ma se non hai tutto il resto non costruisci nulla. Puoi realmente definire “i più bravi”, coloro che davvero hanno il famigerato “dono di Dio”. Poi ci sono anche i talenti abbinati alla composizione, ai testi, al saper suonare uno strumento e via dicendo. D . – Quale, fra le nuove leve della musica, ritiene abbia maggior talento? R . – Non ho dubbi: a me piace da morire Raphael Gualazzi. Scrive ottimi testi, compone, ha una presenza scenica ed è originale. E' un autentico talento a tutto tondo. Non è un caso che uno come lui sia internazionale e in Francia, ad esempio, si sia esibito all'Olympia di Parigi. Io, per dirle, non ci sono mai stato. Lui sì. Ha davvero una marcia in più quel ragazzo: non mi sembra ci siano eguali attualmente. D . – Abbiamo nella nostra piacevole chiacchierata parlato molto di “Sanremo”: l'ultima partecipazione dei Matia Bazar risale al 2012, in occasione della rentrée di Silvia Mezzanotte. Tornereste in gara? R . – Sicuramente quello per noi è stato un “Sanremo” un po' doloroso, tanto è vero che, da persone coscienti quali siamo, ci siamo domandati subito dopo che senso avesse ancora il “Festival” per noi. Il non essere arrivati alla finale, a causa del televoto, ha potenziato la convinzione che la kermesse dell'Ariston non fosse più un evento a cui partecipare come in passato. Una volta c'erano le giurie popolari e vedevi, attraverso i collegamenti, in faccia chi ti votava o meno, con un punteggio da 1 a 10. Oggi ci si riduce ad un sms: onestamente è svilente per la nostra storia. Mi sembra sia tutto più “nebuloso” il meccanismo di voto, un po' oscuro. Se poi aggiungono che “la tua eliminazione” è stata dettata dal voto

dei giovani e, statisticamente, nella serata finale del sabato sono più “gli anta” ad esprimere un giudizio, allora non ha più ragione esserci. Ora, ne abbiamo fatti 12, vinti 2 e siamo arrivati terzi una volta. Che motivazione avremmo nel tornarci? Perché infilarci nuovamente in una carovana, che non riusciamo più a capire? Abbiamo scritto brani come “Vacanze romane”, siamo stati all'estero, di recente anche a Mosca per il concerto del 70esimo compleanno di Albano. Ci “accontentiamo” di avere larghi orizzonti fuori dall'Italia, essendone uno dei gruppi storici. Pertanto, senza “Sanremo”, credo che continueremo a fare il nostro lavoro con tournée, televisioni, produzione di dischi, evitando di “sottoporci” al giudizio di un sms che, francamente, non ci rappresenta neanche un po'. I Matia Bazar vogliono continuare a far parte della storia della musica, la nostra ragione di vita, la mia ragione di vita. L'amore del pubblico è la nostra forza e “i live” sono di sicuro la dimensione a noi più congeniale. Non dimenticando di puntare su giovani e fresche leve, come accade in “AVIVAVOCE”. Ragazzi, il futuro è nelle vostre mani. Gianluca Doronzo

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Maria Giaquinto


MUSICA - LA RIVELAZIONE

Primo cd per l'intensa cantante e attrice pugliese, formata all'«Accademia Consorzio Tpp» di Orazio Costa, nota per le sue collaborazioni e tournée con i Radicanto di Giuseppe De Trizio

Un'anima vocale «mediterranea» e ricca di teatralità: Maria Giaquinto e la magia delle sue «voci di frontiera»

Un'anima vocale in continuo divenire. Una presenza scenica dalle connotazioni teatrali, con insegnamenti “mimici” alla Orazio Costa, un'espressività frutto di numerosi spettacoli (all'attivo anche la drammaturgia figurativa, con la creazione di burattini) e collaborazioni con i Radicanto dal 2006. Maria Giaquinto è uno degli emblemi dell' “eccellenza pugliese” per spessore, profondità di pensiero e ricchezza curriculare maturata negli anni, con un occhio puntualmente vigile sulla tradizione musicale popolare (“per me un amore viscerale”). Attualmente, dopo tanti sacrifici e studi (“un ricordo al maestro Pino De Vittorio”), è alle prese con la pubblicazione del suo primo cd, dal titolo “Voci di frontiera” (casa discografica “III Millennio” di Roma, distribuzione “Stradivarius”), interpretando ben 14 pezzi (due dei quali hanno la sua firma), che spaziano dallo struggente “Laggiù” a “Palummella/Il volo”, virando verso “Malarazza” di Domenico Modugno e “Stelle” di Teresa De Sio. Protagonista il respiro del Mediterraneo (con la sinergia di Fabrizio Piepoli, Giuseppe De Trizio, Adolfo La Volpe, Giovanni Chiapparino, Francesco De Palma e Roberto Piccirilli), in una suggestiva valorizzazione dei suoni legati alla terra (da non perdere “Ninna nanna” e “Hija mia mi querida” di stampo sefardita). Domanda – Maria, dopo un percorso artistico scandito da tournée, collaborazioni con illustri esponenti della musica (non solo) italiana e spettacoli a 360°, eccola protagonista del suo primo cd, dal titolo “Voci di frontiera”: sta vivendo la realizzazione di un sogno, vero? Risposta – Guardi, il cd in sé rappresenta la volontà, come dire, di mettere un punto fermo dopo tanti anni dedicati alla ricerca, allo studio delle radici, della tradizione, in particolare – gioco forza – nell'ambito del Mediterraneo, visto che ci appartiene ed è nel nostro patrimonio genetico, con modalità e suoni che si incrociano perfettamente e si somigliano. Per quel che mi riguarda, nello specifico, ho cominciato a fare teatro studiando in un'accademia importante, ovvero nella scuola del “Consorzio Teatro Pubblico Pugliese”, diretta da Orazio Costa, che considero il mio maestro assoluto, non solo per quello che riguarda la scena, ma per tutte le altre forme di espressione, che poi mi sono trovata a praticare. Quindi anche il canto che, lui stesso, avendo notato in me delle doti particolari, mi spingeva ad usare ogni volta in cui mettevamo su uno spettacolo. Mi faceva, ad esempio, cantare le poesie che studiavamo, improvvisando. Per me il canto è stato davvero il primo approccio all'arte, essendo qualcosa di arcaico, ancestrale, provenendo naturalmente dai genitori, dai nonni, da coloro che si hanno attorno fin da piccoli. C'è una fase preverbale, una “ninna nanna”, a cui fanno seguito le filastrocche, le cose che comunque si orecchiano: ciò mi ha sempre colpita fortissimamente. Consideri, inoltre, che mia madre aveva una buona attitudine vocale, pur facendo tutt'altro nella vita. Mio padre era un grande appassionato di musica ed era solito portare a casa tutte le produzioni di Mina, Barbra Straisand e Frank Sinatra: aveva il suo mondo, essendo nato alla fine degli Anni '30, ed io ne ero affascinata.

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Questo, in sintesi, è stato il mio imprinting, venuto fuori pian piano, con consapevolezza, proprio quando frequentavo l'accademia, basata sul metodo mimico, tendente all'unificazione dei linguaggi artistici. Orazio Costa sosteneva che alla base di tutte le espressioni d'arte ci fosse un'unica funzione umana, che è quella di rimanere impressi da fatti esterni, dovendoli manifestare secondo una propria rielaborazione. Siamo, per questo, costantemente “impressionati” come fossimo pellicole fotografiche e lui ha abbattuto queste barriere, spingendoci a disegnare, creare costumi o scenografie. Non a caso, dopo la scuola, ho iniziato a lavorare con “La casa di Pulcinella”, dove ho appreso la nobile arte del teatro di figura, di animazione, riuscendo persino nella costruzione di burattini. Ne ho, infatti, una discreta collezione, proprio con quelli da me realizzati per gli spettacoli ideati. Sono poi stata coinvolta in esperienze di teatro di strada, andando soprattutto in Emilia Romagna e Toscana, dove è più viva questa tradizione e lì, con alcuni colleghi, abbiamo messo in scena stralci di “Commedia dell'arte”, dove figurava il canto popolare. Anche perché, nel frattempo, avevo avuto la possibilità di vedere quel meraviglioso capolavoro, che è “La gatta Cenerentola” di De Simone, dinanzi al quale, rimanendo folgorata dissi: “Ecco,

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questo voglio fare” (e ride, ndr). Da allora la mia cifra è sempre stata quella di un teatro anche musicale. D . – Un teatro musicale che ha, come motivo conduttore, l'amore per la tradizione popolare. R . – Direi proprio di sì. Un profondo interesse per le radici antropologiche, anche perché poi, con l'incremento degli studi di settore e con la valorizzazione delle musiche di tradizione, ci si è resi conto che la musica colta, probabilmente, non si sarebbe nutrita di tutta una serie di suggestioni, se non fosse esistita anche precedentemente l'elaborazione del patrimonio dei popoli, seppur non consapevole, non cosciente, ma ricca di materiali divenuti propri. Se pensiamo, ad esempio, alla villanesca napoletana, quella è una vera e propria operazione di maniera, nel senso che partendo dalle tradizioni del volgo si struttura il tutto nella forma di canzone partenopea. Lo stesso De Simone all'interno de “La gatta Cenerentola” ha fatto un'operazione colta, su base popolare. D . – Alla luce di tutto ciò, il suo incontro con i Radicanto è stata un po' la massima espressione e sintesi della sua formazione? R . – Penso proprio di sì. Ho avuto diverse esperienze con tanti gruppi e musicisti. Ho studiato un paio di anni col tenore Pino De Vittorio, uno dei protagonisti de “La gatta Cenerentola”, vivendo momenti memorabili. Successivamente ho fatto parte


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di un ensemble, che si chiama “Terrae”, avendo avuto una felice collaborazione per diverso tempo con loro. Inoltre ho avuto un'esperienza di partecipazione ad un concerto con le “Faraualla”, in sostituzione di una delle voci andata via in quel periodo. E questo facendo uno spettacolo a Napoli, al “Maschio Angioino”, con Beppe Barra. Dopo di che, nel 2006, per tutta una serie di coincidenze, pur conoscendo i Radicanto e non avendoli mai incrociati, li ho incontrati in occasione di una rassegna, dal titolo “Popularia” (per la Circoscrizione di Poggiofranco a Bari): ci siamo interfacciati, parlando e ragionando. E' venuta fuori subito questa voglia di sperimentare delle produzioni assieme: con loro non ho prodotto solo musica, ma anche spettacoli di teatro come “Sud e Magia”, in scena lo scorso anno (un lavoro certosino di ricerca sulle tradizioni legate alla sacralità magico-religiosa della Puglia). Nel frattempo ho cominciato a comporre, sia insieme a Giuseppe De Trizio che da sola: alcuni pezzi sono stati presenti nel cd precedente dei Radicanto, dal titolo “Bellavia”, e un paio sono contenuti in “Voci di frontiera”, uscito a mio nome. In molti si sono chiesti il perché. Il motivo è semplice: i Radicanto attualmente sono formati, quando al completo e autonomamente, da due voci: la mia e quella di Fabrizio Piepoli, che è un grandissimo musicista e cantante, veramente dalle doti particolari e innate. Noi abbiamo messo su concerti straordinari, in cui l'incontro delle due vocalità è stato magico e suggestivo. Ora, siccome avevo raccolto una serie di canti, che avevano fatto parte di un mio percorso di ricerca, non era opportuno mettere il nome Radicanto (che spesso accompagnano artisti singoli come Raiz e Teresa De Sio, per citarne alcuni) al cd. Lo stesso Fabrizio Piepoli realizza delle sue produzioni in maniera del tutto autonoma. Ho pensato, dunque, di coinvolgere i musicisti con cui suono, lavoro ed ho empatia: per questo i Radicanto sono al mio fianco. Certo, se avessi fatto un album sul jazz standard, probabilmente mi sarei dovuta rivolgere altrove. Tengo a precisare, infine, che al disco hanno preso parte anche altri strumentisti, che non suonano stabilmente con i Radicanto. E per me è stato un onore. D . - Quanto la Puglia ha seguito i Radicanto e Maria Giaquinto in questi anni? Vi siete sentiti valorizzati? R . – I Radicanto sono nati nel '93, ma hanno cominciato a lavorare in maniera più capillare sul territorio da non moltissimo tempo: forse proprio da quando sono entrata io a farne parte, in quanto prima Giuseppe De Trizio suonava molto con artisti fuori dalla regione, alternando l'attività di strumentista in compagnia di giro a quella dell'associazione che già, ad onor del vero, aveva prodotto fantastici cd, andati a ruba. Penso a “Terra arsa”, le cui copie oggi non ci sono più, essendo state tutte esaurite. Nel tempo, a mio parere, i Radicanto si sono evoluti in modo da coniugare la tradizione con la canzone d'autore, il pop, il rock e il reggae, per farle alcuni esempi. Per cui c'è stata una digestione delle varie suggestioni, dando vita a forme sonore molto originali. Di

gruppi che fanno musica tradizionale ce ne sono tantissimi: penso soprattutto al Salento, ma talvolta i risultati non sono personalissimi. Invece nella terra di Bari abbiamo più realtà e formazioni, pensando in maniera particolare alla tradizione. Forse qualcuno mi potrà accusare di sciovinismo, ma a me interessa di più come viaggia la musica nel tempo, in che modo diventa parte di un territorio, paventando passato, presente e, perché no, futuro. La nostra operazione non è una mera conservazione filologica di canti popolari, bensì abbiamo operato una rielaborazione. Il mio maestro Pino De Vittorio, nativo della provincia di Taranto, ha dimostrato quanto eleganti potessero essere i canti popolari, accompagnandoli con una semplice chitarra battente, perseguendo l'essenzialità degli accordi, educando la vocalità, rendendola consapevole. Per cui non è detto che per fare musica popolare si debba urlare, cantare a squarciagola e via dicendo. Si può utilizzare anche una sensibilità più contemporanea, personale e individuale. D . – Cosa si auspica, infine, per il proseguimento del suo percorso? R . – Prima lei mi ha chiesto quanto io e i Radicanto fossimo considerati dalla Puglia: diciamo che, talvolta, ho partecipato a bandi senza esser stata presa in esame. Sono contenta, tuttavia, che il progetto Radicanto e un mio pezzo siano rientrati nella rassegna “Puglia Sounds” (io sarò nella compilation). Il mio lavoro è basato interamente sulle mie forze, sui musicisti che hanno collaborato e si tratta di un'opera completamente autofinanziata. L'amore verso questo lavoro in primis e, in un certo modo, ho voluto farmi un regalo, in quanto volevo comunicare la mia idea al pubblico, non tenendola per me. Oggi è vero che ci sono tanti canali come il web per farsi ascoltare, ma un disco rimane tale per sempre, sia per qualità che per contenuto. A me dispiace che in giro ci siano tanti artisti di talento, privi di mezzi, che non riescono ad avere supporti pubblici e istituzionali per farsi conoscere. Noto che il commerciale spesso è sostenuto dai finanziamenti governativi e che senso ha tutto ciò? Bisognerebbe fare in modo che ciascuno di noi abbia gli strumenti alla pari per essere supportato dal pubblico, non agevolando sempre chi ha le spalle forti. La gente oggi sceglie “per finta”, nel senso che crede di scegliere, ma poi le viene imposto tutto. Nelle radio impazzano sempre gli stessi brani e compilation. Per fortuna, al di là di tutto, io ho sempre avuto un ottimo seguito, pur non essendo una televisiva, bensì faccio parte di una nicchia, della quale vado fiera: è la mia dimensione. “Voci di frontiera” ha comportato uno sforzo di “tasca mia”: dopo aver fatto il giro delle realtà locali, ho pensato di inviare del materiale alla casa discografica “III Millennio” di Roma ed è piaciuto molto, così sono riuscita ad ottenere la distribuzione “Stradivarius”, una casa editrice molto importante, che si occupa anche di musica classica. Spero ci sia un seguito a tutto ciò. Una cosa è certa: siamo al lavoro per il nuovo cd dei Radicanto, in uscita l'anno prossimo. Gianluca Doronzo

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Emiliana Dorno


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La pugliese Emiliana Dorno e la sua giovane escalation nella danza: dal «Balletto di Roma» ad «Amici della De Filippi», fino agli insegnamenti di Stella Ciliberti («per me un grande cuore»)

«Sul palco (come nella vita) la personalità fa la differenza, assieme a stile, musicalità e tanta passione»

Determinata, espressiva, sincera. La personalità della pugliese Emiliana Dorno “non ha filtri o sovrastrutture”: ricca di temperamento, ha fatto della trasversalità formativa il suo principio esistenziale. Dalla “Dance Studio Etoile” di Stella Ciliberti (“se la penso, mi viene in mente un grande cuore”) a Bari, ha “preso il volo” verso la capitale, studiando al “Balletto di Roma” (con Sylvie Mougeolle, Hélène Diolot e Jodi Goodman, fra le altre) e partecipando a “Cinecittà Campus” di Maurizio Costanzo (“un'accademia dello spettacolo, grazie alla quale ho fatto tante conoscenze e amicizie”). Un giorno arriva la proposta di entrare a far parte del corpo di ballo di “Amici di Maria De Filippi” su Canale 5 e “il sogno sembra realizzato”: ma, dietro le apparenze, si nascondono realtà spesso più difficoltose, dettate dalla crisi del mercato del lavoro. E anche la “caput mundi” non ne è fuori: così, “con coraggio e forza”, decide di “fare la valigia e tornare in Puglia”, dove l'accoglie a braccia aperte la “Compagnia Astraballetto” nel 2009. Ed è subito empatia: pièce, concorsi, premi vinti. Tanta passione, con un sogno nel cassetto: “Aprire un giorno una scuola di danza”. Per la serie: “comunque vada, sarà un successo”. Domanda – Emiliana, alla luce del suo percorso formativo, scandito da un'estrema versatilità, in che modo descriverebbe la sua vita nella danza finora? Risposta – Partendo dal presupposto che nella danza c'è sempre da imparare (e non esiste mai un punto d'arrivo), devo ammettere di essere alla ricerca di una continua perfezione, non data solo dalla preparazione tecnica, seppur importantissima. A fare la differenza è proprio la nostra personalità, quindi lo stile e la musicalità: è il senso che diamo a quello che stiamo facendo a rendere tutto unico e magico, distinguendoci dagli altri colleghi. D . – A caratterizzarla è stata una lunga presenza in quel della capitale in passato, partecipando anche all' “Accademia dello spettacolo” di Maurizio Costanzo (“Cinecittà Campus”). Che ricordi ha? R . – Devo dire che l'esperienza artistica vissuta nella capitale è stata importante e gratificante: prima di tutto, a livello formativo, ho avuto la possibilità di studiare al “Balletto di Roma”, con insegnanti di fama internazionale, quali Hélène Diolot e Sylvie Mougeolle. Di quest'ultima successivamente sono diventata assistente. Un'altra docente che ha segnato in maniera positiva il mio itinerario artistico, alla quale devo molto, è Jodi Goodman. Ho avuto, comunque, la fortuna di partecipare a “Cinecittà Campus” di Maurizio Costanzo, con opportunità in teatro e nel programma “Amici di Maria De Filippi” su Canale 5. Ho condiviso esperienze con altre persone, sono nate delle belle collaborazioni anche se, in fondo in fondo, professionalmente non mi sentivo veramente realizzata del tutto. Fatto sta che “Amici” è sempre una bella vetrina e ci sarebbe tanta gente disposta ad entrarne a far parte. Da questo punto di vista mi ritengo anche abbastanza fortunata. D . – Qual è la sua opinione su Maria De Filippi e, soprattutto,

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sul suo modo di fare tv? R . – Ammetto che inizialmente “Amici” era un programma che seguivo parecchio. Maria è sicuramente una persona molto professionale e non si discute: negli anni credo si sia costruita l'esperienza necessaria per andare avanti nella trasmissione. Non è una persona che sta lì “tanto per”. La vedo come una donna molto potente. D . – Una sorta di “re Mida”, anche perché tutto quello che tocca diventa oro (e scoppia una risata comune, ndr). R . – Una donna che sa quello che fa e vuole: la valuto in maniera positiva. In merito alla trasmissione, invece, credo che col passare del tempo si sia modificata e da casa, se uno è interessato alla danza, al canto o alla musica in generale, si può correre il rischio di stancarsi vedendo gente che litiga. Penso che il pubblico voglia, ad esempio, più danza e meno chiasso. D . – Onestamente, però, non ritiene che “Amici” abbia rivalutato la danza in tv, essendo ormai il varietà inesistente? R . – Assolutamente sì: anzi, ha aiutato ad avvicinare alla danza anche chi non la masticava così bene. “Amici” ha fatto in modo che le scuole coreutiche, di canto e musical, lavorassero di più. Lo stesso “Cinecittà Campus”, a cui ho preso parte, credo sia nato proprio dopo il primo anno del programma della De Filippi: erano tanti i ragazzi che venivano da fuori e avevano “il sogno di fare la televisione”. Allo stesso tempo, però, ho trovato molti giovani che, appena finita la scuola, poco più che 18enni, non avevano mai fatto un passo di danza o cantato. Ma hanno tentato e qualcuno c'è anche riuscito. Fatto sta che, in generale, a livello di danza in tv abbiamo perso molto. Non è più come una volta. D . – Secondo lei, c'è la possibilità che il varietà torni? R . – Me lo auguro, sinceramente. Mi ricordo che ero piccolissima, avevo 3-4 anni, e m'incantavo a vedere in tv ballare la Parisi o la Cuccarini. Anch'io danzavo con loro da casa e sbattevo i tavoli (e ride, ndr). Insomma sono cresciuta col varietà e spero vivamente lo ripropongano. D . – Torniamo, Emiliana, alle sue origini e al percorso professionale: una pugliese che va a Roma, si forma, fa anche le sue esperienze televisive e poi, quasi in controtendenza, decide di tornare in Puglia. Perché? R . – Quella di tornare, in realtà, è stata una scelta difficile, perché dopo tantissimi anni in cui hai una vita fuori, sia a livello personale che “gestionale”, non è da poco decidere di fare, per così dire, un passo indietro. Fatto sta che, per quel che mi riguarda, non riuscivo più a digerire la vita che facevo a Roma. Sentivo il bisogno di maggiore calma, di tranquillità e anche a livello lavorativo, purtroppo, negli ultimi anni la capitale è peggiorata. Inizialmente quando mi sono trasferita sembrava ci fossero tante prospettive: andando avanti nel tempo scopri che non è così. Sarà per la crisi, sarà che le produzioni sono di meno, sarà che nelle stesse trasmissioni televisive non ci sono più corpi di ballo da 20-25 persone: dato di fatto è che lo scenario è più ristretto. E' difficile riuscire a stare dietro a tutti i coreografi, a fare lezione e, in particolar modo, a farsi

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conoscere. Alla luce di questo andazzo, ho deciso di prendere la valigia e tornare in Puglia. E, in realtà, sono contentissima di come sia andata, perché sia a livello di formazione (pur avendo superato i 30 sono sempre in evoluzione), che da un punto di vista personale, sento di poter dare tanto: ogni giorno, finché il mio corpo me lo consentirà, sarò in sala e già da parecchio mi sto dedicando all'insegnamento, che mi piace veramente molto. Anche perché come danzatrice e basta non si ha la possibilità di vivere dignitosamente: di conseguenza bisogna darsi molto da fare su più versanti. Mi piace lavorare con i miei allievi, vedere quanto riesco a trasmettergli la mia passione. Vedo che le cose funzionano: continuo con i corsi di aggiornamento e di recente ne ho fatto uno per lavorare con i bambini sul “Giocodanza”, in un'età compresa fra i 3 e i 6 anni. Attualmente sono impegnata anche con un altro, tenuto da ballerine tutte diplomate al “Teatro alla Scala” di Milano. Speriamo bene. D . – La sua storia dimostra come della passione si possa fare una ragione di vita, anche lavorativamente parlando. R . – Assolutamente. Ritengo che se non avessi la danza, non avrebbe senso tutto quello che faccio. Ho pensato anche ad


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altri lavori, in momenti di difficoltà, soprattutto quando ero a Roma: c'è stato, nello specifico, un periodo in cui c'era veramente pochissimo da fare e ho avuto un rigetto per la danza. Mi sono completamente voluta allontanare per un periodo e sono andata a fare la commessa: quando, però, mi sono resa conto che il mondo lavorativo è comunque difficoltoso in tutti i campi, ho maturato la convinzione, dopo un periodo di un anno, che la danza fosse la mia vita. Mi son detta: “Faccio ciò che il cuore mi dice, perché sicuramente torno meno frustrata a casa”. Allora mi sono presa le mie soddisfazioni e ce l'ho fatta. D . – Dal 2009 fa parte della “Compagnia Astraballetto”: se le dico Stella Ciliberti, cosa mi risponde? R . – Un grande cuore. Per me Stella Ciliberti è stata la svolta. L'ho conosciuta quando avevo 17 anni e avevo già avuto la mia formazione pur non essendo contenta, non a causa della mia insegnante precedente, ma perché qualcosa era cambiato in me. In Stella ho trovato, oltre all'insegnante di danza, una persona con la quale avere uno scambio in generale, aprendomi un mondo. Per me Stella è la danza. Si è dedicata a me tantissimo e le sarò riconoscente per sempre. Grazie a lei ho fatto tantissime cose, ho avuto moltissime possibilità, ho studiato con svariati insegnanti. E' sempre stata lì, pronta a spronarmi, anche in merito al mio trasferimento a Roma. E proprio mentre ero nella capitale, lei aveva deciso di fondare la “Compagnia Astraballetto” e non volevo fare altro che danzare con loro. Nel 2009, al mio rientro, pian piano mi sono riavvicinata a lei, ho fatto lezione e poi sono iniziati gli spettacoli, i concorsi e i premi vinti. Concludo dicendo che per me la “Compagnia Astraballetto” è la mia seconda famiglia. D . – Quanto ritiene i danzatori pugliesi siano valorizzati dai conterranei? R . – Onestamente, dai pugliesi stessi non penso siano tanto valorizzati. Noi siamo abbastanza riconosciuti fuori. Mi ricordo che quando ero a Roma, molto spesso andavo a fare lezione con un maestro nuovo, che fiutava subito i pugliesi rispetto agli altri. E' successo più di una volta. Penso che abbiamo qualcosa che ci renda riconoscibili. D . – Un paradosso: la riconoscibilità è fuori e non “fra le mura domestiche”. Colpa dell'eccessivo provincialismo? R . – Mi sembra proprio di sì. Il fatto è che noi tutti riconosciamo che la danza in Puglia è forte, ma poi non ci valorizziamo a vicenda. Sudiamo, ci impegniamo, cerchiamo di dare il massimo. Tutto con il cuore nelle nostre strutture. A dispetto di Roma, dove invece una scuola di danza è un business e la può aprire anche un macellaio. D . – Prossimi obiettivi? R . – Ho un progetto: sogno di aprire una scuola tutta mia, creando i miei allievi e vedendoli crescere. Mi piacerebbe, perché sarebbe estremamente gratificante. Il fatto è che portare avanti una propria dimensione non è facile e ci sono alcuni aspetti, come quelli amministrativi, che un po' mi spaventano. Ritengo, tuttavia, di essere arrivata ad un'età dove poter riuscire a fare tutto ciò, certamente con l'aiuto della

mia famiglia, che mi è sempre stata accanto. Se oggi riesco a fare il mio lavoro è grazie al loro sostegno, economico e morale. Mi sono sempre stati accanto. L'appoggio dei familiari è importantissimo. Ed io sono fortunata in questo. Gianluca Doronzo

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VISTI PER VOI


VISTI PER VOI

Cinema italiano in pole position con Paolo Ruffini, Pif, Cristiana Capotondi e Claudio Gioè: tanto divertimento e gag esilaranti

Da «Fuga di cervelli» alla Palermo Anni '80: il grande schermo si tinge di commedia, motivando anche la riflessione

Commedia italiana in pole position in queste settimane: Paolo Ruffini e Pif propongono due storie divertenti (con un cast ben eterogeneo), in grado di far riflettere sulla società contemporanea. Ma non mancano pellicole drammatiche, intimiste e d'animazione. Ce n'è davvero per tutti i gusti. “Fuga di cervelli” di e con Paolo Ruffini, assieme a Olga Kent e Guglielmo Scilla (commedia, durata 96'). Nadia (Olga Kent, attualmente sul piccolo schermo con Paolo Ruffini il lunedì sera alle 21.10, alla conduzione di “Colorado” su Italia Uno) è una giovane partita per l'Inghilterra, vincitrice di una borsa di studio. Di lei si innamora uno dei “cinque perfetti idioti” arrivati a Oxford, per fare conquiste. Succederà di tutto, pur di riuscire a “coronare un sogno”. “La mafia uccide solo d'estate” di e con Pif, assieme a Cristiana Capotondi e Claudio Gioè (commedia, durata 90'). Una pellicola dolce e amara allo stesso tempo. Arturo è un bambino curioso, nella Palermo degli Anni '80: aspirante giornalista, è pazzo della compagna Flora. Il suo interrogativo: la mafia non esiste, come dicono in tv, oppure bisogna credere a quello che accade sotto i propri occhi? Diventato reporter, vive le stragi del '92, con la morte di Falcone e Borsellino, facendo riflettere con la sua professione tanti concittadini. “In solitario” di Christophe Offenstein, con Samy Seghir e Francois Cluzet (drammatico, durata 96'). Essere incluso, senza aspettarselo, fra i concorrenti della più prestigiosa regata “In solitario” attorno al mondo. E' quanto succede al navigatore Yann. Ma, a bordo, scoprirà di avere un piccolo clandestino, in cerca d'aiuto. La natura ha la meglio e i toni introspettivi ne fanno una pellicola d'autore. “C'era una volta un'estate” di Nat Faxon e Jim Rash, con Steve Carell e Sam Rockwell (commedia, durata 103'). Un ragazzino, maltrattato dal nuovo compagno della madre, potenzia le capacità di credere in se stesso, grazie all'amicizia sincera con l'animatore di un parco acquatico. Sui generis. “Free birds. Tacchini in fuga” di Jimmy Hayward (animazione, durata 91'). In America è un “must” cucinare un tacchino per la festa di ringraziamento. Come impedirlo? Semplice: tornare indietro fino al 1621, quando nacque la tradizione, cambiando il corso degli eventi. A pensarlo sono i pennuti Reggie e Jake, immersi in una serie di vicissitudini spassose. Dagli stessi produttori di “Shrek”, senza deludere le aspettative dei cultori del genere. Gianluca Doronzo

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ASCOLTATI PER VOI


ASCOLTATI PER VOI

Da Mario Biondi a Il volo, con un occhio attento alle novità discografiche di Lodovica Comello e Mia: le proposte che non t'aspetti per Natale

Pop, soul e musica elettronica: il meglio del momento per trascorrere «sonore» festività

Per l'arrivo del Natale si moltiplicano i cd di artisti che “riarrangiano” e interpretano pezzi storici delle festività: da Mario Biondi a Il volo, con un occhio all'ascesa di Lodovica Comello e Mia. “Mario Christmas” di Mario Biondi – pop/soul – Da “Let is snow” a “White e Last Christmas”, la voce “soul” più famosa d'Italia propone ben 9 brani in occasione delle festività, a cui aggiungere gli inediti “Dreaming land” e “My Christmas baby (The sweetest gift)”. Per un Natale tutto da “cantare”. “Universo” di Lodovica Comello – pop – Chi ama la serie tv “Violetta” sa benissimo di chi stiamo parlando: è Francesca, l'amica italiana della protagonista. A soli 23 anni (di origini friulane) ha deciso di dare inizio alla sua carriera da solista, mettendo a punto un disco in ben tre lingue: italiano (“Universo”), inglese e spagnolo. E le sorprese non finiscono, considerando il suo talento. “Cosmos” dei Fitness forever – pop – Ripercorrere le sonorità Anni '70, quasi con una cifra e un piglio accademici: sembra, in un certo senso, la missione della band napoletana, al secondo album, in un mix di richiami a Burt Bacharach e Matia Bazar. Fra romanticismo, poesia, nostalgia e un pizzico di humour, si fanno strada canzoni come “Le intenzioni del re”, “Lui” e “Il cane Ciuff” (davvero spassoso). “The best of” di Keane – rock – La notizia non è stata delle migliori per i fan: la nota band inglese si è sciolta. L'addio è dato dai 18 brani più rappresentativi della carriera, non dimenticando due inediti di buona intensità sonora (“Won't be broken” e “Higher than the sun”). Una chance per apprezzare, qualora qualcuno non lo avesse ancora fatto, gli arrangiamenti e i testi intensi del gruppo, auspicando che (col tempo) possano tornare nuovamente assieme. “Matangi” di Mia – rap/elettronica – Un'artista “fuori dagli schemi”: a ben due anni di distanza dal primo singolo (“Bad girls”), finalmente arriva il quarto album della cantante britannica, all'insegna di uno stile unico, con una personalità ben delineata e, soprattutto, con tanta, ma tanta esplosione vocale. Da ascoltare con curiosità e passione. “Buon Natale” di Il volo – pop – E pensare che hanno esordito proprio qualche anno fa nel programma televisivo “Ti lascio una canzone”, condotto da Antonella Clerici su Raiuno! Diventati famosi in tutto il mondo in poco tempo, i tre ragazzi hanno mescolato la tradizione operistica al pop più puro. Giunti al loro terzo album, Gianluca, Piero e Ignazio hanno pensato di “dare nuova linfa” a pezzi storici delle festività natalizie come “Astro del ciel”, “Santa Claus is coming to town” e “Bianco Natal”. Non si potrebbe chiedere di più in questo periodo. Gianluca Doronzo

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LETTI PER VOI


LETTI PER VOI

Un noto regista che fa il suo esordio in libreria, tanto amore per gli animali e intensa attenzione all'infanzia: una stagione editoriale ricca di sorprese

Brizzi, Weisberger, Eggers e Stoppa: gli autori da leggere «d'un fiato»

Un noto regista italiano al suo esordio “in libreria”. Un'autrice che scrive il seguito di un romanzo divenuto un film-cult. E tanto amore per la natura e l'infanzia. A voi una stagione editoriale ricca di curiosità. “Cento giorni di felicità” di Fausto Brizzi, Einaudi, euro 18,50. Scrivere il primo romanzo a 45 anni è possibile? Per Fausto Brizzi, regista e sceneggiatore di successo (noto per film come “Notte prima degli esami”, in uscita il 19 dicembre con “Indovina chi viene a Natale?”), la risposta potrebbe essere un categorico “sì”, alla luce del suo recente esordio nella letteratura. A motivarlo la storia di un uomo che, dopo aver scoperto di avere pochi mesi di vita, decide di cambiare tutto, attraversando il periodo più felice. Venduto già in 20 paesi, potrebbe presto approdare sul grande schermo. Vi meravigliereste? “La vendetta veste Prada. Il ritorno del diavolo” di Lauren Weisberger, Piemme, euro 19,50. In libreria il seguito del fortunato “Il diavolo veste Prada”, da cui è stato tratto l'omonimo film campione d'incassi, interpretato da Meryl Streep e Anne Hathaway. Nella trama la giovane Andy, avendo ormai lasciato da dieci anni la “terribile” Miranda Priestly, direttrice della rivista “Runway”, ha fondato un giornale con Emily, sua acerrima nemica, ora diventata il suo braccio destro. Qualcosa di inaspettato, però, le fa ritrovare il suo “ex capo”: il divertimento è assicurato. Un canovaccio destinato al cinema. Vedrete, vedrete. “Quattro zampe e un amore” di Edoardo Stoppa, Mondadori, euro 16,00. Un romanzo sul rapporto “speciale” con gli amici a quattro zampe: in rassegna il racconto di tappe fondamentali di un uomo, che ha fatto del suo essere difensore degli animali a “Striscia la notizia” (da inviato su Canale 5) un motivo conduttore esistenziale. “Ologramma per il re” di Dave Eggers, Mondadori, euro 18,50. Cosa si fa, in tempo di crisi, per pagare gli studi ad una figlia? Di tutto. Così un 54enne si ingegna e cerca di convincere un emiro ad acquistare una sua invenzione, tenuta nel cassetto per tanto. Una maniera per riflettere sullo stato della società attuale. “L'analfabeta che sapeva contare” di Jonas Jonasson, Bompiani, euro 19,00. Cosa c'entra una bimba sudafricana, del ghetto di Soweto, con la corte del re di Svezia? Per scoprirlo, bisognerà avventurarsi nella seconda opera di un autore, rivelatosi con “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve”. “Oriana, una donna” di Cristina De Stefano, Rizzoli, euro 19,00. Carte inedite e numerose testimonianze di chi ha avuto la fortuna di conoscere “la giornalista italiana più importante del Novecento”. E, sappiate, che non ci sono filtri e mezze misure. Gianluca Doronzo

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