minimum vivendi

Page 1

Sessione di laurea luglio 2018 Benedetta Badiali matricola 860437

Minimum vivendi

Sull’abitazione minima per l’uomo

Politecnico di Milano Scuola di Architettura, Urbanistica, Ingegneria delle Costruzioni Corso in Progettazione dell’Architettura Anno accademico 2017-2018



Benedetta Badiali matricola 860437 Sessione di laurea luglio 2018

Minimum vivendi

Sull’abitazione minima per l’uomo

Politecnico di Milano Scuola di Architettura, Urbanistica, Ingegneria delle Costruzioni Corso in Progettazione dell’architettura Anno accademico 2017-2018



Indice

5

Minimum vivendi

9

Premessa

17

Capitolo I Existenzminimum

29

Capitolo II Abitare

45 67 89

Capitolo III Minimo moderno Le Cabanon Stanza per un uomo

101 109 133 151

Capitolo IV Minimo contemporaneo Atelier bow-wow Tato Architects Elemental

177

Capitolo V Sul confronto

189

Bibliografia

193

Sitografia



Minimum vivendi

La scelta del tema e delle questioni che vengono esposte ed approfondite nel testo nasce da un particolare interesse per l’architettura degli interni, per la questione dell’abitare e gli spazi a misura d’uomo, nello specifico per gli spazi ridotti e “piccoli”, che negli ultimi anni si stanno liberando progressivamente da ogni accezione negativa, divenendo poco a poco qualità apprezzabile o addirittura desiderabile, spingendo sempre più progettisti a realizzare con entusiasmo crescente abitazioni di taglia ridotta. Una breve introduzione sul tema dell’abitare, studiando il ruolo che esso ha assunto nella storia, precede la trattazione dell’”existenzminimum” durante il Movimento Moderno, fino ad arrivare alla contemporaneità, individuando le linee di sperimentazione, di ricerca progettuale, dalle quali trarre forme innovative per gli spazi abitativi odierni, attraverso casi studio che meglio di altri rappresentano la situazione contemporanea delle abitazioni minime, in luoghi, società e culture, come vedremo, molto differenti tra loro.

5



Premessa



Premessa

L’attrazione nei confronti delle tematiche appena esposte nasce durante il corso di progettazione dell’architettura degli interni tenuto dal professore Arnaldo Arnaldi durante l’a.a. 2017/2018 e durante il tirocinio svolto nello stesso periodo, nel corso del quale la progettazione architettonica ha riguardato per lo più ristrutturazioni di interni ad uso prevalentemente domestico. La volontà è di sviluppare il tema dell’abitare, studiando ed esaminando il ruolo che esso ha assunto nella storia, fino ad arrivare alla contemporaneità, individuando le linee di sperimentazione, di ricerca progettuale, dalle quali trarre forme innovative per gli spazi abitativi odierni. Quando e perché nasce per la prima volta la necessità e la volontà di progettare alloggi “minimi”, come si sviluppa il tema nel corso degli anni, quali sono le differenze e le analogie che caratterizzano questo percorso; quali gli elementi invarianti di cui si può ancora parlare e quali, invece, i nuovi temi che la contemporaneità propone: sono queste le questioni che accompagnano l’intero scritto. Il punto di partenza è lo studio dell’etimo della parola tedesca “existenzminimum”, della sua traduzione in italiano e delle varie espressioni che si sono sviluppate nel tempo per riferirsi ad essa. Il tema dell’abitare, ovvero della necessità di un luogo protetto e riparato dal mondo naturale esterno è la ragione stessa dell’architettura e, soprattutto, è il bisogno costante dell’uomo dall’inizio dei tempi fino ad oggi; paradigmatica la “capanna primitiva” di Laugier. Nel corso del tempo le esigenze dell’uomo cambiano,

9


aumentano, si diversificano, insieme alla società ed alla città, ed il tema dell’abitare si sviluppa in parallelo. Il concetto della razionalità, nel progetto di architettura, per risolvere i problemi legati al soddisfacimento dei bisogni dell’uomo, si sviluppa particolarmente nella prima metà del 1900 in Europa, soprattutto in Germania, con il Movimento Moderno. L’obiettivo di questi studi è quello di risolvere, attraverso metodologie razionali, i bisogni biologici e sociali dell’uomo. La risposta a queste esigenze è fornita dalla teoria dell’”existenzminimum”, formulata dai maestri del razionalismo, attraverso una serie di norme fisiche, dimensionali e una serie di principi distributivi, funzionali e organizzativi dello spazio abitativo. Fra numerosi studi sull’alloggio minimo, in questo periodo, di particolare interesse sono quelli condotti da Alexander Klein, il quale fornisce un metodo scientifico e quasi cartesiano per la progettazione di un alloggio minimo nel rispetto dei bisogni fisici e, soprattutto, psicologici dell’uomo. La costruzione razionale delle forme dell’abitare, quindi, si evolve rispetto alle nuove e specifiche esigenze dell’uomo. L’individuo e, in particolare, la misura umana, divengono i protagonisti e vera e propria unità di misura per la progettazione stessa dell’edificio. Esempio emblematico è il “Modulor” disegnato da Le Corbusier, figura di spicco nell’ambito della progettazione di spazi minimi e nello studio dell’aggregazione di questi ultimi. Il primo caso studio presentato è, per l’appunto, un progetto di colui che può essere considerato il maggior esponente del Movimento Moderno. Spicca, in contemporanea, nel panorama italiano, il progetto sperimentale di un architetto fondamentale del Razionalismo: Franco Albini. Nella progettazione di alloggi minimi, primario è il ruolo del

10


complemento d’arredo, a cui saranno dedicate particolari riflessioni. La qualità della casa viene raggiunta anche dall’integrazione e interdipendenza precisa dell’arredo e dello spazio architettonico. I mobili, infatti, durante il periodo razionalista, iniziano a cambiare di funzione e a svilupparsi quali elementi contrapposti a quelli tradizionali, cosiddetti “in stile”. Il muro diventa parete attrezzata e si ha il passaggio dal “muro di ieri” al “muro di oggi”1, come viene definito nel numero 5 del 1928 di “Domus”. La casa diventa una vera e propria “casa senza mobili”, che nelle parole di Giuseppe Pagano del 1936, viene costruita “tenendo presente che scaffali e armadi sono destinati a scomparire come elementi mobili per diventare parte integrante dell’abitazione diventando anzi spesso pareti divisorie fra i diversi ambienti”2. Parole queste che hanno un netto rimando a quelle di Adolf Loos, contenute nel saggio “L’eliminazione dei mobili” del 1924, quando dice: “Che cosa deve fare l’architetto moderno? Deve costruire case nelle quali tutti quei mobili che non si possono muovere scompaiano nelle pareti”3. Nella contemporaneità, questo tema è ancora presente e, possiamo dire, protagonista nella progettazione di interni architettonici. Oggi, l’evoluzione della razionalità del Movimento Moderno deve essere in grado di trovare soluzioni adeguate alla progettazione di forme dell’abitare che corrispondano ai bisogni mutevoli dell’individuo contemporaneo, che soddisfino, ad esempio, le esigenze di versatilità e flessibilità. I principi dell’”existenzminimum” sono oggi reinterpretati in differenti modalità. Vengono quindi presi a riferimento studi di architettura contem1 Domus, n. 5, 1928 2 Maria Cristina Tonelli, lI disegno del mobile razionale in Italia 19381948, in Rassegna, n. 4, 1980 3 Loos A., Parole nel vuoto, Milano, Adelphi, 1972

11


poranei: L’”Atelier Bow-Wow” ed i “Tato Architects”, studi di architettura giapponesi , ed Alejandro Aravena, architetto cileno. Illustrando i progetti emblematici di ognuno, studiando le differenze delle ragioni che stanno alla base dei progetti e, di conseguenza, la diversità dei risultati architettonici finali, si riflette su cosa significhi oggi progettare alloggi minimi e quali siano le risposte contemporanee nei confronti di questo tema. Fondamentale sarà la riflessione sul luogo, sia a livello geografico che sociale, in cui il progetto si insedia e come questo determini l’identità stessa dell’architettura che ne deriva. Paradigmatiche le parole di Silvano Petrosino: “Lo spazio è il vuoto, l’indeterminato, il senza forma, in altre parole è un termine/concetto frutto di un percorso di astrazione; il luogo, invece, è sempre un determinato, o meglio è lo spazio che, raccogliendosi attorno a un determinato, si concretizza restando informato da questo stesso determinato. [...] L’identità di un luogo non è mai separabile dall’identità del determinato, di quella particolare singolarità che informa lo spazio rendendolo luogo. [...] Per comprendere un “luogo antropologico” è necessario comprendere che cosa sia l’abitare umano. [...] L’uomo abita sempre, l’uomo informa lo spazio trasformandolo in luogo, un puro luogo non esiste”4. Il medesimo approfondimento riguarderà la committenza dell’opera, che permette di comprendere precise condizioni che determinano il risultato finale di architetture che, apparentemente, sembrerebbero avere le stesse finalità e contenere i medesimi valori.

4 Garlaschelli E., Petrosino S., Lo stare degli uomini. Sul senso dell’abitare e sul suo dramma, Marietti, Genova, 2012

12




Capitolo I

Existenzminimum


45,60 mq

48,70 mq

51,80 mq

54,90 mq

58,00 mq

61,10 mq

64,20 mq

67,30 mq

70,40 mq

73,50 mq

Disegni di Alexander Klein, da Lo studio delle piante e la progettazione degli spazi negli alloggi minimi. Scritti e progetti dal 1906 al 1957, Milano, Gabriele Mazzotta Editore, 1975 Analisi di una tipologia in cui vengono variate profonditĂ e superficie utile.


I

Existenzminimum

La parola tedesca “existenzminimum” consiste nell’unione delle due parole “existenz” e “minimum”. La prima di queste ultime, in italiano letteralmente “esistenza”, deriva dal composto latino “ēx + sistentia”. Ēx preposizione (moto da luogo) da (tempo) da, fin da, a partire da (origine) da, di, da parte di (causa) a causa di, per, in seguito a (partitivo) fra, di, tra (relazione) nell’interesse di, per 1 Sisto sistis, stiti, statum, sistĕre verbo transitivo e intransitivo III coniugazione (transitivo) porre, collocare (transitivo) costruire, erigere, innalzare (transitivo) stabilizzare, consolidare, rafforzare, sostenere (transitivo) fermare, arrestare, impedire di avanzare, trattenere (intransitivo) resistere, mantenersi, durare, sussistere 2 1 2

Castiglioni, Mariotti, IL, Vocabolario della lingua latina, Loescher, 2007 Castiglioni, Mariotti, op.cit.

17


Come si può notare, i significati della preposizione e del verbo che danno vita alla parola “esistenza”, o meglio, “existenz”, sono molteplici. L’accezione che interessa a pieno il tema che verrà affrontato nel testo e che dà vita all’espressione che diverrà un vero e proprio slogan dal Movimento Moderno in poi, è soltanto uno. La preposizione di relazione “nell’interesse di, per” ed il verbo transitivo “costruire, erigere, innalzare” sono le due definizioni che, unite, danno significato alla parola “existenz” in questo preciso ambito: nell’interesse di costruire, innalzare, erigere. Anche il termine italiano “esistenza”, traduzione letterale del termine tedesco “existenz”, ha designazioni specifiche. Esistènza s. f. [dal lat. tardo exsistentia, der. di exsistĕre «esistere»] 1. L’esistere, l’esserci: l’e. di Dio, dell’anima, degli uomini, del mondo, delle cose. Più propriamente, nel linguaggio filosofico, il termine indica sia lo stato di ogni realtà in quanto è tale, sia, in senso specifico, lo stato della realtà che può essere oggetto di un’esperienza sensibile; per la filosofia dell’esistenza, vedi esistenzialismo. 2. Vita, il fatto di vivere, o il tempo che dura o è durata la vita: l’e. terrena dell’uomo; la lotta per l’e.; avere un’e. felice; ha avuto un’e. travagliata.3 Come si può notare, la costante che accomuna i due sensi che il termine può assumere è la realtà in quanto tale, sensibile, oggettiva, tangibile, in cui si svolge, appunto, la vita terrena dell’uomo. È questo il senso che interessa l’architettura e la ricerca che questo testo affronta. La seguente considerazione apre un interessante riflessione filosofica. L’esistenza è sempre stata studiata, trattata ed approfon3 Treccani, Dizionario della lingua italiana, Giunti T.V.P., 2017

18


dita durante tutto l’arco della storia della filosofia occidentale. Le parole “esistenza” ed “essere”, in particolare, sono state spesso messe a paragone tra loro. Platone distinse per primo l’”esistenza” dall’”essere”, affermando che il mondo sensibile dipende ontologicamente dalle idee, ed “esiste” solo in relazione a queste ultime. Le idee sono in sé e per sé, e bastano a sé stesse, mentre l’esistenza ha bisogno dell’essere. Le parole e i concetti “esistenza” ed “essere” hanno assunto due significati diversi anche in Aristotele. Questi ha evidenziato che esistono diversi modi in cui gli oggetti possono “essere”, dando così vita all’ontologia, campo fondato sulle relazioni tra le varie categorie dell’essere. Aristotele concepisce l’esistenza come “sinolo”, ossia unione di materia e forma. Il concetto di esistenza come “modo d’essere” specifico dell’uomo lo si ritrova in Giambattista Vico, correlato al suo concetto di storia. Essendo la storia una dimensione propria soltanto dell’uomo, e conoscibile solo in quanto tale, ciò che l’uomo è o fa diviene storicizzabile e reale solo per il suo specifico modo di estrinsecarsi e di esistere. Friedrich Schelling distinse l’”essenza”, che riguarda l’”essere” da un punto di vista puramente logico-formale, dall’”esistenza”, che attiene invece all’aspetto storico e concreto dell’essere. Schelling inaugurò in tal modo un nuovo filone di pensiero incentrato sull’esistenza, sulla quale verterà anche la riflessione di Kierkegaard. Questi diede vita alla corrente denominata appunto “esistenzialismo”, che studia l’esistenza umana nel suo aspetto storico e concreto. Si ponga, in particolare, attenzione sul concetto di “sinolo” che introduce Aristotele. Esso designa l’individuo e la sostanza, l’unione cioè di materia e forma. Allo stesso modo, Kierkegaard

19


parla dell’esistenza umana nel suo aspetto si storicità e concretezza. Questo concetto viene ripreso proprio in Germania, durante il cosiddetto movimento filosofico dell’“esistenzialismo”, nel primo dopoguerra, come rinascita del pensiero di Kierkegaard, in particolare da Heidegger, che dà un contenuto umano e mondano ai concetti teologico-religiosi dell’esistenzialismo. Ed è questo il contenuto che interessa, in primo luogo, proprio l’architettura di questo periodo. È in questo contesto filosofico che, infatti, nel panorama architettonico tedesco, nasce il Movimento Moderno e, in particolare, la teoria dell’”existenzminimum”, assieme a tutti i temi, ad essa strettamente connessi, riguardanti l’abitare dell’uomo moderno. La parola “minimum”, in italiano letteralmente “minimo”, deriva dal latino “minimus”. Mĭnĭmus minimă, minimum aggettivo I classe minimo, il più piccolo, piccolissimo superlativo di minor 4 Nella lingua italiana la parola “minimo” ha i seguenti significati. Mìnimo agg. e s. m. (f. -a) [dal lat. minĭmus, superl. di minor «minore»; v. meno] Piccolissimo, il più piccolo. Funge da superlativo di piccolo e si contrappone direttamente a massimo. 4

Castiglioni, Mariotti, op. cit.

20


1. agg. a. Si usa soprattutto con nomi astratti e in parecchie locuz. del linguaggio scient. e tecn. (nelle quali non potrebbe essere sostituito da piccolissimo.) b. Raramente riferito a persona (col valore di «l’ultimo, l’infimo») 2. Sostantivato con valore neutro, la cosa, la parte, la quantità più piccola possibile.5 Come si può notare, il senso dell’aggettivo che dà vita alla parola “minimum”, all’interno dell’espressione presa in esame, è sicuramente il secondo significato: la quantità più piccola possibile. Nello specifico, la “quantità” a cui si fa riferimento è, in questa circostanza, una dimensione fisica. Nella lingua italiana si sono sviluppate, nel tempo, varie espressioni differenti per riferirsi al concetto di “abitazione minima”. Prendendole in esame, e studiando le etimologie e le origini di espressioni differenti tra loro, si cercherà di capire quali sono i punti di contatto e le costanti che legano insieme le terminologie di seguito analizzate e, di conseguenza, il significato unico ed univoco del concetto che in questo capitolo è stato scomposto in tutte le sue possibili accezioni.

5 Treccani, op. cit.

21


Paolo Martegani, in “SPAZIOMINIMO indagine metodologica sull’habitat più ridotto”, parla della “cellula abitativa minima”, scrivendo un paragrafo denominato “Tentativo di definizione”. Ciò rende subito chiara la difficoltà nel definire questo termine. Il significato biologico della locuzione è il più conosciuto da tutti. Essa deriva però dal latino “cellula”. Cellŭla cellulă, cellulae sostantivo femminile I declinazione 1 cameretta riservata agli schiavi 2 appartamento umile 3 guardiola del portinaio 4 stanza di prostituta 5 celletta per animali o per provviste6 Ed anche la prima definizione del dizionario Treccani è: piccola cella, celletta, scompartimento (è riferito oggi quasi esclusivamente alle costruzioni navali, dove indica ognuno dei piccoli scompartimenti in cui è diviso il doppio fondo delle navi a scafo metallico, per ripartire l’acqua di zavorra e altri carichi liquidi, e per limitare l’estensione dell’allagamento interno in caso di falla d’acqua) . 7 Ecco che la parola “cellula” assume, fin dall’antichità, un significato ed un valore prettamente fisico e spaziale ed il filo rosso che accomuna le prime definizioni sopra elencate è il concetto di spazi “piccoli”, che potrebbero essere definiti, appunto, minimi. Il concetto di “cellula”, però, assume un’accezione differente rispetto a quella di “existenzminimum”, o di “standard minimo”; essa, infatti, si riferisce, nello specifico, ad una unità ripetibile ed 6 Castiglioni, Mariotti, op. cit. 7 Treccani, op. cit.

22


aggregabile. “Per analogia o esempio si può pensare agli scompartimenti di un vagone ferroviario, alle cabine di una nave, alle degenze di un ospedale, alle aule in una scuola e così avanti. Tuttavia la cellula che qui interessa perché argomento di questa trattazione va ulteriormente definita aggiungendo l’aggettivo “residenziale” al sostantivo; essa è una unità autonoma, solo per alcuni versi autosufficiente, definita spazialmente in dimensioni piuttosto contenute. [...] La cellula è la propaggine autonoma ma non indipendente di un sistema più complesso di servizi di relazione. Normalmente in un edificio composto di cellule e munito anche di attrezzature comuni la cellula vive in gruppo; così come in un aggregato per roulettes le singole unità mobili parcheggiate nei loro spazi vivono e sono fruite facendo riferimento ad un sistema di servizi comuni.” 8 Come però al limite la roulotte potrebbe essere anche utilizzata indipendentemente dalle attrezzature e dei servizi del parco campeggio, così anche la cellula potrebbe vivere fuori da una aggregazione purché inserita in un contesto urbano attrezzato con quei servizi che alla cellula stessa sono mancanti, concetto che vedremo espresso e definito dal progetto del “Cabanon” di Le Corbusier. Quindi normalmente le cellule vivono in gruppo, in aggregazioni che possono essere costituite da cellule di dimensioni assolutamente costanti, oppure essere il frutto di incastri di cellule con dimensioni ed ingombri volumetrici differenti. “Le differenze tra appartamento e cellula sono riconoscibili nei punti estremi della gamma di cellule e di appartamenti, meno nei punti intermedi”9. Un appartamento è uno spazio abitabile di 8 Martegani P., SPAZIOMINIMO indagine metodologica sull’habitat più ridotto, Roma, Bulzoni Editore, 1975 9 Martegani P., op. cit.

23


dimensioni rilevanti, con servizi incorporati, tendente all’autosufficienza. Nelle cellule non tutte queste funzioni sono assolte all’interno della cellula stessa, ma parte di esse viene demandata alla centralizzazione di alcuni servizi. Il concetto di cellula è definibile in modo esemplare, ad esempio, attraverso le “Unité d’habitation” di Le Corbusier. “Standard minimo” è un’altra espressione comune, con la quale ci si riferisce al concetto di abitazione minima. La consonante finale della parola “standard” suggerisce l’origine non italiana del termine, che deriva, senza adattamenti, dall’inglese, che ha adottato il termine a sua volta dal francese “estandart”, cioè “stendardo”. La parola ha le prime attestazioni in inglese sin dal 1154 come “stendardo, insegna” e solo successivamente “esemplare di misura” (1429), “criterio di eccellenza” (1563) e “livello definito” (1711). Per quanto riguarda l’italiano, “standard” col significato di “modello” compare alla fine dell’Ottocento (1892) nel “Dizionario del turf italiano” di G. Ballarini e viene poi registrato nel “Dizionario moderno” del Panzini nel 1905: “stendardo, modello, tipo, norma: è voce inglese diffusa nel mondo con i più ampi significati in commercio, per indicare che la qualità di una merce o di un prodotto dell’industria è quella tipica, normale”10. Non senza critiche è stato anche l’ingresso in italiano sia dell’aggettivo nel sintagma italiano “standard” sia del sostantivo “lo standard”. Soprattutto Arrigo Castellani ha proposto di ricorrere alla locuzione “norma”, adottando “normale” come termine della linguistica sinonimo di “standard”. La parola “standard”, che quindi assume l’accezione di “normale” nella lingua italiana, è fondamentale in quanto introduce un 10

Panzini A., Dizionario Moderno. Supplemento ai Dizionari italiani, 1905

24


concetto importante per il senso che viene attribuito all’”existenzminimum” quando nasce e, soprattutto, ancora oggi. Il fatto di progettare spazi limitati per l’abitare umano, infatti, è stato spesso inteso ed espresso in maniera sbagliata, ovvero come tentativo di organizzare gli spazi in modo ch e questi ultimi siano vivibili dall’uomo, anche se in modo angusto, scarso e mediocre. È proprio qui che viene compreso a pieno il senso di ciò che significa progettare un alloggio minimo: “Il problema dell’alloggio minimo è quello del minimo elementare di spazio, aria, luce, calore necessari all’uomo per non subire, nell’alloggio, impedimenti al completo sviluppo delle sue funzioni vitali, e cioè un “minimum vivendi” e non un “modus non moriendi””11.

11 Gropius W., in L’ABITAZIONE RAZIONALE atti dei congressi CIAM 1929-1930, a cura di Carlo Aymonino, Venezia, Marsilio Editori, 1971

25



Capitolo II

Abitare


Laugier M.A., la capanna primitiva, 1753


II

Abitare

L’uomo vuol farsi un alloggio che lo copra senza seppellirlo. Esce dunque all’aperto, risoluto a supplire col suo ingegno alla rudezza ed alla negligenza della natura, e deciso a costruirsi un alloggio che lo copra senza seppellirlo. Alcuni rami divelti costituiscono il materiale idoneo al suo disegno ed avendone scelti quattro fra i più robusti, li erige verticalmente piazzandoli ai vertici di un quadrato. Alla loro sommità, ne pone orizzontalmente altri quattro, sui quali altri ancora, inclinati e congiunti alle estremità, sono disposti in modo da formare una sorta di tetto, che viene ricoperto di fogliame abbastanza fitto perché né la pioggia né il sole possano penetrare. Ed ecco, finalmente, il nostro uomo sistemato nel suo alloggio. [...] La piccola capanna rustica che così ho descritto è il modello in base al quale sono state immaginate tutte le magnificenze dell’Architettura.1

Con queste parole Laugier nel suo “Saggio sull’Architettura” del 1753 descrive il mito della nascita dell’architettura, riferita alla capanna primitiva, rifacendosi a una tradizione che deriva dal “De Architectura” di Vitruvio. In queste parole emergono le ragioni fondative del fare architettura, ovvero il riparo e la sicurezza, ma anche, e soprattutto, si pone la diretta relazione con la costruzione e con il materiale costruttivo, il legno appunto, che si esprime in una serie di limpide figure architettoniche che anche Mies Van Der Rohe, che mai usa il legno nelle sue archi1 1987

Laugier M.A., Saggio sull’Architettura, Aesthetica Edizioni, Palermo,

29


Capanne primitive, da Vitruvio (edizione di Cesare Cesariano)

30


tetture più rappresentative, considera esemplari. Secondo la nota tesi di Vitruvio, la capanna in legno è addirittura l’antenata del tempio greco. Ma soprattutto si tratta dello stesso materiale che Le Corbusier utilizza per la progettazione dell’architettura forse più rappresentativa per quanto riguarda il tema che questo testo affronta: l’abitare minimo dell’uomo. E’, appunto, il bisogno umano di abitare che, prima di ogni cosa, fa sì che l’Architettura possa nascere. L’origine dell’architettura viene quindi identificata con la costruzione, attraverso materiali poveri, che la natura stessa offre all’uomo, di una stanza, separata fisicamente da ciò che è il mondo naturale esterno. La casa nasce quindi come rifugio, protezione e difesa rispetto a ciò che è fuori da essa. Quest’ultimo non è un concetto appartenente esclusivamente alla materia architettonica; in primo luogo, infatti, “bisogna superare i problemi della descrizione – sia essa oggettiva, o soggettiva – per cogliere le virtù prime, quelle in cui si rivela un’adesione in qualche modo originaria alla funzione prima dell’abitare”2, dice Gaston Bachelard, filosofo francese dei primi anni del Novecento. Lo stesso Bachelard ripropone dei temi che sono del tutto simili e quasi sovrapponibili a quelli di cui parla Laugier. “La capanna appare come la radice a fittone della funzione dell’abitare. Essa è la pianta umana più semplice, quella che non ha bisogno di ramificazioni per vivere. […] La capanna dell’eremita è una gloria di povertà: di rinuncia in rinuncia, essa ci fa accedere all’assoluto del rifugio”3. Non lontane da queste ultime immagini sono quelle evocate dall’architetto tedesco Gottfried Semper, il quale deduce, dallo 2 32 3

Bachelard G., La poetica dello spazio, Bari, Edizioni Dedalo, 1975, p. Bachelard G., op. cit., p. 59

31


Gottfried Semper, Capanna caraibica, 1851

32


studio della storia sociale e dell’architettura, gli elementi originari necessari ad ogni architettura, che sono alla base delle costruzioni di tutti i tempi. Attraverso il modello della cosiddetta “capanna caraibica”, egli si pone come obiettivo quello di identificare le funzioni sociali fondamentali comuni alla vita di tutti i popoli. Queste sono la produzione di calore e di cibi caldi, espressa attraverso l’elemento del focolare; la funzione di difesa dall’esterno, rappresentata dall’elemento della recinzione; la funzione di difesa dalle intemperie, simboleggiata dal tetto. Da questi elementi si sviluppano, con necessità scientifica, tutti gli altri: l’arte di creare pareti divisorie, ad esempio, si sviluppa a partire dall’elemento della recinzione. L’altro aspetto fondamentale in architettura, secondo Semper, è l’uso dei materiali, i quali non devono mai tradire la loro essenza, concetto modernissimo, in quanto sarà alla base della rivoluzione architettonica dei primi anni del 1900, particolarmente sentita dall’architetto Adolf Loos. Il concetto della casa come riparo e rifugio, bisogno biologico dell’uomo, nonché radice della funzione stessa dell’abitare è un concetto che, sopra ad ogni altro, è insito in qualsiasi individuo. “Abitare”, inoltre, deriva dal latino “habitare” che, oltre al significato che tutti conoscono oggi, significa anche “portare abitualmente, essere solito tenere”4. Connessione stretta, infatti, anche quella con il termine “abito”, dal latino “habitus”, ovvero “tutto ciò che noi siamo destinati o soliti ad avere con noi, a portarci dietro continuamente”5. L’abitazione è effettivamente qualcosa che fa parte dell’individuo che abita la casa, che diventa una vera e propria abitudine per l’uomo e soprattutto un elemento affettivo ed intimo con cui si instaura un legame speciale, sempre diverso, ma presente ininterrottamente. 4 Treccani, Dizionario della lingua italiana, Giunti T.V.P., 2017 5 Castiglioni, Mariotti, IL, Vocabolario della lingua latina, Loescher, 2007

33


Eugène Viollet-le-Duc, Histoire de l’habitation humaine, 1875

34


Chiarita questa nozione, nell’affrontare il tema della casa, punto di partenza fondamentale è sicuramente lo studio della relazione instaurata con il luogo in cui il progetto si insedia, in quanto “uscire di casa non vuol dire interrompere l’esperienza dell’abitare, ma solo rinnovarla altrove, con altre modalità ed altri interlocutori. L’esterno si rovescia in un interno, e questo “interno” è lo spazio urbano”6. Il progetto della casa coinciderà in sostanza con quello del luogo in cui essa si andrà a collocare. Se si prendono a riferimento, ad esempio, la “domus” romana o la casa greca, esse trovano nell’”architettura della città” il proprio carattere specifico: l’introversione, e quindi la volontà di negare il rapporto con la città diviene il tema attraverso cui definire il principio abitativo sperimentato. Nella città classica greca e romana, infatti, risulta nettamente distinto il modo del vivere collettivo da quello privato. La stessa regola caratterizza la tipologia della casa islamica, in cui “l’archetipo del recinto diventa la matrice figurativa per la costruzione dell’architettura, della città e del territorio”7. In questo caso anche l’aspetto geografico, sociale e religioso giocano contemporaneamente un ruolo fondamentale. La corte centrale che caratterizza ogni casa diventa il centro della vita familiare e religiosa, in quanto è proprio verso un “dentro” che Maometto compì la sua “emigrazione”, stabilendo la nuova religione. La corte, inoltre, indica sia una separazione e difesa rispetto al deserto, identificando così un “dentro” e un “fuori”, sia si configura come dispositivo di raffrescamento della casa stessa. La necessità di circoscrivere uno spazio, delimitarlo e difenderlo 6 Vitta M., Dell’Abitare. Corpi spazi oggetti immagini, Torino, Einaudi, p. 175 7 Fumagalli C., Tra esterno e interno. Il recinto modello di costruzione della casa islamica, in Laboratorio sull’abitare, Landsberger M. (a cura di), San’Arcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2016, p.53

35


Domus Romana, pianta e sezione tipo

36


Andrea Palladio, Villa La Rotonda, Vicenza, 1567, pianta e sezione

37


Boulevard des Capucines, Parigi, 1676

38


ha determinato così un modo di pensare alla costruzione della città e del territorio del tutto particolare e tipicamente riconoscibile, in cui la corte è l’elemento costante, che si ripete, invariato nel suo significato, in una moltitudine di dimensioni e forme. Su un principio nettamente opposto si costruiscono invece le esperienze progettuali, ad esempio, di Andrea Palladio, dove il rapporto con l’esterno, con la natura, diventa elemento determinante. Ne “La Rotonda” il luogo diventa elemento compositivo del progetto: “una casa che si apre sul paesaggio, che fa della sua condizione ortografica il tema stesso della sua costruzione”8. Anche nella città dell’Ottocento la casa guarda fuori da sé. Nella Parigi di Haussmann le stanze affacciano sui viali alberati, la casa affaccia sulla città, sul suo sistema di relazioni di merci, veicoli, e persone. Tutta la vita della città è convogliata nei viali urbani e lì si affacciano le stanze delle abitazioni borghesi. Una relazione stretta fra un luogo particolare e la vita urbana intesa come spettacolo. In fondo la strada è sempre ciò che ha legato il cittadino alla vita della città al punto da far dire a Bruce Chatwin che “la vera casa dell’uomo non è una casa ma la strada dove la casa si affaccia”9. Le case, internamente, “contengono” quelle che comunemente chiamiamo “stanze”. Le stanze sono gli ambienti che dividono un’abitazione in più vani. Le stanze, come la parola suggerisce, sono i luoghi dello “stare”, “room” in inglese, che vuol dire “stanza” ma anche “posto dove stare”. “Stanze di case o di palazzi, di tante forme e dimensioni, chiuse fra i muri o aperte verso il paesaggio e verso il cielo. Stanze in 8 Landsberger M., Dare forma ai luoghi della vita dell’uomo, in Laboraorio sull’abitare, Landsberger M. (a cura di), Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2016, p. 11 9 Chatwin B., In Patagonia, Adelphi, 2003

39


cui si coltiva la propria identità in solitudine, o stanze in cui ci si incontra per condividere un’esperienza collettiva. Un susseguirsi di luoghi che col tempo ci diventano familiari, luoghi in cui riconosciamo noi stessi e in questo riconoscerci ci leghiamo a loro fino a renderli parte di noi”10. Anche le stanze, a loro volta, hanno un rapporto gerarchico e particolare sia tra loro, che con ciò su cui affacciano grazie alle finestre. Ogni stanza, a seconda della sua funzione, conformazione e dimensione viene abitata in modalità differenti dall’individuo, che instaura rapporti particolari con ognuno degli ambienti che vive ogni giorno. Il legame tra uomo e casa, quindi, è sempre esistito, sin dalla nascita della prima costruzione ed è definito dal concetto primo di abitare, in ogni epoca, in ogni città ed in ogni società.

10 Monestiroli A., Semerani L., La casa Le forme dello stare, Skira Editore, Milano, 2011

40




Capitolo III

Minimo Moderno


Margarete SchĂźtte-Lihotzky, Cucina di Francoforte, 1926


III

Minimo Moderno

L’uomo non possiede solo un corpo. E’ composto di anima e corpo. Le abitazioni attuali non corrisponsono sufficientemente ai bisogni spirituali degli abitanti.1

Il 1925 vede sorgere un’esperienza, che può essere considerata una premessa dell’approfondimento dei temi che si svilupperanno nei Congressi Internazionali di Architettura Moderna, che sono gli eventi fondativi del cosiddetto “Movimento Moderno” e, in particolare, del tema dell’abitare sulla base del principio dell’”existenzminimum”. A Mies Van Der Rohe venne affidato il compito di riunire e coordinare i migliori architetti moderni da tutta Europa col fine di realizzare un quartiere residenziale a Stoccarda. La richiesta arriva dal “Deutscher Werkbund”, l’associazione che riunisce progettisti, industriali, artigiani, cultori dell’arte moderna con lo scopo di coniugare “bella” forma e produzione industriale di massa, che può essere considerato movimento preliminare e fondatore del Movimento Moderno: basti pensare a Peter Behrens, grande architetto maestro di Le Corbusier. A Stoccarda ogni architetto può realizzare una o più opere capaci di riassumere le ricerche effettuate sulla residenza fino a quel momento. Si configura come un programma espositivo articolato su più mostre, tutte incen1 Klein A., Lo studio delle piante e la progettazione degli spazi negli alloggi minimi. Scritti e progetti dal 1906 al 1957, Milano, Gabriele Mazzotta Editore, 1975

45


Weissenhof Siedlung, Stoccarda, 1927

46


trate sulla costruzione di un quartiere di residenze sperimentali, denominato “Weissenhof Siedlung”. Alla progettazione vengono invitati a partecipare alcuni architetti selezionati fra coloro che hanno dimostrato di lavorare alla definizione del rapporto fra “nuova architettura” e “nuovo modo di abitare”. Nell’elenco dei progettisti brillano i nomi dei protagonisti tra coloro che intendono rendere più funzionale lo spazio domestico: i tedeschi Peter Behrens, Walter Gropius e Bruno Taut, gli olandesi Jacobus Johannes P. Oud e Mart Stam, il belga Victor Bourgeois, lo svizzero-francese Le Corbusier. Questi, insieme a un ristretto gruppo di colleghi, ricevono il mandato di costruire un complesso di abitazioni modello, case unifamiliari, case a schiera, appartamenti, che siano dimostrative degli intenti di innovazione tecnica e riforma sociale all’origine del programma espositivo proposto dal Werkbund. La mostra si propone, infatti, di sfidare la visione tradizionalista dell’abitare e di sperimentare le potenzialità offerte alla costruzione moderna da nuovi materiali e tecniche, con l’obiettivo di risolvere i problemi tipologico-spaziali ed economici connessi all’abitazione a basso costo. La realizzazione degli alloggi sulla collina del Weissenhof risente di una forte unità di scopi e prassi progettuali. Un’ulteriore esperienza, ovvero il concorso per la sede ginevrina della Società delle Nazioni, annunciato nel 1926, appare la più coerente manifestazione di quel sentimento di internazionalità a cui gli architetti moderni fanno in questi tempi continuo riferimento. È un’occasione appassionante, carica di attese, come dimostra l’elevatissimo numero di progetti, più di 350, che la giuria si trova a vagliare. Ma i risultati, annunciati nel maggio del 1927, tradiscono la scarsa attenzione della committenza verso i linguaggi modernisti: nessuno dei progetti viene ritenuto all’altezza del programma del concorso. Successivamente ci si rivolge

47


a due finalisti affinché redigano un nuovo progetto: l’esito è una proposta di chiaro stampo Beaux-Arts, poi realizzata. Quella soluzione sembra condannare la ventata di rinnovamento che percorre l’architettura. Colui che contesterà con più veemenza il giudizio della giuria e i suoi esiti finali sarà proprio Le Corbusier, il cui progetto, ricco di suggestioni formali e ambientali, e insieme molto innovativo, è certamente fra quelli che più sinceramente si faceva portavoce di ciò che, alcuni anni dopo, sarebbe stato definito lo “stile internazionale”. Frutto di quel clima battagliero e, al tempo stesso, carico di speranze che si vive in Europa alla fine degli anni Venti sono i “Congressi internazionali di architettura moderna”. Alla loro nascita dà un contributo vitale una ricca nobildonna di origine svizzera, Hélène de Mandrot, la quale, su suggerimento di Le Corbusier e dello storico dell’architettura Sigfried Giedion, chiama a raccolta nel suo castello a La Sarraz un nutrito gruppo di progettisti, molto vicini alle espressioni artistiche dei movimenti delle avanguardie. Si tiene così il primo CIAM, che vede riuniti architetti provenienti da più paesi europei. A conclusione di cinque giorni di dibattito, si giunge all’elaborazione di un documento, in cui si sottolinea una visione modernista ed antiaccademica, che vede l’impegno degli architetti a rifiutare principi formativi di epoche precedenti, di strutture sociali passate e di mettersi al passo con i tempi, dedicando un’attenzione particolare ai nuovi materiali da costruzione e ai nuovi metodi di produzione. Per dare un seguito agli impegni sottoscritti a La Sarraz si dispongono gruppi di lavoro a livello nazionale, che avrebbero indicato i delegati ai successivi congressi, previsti con cadenza annuale. Ed è proprio il CIAM dell’anno seguente, a Francoforte, che vede come tema centrale quello dell’abitazione per il minimo vitale. Il congresso viene organizzato da Ernst May, l’architetto

48


responsabile della costruzione dei nuovi quartieri popolari promossi dalla municipalità di Francoforte. In questo congresso cresce la partecipazione internazionale ed il tema scelto tocca uno dei problemi più sentiti dagli architetti dopo le distruzioni dovute al conflitto mondiale: la progettazione dell’alloggio minimo, specialmente indirizzato alle classi meno abbienti. L’argomento fondamentale del secondo CIAM è: “il problema di cosa sia essenzialmente necessario per l’essere vivente e di che cosa egli possa pretendere come esigenza minima da un’economia della quale si presupponga che operi in modo veramente sociale e pianificato”2. Il minimo di cui si parla quando ci si riferisce all’alloggio minimo riguarda anche una ricerca a livello dimensionale e tecnico, ma non si ferma solo a questo aspetto, l’indagine si estende infatti alle condizioni indispensabili non tanto alla sopravvivenza, quanto ad una degna esistenza sociale. “Non si tratta di un minimo assoluto quindi, che era stato ed era già ben risolto dagli speculatori fondiari nella costruzione delle periferie urbane di tutto il secolo XIX e del XX, ma di un minimo relativo, che si propone come differenziazione anche qualitativa rispetto ai “minimi assoluti” realizzati dalla speculazione privata”3. Un tema centrale che viene chiarito bene da E. May riguarda il metodo con cui bisogna procedere nella progettazione delle residenze, concentrandosi sulla risoluzione delle singole cellule abitative e su come esse si rapportino con le zone di distribuzione. “Il processo si articola così per sommatoria. Più letti formano un alloggio, più alloggi formano un’unità tipologica, più unità tipologiche formano un insediamento e più insediamenti 2 Secchi B., Prima lezione di urbanistica, Bari, Editore Laterza, 2013 3 Aymonino C., I congressi di Francoforte e di Bruxelles, in L’abitazione razionale atti dei congressi CIAM 1929-1930, Aymonino C. (a cura di), Venezia, Marsilio Editore, 1971, p.80

49


“sono”la città”4. È in questa occasione che viene introdotto il concetto di “existenzminimum”, che riassume tanto gli aspetti spaziali quanto economici e sociali della casa popolare, e che, nei decenni successivi, diventerà uno degli slogan di maggiore successo dell’architettura del Novecento. La risposta a questo tema non consiste nel dare una regola ferrea e fissa a come debba essere l’abitazione per il minimo di vita, quanto ad evidenziare ciò che dovrebbe essere evitato, ovvero tutti gli svantaggi che avevano presentato fino a quel momento le abitazioni per il livello minimo di vita. Una perfetta spiegazione di questo concetto viene espressa da Walter Gropius quando scrive: “Il problema dell’alloggio minimo è quello del minimo elementare di spazio, aria, luce, calore necessari all’uomo per non subire, nell’alloggio, impedimenti al completo sviluppo delle sue funzioni vitali, e cioè un “minimum vivendi” e non un “modus non moriendi””5. C’è però una figura teorica che, più delle altre, può essere senza dubbio considerata il padre dell’”existenzminimum”, ovvero Alexander Klein. Quest’ultimo è un architetto che si laurea a Pietroburgo nel 1904. Nella prima metà del 1900 comincia ad interessarsi al problema dell’abitazione, prevalentemente dei problemi dell’edilizia residenziale a basso costo. Nel 1928 presenta un metodo di valutazione razionale degli alloggi, progettando una pianta-tipo che presenta alla mostra dei CIAM di Francoforte del 1929. Nel 1933 è costretto ad abbandonare la Germania a causa delle persecuzioni razziali e si rifugia in Francia. In seguito 4 Aymonino C., op. cit., p.89 5 Gropius W., I presupposti sociologici dell’alloggio minimo, in L’abitazione razionale atti dei congressi CIAM 1929-1930, Aymonino C. (a cura di), Venezia, Marsilio Editore, 1971

50


a diversi viaggi ed attività, muore a New York nel 1961. Alexander Klein usa nei suoi scritti il vocabolo “Kleinwohnungen”, letteralmente “piccoli alloggi”, tradotto con “alloggi minimi” per il significato assunto dal termine nel successivo contesto storiografico. L’interesse per gli studi di Klein può trovare un suo riferimento nel tentativo che ne emerge di fornire specifici strumenti di verifica per la progettazione dell’alloggio non vincolati staticamente a standard dimensionali, ma riferiti anche a valutazioni qualitative. Nei confronti della semplice riduzione dimensionale, i procedimenti messi a punto da Klein tendono infatti a verificare il raggiungimento di prestazioni ottimali rispetto a parametri differenziati. Tutta una serie di proposte distributive e dimensionali, tra quelle presentate alla mostra di Francoforte, che si pongono come obiettivo prioritario la minimizzazione, rinunciando ad una revisione della struttura interna dell’alloggio, testimoniano la carenza di una posizione critica rispetto alle condizioni esistenti. Il tentativo di Klein può essere considerato più avanzato nella misura in cui introduce degli obiettivi che, quindi, andavano al di là delle limitazioni presenti a quel tempo. La ricerca di una metodologia scientifica ed oggettiva rappresentaa una parte molto importante e consistente delle attività del Movimento Moderno ed è proprio in questo filone di ricerca vanno collocati gli studi di Klein. Il metodo di valutazione delle piante, frutto di una serie di elaborazioni e di verifiche sviluppate durante gli anni precedenti, fu pubblicato nel 1928 con il titolo “Elaborazione delle piante e progettazione degli spazi negli alloggi minimi. Nuovi metodi di indagine”. Esso è basato essenzialmente su tre operazioni: 1- Esame preliminare per mezzo di un questionario; 2- Riduzione dei progetti alla medesima scala; 3- Metodo grafico.

51


Quest’ultima è l’operazione più importante e quella su cui ci soffermeremo; essa permette di verificare, per ogni pianta di alloggio, percorsi ed aree per la circolazione, concentrazione di superfici libere da arredi, relazioni tra gli elementi che compongono la pianta, ombre portate ed ingombro sulle pareti. Questo metodo è uno strumento di analisi dei problemi funzionali e distributivi dell’abitazione, ma poiché essi non possono essere isolati dagli aspetti formali cui sono connessi, coinvolge anche l’esame di questi ultimi. Un primo aspetto importante da sottolineare è che Klein considera questo metodo applicabile non solo come verifica su alloggi già realizzati, ma anche come un sussidio durante le varie fasi della progettazione, un approfondimento teorico, quindi, da utilizzare nella pratica. Alla ricerca razionalista dimensionale dell’”exixtenzminimum”, Klein aggiunge inoltre degli obiettivi di tipo psicologico: “Bisogna tenere presente il sorgere di sintomi di stanchezza psicologica che influenzano in modo negativo il sistema nervoso degli abitanti a causa delle sensazioni sgradevoli generate da una disposizione casuale degli elementi della pianta”6. Queste osservazioni mettono in evidenza la concezione “anabolica” dell’alloggio, che fu comune a Klein e al razionalismo: all’alloggio era cioè assegnata la funzione di rifugio dalle contraddizioni e dai conflitti della città, esso era il luogo privilegiato dell’intimità, del riposo e della ricostruzione della forza-lavoro. Klein ha cercato di individuare in modo il più possibile scientifico ed oggettivo le relazioni che intercorrono tra gli aspetti funzionali e quelli più propriamente di linguaggio dell’architettura. Per quanto riguarda l’abitazione, ha sempre sottolineato infatti l’importanza di una impostazione che tendesse ad “ottimizzare” 6

Klein A., op. cit.

52


l’alloggio, mettendo in rapporto il problema della riduzione dimensionale con quello dei miglioramenti effettivi delle prestazioni. L’approfondimento di questo campo così ricco di premesse per dei possibili sviluppi non è stato portato avanti negli anni dopo la seconda guerra mondiale, e l’impostazione metodologica di Klein, probabilmente anche a causa della documentazione limitata od inesatta che era disponibile, è stata assunta esclusivamente a livello emblematico senza nessuna applicazione concreta. Klein esordisce in questo modo nell’introduzione alla sua teoria: “L’uomo non possiede solo un corpo. È composto di anima e corpo. Le abitazioni attuali non corrispondono sufficientemente ai bisogni spirituali degli abitanti. […] A tutti noi è noto l’influsso dannoso del tabacco, dell’alcool, delle spezie, ecc. e ci interessiamo di questi problemi; tuttavia solo pochi di noi si interessano al fatto, dimostrato scientificamente, che un ambiente favorevole può esercitare un effetto salutare sulle nostre condizioni psichiche. Tenendo conto di ciò non ci possiamo più accontentare di accettare come abitazione un qualsiasi spazio coperto e suddiviso in locali senza alcun significato per gli aspetti spirituali della nostra vita”7, chiarendo in questo modo, ancora una volta, l’importanza e l’attenzione per l’aspetto psicologico e non soltanto dimensionale. Ci concentreremo ora principalmente nel terzo passaggio della teoria di Klein, precedentemente citata, ovvero il cosiddetto “metodo grafico”, in quanto nocciolo fondamentale dell’intera teoria per la comprensione di quelli che sono gli aspetti fondamentali da considerare per generare un interno di qualità, tutt’ora attuali. I primi due step, infatti, sono dallo stesso Klein definiti “metodi di esame preliminare”. Il metodo grafico si differenzia 7

Klein A., op. cit.

53


1

2

3

4

Disegni di Alexander Klein, da Lo studio delle piante e la progettazione degli spazi negli alloggi minimi. Scritti e progetti dal 1906 al 1957, Milano, Gabriele Mazzotta Editore, 1975 1. Esempio di scorci da un ambiente all’altro 2. Relazione dell’alloggio con l’ambiente esterno 3. Organizzazione degli spazi di circolazione 4. Possibilità di sorveglianza dei bambini

54


5

6

5. Sfruttamento dell’illuminazione solare 6. Possibilità di una migliore utilizzazione del volume d’aria per le camere

55


dagli altri, poiché con la sua applicazione possono venire lette oggettivamente ed in modo evidente le caratteristiche di una pianta. Diventa così possibile perfezionare un progetto, cioè aumentare l’efficienza dell’alloggio mantenendo la medesima superficie oppure diminuire la superficie mantenendo l’efficienza. Gli aspetti fondamentali che questo metodo analizza e corregge sono: l’andamento dei percorsi e la disposizione delle aree per la circolazione; la concentrazione delle superfici libere e le ombre portate, dove le prime sono quelle che restano dopo la disposizione dei mobili strettamente necessari, mentre le seconde sono le ombre portate dai parapetti delle finestre, dalle stufe e dai mobili che influiscono sugli effetti ottici e sulle sensazioni psichiche; le analogie geometriche e le relazioni tra gli elementi della pianta, ovvero quelle superfici, supposte all’altezza degli occhi, che possono venir percepite in modo unitario entrando nello spazio in esame: da esse dipende l’impressione complessiva dell’alloggio percepita sia in modo cosciente che incosciente dall’utente; il frazionamento e l’ingombro delle superfici delle pareti, per esempio, spazi di circolazione molto intricati causano uno spreco di forze fisiche inutile, generato dalla continua necessità di dover accelerare o rallentare il passo e ruotare ripetutamente il corpo, rendendo difficoltoso lo svolgimento delle funzioni principali dell’abitare: cucinare e mangiare, dormire e lavarsi, lavorare e riposare. È ora evidente come questi accorgimenti, considerati fondamentali ed alla base della progettazione stessa di un’abitazione da Klein, sono attuali e del tutto riproponibili nei progetti contemporanei, come avremo modo di vedere. Inoltre, per spiegare al meglio la sua teoria, Alexander Klein, oltre alle piante diagrammatiche, in parallelo presenta le facciate interne degli alloggi, prospetti che cercano di rappresentare la qualità spaziale dell’alloggio, tenendo conto che, più che le fac-

56


ciate esterne, sono quelle interne che quotidianamente fanno parte del nostro vissuto, attraverso la loro configurazione, articolazione, la presenza di dispositivi domestici che le arricchiscono e le sagomano, ma anche e soprattutto attraverso le aperture, che portano luce e aria nella casa, oltre che definire la relazione fra interno privato ed esterno pubblico. Aspetti materiali e spirituali dunque, quelli del vivere dentro il rifugio protetto della casa, luogo dove “stare bene”, pur in presenza di dimensioni minime; non più dunque un’architettura della facciata, ma una architettura degli interni; citando May, “nel costruire abitazioni, non devono essere assolutamente considerati come compiti principali l’aspetto esterno dell’edificio e l’articolazione della facciata”8, ma la costruzione delle singole unità, in un insieme che diventa poi, nell’aggregazione, città. È dunque evidente che l’esperienza funzionalista, come ha notato Carlo Aymonino, ha codificato una tipologia residenziale, e allo stesso tempo, anche in relazione a tali nuove forme dell’abitare, ha lavorato sulla “messa a punto di parti-tipo degli organismi edilizi (scala, ufficio, bagno, cucina, stanza, aula, ecc...) che potevano tornare ad essere strumenti di una più vasta composizione architettonica”9. Tutta questa introduzione riguardante il background storico, architettonico e teorico di questi anni è fondamentale a comprendere che, ancora una volta, è proprio l’uomo il protagonista degli spazi, in quanto tutta l’attenzione è posta nei suoi confronti; le esigenze di illuminazione, ventilazione, visibilità; la semplificazione dei movimenti e quindi la diminuzione della fatica nello 8 May E., L’alloggio per il livello minimo di vita, in L’abitazione razionale atti dei congressi CIAM 1929-1930, Aymonino C. (a cura di), Venezia, Marsilio Editore, 1971 9 Aymonino C., op. cit.

57


spostarsi all’interno degli ambienti domestici, insieme ad altri numerosi accorgimenti sono la base di partenza per la progettazione di spazi minimi, in primis, abitabili dall’individuo. Proprio in questo periodo, non a caso, Le Corbusier disegna l’uomo che diverrà per lui elemento fondamentale nella progettazione, definendo una vera e propria unità di misura che si basa unicamente sulle attività, le misure, le proporzioni e le azioni dell’uomo. D’altra parte, dall’inizio dei tempi l’uomo ha sempre costruito e quindi misurato servendosi di strumenti eterni e preziosi perché legati all’uomo stesso; il corpo dell’uomo costituisce quindi un riferimento costante per l’unità di misura del mondo in cui è immerso. Basti pensare al fatto le che prime unità di misura della storia furono dedotte da parti del corpo umano: il pollice, il piede, il palmo, il braccio, il passo e così via. L’architettura più rappresentativa dell’uomo, in questi termini, è l’architettura classica, che raffigura, ad esempio, con la colonna l’uomo nella sua interezza, e con le cariatidi l’emblema di questa autorappresentazione. Quando si iniziò a costruire nel mondo classico, infatti, si ebbe la necessità di avere un modello a cui rifarsi per le proporzioni, la resistenza e l’eleganza, così il corpo umano diventa il modello architettonico per eccellenza nella mimesi della natura da parte dell’arte. Coinvolgere il corpo nello sviluppo ritmico dell’arte del costruire per dar vita ad una struttura armonica è dunque ricerca di un sistema proporzionale che parta dall’uomo e dalla logica del corpo per regolare gli spazi vissuti. Anche Leon Battista Alberti, in “De Re Aedificatoria”, riafferma questo concetto, spiegando che l’ossatura dell’uomo diventa riferimento per la struttura dell’edificio. L’uomo vitruviano è con tutta probabilità la celeberrima rappre-

58


Leonardo da Vinci, Uomo vitruviano, 1490 ca.

59


sentazione delle proporzioni ideali del corpo umano. Leonardo da Vinci, seguendo le teorie di Vitruvio stesso, ribadisce il riferimento logico per la costruzione: l’antropometria, ovvero l’interesse nello studio delle relazioni instaurabili tra le varie parti del corpo umano. Questo disegno dimostra come il corpo umano possa essere armoniosamente inscritto nelle due figure del cerchio, che rappresenta il cielo, la perfezione divina, e del quadrato, che simboleggia la terra. Nel periodo moderno, come accennato, il concetto di modulo viene ripreso da Le Corbusier con il “Modulor”. Il termine deriva dalle parole francesi “module” e “section d’or”, ovvero “unità di misura” e “sezione aurea”. L’architetto lo elaborò dopo aver letto e studiato i trattati di Vitruvio, l’uomo vitruviano rivisto da Leonardo da Vinci e i lavori di Leon Battista Alberti. Questo studio nasce dalla riflessione nata nell’età della macchina, dove il modulo viene ricondotto a nuovi elementi che la modernità propone, come la produzione industriale e gli elementi strutturali standardizzati. Elaborato per creare spazi misurati sulle reali dimensioni dell’uomo, si basa sullo studio della figura umana e dell’ingombro dei movimenti dell’uomo, basandosi sulla sezione aurea e sulla serie di Fibonacci, generando proporzioni geometriche e matematiche relative al corpo umano per migliorare la funzionalità delle opere costruite per l’uomo e riportare l’uomo e le sue dimensioni al centro dell’architettura. Graficamente viene rappresentata una figura umana stilizzata, con un braccio alzato e l’altro disteso accanto al corpo. Secondo l’autore, il Modulor “apporta armonia ad ogni dimensione delle costruzioni, dagli armadietti, alle porte, agli spazi urbani”10. Le Corbusier lo definisce in questo modo: “Il modulor è uno strumento di misura nato dalla statura umana e dalla matematica. 10

Le Corbusier, Il Modulor, Milano, Gabriele Mazzotta editore, 1974

60


Le Corbusier, Le Modulor, 1948

61


Un uomo con il braccio alzato fornisce nei punti determinanti dell’occupazione dello spazio – il piede, il plesso solare, la testa, l’estremità delle dita, essendo il braccio alzato – tre intervalli che generano una serie di sezioni auree, dette di Fibonacci. D’altra parte, la matematica offre la variazione più semplice e nello stesso tempo più significativa di un valore: il semplice, il doppio, le due sezioni auree”11.

11

Le Corbusier, op. cit., p. 53

62


Le Corbusier, Le Modulor, 1948

63



Le Corbusier

Le Cabanon


Le Cabanon, fruizione dello spazio interno (da parte di Le Corbusier)


Le Corbusier Le Cabanon Roquebrune-Cap-Martin, Francia 1951 Il 30 dicembre 1951, sull’angolo di un tavolo di un piccolo caffè della Costa Azzurra, ho disegnato, per fare un regalo a mia moglie per il suo compleanno, il progetto di un “capanno” che costruii l’anno seguente in cima a una rocca battuta dai flutti. Tale progetto è stato fatto in tre quarti d’ora. È definitivo; nulla è stato modificato; grazie al Modulor, la sicurezza del procedimento progettuale è stata totale.1

È a partire dal “modulor”, riferimento fondamentale per tutte le sue architetture, che Le Corbusier disegna e progetta un edificio esemplare quanto al tema dell’abitazione minima: “Le Cabanon”. Innanzitutto è interessante aprire una piccola parentesi sull’etimologia del termine. In francese il termine “cabanon” appare, per la prima volta, nel corso del XVIII secolo, come derivazione di “cabane”, capanna, per designare “il locale nel quale vengono rinchiusi i pazzi ritenuti pericolosi”2. I dizionari indicano che nel corso del secolo successivo il termine assume il senso di “piccola casa di campagna, rifugio da spiaggia”. Recentemente, infine, si tende ad usare il termine per riferirsi ad una pratica di residenza di vacanze piuttosto che a un oggetto formale. 1 Le Corbusier racconta la nascita del Cabanon 2 Rey A., Dictionnaire historique de la langue française, Dictionnaires Le Robert, 1992

67


“Si tratta – in apparenza – di un semplice capanno da mare; in realtà le Cabanon costituisce un segno architettonico di una pulizia e di un’intensità del tutto particolari, capace di racchiudere in soli quindici metri quadri di geometrie perfette, di equilibri millimetrici tra le forme e i volumi che lo compongono, un modello abitativo che accoglie l’uomo moderno nel passaggio dalla dimensione urbana a quella naturale. Nei quindici metri quadrati del Cabanon, all’ombra di un grande carrubo, Le Corbusier ha disposto tutto ciò che serve per riposare e lavorare, con nulla in più dell’essenziale, ma con tutto il superfluo che è indispensabile alla felicità dell’uomo”3. Con le seguenti parole Davide Rampello introduce l’architettura del “Cabanon”, il quale rappresenta un pregevole esercizio d’architettura, compiuto dal Maestro nel 1952, quando con esso produsse propriamente un esempio di cultura dell’abitare con la consapevolezza di assegnare solo all’interno dell’abitazione il primario valore architettonico. Lo spazio interno rivela infatti una ricca composizione, logica ed armoniosa, di soluzioni significative, pur nelle sue modeste dimensioni, insegnando in primo luogo che il problema dell’abitazione implica la scelta di qualità eloquenti, piuttosto che di attenzioni sbalorditive o rappresentative. Ciò per ricordare ancora una volta che il valore dell’architettura costruita è conferito da colui che la abita e “trasferisce nelle cose il suo fervore umano”4. Aspetto sostanziale del progetto, in questo senso, è sicuramente la committenza; Le Corbusier, infatti, progetta l’edificio come casa estiva per le vacanze sua e di sua moglie Yvonne. Progettare 3 Rampello D., in LE CORBUSIER L’interno del Cabanon, Alison F. (a cura di), Milano, Mondadori Electa, 2006, p. 13 4 Alison F., in LE CORBUSIER L’interno del Cabanon, Alison F. (a cura di), Milano, Mondadori Electa, 2006, p. 21

68


Le Cabanon, esterno

69


un’abitazione per incarico di terzi implica una forma di mediazione tra la personalità del committente e il temperamento dell’architetto, il quale deve interpretare i desideri e bisogni dell’altro, “mettere a fuoco le abitudini di vita materiale e interiore, con l’esercizio della sua sensibilità.5” Le Corbusier, all’opposto, realizza questo edificio in base alla successione dei sentimenti nutriti nel tempo da lui stesso, cosicché la costruzione prende corpo senza alcuna mediazione. Perciò, se il progetto parte dall’idea generica di costruire una piacevole cabina in una località marina, via via esso cresce più complesso con l’assunzione di urgenze che l’architetto considera irrinunciabili, come la collocazione di un tavolo da lavoro per disegnare e progettare senza essere preso da altre attrattive, col suo gusto estetico, in un’area di non più di 15 metri quadrati. Basilare il materiale costruttivo: il legno, di cui abbiamo parlato all’inizio del testo, poiché associato alla nascita stessa dell’architettura, come riparo e rifugio sicuro per l’uomo. Visto dall’esterno, il Cabaon, con le sue fiancate in tronchi di legno, può infatti far pensare alla famosa “capanna primitiva”, ma “l’interno è scrupolosamente foderato da una sorta di pelle levigata”6: un suolo ligneo dipinto di giallo, rivestimenti di compensato grezzo e un soffitto composto da pannelli bianchi, rossi, blu e verdi, che nascondono dei ripostigli. La pelle legnosa esteriore, in questo caso, rende poco percepibile la presenza del capanno nella zona, quasi come se ci fosse la volontà di negarsi all’esterno per portare e concentrare all’interno l’essenza stessa dell’intero progetto. L’ingresso si apre, con doppia porta, in un corridoio e passaggio di mediazione, al termine del quale campeggia un diaframma in funzione di attaccapanni, con i pioli distribuiti secondo la ripar5 6

Alison F., op. cit., p. 23 Alison F., op. cit., p. 57

70


Le Cabanon, pianta

71


tizione del modulor; dietro di esso è posizionata l’area destinata al bagno. Proseguendo con l’entrata vera e propria nell’area del soggiorno, si accede ad uno spazio concepito come un unico ambiente. Due feritoie alte e strette, ricavate nel fronte e nel retro, diagonalmente in pianta, alimentano una delicata ventilazione che tocca appena il letto lungo la parete posteriore, il quale contiene nel suo ventre due cassettiere. Un finto pilastro poco distante dalla parete, che divide l’area destinata al letto e quella allo studio, costituisce il sostegno per il lavabo e, contemporaneamente, diventa contenitore. Il tavolo da lavoro, infine, occupa la zona focale di tutta l’area. Per quanto riguarda le aperture, val la pena soffermarsi, in quanto il genio di Le Corbusier riesce ad unire due esigenze antitetiche, cioè la possibilità di oscurare la dimora all’occorrenza, contrastando l’effetto di limite e preclusione, del tutto incompatibile con l’ambiente naturale aperto. Le ante oscuranti, infatti, sono articolate a libretto per consentire qualsiasi orientamento fino a chiusura completa dei due battenti, di cui uno con figurazioni, l’altro con uno specchio sulla faccia interna. Essendo questi gli unici specchi di tutto l’arredo, servono a tutti gli usi consueti, ma possono anche riflettere, a seconda delle diverse posizioni di apertura, i campi del panorama esterno più graditi. In sostanza, portano dentro il fuori e viceversa, generando un gioco in cui l’esterno diventa interno e quest’ultimo viene proiettato all’esterno, mentre i due termini si confondono sempre di più e rendono più efficace l’espansione virtuale dello spazio. In questo progetto, come avremo modo di approfondire ulteriormente, il rapporto con ciò che è fuori, su cui ci siamo già soffermati più volte, è indispensabile al fine di comprendere l’architettura nel suo insieme. “La specularità dell’antina realizza una cellula – forse la più importante dell’unità costruita – dell’espressione sentimen-

72


Le Cabanon, assonometria

73


Le Cabanon, vista interna

74


Le Cabanon, vista interna

75


tale del progettista nella progressione della contemplazione alla partecipazione mediante l’atto consentito solo all’arte dell’architettura di condensare l’immensità dell’animo, l’universo esterno, nel microspazio abitato dell’uomo”7. Bisogna sottolineare, inoltre, che il Cabanon è un’opera unica ed autonoma rispetto alle altre del maestro; oltre a questo, ciò che rende singolare il progetto rispetto a molti altri è quell’idea di porre, accanto all’utile, quell’”inutile indispensabile” più volte menzionato dallo stesso Le Corbusier, riferendosi alla coesistenza delle parti meramente funzionali con quelle puramente estetiche. In questo ambito, la cura del particolare è ciò che rende incantevole ogni elemento: le decorazioni di Le Corbusier pittore, il portasapone preso da un vagone letto ferroviario, una lampada ricavata da un residuo trovato sulla spiaggia e così via; tutti questi elementi “artistici” rientrano nell’idea di porre, accanto all’utile, quell’inutile indispensabile: “la bellezza domina; è pura creazione umana, è il superfluo necessario”8. È presente, in tutta la sua completezza, il principio dell’”existenzminimum”: uno o due letti in legno, un tavolo con sgabelli, un armadio, una libreria, un gabinetto, che Le Corbusier definisce “una delle più grandi conquiste della civilizzazione”. È esplicito inoltre il proporzionamento dell’intero ambiente e delle sue parti al modulor. Accanto all’utile e, per così dire, al futile, che si trovano nel progetto, va affiancato un terzo elemento, che amplifica la singolarità del capanno: al centro della grande parete d’ingresso dipinta, vi è una trattoria, dove Le Corbusier consumava i suoi pasti. Introducendo le dimensioni della costruzione, il soffitto è alto 7 8

Alison F., op. cit., p. 25 Alison F., op. cit., p. 31

76


Le Cabanon, dettaglio della schermatura

77


226 centimetri, il disegno di pianta è segnato dalle misure di un quadrato di lato 366 per 366 centimetri che, con l’aggiunta del micro-spazio igienico di 70 per 86 centimetri, misura 14 metri quadrati esatti. Ad essi andrebbero aggiunti i 2 metri quadri del corridoio, che però sembra più un distanziatore dal contiguo chiosco, che uno spazio vero e proprio della cellula abitativa. Possiamo in questo caso parlare di cellula, in quanto, come già spiegato nella premessa, quest’ultimo termine definisce un ambiente non del tutto autonomo, che ha bisogno di spazi subito prossimi ad esso per vivere e far vivere l’individuo per completare e soddisfare tutte le sue esigenze. I servizi collettivi del Cabanon, cucina, pranzo, lavanderia e foresteria, sono al di là della porta sopra citata. Nell’assoluta coerenza del pensiero architettonico di Le Corbusier, questi servizi non sono privati, ma comuni. Se per Le Corbusier una casa è “un riparo contro il caldo, il freddo, la pioggia, i ladri, gli indiscreti, un ricettacolo di sole e di luce”9 , questo è il suo prolungamento esterno, dove “l’esterno è sempre un interno, gli elementi del sito sono come i muri di una stanza”10. In questo modo viene ristabilito il rapporto natura-uomo, dove la natura riceve la veste autentica di casa. Di fatto, la ricomposizione del rapporto tra interno ed esterno è fondamentale e fondante nel pensiero architettonico di Le Corbusier, così come lo è la volontà di concepire architettonicamente gli spazi aperti. A tale proposito si può pensare, ad esempio, alla finestra nel giardino della “Maison du Lac”. Non bisogna poi dimenticare che qui ci troviamo in Provenza, regione notoriamente incline ad abitare l’esterno, e nella quale la tradizione dei 9 Le Corbusier, La Maison des Hommes, Greslieri G. (a cura di), Milano, Jaca Book, 1985 10 Le Corbusier, op. cit.

78


Le Cabanon, dettaglio del lavabo e del letto

79


“cabanon” è particolarmente attiva. Sempre facendo riferimento a ciò che è all’esterno, essenziale è anche la presenza del grande carrubo, che assume un’importanza quasi domestica. Tornando al discorso dimensionale, la superficie di 14 metri quadri è particolarmente significativa, in quanto erano stati stabiliti come standard di superficie pro-capite per la “nuova abitazione”11 durante il secondo CIAM del 1929, di cui abbiamo già parlato. Importante precisare che questi 14 metri quadri, inoltre, non sono il valore di superficie abitabile riservato ai più poveri, considerando che già nei primi anni ’20 Le Corbusier attribuiva all’architettura moderna il compito di “studiare la casa per l’uomo qualunque, le sue basi umane, la scala umana, la necessità-tipo, le funzioni-tipo, l’emozione-tipo, visto che tutti gli uomini hanno un medesimo organismo, medesime funzioni, medesimi bisogni”12. Concentriamoci ora su alcuni degli elementi più significativi interni all’abitazione, in quanto una particolare riflessione merita l’arredo, anche per il significato che quest’ultimo assume, in ambito architettonico, durante il seguente contesto storiografico. Gli elementi mobili sono qui concepiti come vere e proprie “scatole”; la cassa del letto, ad esempio, è una struttura larga 70 centimetri, le cui parti visibili sono in legno di castagno, mentre per il retro e la parte superiore, non visibili, è stato scelto il compensato. La struttura del letto contiene due grandi cassetti lignei montati su guide scorrevoli, usati per riporvi lenzuola e coperte. La cassapanca, posta su supporti mobili, che serve al contempo da comodino e tavolino per il soggiorno, è anch’essa di “forma scatolare”. Il tavolo da lavoro su misura è l’unico elemento dell’arredo che 11

12

Le Corbusier, Vers une Architecture, Milano, Longanesi, 1973

Le Corbusier, op. cit.

80


Le Cabanon, dettaglio della colonna con lavandino

81


si scosti dal principio di ricorrere a forme cubiche elementari; la superficie, in pianta di forma romboidale, è ricoperta da un mosaico di legno di noce, mentre il bordo è costituito da una cornice in castagno. Sul lato muro è poggiato su di una stecca, mentre sul lato stanza poggia su di una gamba di legno leggermente conica, che si restringe verso il basso. Adiacente al tavolo troviamo una libreria della stessa altezza e, sopra di questa, una mensola sulla quale Le Corbusier era solito mettere in mostra i suoi ultimi lavori. Il rivestimento di compensato che copre l’interno del Cabanon, è un’unica superficie interattiva; essa ospita mensole, scaffali, finestre, porte e lampade, che si inseriscono seguendo la griglia definita dai pannelli di compensato stessi. Griglia che ritroveremo, questa volta a terra, nel progetto di Franco Albini della “Stanza per un uomo”, anch’essa stabilita secondo moduli determinati. Nell’edificio non esistono muri, come siamo soliti intenderli, ma dei divisori, ancora di forma scatolare, che generano le partizioni dell’ambiente quadrato del Cabanon. Due di questi formano la nicchia destinata al wc. Il primo, in fondo al corridoio, è aperto verso l’ingresso e ospita protuberanze lignee utilizzate come appendi abiti. Il secondo, di fronte al letto, ospita una scaffallatura per libri. Il terzo elemento, adiacente all’ingresso, è un armadio a due ante, i cui dettagli interni sono stati concepiti con estrema precisione: sulla sinistra sono presenti barre metalliche estensibili per i vestiti e sulla destra troviamo ripiani aperti e cassetti. È interessante notare come anche la progettazione interna delle armadiature sia di primaria importanza per il progettista, innanzitutto perché rispecchia le sue esigenze, inoltre perché rende evidente come più l’ambiente progettato è piccolo, più i particolari meritano un’attenzione puntigliosa e scrupolosa. Anche Franco Albini dedicherà una cura particolare nella progettazione

82


Le Cabanon, porta de l’“L’Étoile de Mer”

83


dell’armadio all’interno della stanza, ancora una volta in accordo con le esigenze di colui che sarà, questa volta a livello simbolico, il committente dell’opera stessa. L’ultimo elemento divisorio del “Cabanon” è il blocco autoreggente, che troviamo fin dai primi schizzi di Le Corbusier; in questo elemento ligneo, alto e stretto, troviamo una nicchia sul retro, di fronte allo spazio destinato al secondo letto. Sul lato principale è presente un ripiano aperto che sormonta due vani chiusi a due ante ciascuno, al di sotto del quale è montato un lavandino semicircolare in inox; il tubo di scarico e i sottili tubi di adduzione dell’acqua sono a vista, semplicemente addossati all’elemento ligneo di sostegno. Possiamo quindi concludere notando come il mobilio domestico di Le Corbusier sia orientato verso oggetti elementari, archetipici, che si avvicinano ai rudimentali comportamenti dell’uomo primitivo. Tutto ciò rimanda dunque ad una “forma di vita più vicina alla natura che porta con sé i valori di un’esistenza spartana, semplice ed essenziale; ed è proprio a manifestare questo ideale – e più in generale a pensare un nuovo rapporto tra arte e natura – cui l’arredamento di questa chambré de villegiature di Le Corbusier sembra destinato”13.

13

Alison F., op. cit., p. 63

84


Le Cabanon, Le Corbusier alla finestra

85



Franco Albini

Stanza per un uomo


Stanza per un uomo, vista complessiva


Franco Albini Stanza per un uomo VI Triennale, Milano 1936 L’organizzazione dell’ambiente è stata guidata da alcuni concetti: semplificazione della pianta riunendo in un unico grande ambiente, oltre alcuni servizi, le zone destinate al sonno, allo studio, alla lettura e alla ginnastica; sfruttamento dello spazio in senso verticale nel letto sospeso, nell’armadio praticabile sul piano superiore, nella libreria a due fronti.1

L’obiettivo, per gli architetti italiani della prima metà del 1900, è una “casa ideale, il tipo di abitazione […] che vedrà l’abolizione di tutti i mobili tradizionali”2, come scrive Giancarlo Palanti nel 1933. Ed è proprio nella sperimentazione nel campo dell’allestimento degli interni domestici che, alla fine degli anni Venti, in Italia gli architetti trovano spazio; in particolare nell’area milanese, dove le occasioni per la pratica architettonica e urbanistica è bloccata dalla presenza di professionisti che non lasciano spazio alle nuove generazioni legate al Razionalismo, c’è la possibilità di operare nel campo dell’allestimento e dell’arredamento. L’esistenza di manifestazioni culturali come le Triennali di Milano consentono questa via, favorita anche dallo stesso territorio lom1 2

Franco Albini racconta la Stanza per un uomo Palanti G., Mobili tipici moderni, Milano, 1933

89


bardo, in cui la produzione di mobili e le scuole di arti e mestieri hanno una forte presenza ed influenza. Lo stesso ambito dell’allestimento di mostre ed esposizioni deve essere messo in relazione con il lavoro sugli interni domestici praticato dagli architetti italiani di quel periodo: esso spinge a trovare soluzioni alla piccola scala, quella del dettaglio, verso soluzioni innovative sia dal punto di vista tecnico, sia da quello legato all’uso dei materiali; spinge verso la riflessione progettuale sul movimento, sulla sosta, sulla visione all’interno di uno spazio, sul tema della luce, che costruisce lo spazio stesso. Nella VI Triennale di Milano del 1936, nella sezione dal titolo “Mostra dell’abitazione”, ospitata nel nuovo padiglione costruito da Giuseppe Pagano e Franco Albini, gruppi di architetti propongono prototipi per alloggi che rappresentino una nuova idea dell’abitare moderno. I progetti propongono soluzioni spaziali aperte, con l’eliminazione delle pareti fisse, sostituite da armadi, pareti attrezzate, mobili a doppio uso e trasformabili, il tutto realizzato in acciaio, legno, linoleum, vetro temprato, gres ceramico, gommapiuma Pirelli per letti e poltrone, con una attenzione dunque per i materiali tradizionali e innovativi, usati al meglio nelle loro potenzialità prestazionali ed espressive. Nella sezione “Mostra dell’arredamento” della stessa VI Triennale, Albini propone la “Stanza per un uomo”, un piccolo ambiente dimostrativo realizzato per la ditta Dessi. Esso è concepito come unitario, ma articolato e attrezzato per rispondere alle esigenze della vita: un piccolo soggiorno con tre sedute è separato tramite una bassa scaffalatura dall’ambito della zona notte dove il letto è sollevato su un telaio esile di metallo; un sistema di tende racchiude il servizio igienico, mentre un lavandino si erge come un oggetto di servizio alle attrezzature della palestra, agganciate alla parete di pietra di fondo. Pochi oggetti ed elementi attrezzati

90


Stanza per un uomo, pianta

91


delimitano le zone del vivere domestico, senza più pareti chiuse. L’architettura è complessivamente uno spazio di 20 metri quadrati, che può essere considerato il manifesto dell’idea dell’abitare dell’epoca. L’architetto vuol fare di quest’opera un ambiente dimostrativo delle abitudini e degli stereotipi di allora. Albini, in questo senso, fa in modo che questa “stanza” possa appartenere ad un uomo che incarna l’immagine ideale della figura maschile fascista: un uomo sportivo, virile e fortemente dedito alla cura del corpo. Lo spazio prevede la possibilità di svolgere le attività quotidiane e, pur non essendo stata realizzata una suddivisione netta tra gli ambienti, ci sono differenti spazi funzionali destinati al riposo, allo studio, alla lettura e all’attività sportiva. Le separazioni tra le varie aree funzionali sono costituite dall’arredo che dà luogo ad un ulteriore elemento di divisione e si accosta alle pareti perimetrali della stanza. Considerando quest’ultimo carattere del progetto, esso è molto vicino alla strategia che sta dietro la progettazione del “Cabanon” e, come vedremo, ai principi che ancora oggi guidano la progettazione di spazi minimi da parte di studi di architettura contemporanei. Il modulo di un metro, su cui l’architetto basa l’intera composizione, è stato stabilito studiando le dimensioni della doccia, del letto e del tavolo da lavoro. La riproduzione di tale misura è visibile nella pianta, grazie ai riquadri realizzati in linoleum bianco. La suddivisione dello spazio è stata pensata anche in altezza, ed è determinata dal letto sospeso a due metri da terra, dalla libreria a doppio fronte e dalla progettazione dell’armadio, utilizzabile su entrambi i lati di fruizione dello spazio. Quest’ultimo, infatti, va a costituire una pedana di accesso al letto. Scendendo nel dettaglio, Albini studia i materiali e le finiture di

92


Stanza per un uomo, vista interna

93


ciascun arredo: la scala che porta al letto è realizzata con pedate in gomma, il sostegno del letto è costituito da un tubolare quadrato, elemento di separazione riproposto in varie parti del progetto; il telaio è in ferro, il materasso di gommapiuma e la coperta in tessuto di lavorazione artigianale. Gli armadi sono pensati in relazione agli oggetti che devono contenere: l’architetto disegna spazi per gli abiti lunghi e per le giacche; posiziona tubi metallici su cui porre le scarpe eleganti e graticci in legno a maglia quadrata per le scarpe sportive. Le camicie sono riposte ciascuna in un cassetto differente, dallo spessore di 6 centimetri, mentre la biancheria è riposta in cassetti dallo spessore di 12 centimetri. Ecco che si notano le differenze tra le due soluzioni di armadiature proposte da Le Corbusier e Franco Albini, dettate dalla presenza di due committenze, e quindi esigenze, completamente differenti tra loro; ma, allo stesso tempo, un’identica attenzione e precisione nella cura del dettaglio. Gli arredi progettati sono innovativi per l’epoca, come per esempio il box doccia trasparente, mentre la libreria è costituita da piani in cristallo e legno laccato lucido per i sostegni laterali. I mobili dedicati all’attività sportiva sono in legno laccato ed un traliccio a maglia quadrata permette di spostare gli attrezzi dove è necessario. La pavimentazione, in gomma, permette di usufruire dello spazio come se ci si trovasse all’interno di una palestra. A riprendere il concetto del culto del corpo, viene inserita nel progetto una lastra di vetro, sulla quale sono raffigurati schemi degli esercizi ginnici. Nello studio dell’illuminazione, Albini decide di inserire nel progetto impianti illuminanti mobili. Le lampade utilizzate emanano infatti una luce diretta, con riflettori orientabili. Nella zona dedicata allo sport sono state inserite lampade a sospensione, sopra alla scrivania dello studio è presente una lam-

94


Stanza per un uomo, dettaglio della struttura letto

95


pada a parete, così come nella zona conversazione. La stanza non presenta tonalità accese: il colore predominante è il grigio: bianco e nero si contrappongono, generando contrasti. A differenza del caso studio precedente, come già accennato, questo progetto non è stato realizzato, dopo la mostra, fisicamente, con finalità abitative. Nonostante questo, però, i principi che ne stanno dietro, marcano un emblema di modernità e di evoluzione degli interni architettonici domestici incredibile. L’utilizzo del modulo, l’assenza di muri, la differenziazione funzionale e la cura del dettaglio sono tutti elementi che accomunano i due esempi modello dell’architettura moderna, appena presentati. “È più dalle nostre opere che diffondiamo delle idee che non attraverso noi stessi” sosteneva Franco Albini. “E sono proprio le sue opere che ci parlano di lui, della filosofia sottostante il suo lavoro; di una tensione sociale forte, perseguendo la cura ossessiva del dettaglio ed il costante perfezionamento di un’idea. Opere capaci di coniugare razionalità e fantasia, funzionalità e poetica. È il suo modo di progettare, onesto ed etico; sono le sue invenzioni museali che mirano all’educazione dello spettatore; i suoi progetti che rispecchiano le esigenze della civiltà moderna, che ci raccontano di un metodo sempre attuale. Albini parlava poco e scriveva raramente, ma è riuscito a comunicarci i suoi valori attraverso un linguaggio fatto di atti concreti, capaci di segnare la storia dell’architettura italiana ed internazionale”3.

3 com

aa. vv., Fondazione Franco Albini, in www.fondazionefrancoalbini.

96


Stanza per un uomo, dettaglio armadio

97



Capitolo IV

Minimo Contemporaneo


La capanna primitiva secondo Laugier e un interno contemporaneo (collage di A. Del Fabbro e P.M. Martinelli)


IV

Minimo Contemporaneo

Oggi, il tema dell’abitazione minima in architettura è più forte che mai. Sono sempre più numerosi gli studi di architettura, dai più famosi ai più di nicchia, che si cimentano su questo tema, proponendo soluzioni sempre differenti ed innovative, tanto che addirittura il sito di architettura ad oggi più consultato, “Divisare”, propone una selezione di progetti denominata proprio “existenzminimum”. Nonostante la tradizionale importanza attribuita alla dimensione dell’alloggio nelle società occidentali, dove lo spazio ampio è generalmente inteso come un elemento positivo di benessere, simbolo materiale del successo personale del proprietario, negli ultimi anni si è verificato un fermento nei confronti di alloggi di taglia sempre più ridotta, caratterizzati da una compattezza formale e dimensionale che, liberandosi progressivamente da ogni accezione negativa, diviene poco a poco qualità apprezzabile o addirittura desiderabile. A riprova di questa nuova estetica del piccolo, numerose sono le pubblicazioni apparse sulla stampa nazionale ed internazionale nel corso degli ultimi anni1. Le domande a cui si cercherà di dare una risposta, mostrando i particolari casi studio scelti sono le seguenti: quali motivazioni hanno portato alla nascita di questa tendenza e alla rivalutazione 1 Alcuni esempi: Spazi Minimi, a cura di Maria Alessandra Segantini, Milano, Federico Motta Editore, 2004; Freeman M., Space. Japanese Design Solutions for Compact Living, New York, Universe, 2004; Del Valle C., Compact Houses, New York, Universe, 2005; Seidel F., New Small Houses, Spagna, Evergreen, 2008; Zeiger M., Tiny Houses, New York, Rizzoli, 2009; Broto E., Minimum Dwelling, Spagna, Links, 2010.

101


del “minimo” in chiave positiva? In che modo gli architetti si stanno confrontando con questa nuova sfida? L’intento è quindi quello di di cogliere il significato di questo inatteso ritorno al “minimo abitabile” e delle sue declinazioni contemporanee. Come abbiamo già approfondito, le prime importanti sperimentazioni in termini di alloggio minimo sono nate durante il primo dopoguerra. Tuttavia, le ragioni che spingono oggi architetti e committenti di tutto il mondo a realizzare con entusiasmo crescente abitazioni di taglia ridotta sono alquanto diverse da quelle che un secolo fa spingevano i progettisti europei a sondare le caratteristiche dell’”existenzminimum”, come generalizzare il diritto alla casa alle masse meno abbienti dei cittadini. Nonostante il permanere, talvolta, di alcune esigenze economiche, legate al costo dei terreni e dei materiali da costruzione, ma anche al ridursi progressivo della taglia delle parcelle edificabili all’interno dei centri metropolitani, si sostituisce oggi un ventaglio di altre motivazioni, che vanno dall’ambito culturale a quello sociale ed ecologico, non più dettate solo da necessità, ma da scelte consapevoli e non necessariamente più economiche. Il primo studio di architettura che verrà preso in esame è uno studio giapponese. In Giappone il tema dell’abitazione minima si sviluppa in modo del tutto singolare. Se, come accennato poco fa, all’interno della cultura occidentale il termine “spazioso” ha tradizionalmente un’accezione positiva, per alcune società orientali la compattezza è per tradizione una qualità altrettanto apprezzabile. Nella società giapponese contemporanea, a cui gli architetti occidentali guardano con fascino crescente, gli alloggi di piccole dimensioni sono particolarmente frequenti, a causa non solamente della taglia sempre più ridotta dei terreni cittadini, ma anche di alcune particolari tradizioni culturali. In “The Inner Harmony of the Japanese House”, lo storico Atsushi Ueda de-

102


scrive la casa tradizionale giapponese come un unico volume monostanza che può essere suddiviso in vari compartimenti grazie ai cosiddetti “shoji”, schermi scorrevoli traslucidi, e “fusuma”, schermi scorrevoli opachi. Si ha quindi un rimando immediato alla stessa logica che sta dietro la progettazione del “Cabanon” di Le Corbusier, in cui i muri non esistono, o al progetto presentato da Franco Albini in occasione della VI Triennale di Milano. Tale trasformazione nel pensare lo spazio, che inizia, appunto, con il Movimento Moderno, è forse l’eredità più preziosa che è sopravvissuta fino ad oggi e che ancora viene reinterpretata e concepita in modalità sempre differenti, originali ed innovative, come avremo modo di vedere. Il tipo di suddivisione flessibile dello spazio è un’ottima strategia per poter accogliere attività diverse all’interno di un piccolo volume. Un altro esempio giapponese tipico di flessibilità è dato dal “tatami”, caratteristico materasso di stuoia di forma rettangolare, in cui il lato lungo è due volte il lato corto, le dimensioni del quale, variabili da zona a zona, sono adatte ad accogliere una persona sdraiata, che può fungere alternativamente da seduta durante il giorno e da letto durante le ore notturne. Il “tatami” può anche, talvolta, dissimulare sotto di sé un piccolo ripostiglio per il “futon”, caratteristico materasso giapponese, permettendo così con una semplice “manovra” di trasformare uno spazio giorno in una zona notte. È forse grazie a questo elemento tradizionale che, in Giappone, zona giorno e zona notte possono coesistere pacificamente all’interno di una stessa stanza, mentre in occidente la mancanza di uno spazio specifico dedicato al sonno è generalmente considerata sconveniente. Anche nei luoghi pubblici e negli ambienti lavorativi si può notare una predilezione per gli spazi compatti. Nei ristoranti, ad esempio, le piccole stanze, talvolta veri e propri cubicoli, sono

103


estremamente popolari, sia per la loro intimità che per la capacità di creare una sorta di mondo a parte, lontano dalla frenesia della città. Ugualmente gli spazi di lavoro sono spesso concepiti a partire dallo stretto necessario nell’idea che ogni cosa debba essere a portata di mano. Se le motivazioni che spingono oggi a “costruire piccolo” sono molteplici, la tendenza verso la miniaturizzazione sta acquistando un’importanza sempre maggiore e degna di nota. Un numero crescente di architetti, infatti, si sta cimentando nel tentativo di sondare questa nuova estetica del piccolo, con alcuni esiti notevoli ed appassionanti. Verranno presi in esame casi studio appartenenti a realtà completamente differenti tra loro: il Giappone ed il Cile. Questa scelta è dettata, innanzitutto, dalle sperimentazioni di particolare rilievo sul tema che vengono effettuate, per l’appunto, da studi di architettura di questi due paesi. In secondo luogo, nonostante il tema sia lo stesso, esso viene declinato in modalità del tutto differenti; variano, ad esempio, la committenza, i bisogni, le caratteristiche dimensionali ed architettoniche, le modalità di utilizzo dello spazio, la società, l’economia e, soprattutto, le città in cui le architetture si inseriscono. In un caso parliamo di una delle società più ricche del mondo, caratterizzata da una densità elevatissima, nell’altro, di una società povera, del terzo mondo, in cui la città ha un’immagine del tutto antitetica a quella giapponese. In Cile, infatti, al contrario di ciò che succede in Giappone, regnano interventi di edilizia sociale e pubblica; l’aspetto sociale è fondamentale, tanto che vengono, ad esempio, favorite relazioni di solidarietà e collaborazione tra gli abitanti. Mentre in Giappone l’abitazione minima non è dettata da scarsità economiche, nell’architettura cilena vengono progettate residenze a basso costo in grado di rispondere alle crisi umanitarie

104


ed economiche, attraverso l’innovazione tecnica e dei materiali. In essa, inoltre, non è possibile riconoscere la presenza linguistica di un “maestro”, piuttosto un’eterogeneità di atteggiamenti e declinazioni. Tutto ciò non significa che l’architettura cilena non prema anche verso uno spostamento di attenzione dall’”oggetto” al “soggetto”, attraverso nuove forme dell’abitare che facciano prevalere i bisogni individuali come necessità di esprimere le differenti identità, per fare dei residenti dei “soggetti sociali” in grado di esprimere le proprie esigenze ed abitudini. Vedremo, inoltre, come sia anche qui fondamentale il tema della flessibilità degli spazi in funzione della variabile temporale, flessibilità che rispecchia differenti esigenze e stili di vita e che determina un ambiente suscettibile di trasformazioni anche attraverso la dotazione di elementi seriali, industrializzati, componibili in diverse configurazioni secondo una nuova logica. Un’analisi attenta, infine, riguarderà i temi di personalizzazione dello spazio, una volta che questo viene consegnato alla committenza o, comunque, al fruitore dell’abitazione. In particolare, per quanto riguarda l’architettura giapponese, verrà preso in esame uno studio che ha un’esperienza pluriennale nella progettazione di abitazioni minime: l’Atelier Bow-Wow; verrà inoltre approfondito un progetto dello studio “Tato Architects”. L’architetto cileno che più rappresenta una frontiera del futuro per quanto riguarda i temi dell’abitazione nella particolare realtà a cui sopra si è accennato, è sicuramente Alejandro Aravena.

105



Atelier Bow-Wow

Tread Machiya House Asama



Atelier Bow-Wow

Più che puntare alla costruzione, l’obiettivo è una ricerca che esplora le caratteristiche urbane della microarchitettura e le sfide poste da densi ambienti urbani, come quello giapponese, con un approccio che si applica a un ampio raggio di situazioni che vanno da piccoli oggetti alla città nel suo complesso.1

L’architetto giapponese Yoshiharu Tsukamoto è il cofondatore, nel 1992, insieme a sua moglie Momoyo Kaijima, dell’”Atelier Bow-Wow”, con sede a Tokyo. Il nome dello studio è associato agli stravaganti, ma altrettanto pratici, edifici residenziali costruiti all’interno di ambienti urbani densi di alcune aree di Tokyo, ma anche alla “Pet Architecture”, dall’omonimo libro da loro scritto, che è diventato sinonimo di quelle architetture “domestiche”, perché piccole ed affettuose, così come gli animali domestici stessi, realizzate all’interno di ambiti urbani di risulta di Tokyo. Essi sono sicuramente tra i maggiori rappresentanti di quel “minimalismo urbano” giapponese ormai celebre e celebrato in tutto il mondo. I Bow-Wow cercano nel loro lavoro di mettere in pratica i principi tratti da esempi esistenti, alterandoli in modo da creare una nuova realtà. Nell’edilizia privata le loro proposte prevedono l’abolizione delle partizioni per creare uno spazio continuo ma organizzato; scale e pianerottoli vengono usati per enfatizzare questa continuità. Ad oggi, si distinguono per l’alta, se vogliamo, “arte di sartoria”, con la quale riescono a ritagliare in modo 1

Treccani , “Atelier Bow-Wow”, in Lessico del XXI secolo, 2012

109


sorprendente spazi sfruttabili dall’uomo, laddove il problema del consumo del suolo diventa motivo di ispirazione ed innovazione. L’Atelier ha anche acquisito notorietà attraverso la realizzazione di micro progetti ed installazioni in aree pubbliche. Tsukamoto parla di “Architectural Behaviorology”, ad indicare lo stretto legame tra i “comportamenti” non solo delle persone intese come individui, ma anche delle cose utilizzate dall’uomo, che a loro volta generano altri comportamenti di tipo collettivo. Per spiegare questa teoria alla base della loro ricerca, è utile accennare alla recente storia di Tokyo e alla sua realtà edilizia. Nicola Desiderio, nell’articolo “La Architectural Behaviorology di Bow–Wow come scienza per costruire il senso del tempo” scrive: “La città di Tokyo è composta da case di diversi colori e forme. Complessivamente può apparire brutta, anche se gli edifici in sé non lo sono. È forse il caos il fattore caratterizzante della città […] In questi ultimi trent’anni possiamo identificare tre tipi di generazioni di case. Originariamente la superficie abitabile era di 250 mq. Oggi è di 80mq. Questo grosso salto di scala è stato determinato dalla crisi economica, nota come bubble economy dei primi anni ‘90 che ha cambiato radicalmente la dimensione abitabile della casa giapponese. La casa monofamiliare di prima generazione comprendeva anche un giardino. Successivamente il giardino è andato riducendosi, seconda generazione, per poi sparire completamente a causa della frammentazione dei lotti. Ciò ha determinato un profondo cambiamento della vita sociale e della famiglia giapponese che sono alla base anche di spiacevoli e frequenti fatti di cronaca”2. Il nucleo delle attività dell’“Atelier Bow-Wow” consiste princi-

2

Desiderio N., La ‘architectural behaviorology’ di Bow–Wow come scienza

per costruire il senso del tempo, in Arcomai , 1 ottobre 2013

110


palmente nella progettazione di “case piccole”, oltre, come già accennato, alle ricerche urbane ed alla partecipazione a numerose esibizioni artistiche. Il loro lavoro è situato quasi completamente a Tokyo, città, come la definiscono loro stessi, “apparentemente complessa”. La prima e principale domanda che sorge spontanea è: in una città così grande, qual è il significato di progettare una singola e “minuscola” abitazione? Un altro quesito potrebbe essere: perché l’architettura vernacolare è, come vedremo, ai loro occhi molto più affascinante ed attraente rispetto a quelli che loro stessi definiscono “i nuovi edifici progettati da architetti famosi”3? Le risposte a queste domande si trovano all’interno delle soluzioni possibili contenute nei progetti che verranno esposti ed approfonditi. L’intento di questi è innanzitutto quello di generare spazi vivibili, praticabili e piacevoli per l’utente, al contempo affrontando differenti preoccupazioni sovrapposte: espressione architettonica, dimensione architettonica e le loro complesse relazioni con il cambiamento generazionale. Quest’ultimo, che fa riferimento alla vita dell’uomo come elemento improrogabile nella progettazione di un ambiente domestico, giustifica e dà un senso al concetto di “Architectural Behaviorlogy”. La parola “comportamento” è tema ricorrente nei loro interessi. Il comportamento è, nella loro concezione di architettura, centrale per comprendere le correlazioni tra la vita umana, la natura e l’ambiente costruito. La chiave di lettura per comprendere la loro attività è applicare il concetto di comportamento non solo agli uomini; possono essere infatti distinte tre classificazioni relative all’architettura ed allo spazio urbano. Certamente, in primo luogo, ancora, il comportamento dell’individuo; successivamente, è 3 Yoshiharu T., Momojo K., Atelier Bow-Wow, Behaviorology, New York, Rizzoli, 2010, p. 8

111


il comportamento degli elementi naturali, come la luce, il calore, l’acqua e il vento; il terzo è il comportamento degli edifici osservati nel loro contesto più ampio. Per quanto riguarda gli uomini, che è sicuramente un concetto ampio, i Bow-Wow si concentrano su quelli che sono gli atti quotidiani e ripetitivi degli individui, che sono osservabili da una distanza ravvicinata. Tali comportamenti non si riferiscono né ad un singolo individuo, né parlano della massa; è tra questi due termini in cui determinati costumi ed abitudini possono essere condivisi. Gli elementi naturali sopra nominati sono importanti poiché sorgono all’esterno per poi infiltrarsi negli edifici. Essi seguono le leggi fondamentali della fisica e queste regole non possono essere modificate. Ciò che può essere fatto, tuttavia, è sfruttare le loro proprietà intrinseche nel miglior modo possibile attraverso l’architettura. “In sintonia con l’agitazione della natura, possiamo ottenere una percezione più acuta e più intensa del mondo”4. “Ogni edificio”, infine, “può essere considerato come una creatura senziente, dotata di una propria intelligenza unica e di una serie di caratteristiche viventi” . Ognuno di questi tre comportamenti appena delineati porta con sé tempi e ritmi specifici. Per esempio, il comportamento degli elementi naturali che circondano un edificio possono essere adeguatamente osservati nel giro di poche ore, seguendo il movimento del sole nel cielo. Nel caso degli individui, un giorno è sufficiente per osservare il comportamento psicologico, le abitudini a mangiare o dormire. Per un gruppo sociale più largo, come una scuola, potrebbe essere necessaria minimo una settimana per comprendere i ritmi e la routine, e così via. In termini di edificio, potrebbe non essere possibile riconoscere nulla in merito al suo comportamento, almeno non allo stesso modo degli es4

Yoshiharu T., Momojo K., Atelier Bow-Wow, op. cit.

112


seri umani o degli elementi naturali. Possiamo però osservare, entro cinquanta o cento anni, come l’esistenza dell’edificio si è trasformata: è qui che appare il suo comportamento. E, infine, la proliferazione di un carattere dell’edificio, su più larga scala, dà origine alla morfologia urbana. Concentriamoci ora, ad una scala più ridotta, all’importanza che i Bow-Wow conferiscono all’interno architettonico degli edifici che progettano, arredo compreso. Quest’ultimo stringe il rapporto più stretto con la postura ed il comportamento dell’uomo che vive lo spazio in cui esso è disposto. “Prendiamo in considerazione la situazione in cui molte persone sono in una lunga discussione. I partecipanti, tenuti a concentrarsi, dovrebbero essere posizionati in modo da fronteggiarsi. Questa impostazione, dove le persone siedono su sedie attorno ad un tavolo, è ciò che rende possibile una concentrazione prolungata. I mobili agiscono allo stesso modo, posizionando il corpo umano per lo scopo a portata di mano”5. Le diverse categorie di comportamento, che fino ad ora sono state tenute distinte l’una dall’altra, sono in realtà mantenute insieme dal cosiddetto “ecosistema di comportamento”6. Quest’ultimo elemento consiste esattamente nell’architettura dell’edificio, che diventa punto nodale, sintetizzando e facilitando la comprensione di questi elementi disparati. L’architettura, attraverso la pratica spaziale giornaliera, viene così posizionata correttamente in un contesto più ampio. L’esame di questi comportamenti serve a facilitare la capacità analitica da applicare non solo agli edifici, ma a tutti gli elementi del paesaggio, dello spazio urbano e dell’ambiente costruito. I loro progetti per abitazioni aprono la questione sul significato di progettare un “piccolo” elemento di una città tanto grande: Tokyo. 5 6

Yoshiharu T., Momojo K., Atelier Bow-Wow, op. cit. Yoshiharu T., Momojo K., Atelier Bow-Wow, op. cit.

113


Tread Machiya, fruizione dello spazio interno


Atelier Bow-Wow Tread Machiya Meguroku, Tokyo 2008 Il progetto denominato “Tread Machiya” dall’Atelier è il primo progetto preso in esame. È interessante per quanto riguarda alcuni elementi peculiari, come ad esempio il rapporto con il contesto in cui si inserisce, lo sviluppo e l’estensione degli spazi interni e delle varie funzioni. Il progetto si insedia in una stretta e piccola strada a sud di Tokyo. In questa parte di città si è sviluppato, con il tempo, un disegno specifico: le case sono tutte con tetti a due spioventi e rivolte verso la strada. Tra queste abitazioni, una sporge e si differenzia rispetto alle altre attraverso la sua finestra sovradimensionata, la facciata in lamiera grecata ed un tetto largo e parecchio sporgente. Sebbene con queste deformazioni rispetto alla tipologia originale, “Tread Machiya” segue il ritmo già stabilito dagli altri edifici. La finestra principale garantisce una vista privilegiata dalla casa, attraverso anche i diversi livelli terrazzati: “una sensazione simile a essere sul palco prima di uno spettacolo dal vivo”1. Perché gli architetti hanno deciso di dare questo nome al progetto? Nei tempi antichi, la tipologia di casa mercantile sviluppò una forma molto profonda e stretta, a risultato della regolazione delle tasse relativa al fronte stradale delle abitazioni. Durante la modernizzazione, la rilevanza delle case mercantili scemò, mentre la tipologia della casa indipendente con giardino guadagnò 1

Yoshiharu T., Momojo K., Atelier Bow-Wow, op. cit.

115


popolarità. In contrasto, a causa della dilagante suddivisione dei terreni nella Tokyo del dopoguerra, le case indipendenti hanno ricominciato a somigliare sempre più alle prime residenze di cui abbiamo parlato, a causa delle sempre maggiori densità, generando facciate sempre più strette e lunghe. In entrambi i casi, i problemi economici hanno raffinato e regolato queste tipologie. Per quanto riguarda gli interni, questo progetto ha come caratteristica principale la scala, che dà un orientamento ed articola gli sbarchi multipli ai vari piani, ma provvede anche ampie stanze per sedere e passare del tempo svolgendo varie attività. È come se l’interno diventasse una singola scala abitata che sale continuamente. La scelta di questo progetto, infatti, è stata dettata in primo luogo proprio da questo ultimo elemento: la scala. Essa non è soltanto elemento di collegamento e di distribuzione, come è solita essere interpretata soprattutto nella cultura occidentale, ma diventa il principale elemento di arredo della casa. Essa, lungo il suo sviluppo, assolve a più funzioni, a mano a mano o contemporaneamente, e viene vissuta in modalità sempre differenti dal fruitore dello spazio. Il concetto di avere delle stanze, che mai sono però divise fisicamente le une dalle altre, è espediente fondamentale nelle architetture giapponesi. In Giappone, infatti, il fatto di avere muri e porte è quasi un’anormalità. Non a caso, anche i prossimi progetti di architetture giapponesi che verranno citati, mai presentano muri che separano ambienti tra loro, a parte minime eccezioni.

116


Tread Machiya, fronte esterno

117


Tread Machiya, terrazzo

118


Tread Machiya, sezione di dettaglio

119


Tread Machiya, interno

120


Tread Machiya, interno

121


House Asama, fruizione dello spazio interno


Atelier Bow-Wow House Asama Karuizawa, Kitasaku-gun, Nagano Prefecture 2000 Il secondo caso studio dell’Atelier Bow-Wow è una piccola casa a Karuizawa, localizzata in un’area rurale definita da casolari e da risaie, molte delle quali sono oggi abbandonate. In questo caso, è fondamentale la questione della committenza; il cliente, infatti, ha richiesto una casa per il riposo dove potesse addurre uno stile di vita il più possibile in sintonia con la natura. “House Asama” ha nove superfici che si interfacciano con l’esterno, cinque delle quali fanno parte della copertura. Ognuna di esse ha una singola finestra, posizionata con cura, che porta la luce all’interno in differenti direzioni. L’interno è una semplice ed unica stanza con muri alti 2 metri e 10 centimetri, costruiti con tavole di legno a vista e scaffalature. Qui il committente e proprietario dell’abitazione è completamente circondato da oggetti e ricordi, che raccontano la storia della propria vita. Il soffitto, suddiviso e sorretto da travi rigide, svincola lo spazio del pavimento da colonne o muri, eleggendo il soffitto come l’unico elemento che dà ritmo alla casa. Le travi generano cinque differenti “stanze”1 nel soffitto, ognuna con un lucernario, che cambiano il tono e la luminosità a seconda della posizione del sole. Oltre a creare differenti condizioni luminose, essi contribuiscono a definire tipologie di “comportamento” che si verificano nello spazio stesso, il quale è quasi completamente occupato dagli effetti personali del 1

Yoshiharu T., Momojo K., Atelier Bow-Wow, op. cit., p. 138

123


proprietario e, all’occorrenza, dei suoi ospiti. Gli oggetti diventano così i protagonisti degli spazi, che, effettivamente, sono stati progettati per questa precisa finalità. Il Giappone è un paese caratterizzato dal mito del lavoro. La città di Tokyo inoltre, capitale del Giappone, è la città in cui questo mito viene innescato ed incoraggiato più che in ogni altra. Un uomo anziano in pensione non ha più un posto definito e determinato all’interno della società di cui fa parte, si sente estraneo e la sua vita procede in modo parallelo e differente rispetto al più della popolazione. Questa è una differenza sostanziale rispetto a ciò che succede in Italia e nel mondo occidentale in generale, o da quella che vedremo, successivamente, essere la realtà cilena. È in questo contesto e stato di cose che il committente chiede all’Atelier di progettare per lui un luogo che possa essere un rifugio lontano dalla società da cui è ormai emarginato e respinto. Ed è qui che cerca, allo stesso tempo, di trasferire quella che è stata ed è la sua vita. L’elemento della personalizzazione è infatti ciò che in questo progetto rende l’ambiente unico e vivo, tanto che l’ambiente acquista valore solo nel momento in cui viene “riempito” da ciò che il committente trasferisce al suo interno. È probabilmente quest’ultimo aspetto che rende questo progetto un’architettura con un esito impressionante, ed era probabilmente l’intento che i progettisti si erano prefissati fin dall’inizio: creare un ambiente in cui le esigenze del committente potessero essere soddisfatte pienamente. Come vedremo, il tema della personalizzazione sarà centrale anche nel progetto dei “Tato Architects” e, soprattutto, nei progetti di Alejandro Aravena, dove la declinazione del concetto sarà completamente differente, e forse in modo ancor più accentuato.

124


House Asama, esterno

125


House Asama, interno

126


House Asama, sezione di dettaglio

127


House Asama, interno fine cantiere

128


House Asama, fruizione dello spazio interno

129



Tato Architects

House in Miyamoto



Tato Architects

La ricerca progettuale della casa giapponese, come abbiamo già potuto osservare, ha prodotto interessanti ed innovativi modelli abitativi: le ridotte dimensioni dei lotti delle metropoli nipponiche e la sensibilità dedicata alla cultura dello spazio domestico sono le due variabili sulle quali si costruisce quella poetica compositiva che oggi contraddistingue una nuova generazione di progettisti. Esempi significativi di tale approccio sono le architetture di “Tato Architects”, studio guidato dal fondatore Yo Shimada. In giapponese, il nome dello studio significa “fuori”: tale scelta descrive la formazione professionale di Shimada “fuori” dagli ambienti accademici tradizionali e soprattutto la predisposizione alla progettazione di architetture “fuori” dalle regole, capaci di superare i limiti imposti dalla normativa e divenire opere uniche. Yo Shimada fonda lo studio di architettura “Tato Architects” nel 1997, dopo essersi laureato alla KCUA. Lo studio, localizzato nella sua città natale, Kobe, intraprende progetti che consistono principalmente nella costruzione di case private in varie località del Giappone. L’ideologia della pratica progettuale è quella di formulare risultati positivi attraverso la comprensione delle sottili condizioni e vincoli della vita quotidiana, che esistono all’interno delle nozioni di luogo, cultura e storia dell’architettura passata ma, soprattutto, contemporanea.

133


House in Miyamoto, collage interno a fine cantiere e fruizione dello spazio interno

134


Tato Architects House in Miyamoto Osaka, Japan 2017 Il caso studio preso in considerazione è la “House in Miyamoto” ad Osaka. Essa è interessante, per il campo che stiamo analizzando, sotto molteplici punti di vista: per il modo di vivere tipico giapponese, per le richieste particolari della committenza, che di nuovo giocano un ruolo fondamentale, per il tema della personalizzazione della casa, e per i temi di flessibilità e versatilità, che permettono di vivere gli ambienti in molteplici modalità, questione che in questo caso è particolarmente accentuata, quasi volontariamente. Questa casa è una residenza concepita per una famiglia di tre persone e, soprattutto, per i loro numerosi oggetti ed effetti personali, che diventano i protagonisti dello spazio. Il cliente ha richiesto che i membri della famiglia si sentissero vicini l’un l’altro indipendentemente da dove si trovassero all’interno dell’abitazione. Inoltre, le stanze private, secondo l’ideologia della committenza, non erano necessarie, perché lo spazio dell’io è filosoficamente racchiuso all’interno della persona stessa, quindi inutile ritirarsi nel proprio spazio e dividersi fisicamente dagli altri componenti della famiglia. Allo stesso tempo, uno spazio di archiviazione era considerato inopportuno, in quanto gli utenti non avrebbero buttato o nascosto nessuna delle cose della casa, lasciandole tutte in mostra, quasi come fosse un museo che racconta le loro vite: al centro del progetto doveva essere la libera

135


disposizione degli oggetti, non vincolati a nessuna logica di archiviazione. Risultato di queste volontà è una casa “nuda”, pura architettura, che rivela senza filtri lo scorrere quotidiano della vita di tre persone in 94 metri quadri. In questo caso, date le dimensioni, non si può parlare di “spazi minimi” nell’accezione che abbiamo dato all’espressione fino a questo momento. L’interesse nei confronti di questa architettura, però, diventa sorprendente, considerando una serie di elementi e principi che ora verranno esplicati. Come risultato del tentativo di trovare una forma che permettesse a tutta la casa di essere concepita come un’unica stanza, pur assicurando spazio sufficiente per i propri effetti personali, è stato proposto un progetto, con un dislivello totale di 6,9 metri, dove i diversi piani, o meglio ripiani, potevano essere usati come tavoli, scaffali o altro ancora. Questo susseguirsi di spazi si sviluppa all’interno di un parallelepipedo di 4,5 per 11 metri, in cui il disegno interno è risolto attraverso un’unica stanza abitata capace di favorire la coesistenza di corpi e cose. Se le stanze private non sono più necessarie, la suddivisione delle funzioni domestiche è affidata ad una sovrapposizione di piani sospesi fissati a diverse quote, di forme quadrate e triangolari, che creano zone funzionali interne minuziosamente studiate. Ciascuno dei diversi livelli, in particolare, differisce di 70 centimetri rispetto quello sottostante. Nello specifico, questo dislivello corrisponde a quattro gradini, che si ripetono nell’intero progetto, con giaciture differenti, quando si passa da una “stanza” all’altra. Questa differenza di altezza consente alle superfici del pavimento di funzionare anche come tavoli o scaffali. Concentriamoci ora, ad una scala più ridotta, su quelli che sono propriamente gli spazi interni progettati.

136


House in Miyamoto, contesto

137


Da un livello di ingresso, che ospita deposito biciclette e un guardaroba per cappotti, ovviamente a vista, i vari piani si muovono “a spirale” verso l’alto, lungo due direzioni principali. Essi convergono in una zona di vita centrale, la zona living quadrata posta a 2,8 metri dalla quota zero, prima di diramarsi di nuovo e salire verso due terrazze sul tetto, che rappresentano il culmine del percorso dell’utente. “Usando questa combinazione di due spirali, siamo stati in grado di creare percorsi multipli all’interno della casa che consentono diversi compartimenti e cambiamenti nella circolazione, permettendo alla casa di essere in grado di accogliere cambiamenti nello stile di vita del cliente”1, afferma l’architetto. Nello specifico, lungo lo sviluppo verticale ed orizzontale della casa, successivamente al primo ambiente di deposito e guardaroba, si trovano la cucina e la sala da pranzo, assieme ad un piccolo studio; sopra ancora troviamo l’area living ed il primo bagno. All’ultimo piano sono disposti l’ultimo bagno e l’area notte. I bagni sono gli unici ambienti separati, tramite partizioni verticali, dagli altri. Il resto della casa, infatti, è un unico “open space” su più livelli che rispecchia in pieno le richieste della famiglia. “Dalla camera da letto alla sala da pranzo, dalla zona living al bagno: la visione è una vertigine di piani dove nessuna parete, nessuna barriera, nessun ostacolo può interrompere una sequenza spaziale volutamente flessibile e aperta a qualsiasi cambiamento nello stile di vita degli abitanti”2. I dintorni del sito sono principalmente lotti destinati a parcheggi ed appartamenti, e si prevede che saranno costruiti molti edifici alti nel prossimo futuro. Il quartiere in cui il progetto si inserisce è perciò densamente urbanizzato ed in via di sviluppo. Questa 1 2

Yo Shimada, cit. Yo Shimada, cit.

138


139


condizione ha spinto lo studio a proporre un progetto che prendesse in considerazione l’alta probabilità che l’edificio sarebbe stato circondato, in breve tempo, da edifici più alti. Piuttosto che tentare di ospitare aree verdi destinate a giardino al livello del suolo, l’impronta dell’edificio si estende quasi fino al perimetro del sito e le terrazze sul tetto offrono agli spazi esterni un’esposizione ottimale alla luce solare. Partendo quindi dal presupposto che l’unica area esterna che riceve buona luce solare è il tetto, l’edificio è un semplice volume rettangolare, a forma di scatola, con la copertura piana e terrazze triangolari. Le terrazze sono accessibili dalla camera da letto principale e dal bagno posizionato nella parte superiore della casa. I proprietari, che in precedenza vivevano nelle vicinanze, si sono trasferiti nella casa gradualmente ed hanno costantemente riempito le varie piattaforme con i loro mobili e possedimenti, dando vita a un tipo di ambiente estremamente personale ed esclusivo, dove le cose, l’architettura e le persone sono diventate un’unica realtà. “Nella Miyamoto House i livelli sospesi non sono solo i pavimenti su cui (so)stare: sono piani su cui appoggiare oggetti, sono tavoli su cui mostrare collezioni, sono sedute su cui fermarsi a raccontare storie, sono macro-architetture a servizio di micro-architetture figlie dell’incontenibile impulso verso il riempire di ricordi lo spazio, perché l’accumulo porta conforto”3. Le finestre sono posizionate in modo uniforme nelle facciate, senza privilegiare alcun fronte, con la minima interferenza con la struttura, per consentire alla casa di essere in grado di accogliere i cambiamenti dell’ambiente circostante.

3

Carli G., Usare i piani di una casa come se fossero tavoli: la casa-stanza di

Tato Architects a Osaka, in Elle Decor, 25 marzo 2018

140


House in Miyamoto, dettaglio scala e pavimentazione

141


La struttura in acciaio della casa è conforme alle normative locali sul fuoco. Su di essa si sviluppa una struttura di supporto per i 13 piani separati. Sette di essi sono “sospesi” e sorretti dalle travi della copertura, grazie a barre in acciaio da 20 mm, mentre gli altri sei sono rialzati su tubi di acciaio quadrati da 75 mm. I piani di appoggio di ogni piattaforma sono progettati utilizzando semplici travi in acciaio che sostengono robusti pannelli di metallo ondulato, disposti sul lato inferiore. I gradini che collegano ogni livello sono costituiti da una struttura in metallo nero e superfici in legno che introducono un dettaglio caldo e naturale all’architettura minimalista degli interni. Yo Shimada, inoltre, rispetto a tanti altri progettisti giapponesi, che fondano la loro attività sugli stessi principi, aggiunge un dettaglio in più: il progetto domestico non si svolge solo intorno alla persona, ma considera gli oggetti come gli “altri” inquilini della casa, altrettanto importanti e degni di considerazione. L’architettura vista nelle foto subito successive alla fine del cantiere, infatti, non ha alcun valore se la si confronta con quella successiva all’insediamento della vita della famiglia stessa. La Miyamoto House diventa così, se vogliamo, una sorta di versione aggiornata de “La casa della vita” di Mario Praz, dove “ogni camera è sempre una presenza visibile di cose, uno spettacolo, non uno sfondo neutro”4, o della “casa-museo” di John Soane, in cui l’unione tra il genio dell’architetto e delle ricchezze accumulate durante la sua intera vita convivono all’interno di uno spazio magnifico, unico ed irripetibile.

4

Praz M., La casa della vita, Milano, Adelphi, 1995

142


House in Miyamoto, vista sulla cucina

143


House in Miyamoto, ingresso, fruizione dello spazio interno

144


House in Miyamoto, bagno

145


House in Miyamoto, interno fine cantiere

146


House in Miyamoto, fruizione dello spazio interno

147



Alejandro Aravena - Elemental

Quinta Monroy



Alejandro Aravena - Elemental

Il pezzo di stoffa sta alla sedia come X sta all’architettura. Cerco sempre di conferire a X un valore che sia il più possibile irriducibile.1

Alejandro Aravena, nato nel 1967, consegue la laurea in architettura nel 1992 presso la “Pontificia Università Cattolica” del Cile. È oggi architetto e docente. Dopo la fondazione del suo studio, nel 1994, ha ottenuto molti riconoscimenti per le sue opere, tra cui il “Pritzker Prize” nel 2016, conferitogli con questa motivazione: “Alejandro Aravena ha sperimentato una pratica collaborativa che produce potenti opere di architettura e affronta anche le principali sfide del XXI secolo. Il suo lavoro offre opportunità economiche ai meno privilegiati, mitiga gli effetti delle catastrofi naturali, riduce il consumo energetico e fornisce un accogliente spazio pubblico. Innovativo e stimolante, mostra come l’architettura al suo meglio è in grado di migliorare la vita delle persone”. L’esistenza delle persone nei luoghi di vita quotidiani è infatti il tema centrale che, nel 2000, assieme all’ingegnere Andrès lacobelli e all’architetto Pablo Allard, con l’ideazione dell’”Elemental Team”, Aravena si propone di porre al centro della sua ricerca progettuale. “Elemental” è allo stesso tempo un gruppo di volontariato ed uno studio di architettura che opera nella città con obiettivi di 1 Aravena A., citazione in Biagi M., Alejandro Aravena: progettare e costruire, Milano, Electa, 2007

151


uguaglianza, attraverso la costruzione di alloggi a basso costo, spazi pubblici e infrastrutture per i poveri, in collaborazione con la “Oil Company” cilena e con l’”Università di Santiago del Cile”. Il nome del programma sta ad indicare la volontà progettuale di realizzare gli elementi basilari della soluzione abitativa, che poi ciascun fruitore è chiamato a completare e personalizzare secondo le proprie esigenze e disponibilità economiche, ricorrendo spesso anche all’autocostruzione. Importante nel lavoro di “Elemental” è l’obiettivo di favorire relazioni di solidarietà e collaborazione tra gli abitanti, un alto grado di porosità che consenta di ampliare gli alloggi e la reiterazione di una cellula base di trenta o quaranta metri quadri, che non è disegnata come una “casa minima” conclusa, ma immaginata come nucleo di partenza per la costruzione di un’abitazione di taglio medio, che in Cile si aggira intorno ai settantadue metri quadrati. L’innovazione più interessante e rivoluzionaria di “Elemental” sta nel sistema della costruzione “aperta”, a cui abbiamo appena accennato, metodologia progettuale alla base della quale vi è la volontà di dare risposta alla crisi degli alloggi, frenando l’espansione delle baraccopoli che circondano tutte le città e creando uno stretto rapporto tra temi ecologici e temi sociali.

152



Quinta Monroy, fruizione dello spazio interno


Alejandro Aravena - Elemental Quinta Monroy Sold Pedro Prado, Iquique, Tarapacá, Chile 2003 La “costruzione aperta” è un metodo sperimentato per la prima volta a Iquique, nel progetto “Quinta Monroy”, un quartiere ideato nel 2004 per assorbire le baraccopoli del centro città. Quest’ultimo verrà descritto ed inquadrato come progetto esemplare per la concezione dell’architettura di Aravena, per l’elemento della personalizzazione, che in questo caso è declinato in modo differente rispetto agli esempi che abbiamo visto fino ad ora, anche perché non si esaurisce all’interno dell’abitazione, ma anche e soprattutto all’esterno, dando un segno ai prospetti ed alle facciate, che diventano forse il carattere più significativo dell’architettura stessa. “Elemental”, con questo progetto, riesce a realizzare un complesso edilizio per 100 famiglie usando i fondi di un programma pubblico. Poiché questo denaro basta ad acquistare il terreno e a realizzare solo parzialmente gli alloggi, ovvero 30 metri quadri circa per alloggio, da quest’insufficienza di fondi nasce l’idea di una tipologia abitativa “aperta”, che consenta di consegnare agli abitanti case semi costruite, del cui completamento si occuperanno da soli. Se, per rendere più efficiente l’uso del terreno, la dimensione del lotto fosse stata ridotta per corrispondere a quella della casa, il risultato, piuttosto che l’efficienza, sarebbe stato il sovraffollamento e la promiscuità. Se gli edifici fossero stati costruiti in

155


altezza, non avrebbero consentito la crescita degli alloggi stessi. “Elemental” realizza quindi l’essenziale, tutto quanto gli abitanti non sono in grado di realizzare da soli con alti standard qualitativi, ossia la struttura portante, l’involucro, la copertura, gli impianti e le stanze di servizio con acqua corrente; rimane il vuoto di uno spazio non costruito, suscettibile ad essere “riempito” successivamente secondo le possibilità ed il gusto di ognuno. La flessibilità della struttura dell’alloggio e la sua reversibilità sono le chiavi per garantirne la sostenibilità, ma anche per opporsi al fenomeno del consumo di nuovo suolo e dell’esclusione sociale. Il valore dell’architettura di “Elemental” non è da ricercare nel linguaggio o nelle sue qualità figurative, bensì nella capacità di declinare l’architettura come un servizio alla società e non come veicolo della vanità dell’architetto, il quale rinuncia a qualsiasi ambizione formale. “In questo senso possiamo capire l’architettura di Aravena come un lavoro che vuole essere creato con una precarietà di mezzi, in una fuga consapevole dall’opulenza della società contemporanea che cerca opere uniche di architetti del mondo dei media”1. Lo stesso Aravena afferma: “Penso che se qualcosa deve caratterizzare lo stato mentale di un architetto è la precisione, la secchezza, che è lontana dalla poetica che sogna sveglia una realtà trascendente, metafisica, filosofica, perciò decadente e debole se si simpatizza con Nietzsche, come la rinuncia idiota di colui che non (si) propone niente”2. Questi principi generali sono stati finora applicati in diverse oc1 2005 2 2002

Pucho V., Introduzione Alejandro Aravena, Pamplona, T6 Ediciones, Aravena A., El lugar de la arquitectura, Santiago di Cile, Ed. ARQ,

156


Quinta Monroy, situazione originaria del quartiere

157


casioni, tra le quali la più eloquente è, appunto, il quartiere di “Quinta Monroy”. Nel 2003 il governo cileno ha chiesto ad Aravena di sistemare le 100 famiglie di “Quinta Monroy” nello stesso sito di 5.000 metri quadri che avevano illegalmente occupato per gli ultimi 30 anni e che si trovava nel centro di Iquique, città nel deserto cileno. Il 14 dicembre 2004, le famiglie sono diventate proprietarie degli appartamenti realizzati nell’ambito del progetto “Elemental”. “Elemental” mantiene quindi la comunità nel sito originale, nonostante l’elevato valore immobiliare dell’area, vicina al centro di Iquique: i legami affettivi e lavorativi vengono così conservati, favorendo l’uso di uno spazio collettivo comune e condizioni di vita ricche ed articolate. Ciò che in primis si voleva evitare, infatti, era lo sradicamento di queste famiglie verso la periferia. La soluzione scelta, inoltre, avrebbe rafforzato l’economia familiare e la buona posizione sarebbe stata anche la chiave per aumentare il valore della proprietà. Come prima soluzione alla richiesta del governo è stata presa in considerazione la seguente equazione: una casetta corrisponde ad una famiglia, che corrisponde ad un lotto. In questo modo, però, sarebbero state ospitate solo 30 famiglie del luogo. Il problema con le case unifamiliari, inoltre, è che sono molto inefficienti in termini di utilizzo del suolo: è per questo che l’edilizia sociale normalmente tende a cercare terre che costano il meno possibile. Quelle terre, generalmente, sono lontane dai siti di istruzione, non servite dai trasporti, lontane dalle opportunità di lavoro che le città offrono. Questo modo di operare, con la tendenza a localizzare l’edilizia sociale per famiglie povere in zone di periferia, genera delle vere e proprie zone smembrate e divise, generando risentimento, conflitto sociale e ingiustizia. Grazie ai laboratori di appoggio tecnico e progettuale coordinati

158


Quinta Monroy, pianta piano terra e prospetto

159


dagli architetti di “Elemental”, gli abitanti, coinvolti anche nella fase di progettazione in un articolato dialogo partecipativo, hanno iniziato un processo di ampliamento e modificazione delle architetture e degli spazi del quartiere: preservando i caratteri del progetto architettonico originario, gli interventi di completamento vanno dall’integrazione di elementi di arredo, all’assemblaggio di frammenti delle vecchie case, fino a interventi più complessi di ampliamento. Il progetto di ogni elemento e del loro assemblaggio è studiato per essere economico e di facile manutenzione. “Nessun compiacimento pittoresco o populista affiora nelle case di Quinta Monroy: bisogna realizzare la struttura, la base indispensabile per cominciare una nuova vita, quello che da soli gli abitanti, installati precariamente per troppi anni, non sono stati in grado di costruire. Il progetto di architettura è una strategia di appropriazione del territorio che permette molteplici tattiche abitative differenti, evitando un ruolo predittivo e prescrittivo ma anzi lasciandosi manipolare dai suoi abitanti – indifferente alla permanenza della propria forma. Paradossalmente Alejandro Aravena progetta un’archeologia rovesciata, tracciando ora il sedime delle preesistenze sulle quali si appoggerà la vita, una traccia dura, che già adesso deve essere decifrata tra le prime ripitture, i sopralzi, gli ampliamenti”3. Il progetto Elemental costituisce uno scenario aperto e molteplice per lasciare che la vita vi si dispieghi in tutta la sua libertà e potenza, al di fuori di possibili controlli dell’architettura, si iscrive come azione di appoggio alla soluzione del problema della casa, dove l’architetto è un mediatore all’interno di processi sociali, tecnici e politici.

3

Gallanti F., Elemental, Aravena!, in Domus web, 15 novembre 2005,

160


Quinta Monroy, pianta primo piano e sezione trasversale

161


“Il registro narrativo delle immagini qui presentate rafforza la sensazione che questa ridefinizione del ruolo del progettista sia stata raggiunta, sottraendolo al cannibalismo dell’immagine e della spettacolarizzazione dell’architettura”4 : in questo modo Fabrizio Gallanti introduce il servizio fotografico di cui vengono proposte alcune foto a seguire. Esso viene denominato “interni con figure”, poiché la messa in scena del soggetto fotografato è centrale, cosciente e controllata. “Né prospettive vuote, né immagini rubate: una rivelazione di una intimità domestica nuova, esibita con orgoglio come rappresentazione di una dignità rinvigorita anche grazie ad un progetto di architettura”5. Infine, è probabilmente nelle seguenti parole di Aravena che il principio e l’ideologia che guida tutta la sua opera è evidente e messa a nudo: “Faccio sempre del mio meglio per ottenere che i miei lavori possiedano la doppia valenza di specchio e mantello. Da un lato, l’opera di architettura dovrebbe essere un oggetto capace di resistere a uno sguardo attento, capace, se interrogata in qualità di oggetto artistico, di rispondere coerentemente fino al punto di riuscire a riflettere un momento nel tempo, il livello di sviluppo di una cultura, di una società o di un sistema di valori. Dall’altro lato, l’opera architettonica dovrebbe comportarsi come un luogo, riuscire a scomparire nella coda dell’occhio, a dissolversi in silenzio, lasciandoci fare senza problemi ciò che facciamo normalmente: lavorare, riposare, studiare, dormire, cucinare, mangiare, insomma vivere.”

4 5

Gallanti F., op. cit. Gallanti F., op. cit.

162


Quinta Monroy, pianta secondo piano e sezione longitudinale

163


Quinta Monroy, interno fine cantiere

164


Quinta Monroy, fruizione dello spazio interno

165


Quinta Monroy, esterno fine cantiere

166


Quinta Monroy, fruizione dello spazio esterno

167


Quinta Monroy, esterno fine cantiere

168


Quinta Monroy, fruizione dello spazio esterno

169


Quinta Monroy, fotografie dal servizio “interni con figure�

170


Quinta Monroy, fotografie dal servizio “interni con figure�

171


Quinta Monroy, fotografia dal servizio “interni con figure�

172


173



Capitolo V

Sul confronto


Collage, da sinistra: Le Cabanon, Le Corbusier; House Asama, Atelier Bow-Wow; Quinta Monroy, Alejandro Aravena - Elemental; Tread Machiya, Atelier Bow-Wow


V

Sul confronto

Siamo partiti, in questo testo, dalla nascita dell’architettura e dalla risposta immediata di quest’ultima al bisogno umano di abitare. Abbiamo velocemente percorso varie interpretazioni del tema dell’abitare, che si declinano in modalità differenti per motivi geografici, temporali, sociali, culturali ed economici. Analizzando l’etimo della parola “existenzminimum” e la sua evoluzione, insieme al contesto storico ed architettonico in cui nasce l’espressione stessa, abbiamo inquadrato il tema dell’abitazione minima e dell’habitat più ridotto in cui l’uomo può condurre la propria vita. Partendo dal Movimento Moderno, durante cui il tema viene introdotto per la prima volta, abbiamo esaminato due progetti che sono significativi e, soprattutto, emblematici, per quanto riguarda la declinazione dell’”existenzminimum” nella prima metà del 1900: il “Cabanon” di Le Corbusier e la “Stanza per un uomo” di Franco Albini. Due progetti totalmente differenti e non raffrontabili se si considerano finalità, committenza, geografia o materiali utilizzati. Il punto di incontro tra questi due progetti viene a galla nel momento in cui si prende atto del processo progettuale e del metodo che guida la progettazione di questi spazi, ed anche dei risultati formali finali. Innanzitutto, infatti, entrambi i progetti nascono dal modulo, che divide lo spazio nelle tre dimensioni ed asseconda la progettazione dei minimi dettagli. La cura del dettaglio sta alla base di ogni progetto di spazi “piccoli” di qualità, ed è un principio sempre vero e vivo, oggi più che mai, se si prendono a riferimento i progetti più recenti che abbiamo citato.

177


Per quanto riguarda il “Cabanon”, il modulo che accompagna la fase progettuale è il “Modulor” ideato dallo stesso Le Corbusier. In questo caso, perciò, è proprio la misura umana in tutte le sue parti ed in tutti i suoi movimenti possibili a dettare le dimensioni e la disposizione degli ambienti. Questo non significa che nel caso di Albini, nonostante il modulo non parta dalla figura umana, gli spazi non siano a misura d’uomo. Sono differenti le motivazioni che portano alla progettazione di questi due spazi: nel primo caso l’architettura è una vera e propria casa per vivere; nel secondo caso si tratta di un manifesto che mostra una nuova idea dell’abitare moderno. Nonostante questa differenza significativa, non a caso, i progetti mantengono una molteplicità di caratteristiche comuni e raccontano eloquentemente come la nuova idea dell’abitare fosse avvertita allo stesso modo ed espressa con schemi alquanto simili. Se si cerca di estrapolare dai due progetti gli elementi che li caratterizzano maggiormente, diventati con il tempo veri e propri simboli, o tutte le componenti che li rendono abitabili in ogni loro minima parte, infatti, si concluderà dicendo che questi due progetti non sono molto dissimili tra loro. Prendiamo in considerazione, ad esempio, l’assenza di pareti verticali che suddividono lo spazio ma, nonostante questo, la precisa e chiara ripartizione funzionale degli ambienti, attraverso pareti attrezzate, armadiature o semplici vuoti. Questo aspetto, raffinato sempre di più fino ai nostri giorni, è forse il cambiamento più grande, innovativo e significativo che il Movimento Moderno ha portato con sé. Nel numero 5 del 1928 di “Domus”, che si occupava di proporre modelli abitativi innovativi, legati alle esperienze internazionali, vengono pubblicati tre disegni, tre diagrammi che rappresentano in pianta tre tipi di muro: il “muro di ieri”, ovvero una parete molto spessa, strutturale, alle cui estremità, in corrispondenza

178


con l’incrocio delle altre due pareti che individuano una stanza, sono ricavate delle nicchie, che scavano il muro e sono chiudibili con porte; il “muro di oggi”, una parete più sottile, svincolata da funzioni statiche, grazie alle innovazioni prodotte dai sistemi strutturali, sulle cui facce, riferite ai due ambienti che la parete definisce, sono appoggiate delle armadiature; e infine il “muro di domani”, ovvero una parete attrezzata, che contiene al suo interno una serie di piccoli vani, più o meno ampi, con le relative porte. Questi diagrammi raccontano dunque di un’evoluzione del modo di attrezzare la casa verso una prospettiva futura che in realtà, nel suo esito ultimo, il “muro di domani” appunto, si configura come una attualizzazione di quello che era il “muro di ieri”, ovvero la parete che assolveva anche la funzione di “contenitore” di alcuni oggetti o funzioni dell’abitare: l’armadio, la dispensa, la libreria. Ma questi schemi descrivono anche il tentativo che in quegli anni si stava facendo di definire un nuovo modo dell’abitare domestico, in cui la qualità della casa viene raggiunta anche dall’integrazione e interdipendenza precisa dell’arredo e dello spazio architettonico. Le Corbusier affronta la questione della scala domestica delle attrezzature di servizio della casa, auspicandosi che l’antico mobilio venga sostituito da moderni dispositivi che consentano di liberare lo spazio, per circolare, per consentire “movimenti rapidi e precisi”1: sono mobili che andranno “proporzionati alle nostre membra, adatti ai nostri gesti. Essi cioè hanno una scala comune. Obbediscono ad un modulo. Se studio il problema [...] trovo una misura comune. Trovo il mobile che contiene bene tutti questi oggetti”2. E l’intera opera del Maestro svizzero è colma di tali 1 Le Corbusier, Precisazioni sullo stato attuale dell’architettura e dell’urbanistica, a cura di Tentori F., Bari-Roma, Laterza, 1979 2 Le Corbusier, op. cit.

179


dispositivi: dalle nicchie scavate nelle murature, ai blocchi servizi che accorpano funzioni diversificate e diventano elementi di snodo fra gli ambienti, sostituendo le pareti chiuse nell’ottica di preservare la fluidità dello spazio della pianta libera; dalle pareti scorrevoli e porte-armadiature che trasformano in totale flessibilità la zona giorno in zona notte, alla doppia funzione di altri elementi, come i parapetti che diventano basse librerie o scrivanie attrezzate. Fino ad arrivare al “Cabanon” appunto, che Le Corbusier costruì per sé all’inizio degli anni Cinquanta, vera e propria “capanna primitiva” in legno, archetipo dell’abitare domestico, dove tutte le funzioni ed esigenze minime dell’abitare trovano giusta misura e disposizione, in cui il legno è materiale costruttivo e di finitura in una perfetta integrazione fra pareti, spazio e attrezzature della casa. Non più mobili, dunque: “La nozione di mobilio è scomparsa. È stata sostituita da un vocabolo nuovo: attrezzatura domestica”3. La cosiddetta “attrezzatura domestica” è il medesimo elemento fondamentale che dà un carattere significativo al progetto di Franco Albini. Nulla è eccessivo, tutto ha un fine ed è studiato nel minimo dettaglio, per essere il più utile e funzionale possibile e, allo stesso tempo, essere parte di una composizione architettonica più ampia e ben studiata. In entrambi i progetti, infatti, non esistono mobili nella concezione classica del termine, ovvero i cosiddetti mobili “in stile”, ma ogni spazio destinato a questa funzione è una parete attrezzata, o un’armadiatura adatta a specifiche funzioni, senza mai incorrere a quelle che Adolf Loos definisce “inutili superfetazioni”4. Nei progetti più o meno contemporanei che abbiamo citato, è evidente come alcuni dei principi che stanno alla base della pro3 4

Le Corbusier, op. cit. Loos A., Parole nel vuoto, Milano, Adelphi, 1972

180


1

2

3

Ridisegno, da Domus, n. 5, 1928 1. Il muro di ieri 2. Il muro di oggi 3. Il muro di domani

181


gettazione degli interni nei primi anni del 1900 siano ancora presenti e quasi protagonisti della composizione finale. Innanzitutto, la scelta di casi studio appartenenti a realtà così differenti tra loro, Giappone e Cile, è indispensabile in quanto mostrano due declinazioni del tema dell’abitazione minima in modalità differenti e, in entrambi i casi, con risultati esemplari ed ogni volta ideali per le condizioni a cui il progetto deve adeguarsi e le esigenze a cui deve rispondere in modo efficace. Il Giappone è una società ricca, in cui, come abbiamo già potuto constatare, i progetti di abitazioni minime non rispondono a scarsità economiche e non hanno la finalità di risolvere condizioni sociali precarie. In Giappone, insomma, abitare in una casa “piccola”, in cui ogni minimo ambiente e dettaglio è pensato e, soprattutto, estremamente funzionale, è una lunga tradizione, totalmente differente da quella occidentale, dove lo spazio ampio è inteso come un elemento positivo di benessere, simbolo materiale del successo personale del proprietario, anche se il tema di spazi abitativi minimi è oggi vivo più che mai e sta conquistando ed affascinando la nostra architettura ormai da alcuni anni. In Giappone la committenza gioca un ruolo fondamentale: non esiste una casa uguale all’altra in quanto ogni cliente fa particolari richieste al progettista, il quale in base alle domande, esigenze ed opportunità di ognuno trova ogni volta la soluzione migliore: il progettista dà così forma alla singolarità della vita di ogni utente. I progetti che abbiamo citato, infatti, fanno proprio questo: generare spazi in cui l’uomo possa condurre la propria vita senza costrizioni, oppressioni o limitazioni, ed ogni progetto lo fa in modo differente proprio perché sono ogni volta differenti le circostanze. Il Giappone, per quanto riguarda questo tema, potrebbe essere definito un “mondo della fine”, nel senso che tutto è controllato,

182


valutato ed indagato a fondo ed è anche, ormai, una tradizione lunga che nella contemporaneità ha raggiunto le sue espressioni più alte. Basta infatti considerare i tre casi studio di architetture giapponesi che abbiamo citato: in “House Asama” è la committenza, assieme a tutti i suoi effetti personali, che diventa protagonista dello spazio all’interno di un’unica grande stanza. In “Tread Machiya” è la scala, che diventa tavolo, libreria, sedia, elemento di connessione, spazio della condivisione. In “House in Miyamoto”, infine, è la vita delle persone, che viene trasportata, in modo del tutto naturale, nella casa, la quale diventa manifesto della famiglia che vive quegli ambienti ogni giorno. In una posizione differente può essere posta l’architettura cilena che, piuttosto, rappresenta un “mondo dell’inizio”, nel senso che, innanzitutto, l’architettura cerca di trovare soluzioni a problematiche evidenti, di tipo sociale ed economico e, allo stesso tempo, il cantiere non finisce con la fine del lavoro dell’architetto o dell’impresa edile, ma la costruzione continua a crescere ed elevarsi ancora con il lavoro di ogni persona che nell’edificio dovrà vivere. È un “mondo dell’inizio” poiché il tema dell’edilizia sociale, a “Quinta Monroy”, è stata considerata come un investimento per il futuro, piuttosto che come un costo; poiché il sito, posto in una buona posizione, vicino alla città, ha permesso di creare un rapporto saldo con la rete di opportunità che la città stessa offre e ha dimostrato di essere una questione chiave nel decollo economico di una famiglia povera, rafforzando in questo modo l’economia familiare. Infine, invece di progettare una piccola casa, il fatto di progettare una casa a medio reddito, di cui inizialmente viene fornita solo una piccola parte, ha significato un cambiamento nelle concezioni standard: cucine, bagni, scale, pareti divisorie e

183


tutte le parti “complicate” della casa dovevano essere progettate per uno scenario finale di una casa di 72 mq. Se nell’architettura giapponese l’aspetto economico è riferito ai costi molto alti dei terreni, che spingono le abitazioni a svilupparsi in altezza sfruttando la minore quantità di suolo possibile, in Cile l’aspetto economico si riferisce alle condizioni delle persone ed alle scarsità che le città si trovano a dover fronteggiare. Se l’elemento della personalizzazione ed il fatto di concepire un’architettura unica e rara, in Giappone parte dalla richiesta della committenza ed è già evidente nel progetto su carta, anche se poi si palesa in modo sempre più evidente, nelle architetture di Aravena questo aspetto sorge e si manifesta solo nel momento in cui la casa viene vissuta in prima persona dai destinatari stessi. Se il concetto di “spazi minimi”, in Giappone è una lunga tradizione e motivo di pregio e qualità, anche per la concezione orientale della vita familiare, in Cile nasce come problema economico per diventare risorsa ed espediente per uno spazio di più grandi dimensioni. E la piena riuscita del progetto di “Quinta Monroy” sta proprio nella capacità che l’architetto ha avuto di ottenere un risultato finale così caratteristico, flessibile ed unico, partendo dalla progettazione di una tipologia di case a schiera, tutte uguali, ma prevedendo già quello che sarebbe stato il risultato finale. Se si riparte dalla citazione di Gropius, che dà il titolo al testo, nel caso del progetto di “Quinta Monroy”, si sarebbe parlato di “modus non moriendi” se la progettazione si fosse fermata alla fine del cantiere, ma il genio dell’architetto, attraverso il vuoto di uno spazio non costruito, suscettibile ad essere “riempito” successivamente secondo le possibilità ed il gusto di ognuno, ha consentito il passaggio al “minimum vivendi”, che in questo caso è stato raggiunto in modo esemplare ed eloquente. Questo

184


progetto, se vogliamo, può rappresentare, anche se in parte, quelle “Utopie realizzabili”5, titolo dell’omonimo libro, di cui parla Yona Friedman, dove arriva a ipotizzare un’ “Architettura di sopravvivenza”6, che rischia di compromettere la sopravvivenza dell’architettura stessa: “l’idea di un’architettura dettata dai bisogni, le esigenze, i desideri di chi ha l’urgenza di fruirne, che è un corollario dell’ipotesi utopica, ultrademocratica di una “architettura dal basso”, non solo voluta e pensata per i suoi utenti, ma ottenuta e realizzata da loro”7. Abbiamo parlato, all’inizio del testo, dell’importanza del luogo in cui il progetto si insedia, e nelle citazioni contemporanee questo principio è uno dei protagonisti dell’architettura stessa. Nelle architetture di “Atelier Bow-Wow”, di “Tato Architects” e di Alejandro Aravena all’interno del progetto “Elemental”, infatti, è impossibile parlare di “stile”, può piuttosto essere introdotto il concetto di “genius loci”. “Il carattere è determinato da come le cose sono, ed offre alla nostra indagine una base per lo studio dei fenomeni concreti della nostra vita quotidiana. Solo in questo modo possiamo afferrare completamente il “genius loci”, lo “spirito del luogo” che gli antichi riconobbero come quell’”opposto” con cui l’uomo deve scendere a patti per acquisire la possibilità dell’abitare”8 e “solo quando comprenderemo i nostri luoghi, saremo in grado di partecipare creativamente e di contribuire alla loro storia”9. La locuzione di genius loci intende individuare l’insieme delle caratteristiche socio-culturali, architettoniche, di linguaggio, di 5 Friedman Y., Utopie realizzabili, Macerata, Quodlibet, 2003 6 Friedman Y., op. cit. 7 Friedman Y., op. cit. 8 Schulz C. N., Genius loci. Paesaggio ambiente architettura, Mondadori electa, 1979, p. 11 9 Schulz C. N., op. cit., p. 202

185


abitudini che caratterizzano un luogo, un ambiente, una città. Un termine quindi trasversale, che riguarda le caratteristiche proprie di un ambiente interlacciate con l’uomo e le abitudini con cui l’ambiente stesso vive. Suole quindi indicare il “carattere” di un luogo, legato alle peculiari caratteristiche che in esso si affermano, includendovi opere, così come enti ed individui, che rendono immediatamente riconoscibile tal luogo agli occhi del mondo. Citando Rafael Moneo, “Malgrado la sua capacità di occupare e trasformare un terreno, l’architettura, alla fine, appartiene al terreno. Questo è il motivo per cui l’architettura dovrebbe ambire a essere appropriata, e cioè dovrebbe riconoscere e reagire ai caratteri del luogo che l’area occuperà”10. Questo non significa che la costruzione di un singolare ed unico edificio sia un atto automatico determinato dalle condizioni del luogo, ma “il luogo non è” nemmeno “una tabula rasa sulla quale gli architetti possono proiettare le loro conoscenze individuali. L’architettura scaturisce da un dialogo tra il luogo e il libero pensiero dell’architetto”11. “Sono fermamente convinto che l’architettura – la presenza reale di un edificio in un luogo – possa riscattare il luogo dal suo “dovunque” […] È lì – sul luogo – dove l’edificio in quanto preciso tipo di oggetto acquisisce la sua unicità; dove la specificità dell’architettura si palesa e può essere intesa come la sua dote più preziosa”12. Ed è proprio il “dovunque” di cui parla Moneo che è stato disintegrato ed annullato nei progetti giapponesi e a “Quinta Monroy”. Mai potrebbero essere queste architetture spostate altrove; esse raccontano eloquentemente le condizioni del luogo, sotto 10 Moneo R., L’altra modernità Considerazioni sul futuro dell’architettura, Milano, Christian Marinotti edizioni, 2012 11 Moneo R., op. cit. 12 Moneo R., op. cit.

186


molteplici punti di vista e, allo stesso tempo, cambiano lo status del luogo, in quanto la trasformazione del luogo e la nuova realtà al di sopra di esso sono successivamente chiarite dalla presenza e dalla vita del nuovo edificio. Tutte le architetture citate non perdono mai di vista questo obiettivo, pur essendo modelli esemplari di un modo di abitare spazi minimi. Esse sono infatti progettate secondo standard dimensionali ridotti, ponendo l’attenzione principale, quindi, sull’interno architettonico e le modalità di fruizione di quest’ultimo. Concetto evidente anche nelle modalità in cui i progetti vengono raccontati al pubblico più vasto: fotografie di spazi, stanze ed ambienti mai vuoti, sempre pieni di oggetti e vissuti dalle persone: sono questi i veri protagonisti dell’architettura.

187



Bibliografia

Alison F., LE CORBUSIER L’interno del Cabanon, Milano, Mondadori Electa, 2006 Aravena A., El lugar de la arquitectura, Santiago di Cile, Ed. ARQ, 2002 Aymonino C., L’ABITAZIONE RAZIONALE atti dei congressi CIAM 1929-1930, Venezia, Marsilio Editori, 1971 Bachelard G., La poetica dello spazio, Bari, Edizioni Dedalo, 1975 Biagi M., Alejandro Aravena: progettare e costruire, Milano, Electa, 2007 Broto E., Minimum Dwelling, Spagna, Links, 2010 Castiglioni, Mariotti, IL, Vocabolario della lingua latina, Loescher, 2007 Del Valle C., Compact Houses, New York, Universe, 2005 Freeman M., Space. Japanese Design Solutions for Compact Living, New York, Universe, 2004 Friedman Y., Utopie realizzabili, Macerata, Quodlibet, 2003

189


Garlaschelli E., Petrosino S., Lo stare degli uomini. Sul senso dell’abitare e sul suo dramma, Marietti, Genova, 2012 Greslieri G., La Maison des Hommes, Milano, Jaca Book, 1985 Klein A., Lo studio delle piante e la progettazione degli spazi negli alloggi minimi. Scritti e progetti dal 1906 al 1957, Milano, Gabriele Mazzotta Editore, 1975 Landsberger M., Laboratorio sull’abitare, San’Arcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2016 Laugier M.A., Saggio sull’Architettura, Aesthetica Edizioni, Palermo, 1987 Le Corbusier, Il Modulor, Milano, Gabriele Mazzotta editore, 1974 Le Corbusier, Vers une Architecture, Milano, Longanesi, 1973 Le Corbusier, Precisazioni sullo stato attuale dell’architettura e dell’urbanistica, Bari-Roma, Laterza, 1979 Loos A., Parole nel vuoto, Milano, Adelphi, 1972 Maria Alessandra Segantini, Spazi Minimi, Milano, Federico Motta Editore, 2004 Martegani P., SPAZIOMINIMO indagine metodologica sull’habitat più ridotto, Roma, Bulzoni Editore, 1975 Moneo R., L’altra modernità Considerazioni sul futuro dell’architettura,

190


Milano, Christian Marinotti edizioni, 2012 Monestiroli A., Semerani L., La casa Le forme dello stare, Skira Editore, Milano, 2011 Panzini A., Dizionario Moderno. Supplemento ai Dizionari italiani, 1905 Pucho V., Introduzione Alejandro Aravena, Pamplona, T6 Ediciones, 2005 Rey A., Dictionnaire historique de la langue française, Dictionnaires Le Robert, 1992 Schulz C. N., Genius loci. Paesaggio ambiente architettura, Mondadori electa, 1979 Secchi B., Prima lezione di urbanistica, Bari, Editore Laterza, 2013 Seidel F., New Small Houses, Spagna, Evergreen, 2008 Treccani, Dizionario della lingua italiana, Giunti T.V.P., 2017 Vitta M., Dell’Abitare. Corpi spazi oggetti immagini, Torino, Einaudi Yoshiharu T. Momojo K., Atelier Bow-Wow, Behaviorology, New York, Rizzoli, 2010 Zeiger M., Tiny Houses, New York, Rizzoli, 2009

191



Sitografia

Desiderio N., La ‘architectural behaviorology’ di Bow–Wow come scienza per costruire il senso del tempo, in Arcomai, 1 ottobre 2013, http:// www.arcomai.org/2013/10/01/la-architectural-behaviorology-di-bow-wow-come-scienza-per-costruire-il-senso-del-tempo/ Carli G., Usare i piani di una casa come se fossero tavoli: la casa-stanza di Tato Architects a Osaka, in Elle Decor, 25 marzo 2018, https:// www.elledecor.com/it/case/a20635448/casa-giapponese-tato-architects-osaka-miyamoto-house/ Gallanti F., Elemental, Aravena!, in Domus web, 15 novembre 2005, https://www.domusweb.it/it/architettura/2005/11/15/elemental-aravena-.html www.bow-wow.jp www.divisare.com www.elementalchile.cl www.fondazionefrancoalbini.com www.fondationlecorbusier.fr www.tat-o.com www.treccani.it 193


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.