Alberto Andreanelli
Schegge di parole
Š 1996 Alberto Andreanelli
1) La luce emanata dal faro imbastardiva l'aria di maggio come un'escrescenza fastidiosa e grattante. Il piccolo bar del piccolo paesino riuniva le specie più attardate nel ritorno a casa. mi ero seduto giusto di fronte a lei e stavo fumando una sigaretta, purtroppo l'ultima del mio fetente pacchetto. Probabilmente lei non lo sapeva, ed infatti eccola puntuale che mi chiede una sigaretta. Finite, le dico, ma se vuoi puoi prendere quella che sto fumando. E' bagnata, sottolinea lei. Solo in punta, sottolineo io. L'aria si faceva sempre più pesante, con l'odore di panini al tritolo che il giovane baristatuttofare sfornava e distribuiva a destra e a manca con irrazionale meticolosità. Mi ero preso la briga di andare a trovare mia sorella, giusto perché era da due anni che non la vedevo. Forse era meglio così. Io ero solo, volevo stare solo, lei era sposata, voleva stare sposata, e poi chi l'ha detto che fratello e sorella devono restare sempre insieme. La formica che aiutava il barista tuttofare si leccava i baffi assaporando la sua briciola giornaliera pronta e bisunta che l'aspettava in cucina. Si era data un grandaffare per tutta la giornata e suo marito non sarebbe rientrato che tra un'ora. Mi affaticavo parlando di bitume e asfalti caldi con la biondiccia tipa insulsa che si stava fumando la mia ultima sigaretta, ma per lo meno ero ancora cosciente di quel che dicevo. Adoravo mia sorella, era un fratello per me, anche se si dava troppo alla famiglia e poco a se stessa. Ma era stata sempre così, anche quando vivevamo tutti insieme, con mia madre e mio padre. Mio padre faceva il distributore di sogni sintetici per una società europea e guadagnava molto bene, e io e mia sorella abbiamo sempre avuto tutto quello che volevamo. Mia madre era una santa tutta casa e negozi. Rispolverai questi ricordi con una bottiglia tutta intera di gin, inebetito da Sandy biondiccia insulsa che continuava a parlarmi e a bere dalla mia bottiglia forse anche più di memedesimo. Probabilmente saremmo finiti a letto insieme, ma molto più probabilmente non mi si sarebbe rizzato neppure con una dose di eroina e cocaina ben miscelate e inalate endovena. Uno sciame di vecchi alpini fracassoni entrò in quel momento nel bar e si distese per i tavoli urlando e sbracciando e stappando bottiglie e cantando cori da alpini e stringendoci le braccia e portandosi via come un uragano la piccola biondiccia insulsa che ormai non mi parlava più. Rimasi solo a pensare fissando un iguana che pisolava beato come un iguana vicino alla finestra sporca di acqua da dare ai fiori e mi accorsi che l'ora di avviarsi era armi giunta. Pagai con una menta polare, allora introvabile, la bottiglia di gin e me ne uscii seguito dall'iguana che si era appena svegliato. Dove te ne vai? mi chiese, ed io gli dissi che sarei passato per Afranta di Tarzo e salimmo tutt'e due sulla mia Spider ricordando i tempi in cui si poteva ancora andare a Venezia e vedere il mare.
2) Che cosa me ne frega se mi berranno tra pochi minuti? Non
me ne frega niente. E’ il mio destino bastardo. Ma sono di prima qualità. Cazzo vuoi? Sono DOC: Sono d’annata. Sono costoso. Ho valore sul mercato. Chemmefreca! Sono sempre stato since, genuino io anche quando mi hanno imbottigliato. Non ho paura che mi si scolino tutto perché lo so che è questo quello che devo fare. Fare in modo che gli altri provino piacere attraverso me. E ti pare poco? E’ bellissimo questo: Io sono da invecchiamento, credo. Non si può mai sapere. Chi li capisce questi? Non riesco a capire quando mi guardano e parlano tra di loro. Non ci capisco niente della loro lingua, io so soltanto che sto meglio di loro che tanto si affannano e si rincorrono a casa mia. Poi c’è quella cosa che mi da un tale tormento, quando arrivano e tutto diventa chiaro ma chiaro che io non ci sono abituato e devo fare un po’ di fatica prima di
riprendermi e poter tornare a riposare. La mia padrona di casa è estremamente simpatica e gentile. Si chiama Bottiglia ed è ormai da 2 anni e mezzo che fa questo mestiere. Io invece sono qui da quattro mesi. Prima sono stato per un po’ in una grande casa completamente buia e si stava proprio bene. Poi mi hanno separato un po’ di qua e un po’ di là e poi me ne dovrò andare, come tutti.
3) -Mi volevi lasciare lì da solo?- proruppi
improvvisamente inseguito all'ennesimo ammonimento di mia suocera. Lei si inarcò in tutta la sua pesantezza, roteando e roteando le mani, mi schiantò sul grugno una tonnellata di filetti di merluzzo findus cotti a vapore. Tramortito dal gusto acre del limone che guarniva le sue mani risposi con un quintale di borracce da montagna sulla di lei schiena che si piegò in sei parti perfettamente uguali tant'è che ci si fermò tutti per un lungo applauso ed una stretta di mano e tutto questo bel essere insieme venne premiato con il 'Prix de bon ame' della Michel in. Mia moglie partorì poco dopo e ce ne andammo tutti e tutte al mare d'inverno cercando in noi stessi il significato di una vita di sacrifici e salti mortali. Gioendo delle nubi sopra i nostri capelli avemmo l'occasione di trascendere le nostre anime per una buona mezz'ora cantando e suonando le nostre lodi alla Natura madre di tutte le cose e di tutti i così. -Prendete dell'altro acido- ci disse il fratello Johna dall'alto dei suoi due metri di barba incolta ed ispida sulla quale intere famiglie di parassiti passavano le ore più liete della loro vita sorseggiando deliziosi nettari e gustando prelibate cibarie all'ombra di una palma d'astuzia. Eravamo stanchi di tutto quel peregrinare; ci riposammo sul ciglio di una strada che per ore aveva continuato a farci l'occhiolino e chiacchierammo con la ruota di scorta di una Pontiac assonnata vicino alla nostra troupe. Iniziammo le riprese del film, le finimmo e non sapevamo più dove trovarle, tant'è che, grazie all'aiuto di uno scorpione ammaestrato ritrovatosi dopo una crisi esistenziale, fornimmo un elenco dettagliato alla Polizei delle nostre anime. La primavera ci aveva sorpassati da destra e noi la multammo moralmente, in difesa di tutti i diritti dei cittadini dell'universo che ci accompagnano da
)
sempre. Le calze, ormai, non avevano più alcun seno: era arrivata l'estate. 4 Avventuriera démodé e consapevole della sua tendenza social-nazio-cattolica, la scimmia più bella del mondo accarezzava la testa del suo amante con tenerezza e amore fuori dal comune senso del tempo. L'eterno si sposava con il mistero ed i telefoni di tutto il mondo suonavano all'unisono innalzando un canto di serenità e pace. Prese la sua valigia e l'apri, trovando subitamente quello che cercava: fare di suo marito il suo amante. Suo marito apri la di lui valigia e trovò che era stata già aperta dall'amante che lui doveva diventare; dunque l'aveva aperta lui medesimo ma non si ricordava di averlo mai fatto in tutta la sua unica vita. Voleva che testimoni fossero ascoltati tutti nella stessa seduta e tutti assieme nello stesso momento: l'italiano, il belga, il tedesco, il francese e l'inglese. Sarebbe stato molto bello ma non era possibile, non c'era abbastanza spazio per tutti, e poi avrebbe sicuramente perso la causa poiché la giuria era composta da stampanti laser che odiavano i mariti delle scimmie.
5) Lanciati dal paracadute ci lasciammo andare ad una sorte di caduta di pressione per poi
ritrovarci in un bacio di luce stellare rosso sole giallo fuoco vento neve e aria che si ripartiva nelle maniche di giada di sua maestà l'umilissimo Hanib. Un valido tentativo di cucire i vari pezzi sbucciati dal sole arrivi verso sera, con mia moglie abbracciata ad un martello pneumatico che domandava con insistenza l'amnistia,
quando il reverendo del paese donò a tutti l'assoluzione e la folla applaudì e corse verso la luce tenendosi per mano sulle braci ardenti. Mi rivolsi a mia moglie con queste parole -E se ce ne andassimo un po' a mangiare?-...-Solo un po'- disse lei e lasciò che il martello automatico se ne andasse in discoteca. Il mobile moderno del ristorante si avvicinò e ci fece accomodare sulle sedie dai braccioli stile impero. Non avevo molta fa me più sete che altro e lo feci notare al vecchio dai capelli brizzolati vicino al nostro tavolo. Mi abbracciò come se fossi stato suo figlio e ci chiese di adottarlo. Lo portammo a casa e chiamammo la baby sitter, e li lasciammo giocare per tutta la sera. C'era un problema: lui non utilizzava il nostro sistema metrico ma quello della Grecia antica. Lo portammo a studiare in giro per il mondo, lo facemmo viaggiare di qua e di là, e lui decrebbe e decrebbe fino a divenire un giovane di ventisei anni. Avevamo la stessa età.
6) Dovevo
assolutamente arrivare in orario all’appuntamento con J.P.R.K.L.F. Donovan, altrimenti sarei stato silurato dal sommergibile russo antiatomico nel breve spazio di un nanosecondo pesante quanto un quark dilatato ed in estasi. Donovan era il capo del servizio segreto dei cani anti-riepilogo giornaliero delle mance agli zingari. I ponti tra una calle e l’altra lo avevano portato ad attraversare il mare camminando su una slitta trascinata da due buoi. Ero in tempo per l’appuntamento ma mi accorsi di essermi dimenticato di portare con me il mento. Ormai non avevo tempo, potevo soltanto andare avanti e rinunciare alla spaghettata con gli amici dalle maniche lunghe che mi aspettavano al Bar dello Sport dietro il colonnato del centro. Lunghe code di capelli ricci mi spettinavano i costanti e ripetitivi mutamenti dei globuli all’interno del mio organismo con grande gioia dei sostenitori del sistema di videoregistrazione Betamax che, assiepati sulle tribune, assistevano alla partita di bocce organizzata dall’ACI. Io non avevo più alcun timore: avevo appena acquistato un VHS.
7) Il numero 7 era appena arrivato alla festa dei numeri e già si sentiva a disagio. C'era
un'infinità di numeri, tutti diversi, lo sapeva, ma sempre gli stessi. Lui non aveva fatto molta carriera, era stato preferito ad altri numeri ma non aveva riscosso un successo strepitoso come il 3 o il 17 che erano veramente delle stars. Aveva condotto una vita tranquilla: si era sposato con una bellissima ventina e avevano due splendidi trequarti, una coppia di gemelli. Macchina, gita al mare, qualche viaggio all'estero, niente di eccezionale ma neppure una vita da gettare alle ortiche. Il problema era confrontarsi con i suoi vecchi colleghi dell'algebra. Non li sopportava! Supponenti, egoisti, sbruffoni. Lo sapeva che li avrebbe trovati, che ci avrebbe dovuto anche parlare, ma soprattutto che li avrebbe dovuti ascoltare. Era ormai sicuro sul da farsi: andarsene. Ma quando stava per raggiungere la porta dell'uscitaentrata vide quella che per lui era stato un sogno durato un paio d'ore, qualche anno prima e del quale aveva ancora un vivido ricordo. Apparve ai suoi occhi la splendida trentina, che aveva lasciato tutti a bocca aperta fin dal suo esordio. Amava sua moglie, come non avrebbe potuto amare nessun'altra, ma la trentina lo aveva fatto sempre vacillare. Lei era nubile, per scelta si diceva. Forse lo avrebbe sposato, se quella volta, quella volta dietro il pi greco, lui glielo avesse chiesto. Ma non lo fece perché non l'amava. Lei era bellissima, la più bella di tutte. E lui lo sapeva. Ma non l'amava. Avrebbe tradito se stesso e soprattutto lei, e questo non lo voleva fare. Non si vedevano ormai da cinque anni, non si parlavano da quindici. E lui non lo sopportava. Era cambiato il suo modo di affrontare la faccenda; le avrebbe parlato. Le si avvicinò, le tese una mano e gliela baciò, di fronte allo sguardo inebetito
degli altri ospiti. Gli occhi di lei si riempirono di luce e lui le disse: -Grazie-. Lei lo abbracciò e gli mormorò all'orecchio: -E' bello rivederti-. Uscirono insieme sul terrazzo e presero a parlare, dimentichi della festa e ritrovati. La luna strizzò loro un occhio e li illuminò per tutta la notte.
8) L’uccellino si librava nell’aria
con fare antipatico e supponente. Prese a volteggiare come una trottola starnazzando sulla nuca di una signora vestita tutta a fiori che dava da mangiare al suo cane, in un misto di rabbia ed orrore, un bianchissimo petto di pollo con le patate. “E` mia nonna” disse il bambino all’uccellino. “E io le caco sopra” disse quest’ultimo, e lasciò che una quantità indefinita di escrementi uscisse dal suo retto e si appoggiasse delicatamente sulla cute della vecchina. Mi alzai disgustato dalla panchina sulla quale stazionavo da qualche momento e per la quale iniziavo a provare una forte attrazione amorosa, a malincuore, ci dovemmo separare dopo quegli attimi di passione meravigliosa che avevamo passato insieme, e mi diressi a passo lungo e ben disteso verso un vigile. Lo salutai e gli chiesi se poteva multare l’uccellino per aver defecato in testa alla vecchia. Mi disse che non era possibile poiché l’uccellino aveva la patente e lo speciale permesso di defecare da un’altezza di almeno tre metri. Rincasai triste e sconsolato. Mi feci una tisana per riscaldarmi e sorrisi, pensando alla vecchia battuta: “Pensa un po’ se le mucche avessero le ali”.
9) I tasti impazziti della
macchina da scrivere avevano iniziato ad aggredirlo violentemente verbalmente e lo scrittore in erba si difendeva come meglio potevo giustificandosi con frasi del tipo "Lo faccio per necessità, non per cattiveria" oppure "Ne ho bisogno". La lettera A era seccatissima, infuriata, ed inveiva senza un attimo di tregua: "Ma ti rendi conto di quante volte mi schiacci e mi pesti? Ma non hai un po' di rispetto? Perché non utilizzi più Y?"..."Non abbiamo l Nella nostra lingua"..."Questo non ti dà il diritto di usarci così sovente!" dissero la S e la M, in una tal maniera che lo scrittore ne ebbe timore e si allontanò con la seggiola dalla scrivania. Ormai era al termine del suo primo romanzo, era tutta la vita (breve) che desiderava quel momento, non poteva succedergli proprio adesso che le lettere gli si mettessero contro, non sarebbe stato giusto! Chiese di patteggiare, adducendo al fatto che le lettere erano pur sempre delle semplici lettere, o meglio, dei tasti di una macchina da scrivere. "Certamente" gli rispose la C "siamo dei semplici tasti, ma senza di noi tu non saresti neppure quello che sei o che vorresti essere". Esasperato, lo scrittore proruppe in un volgarissimo "Ma andatevene tutte a fare in culo!" frase che provocò lo scompiglio generale. Un vociare sempre più elevato si stava sollevando dalla tastiera, al che, il giovane scrittore, preso da follia mito-giudaica, si gettò cn il paracadute nell'intrico della macchina da scrivere e, con un machete in mano, iniziò a sferrare colpi di una violenza terrificante a destra e a manca, lacerando le divise firmate Armani indossate dalle lettere. Tutte scappavano impazzite e lo scrittore, non da meno, le inseguiva per tutta la scrivania zigzagando tra vocabolari analogici e sinonimi e contrari, finchè si trovò faccia a faccia con su maestà "la barra spaziatrice". Imponente e bellissima si stagliava di fronte a lui emanando uno strano profumo di metalmeccanico scioperante. Il comunista che era nello scrittore ebbe la meglio sul fascista e sul borghese di centro che ugualmente albergavano in lui ma che probabilmente non erano in quell'albergo in quei giorni, e si inginocchiò ammettendo la propria colpa. La barra lo fissò negli occhi e lo baciò sulla fronte ed il giovane scrittore pianse e si addormentò. Quando si svegliò, la mattina seguente, era l'uomo -scrittore più famoso del
mondo: il suo era il primo ed unico manoscritto del XXV° secolo.
10) Il portafogli si aprì e lasciò che
tutte le banconote che conteneva se ne uscissero dai loro ripostigli e prendessero il volo. Era stato il suo desiderio più forte, sin da quando era stato acquistato ed aveva iniziato la sua carriera. Apri e chiudi, apri e chiudi. Tutta la moneta di questa Terra era passata per i suoi piccoli anfratti, tutti ordinatamente disposti. Non aveva mai sopportato la maniacale cura del suo 'pseudo-padrone' (così lo chiamava lui, dicendo, inoltre, che 'era, in realtà, uno schiavo...suo! ", e forse non a torto) nel riporre il danaro: sempre dal più piccolo al più grande e, soprattutto, mai più di sette banconote! Pura follia! Ebbe la grande occasione, la colse, divenne un essere sovrannaturale e tutti gli dobbiamo la nostra gratitudine. Soprattutto io che, da quel giorno, sono ancora in giro per il mondo e mi sto godendo la vita come mai non avrei potuto. E penso a tutti i miei amici che sono rimasti chiusi nelle casseforti o nei portafogli (vigliacchi e non consci del loro essere) e mi rammarico. Dopotutto il mondo gira grazie ed esclusivamente al nostro esistere, quindi perché non concederci un po' di libertà? A proposito, il suo nome (del portafogli) era Philippe. Grazie Fratello!
11)
Stavo cercando di allontanarmi dall'abbondante crocevia che mi precludeva la strada verso una vittoria certa, quando lui travolto dalla passione per i cibi precotti in salsa al formaggio Brie, consumando le sigarette della mia amata regina di cuori. Svincolai in tutta fretta arrotondando la busta mensile e cercando di salutare con vigore e determinazione tutte le Bambole Sacre che si esponevano volontariamente ai raggi del sole. Senza il cenno di un saluto venni circondato da pochi intimi, nella speranza di un raduno hippie nei giorni a venire ma senza la certezza di una Gerusalemme liberata e libera da tutti i preconcetti di uguaglianza e sanità che ci obbligano ad essere rigidi come delle bacche rigide e senza fili. Senza alcuna ragione, inoltre, mi stavo appropinquando alla vecchia lancetta dell'orologio Sapiente che, probabilmente, mi voleva offrire ancora un po' di tempo ad un prezzo veramente ridicolo ma innocuamente colorato di vernici smerigliate tanto che dovetti rinunciare ed accontentarmi di quello che mi era stato preposto e proposto all'inizio della lunga trattativa con la Pece di Memoria. Essendo rimasto solo presi i miei abiti e volai verso ovest cercando la mia stella che volava anch'essa verso ovest ma molto piè velocemente di me, con un balzo stellare la spettinai e le posai una mano sulla spalla incandescente. Dovette rimanere sorpresa, tant'è che si girò di scatto mi fotografò in un sorriso inebetito ma sicuro di sé. Andammo via su di una nuvola a tasti azzurri verso il mondo ubicato nella dimensione del non so chi. Ci riposammo a lungo e ci sposammo ancora più a lungo. Il bacio dell'eternità si posò sulle Nostre testine lasciandoci un colore di gioia.
12) Farfugliando insensate
sciocche sporche proposizioni troppo lunghe mi avvicinava continuamente cercando di toccare il mio vano motore. Giù le mani, dico io. Non mi è mai piaciuta la gente che vuole toccare i vani motore, mi ha sempre destato i più biechi sospetti, spesso infondati, comunque tediosi e logoranti per un fisico longilineo come il mio. Presi la rincorsa e saltai il baratro che ci divideva salutando tutte le rane che, sbigottite, ci stavano a guardare applaudendo la nostra performance, Jack Lance, agli anelli, fece una grande uscita e si prese un bel 9.75; io, molto più bravo presi il 12 sbarrato e raggiunsi il centro cittadino. L'amore era appena passato, il prossimo sarebbe passato in futuro entro dieci minuti ma io non avevo tempo da perdere e rimasi fermo
trattenendo il respiro per un'ora circa. Il lattaio passò e mi versò un po' di yogurt nell'orecchio destro permettendomi di continuare a trattenere il fiato. Ne avevo un po' abbastanza parecchio di tutto ciò e l'ineluttabile legge che unisce il gregge mi buttò sugli occhi l'effetto prossimo futuro che ci riguardava da molto vicino: un eventuale trapasso. Nel candore della mia anima gettai il biossido di zolfo che mi era rimasto nel portafogli e lo gettai per terra inseguito da un gatto blu fosforescente laureato in economia edilizia si divertiva a lanciarmi delle impalcature dolci come una torta dolce. Mi arrestai d'un tratto e mi dissi anche che non avevo commesso niente di illegale. Mi rilasciai tout de suite (subito) e continuai a correre a correre a correre. Ero finalmente arrivato chez moi (a casa mia). Fu lì che mi liberai del mio io francese tricolorato.
13) Il telefono continuava a squillare da ormai cinque ore e nessuno di noi si era deciso a rispondere, né materialmente né inviando una lettera a chicchessia per dirgli di smetterla, che ormai ne avevamo abbastanza, che la torta al cioccolato non ci piaceva. Mi alzai su tutte e due le mie gambe e risposi: "Pronto, chi parla?" dissi seccato. "Sono Luigi, c'é Marco?" disse l'altro. "No, non c'é nessun Marco" dissi io, "Allora ho sbagliato numero" disse l'altro. "Ma lo sa che lei è da cinque ore che sta chiamando?". "No, non lo so. Ho perso il tempo. L'ho perso...non so più quando...ieri, domani, nel frigorifero, si è, si sarà congelato ed io non ho più il tempo. Non lo so quanto tempo. "Si acquisti un orologio" sbottai e gli sbattei il telefono in faccia procurandogli un po' di dolore poiché si trovava a pochi centimetri di distanza da me. Ci aveva preso in giro tutti quanti, come al solito, il vecchio caro Luigi e il suo telefonino del cappio. Come quella volta che convocò il Consiglio di Amministrazione per avvisare che il giorno seguente (era lunedì il giorno in cui lo convocò) sarebbe stato un martedì, dopo di che salutò tutti (gente che era venuta fin dalle Stalle Sacre di Zenone o dai Loschi Tributi di Confo) e sciolse l'Assemblea. Imbufalito lo presi a cornate sugli stinchi vicino alle orecchie e gli feci mangiare un po' di polvere in umido. In pratica non avevo digerito quest'ultimo scherzo, ne avevo le balotas piene di essere preso per uno Scherzo del destino. Mi involai su di giri pazzescamente e calorosamente con la Flotta Magica dei portaborse e rimasi a pensare sul mio futuro a mani giunte e per giunta in piedi. Scalzai il Terrore dei Mari e mi tuffai nella polvere di azoto, scoprendomi d'un tratto volubile come una piuma e pazzo di essermi tuffato. Telefonai a Luigi e lo pregai di venirmi a prendere. Fu l'ultima volta che gli telefonai.
14) La propensione matematica della materia a spargersi
sull’arenile mi spinse ad inventare la molecola di partotratoniglecimestratospurato che respingeva la teoria secondo cui la molecolone idrofisiocalturato risolvesse i preculdicicanti fosfati di animalizzato V200. Venni chiamato dal direttore del laboratorio per un consulto sul mio operato. Ne vennero fuori delle belle. Lui sosteneva che fosfocilotaburetonalitene sviluppasse una sindrome cosiddetta del “mangia-foglia” mentre io sostenevo che fosse il palistratocamuffaticolanolene. Avevo ragione io, come sempre, e me ne partii per una vacanza liberale e democratica in Centro-Sud-America attaccato com’ero ai miei ideali di libertà, vittoria e fratellanza comunale. Il numero 1918 era quello su cui ero seduto e mi auguravo che le altre 12972 persone nonché compagne di viaggio sull’aereo non soffrissero l’alta velocità a bassa quota. Partimmo perfettamente in orario con il volo su cui eravamo. L’aeroplano misurava 12000 metri di lunghezza per 200 di altezza per 110 di profondità. La velocità di crociera si aggirava malinconica per tutto l’aereo-isola-spaziale alla
velocità di 5000000 di km spazio-temporali rapidissimi tanto che dal finestrino il panorama appariva entusiasmantemente etereo. Il cronologista che mi ero portato nello zaino attaccò a parlare con la mia vicina di viaggio e non si staccò più fino all’arrivo in Belize. Ma di questo parleremo tra poco. “La diplomazia dimostrava di dare dalle diradazioni di diorami” mi disse l’hostess vestita di filosofia cinese. Mi impressionai a tal punto che l’abbracciai affettuosamente e le chiesi di venire a vivere con me. Le avrei preparato il benzolatenepilacolenbenzoico accanto alla concatenaposalitenicapolumatina, concentrandole ed ottenendo il dressing più buono dell’universo tutto insieme. Volevo che concepisse il mio stato d’animo di chimico applicato al volante della sua fuoriserie e dei suoi fratelli che ci stavano guardando mentre io le moinavo sciocche proposte di vita a due sfogliate pochi minuti prima da una pagina di un giornale per chimici applicati. Mi ero innamorato! Il viaggio che avevo deciso di intra e prendere iniziava in maniera imprevedibile e concasuale. “Io non sono autorevole” mi disse, “sono motoreginadiritto”. Pensai a lungo e poi capii che era soltanto un gioco di parole e che era una grande umorista. Arrivammo in Belize ed il mio cronologista si sposò cn la mia vicina di viaggio lasciandomi e salutandomi mentre io lo guardavo e guardavo anche sua moglie e poi guardai la mia che lo era diventata durante i cinque mesi precedenti al viaggio ma che non mi aveva detto niente soltanto per farmi una sorpresa.
15) Arrivammo esausti alla
partenza ma poi, man mano che si proseguiva verso l'arrivo, ci rimettemmo un po' in sesto, tanto da raggiungere il quinto, il quarto, il terzo, il secondo e superare il primo. Dovevamo attraversare l'Oceano Guerrigliero. Le costole fremevano e scalciavano. Le tibie ruzzolavano giù dai pendii verdi mescolandosi le une con le altre, alcune addirittura scambiandosi numeri di telefono ed indirizzi. Il nostro compito era quello di portarle al di là dell'Oceano Guerrigliero sane e salve, là dove avrebbero potuto pascolare indisturbate...ma queste non sono che sciocchezze, cose senza senso, poste così, l'una vicina all'altra per riempire uno spazio. Non va bene. Non è corretto. In realtà la crisi economica internazionale aveva avuto come conseguenza una domanda altissima di costole e tibie rispetto a tutto il resto del mercato. L'offerta era limitatissima, ma Mr. Lancettadiunorologioseikocronograph aveva sempre avuto un grande fiuto per gli affari e da qualche anno investiva parte dei suoi profitti in costole e tibie. S'era ritrovato d'un tratto ricchissimo, o meglio, lo sarebbe divenuto di lì a breve. Problemi? Si. Primo: la domanda proveniva dall'altra parte del pianeta (quantomeno quella che lo avrebbe reso ricco). Secondo: attraversare l'Oceano Guerrigliero. Via mare era impossibile poiché l'Oceano era la cosa più spaventosa che si potesse immaginare, divorava tutto quello che gli passasse sopra e sotto. Via aria ancor meno: le onde oceaniche raggiungevano altezze di 200000 chilometri. Via teletrasporto: troppo rischioso. Il sistema era stato appena brevettato ma mai collaudato (come sempre di quei tempi): giovani videoregistratori si ritrovavano fusi ad ombrelli di Topolino e tastiere sonore a giacche di pelle. Via terra, infine, era assolutamente impossibile. L'Oceano Guerrigliero tagliava in due il pianeta! Fu in quei giorni che venni contattato dall'Amministratore Delegato della Lancetta S.p.A.. Erano passati degli anni ormai da quando mi ero ritirato nel mio casolare giusto di fronte all'Oceano. Bando alle ciance! Sono un essere umano, un uomo, forse l'ultimo, o l'ultima, potrei essere una donna, non lo so non me lo ricordo più! Fatto sta che io potevo ancora pensare e con la forza del pensiero trasferire qualsiasi cosa da una parte all'altra del mondo, e fu
quello che feci e fu anche I'ultima cosa che feci. Il Mr. Lancettaecc.ecc. divenne ricco ed io mi trasformai in una stella. Per raccontarvi la mia stupida storia ho scelto il corpo di questo giovane senza alcun motivo particolare, forse perché si stava semplicemente annoiando durante il suo lavoro. Forse,
16) C'era una
volta qualcuno che faceva qualcosa in qualche posto non si sa dove. Energie positive lo aiutavano nella sua impresa e potenti forze del male tentavano di impedirgli il successo. Ma lui non si arrendeva e, sebbene non sapesse manco lui chi fosse e cosa dovesse fare, prese a girare e girare e girare su sé stesso finché non cascò per terra e chiuse gli occhi. A quel punto la Fata dai capelli di Aspirina gli apparve e lo illuminò con sua conoscenza sovrumana. Lo illuminò a tal punto da accecarlo e quindi fu necessario l'intervento riparatore del Mago dalle dita a forma di chiave per lucchetto piccolo da valigia. Egli gli tolse gli occhi e li sostituì con due pneuamatici Pirelli nuovi di zecca. Un problema fondamentale, però, non era stato risolto: quel qualcuno non ci vedeva ancora; poteva tranquillamente correre sui suoi occhi-copertoni ma sarebbe andato immediatamente a sbattere da qualche parte poiché non vedeva assolutamente niente. Cercò di spiegare la situazione al suo commercialista, il quale gli presentò un avvocato che lo mandò dal medico. Il medico gli asportò i pneumatici e gli trapiantò gli occhi di un gatto. Avrebbe potuto vedere anche di notte e questo lo rese ancora più felice poiché gli permetteva di essere più competitivo rispetto alla media dei partecipanti al gioco. "Quale gioco?" continuava a ripetersi nell'angoscia del suo non-conoscersi. L'epopea della sua vita era nota a tutti, soltanto lui non ricordava più nulla, dopo quel tragico incidente dal quale sembrava uscito illeso ma che lo segnò per tutta la vita. Di quell'essere non restano che le impronte digitali, nient'altro; nella sua memoria rimangono le pastasciutte che si preparava tra un concerto e l'altro. Il canarino iniziò a cantare e il pubblico iniziò a piangere. Tutti sapevano chi era, tutti tranne lui.
17) Se quello che le dava fastidio
fosse stata una cosa comprensibile a tutti avrebbe ottenuto la pace dei sensi, ma poiché era l’unica a soffrirne si doleva e doleva e doleva senza arretrare di un centimetro dalla sua posizione. L’avevano chiamata gioventù ma della gioventù niente era affiorato, non un sintomo dal quale si potesse dedurre un minimo particolare consolatorio. La stanza svuotata di tutti i ricordi del suo ragazzo era divenuta improvvisamente enorme, le pareti sembravano essere distanti chilometri le une dalle altre e lei si sentiva abbondantemente soddisfatta dello stato in cui si trovava. Soltanto gli altri erano dispiaciuti, lei assolutamente no. Quella pianta di forbici selvatiche che le aveva regalato era l’unica cosa che rimaneva di lui e lei non se lo ricordava neppure, o forse fingeva d ricordarselo, sfidandosi ogni giorno di guardarla e di dimenticarvicisi. No regrets. Cose belle, cose brutte, cose...Era pronta a partire per lo spazio, per Omega-5, giusto per cambiar aria, giusto per mettersi alla prova, giusto per rivivere. Il protocane le scodinzolava di fronte sempre fedele, sempre allegro, sempre disponibile ad una bella chiacchierata. Le aveva dato degli ottimi consigli in quegli otto anni passati assieme ed ora, nel momento in cui tutto sarebbe stato chiuso nella scatola dei ricordi, voleva dirle soltanto “buona fortuna”. Si abbracciarono affettuosamente e si salutarono. La giovane gallina uscì di casa ed aspettò che l’astronave passasse puntualmente a prenderla. Era la prima volta che si allontanava da casa senza avvisare i suoi, senza salutare gli amici, ma poiché nessuno avrebbe potuto capirla, neppure Camilla che tanto l’aveva aiutata in quei giorni tristi e bui, aveva deciso che si sarebbe fatta viva lei,
al suo arrivo su Omega-5. Aveva lasciato le sue uova alla vicina di casa, una giovane vedova senza prole. Durante il viaggio avvenne una cosa assolutamente straordinaria. Ella non aveva mai sofferto di mal d’astronave ma, forse nervosa forse stanca forse, si sentiva molto debole e nauseata. Si alzò e si diresse verso i servizi, si sedette su di una seggiolina, si rinfrescò il becco con dell’acqua e si guardò allo specchio: splendeva di una luce azzurrina. Si alzò sulle zampe che non ressero allo sforzo e cadde sofficemente sul pavimento. Chiuse gli occhi e si sentì leggera, leggera e leggera tanto che pensò di essere divenuta una grande piuma bianca. Non pensava più a niente, non vedeva più niente, non sapeva più niente. Rimase lì, nello spazio,gigantesca. Tra Pollo-6 ed Omega-5, se ne avete l’occasione, passate di fronte a quel pianeta inanimato a forma di piuma e portateci anche i vostri figli.
18) Il rubinetto continuava a scrosciare da
alcuni minuti, quando venne chiuso d’un tratto da una mano passeggera. La mano continuò la sua passeggiata, il rubinetto si mise a dormire e le gocce d’acqua iniziarono ad uscire quatte quatte dal loro nascondiglio. Una dietro l’altra si tuffavano co impeto nel vuoto senza sapere quanto sarebbe durata la caduta, senza sapere su cosa sarebbero cadute, senza sapere se si sarebbero ritrovate tutte insieme. Si gettavano nel vuoto con la folle innocenza dell'infanzia urlando di gioia, urlando la vita. Alcune erano timorose e non si gettavano con la folle innocenza dell’infanzia, piuttosto con la calcolata tremarella dell’esperienza. Si chiamavano e salutavano tra loro, si applaudivano ed incitavano le une cn le altre. Una di queste gocce si tuffò meravigliosamente. Tutte le altre rimasero ad ammirarla a bocca aperta, ne seguivano il percorso unico, strabiliante, lo stile funambolico ed elettrizzante. Poi, d’un tratto, accadde l’inatteso, il nonpensabile, l’assurdo: la goccia se ne volò via, sulla destra e poi a sinistra verso il Deserto degli Elefanti di Gomma, evitando le Ruote della Paura e l’Asciugatore Perpetuo. Se ne andò alla ricerca della sua fonte alla ricerca del suo nascere, saltando la Vasca dei Collutori e cenando con i Protoni Negativi. La sua vita stava per esaurirsi ma lo spirito d’acqua la conduceva sempre più vicina alla meta, sempre più vicina alla Natura. Finché, nel giorno del suo trentatreesimo compleanno eccola immergersi nel Mare Assoluto, nel Padre e nella Madre, eccola perdervisi e subito ritrovarvicisi più forte che mai.
19)La serratura era ancora aperta,
tanto da permettere alle onorevoli ontarie di entrare nella Sala delle Macedonie ed onorare con la loro presenza il Banchetto Nuziale del Leone di Mare con la Foca Suprema. I valletti di sua maestà il re non avevano recato loro nessuna offesa ma si erano limitati a chiudere porta e serratura per evitare che indesiderati potessero entrare. Le lunghe mani della Felicità erano poste sui capi di tutti gli invitati: dal Principe Off alla Duchessa Dichi al Marchese di Baruffo. Il baricentro attorno al quale tutti gravitavano era l’incredibile tavola imbandita dalle cose più strabilianti, talmente strabilianti che non le si conoscevano neppure. Il diffusore musicale trasmetteva la difficile musica composta dal Leone di Mare, talmente complicata che non la capiva neppure lui. Egli, in realtà, l’aveva semplicemente progettata ed il vero esecutore era l’astuto Impollinatore di Ghiaccio, che non perdeva occasione per mettersi in mostra. Ma il buon Leone gli voleva un mondo di bene, poiché l’aveva educato lui stesso fin da piccolo, fin da quando lo aveva trovato tra gli scogli quel mattino d’inverno di qualche anno fa. Ultimamente non si era comportato molto bene e questo aveva infastidito leggermente Leone che, però, aveva troppi altri grilli per la testa per
poter pensare anche a lui intensamente. Quella sera l’Impollinatore stava penzolando come al solito dal soffitto indicando a Lady Carmush chi era Tizio e chi era Caio. Lady Carmush era una rigogliosa rosa rosso fuoco che aveva fatto perdere la testa a Sir Ruloni, il quale le aveva donato capitali su capitali, ottenendone in cambio un pugno di mosche (antipatiche per di più!). Tutto sommato Leone era molto soddisfatto dell’andamento della festa e soprattutto della sua nuova sposa e compagna, la dolce Foca Suprema. Si erano conosciuti durante le passeggiate vicino alle Scogliere del Volo, ed era stato subito amore. Tutti ormai ne conoscevano il muso, la voce e la bontà. Erano secoli che il Regno del Rifugio non aveva due regnanti così belli e buoni, e tutti lo sapevano, e tutti non desideravano altro. Questo era il Regno del Rifugio.
20) Le tapparelle delle finestre venivano chiuse una dopo l’altra cn furore dall’addetto che non vedeva l’ora di andare ad abbottonarsi l’ultimo bottone della sua camicia. Lo faceva tutte le volte, era l’ultima cosa che doveva fare tra le tante ed era la più importante. Se non l’avesse fatto avrebbe dovuto chiudere altre finestre e tapparelle che si sarebbero aperte automaticamente entro pochi secondi. Quella volta aveva un appuntamento al quale non voleva assolutamente rinunciare: il Mago delle Piume lo stava aspettando e lui non voleva né tardare né tantomeno saltare il rendez-vous. Era in largo anticipo rispetto al solito ma non per questo si riposò e si fermò per allacciarsi la spighetta, anzi, volava volava e volava. Era giunto al 998° piano, alla finestra n. 998999 quando una voce lo distrasse dal suo lavoro chiedendogli un’informazione logistica: dove si trovava l’ufficio cambi. L’addetto rispose “Al 163° piano, sportello 2789” e fissò, con il suo sguardo miope, il destinatario della sua risposta: era sua figlia. Non la vedeva da anni, da quando aveva dovuto lasciarla a sua moglie soltanto perché lui non aveva abbastanza soldi per poterle dare un futuro, non più un passato ed un presente, mentre l’altra ne aveva anche troppi. Si fermò e le corse incontro, inciampò su di uno sgabello e sbattè la testa sullo spigolo di una scrivania e crollò sul pavimento come un sacco vuoto. Sanguinava in maniera molto discreta, senza dare fastidio alla figlia che non aveva visto la scena poiché si era allontanata già da un bel po’. Era disteso sul pavimento, quasi priva di conoscenza, ma felice, felice di aver rivisto sua figlia. Aveva ancora del tempo prima di chiudere le altre tapparelle e quindi se ne rimase lì, bello tranquillo. Chiunque lo avesse visto in quello stato avrebbe pensato ad un lavativo, ad uno che perdeva il suo tempo. Ma per lui pensare a sua figlia non era perdere tempo, era come respirare.
21) Il cristallo
correva ad una velocità spaventosa creando delle figure geometriche straordinarie attraverso il nugolo di allarmi che proteggevano le varie opere del Palazzo. Saltava, roteava su sé stesso, si innalzava fin quasi all’altissimo soffitto, lasciando dietro di sé un’opera d’arte che nessuno aveva mai visto prima. Era questo il suo modo di essere artista, la sua maniera di creare. Totalmente inedita, assolutamente stupefacente. Era entrato nel Palazzo con il buio, ora gli stava donando la luce, una luce completamente nuova, incredibilmente forte, meravigliosamente ineguale. Da molto tempo aveva deciso di esporre la sua arte in qualche galleria ma era stato sempre rifiutato. Il motivo: lui era uno che improvvisava, sempre, ovunque; e questo ai galleristi non piaceva (forse non piace a nessuno). Stava per ritirarsi nel suo Castello di Marzapane quando, in una sera di primavera, si trovò faccia a faccia con la Scopritrice di Talenti, colei che appariva e scompariva, colei della quale non si era sicuri dell’esistenza. Fu proprio lei a consigliargli di diventare un
artista clandestino, un artista sì ma di nascosto. Lui aveva talento, forse il cristallo più talentuoso mai nato di lì a cent’anni e, anche costretto alla clandestinità doveva esibire la sua arte. Clandestino, clandestino, clandestino. Quella sera era la sua prima “personale”. Finalmente. Chiudersi e lasciarsi andare, lasciarsi correre, E l’arte prendeva corpo, come sempre, più bella di sempre. Era La sua arte, era la sua vita.
22)
Avevo appena inserito le chiavi della macchina nella serratura quando fui dilaniato dalla detonazione di una bella bomba pesantona messami dagli Amici soltanto perché mi ero rifiutato di pagar loro il pizzo dell’ultimo mese. Forse ero stato un po’ maleducato nel rifiuto: “Andatevelo a pigliare da qualche altra parte”: Non volevo essere sgarbato ma non sopportavo più la protezione di quelle losche cicale. E fu così che attentarono alla mia vita e ci riuscirono molto molto bene. I resti del mio corpicino di formichina erano sparsi un po’ per tutto il parcheggio. Insomma! E` una questione morale e di coscienza! Io ho sempre lavorato, il più possibilmente in maniera onesta (a parte negli anni neri del ‘53 e ‘69 quando, per continuare a vivere, mi toccava vendere i resti dei miei condomini in cambio di qualche razione speciale dell’Armata) e non mi è mai sembrato giusto di dover pagare queste sconosciute. Mi avevano minacciato, e poi ucciso tutti i parenti e gli amici e gli abitanti del paesino in cui abitavo. Allora ho iniziato a pagare, ma non senza prendermi le mie piccole vendette: una volta ho rapito la figlia maggiore di un caporale degli Amici e l’ho torturata per dodici giorni costringendola alla visione continuata della serie televisiva “La Vedova Nera” e poi le ho amputato un paio di zampine, gliele ho fatte mangiare crude e l’ho rispedita a casa. Un’altra volta ho addirittura sequestrato uno degli Amici in persona e gli aperto il ventre e vi ho messo dei semi di girasole. Dopo tre giorni gli sono spuntati dei girasoli bellissimi e così io l’ho mezzo sotterrato in un vasetto e l’ho spedito ai suoi familiari. Erano bei tempi quelli. Adesso, invece, sono tutta sparsa per il parcheggio, in uno stato veramente pietoso, inguardabile. Mi fossi almeno potuta mettere il rossetto.
23) Lo straniero avrebbe
desiderato partecipare alla festa di compleanno della signora Indigena ma, purtroppo per lui, era molto distante e non aveva alcuna possibilità di raggiungerla. La musica accompagnava i suoi pensieri e lui ballava con essi al ritmo di una bourrée, affilandosi i capelli con una Bic di colore nero. La gente che viaggiava con lui parlava a voce alta e lo distoglieva dallo scrivere. Stava scrivendo gli auguri di buon compleanno alla signora Indigena su dei fogli di carta Conqueror e la noia del viaggio che lo stava allontanando sempre di più da lei rendeva le sue parole vuote e prive di senso. “Talvolta”. Il controllore lo interruppe e gli chiese il libro di Archimede che aveva in valigia. “Glielo rendo all’arrivo” disse e si dileguò, con velocità quasi clamorosa, dallo scompartimento ghiaccio lasciando il suo accendino d’oro. Lo straniero si accese una sigaretta, la qual cosa provocò un fuggi fuggi degli altri passeggeri verso l’esterno dell’abitazione. Finalmente solo, pensò, e continuò a scrivere indisturbato. Ogni tanto guardava fuori dal finestrino e si rallegrava della bella giornata che aveva scelto per viaggiare, scriveva scriveva e sorrideva. Fiamme di piume lo sfioravano e gli riscaldavano il cuore fino a farlo piangere. Ad un certo punto si fermò, lesse il tutto e rise. Poi ne fece coriandoli per il Carnevale che sarebbe iniziato entro qualche tempo. Prese un foglio e vi scrisse: Buon Compleanno. Rise ancora e lo chiuse in una busta. Si addormentò e prese a sognare torte giganti e candeline in minigonna che sfilavano di fronte al Presidente, il quale salutava tutti con entusiasmo
fanciullesco. Anche lui sfilava con le torte e le candeline ma non ne conosceva il motivo; si stava divertendo e questo gli bastava. Poi, la vide. La signora Indigena era di fronte a lui e lo salutava e lui rimaneva immobile ad osservarla. Lei si girò su sé stesso e se ne andò lasciandolo con un sorriso ed un bacio. Si svegliò, si alzò e scese dall’astronave, dall’aereo, dal treno, dalla macchina e dalla bicicletta, e spedì la busta.