ZOOMaginario, catalogo 2014

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ZOOMAGINARIO a cura di Francesca Canfora e Daniele Ratti

12 ARTISTI E 1 SCRITTORE RAPPRESENTANO E RACCONTANO LA BIODIVERSITÀ

In collaborazione con:

STRADA PISCINA 36, 10040 CUMIANA (TO)

WWW.ZOOMTORINO.IT


Si rinnova per il 2014, giungendo alla sua seconda edizione, l’esperienza dello zoo parallelo e impossibile di Zoomaginario, bestiario fantastico rivisitato e realizzato in chiave contemporanea attraverso sculture ed installazioni site specific di 12 giovani artisti. Le opere, in esposizione all’interno degli habitat del bioparco da giugno a fine ottobre, sono il frutto della selezione di numerose proposte pervenute in occasione del concorso lanciato a dicembre 2013. Testimonianza della scorsa edizione è la presenza di Piovrilla, del giovane scultore Simone Benedetto, prima acquisizione di Zoom al fine di creare in loco una collezione di opere d’arte open air che crescerà di anno in anno. Si scoprirà solo a fine mostra quale, tra le 12 creature fantastiche, rimarrà a Zoom in esposizione permanente: Zoomaginario si propone così non solo come una semplice mostra ma un progetto che trova la sua continuità e il suo scopo nel creare un percorso dedicato all’Arte contemporanea all’interno del Parco, a fianco e in simbiosi con la natura. Anche per questa edizione, nell’ottica di operare in un solco di transdisciplinarietà tra le diverse arti, è stato coinvolto uno scrittore, Carlo Grande, che illustrerà in mostra e in catalogo la storia di ogni animale immaginario con dei racconti appositamente realizzati per l’occasione. E’dunque ancora una fauna insolita, una compagine di creature fantastiche e misteriose, a prendere vita inaspettatamente accanto agli animali reali, abitanti naturali del bioparco Zoom. La commistione di illusione e realtà nella rappresentazione del mondo naturale è consuetudine propria dei bestiari medievali, in cui animali reali sono descritti e accostati a mostri o creature leggendarie e favolose. La tendenza a inventare nuove specie animali, presente sin dall’antichità, è nata con ogni probabilità per ragioni legate alla magia, alla filosofia e alla religione e, con il tempo, tali creature aberranti o composite hanno iniziato a sorpresa ad acquisire una dimensione reale per diverse ragioni. I resoconti di esplorazioni effettuate in terre ancora sconosciute, storpiati e trasformati dalla tradizione orale, come le contraffazioni dei tassidermisti abili in tal senso nel ‘dare corpo’ al mito e alla leggenda o ancora le errate interpretazioni di resti fossili, andavano infatti in passato ad alimentare e considerare verosimili le fantasie più estreme. E’ dalle prime precise e minuziose descrizioni risalenti all’epoca romana e ai suoi naturalisti che prende spunto,


per procedere oltre, l’iconografia dei bestiari medioevali. Considerati ai tempi, in mancanza di trattati scientifici sull’argomento, dei veri e propri testi di zoologia, tali compilazioni avevano origine in realtà da uno scopo morale, illustrando vizi e virtù dell’uomo attraverso gli animali, usati in modo simbolico. Nello spirito surreale proprio di questi testi antichi ecco che prende vita Zoomaginario, in cui vengono accostati e mixati insieme animali autoctoni, esotici e inesistenti, e dove anche questi ultimi acquistano pari dignità rispetto agli altri avendo ognuno a corredo una storia, che narra delle loro caratteristiche e peculiarità, non solo biologiche ma anche caratteriali. Un ironico invito ad andare oltre la realtà tangibile, in un paesaggio da sogno in cui non esiste discontinuità tra le diverse categorie: l’impossibile si tramuta in possibile, manifestandosi a sorpresa nella natura e facendo irruzione nella vita quotidiana

Francesca Canfora, Daniele Ratti

Saltano e corrono, volano e strisciano, guardano, mugolano, scavano. Sono lirici e feroci, moderni e ancestrali, scaltri e candidi, umani e disumani, domestici e selvaggi, inutili e indispensabili: sono noi, in pratica, sono un viaggio in noi stessi e nel nostro inconscio, il nostro specchio pieno di contraddizioni. Sono mille volti con le nostre sembianze, i nostri desideri e i nostri lineamenti segreti, arcaici. Cari animali, esseri fantastici, fratelli, raccontarvi è stato una vertigine, uno spasso, un dolore: con voi si sale all’empireo e si scende negli inferi, si trova l’idillio e si trema di paura, si ricrea il mito e si risale agli archetipi. Siete l’abisso e la multiforme natura, siete la scintilla primordiale, siete la vita. Vivete su questa bassa terra e nella nostra fantasia, ancora non vi siete stancati e non siete fuggiti, grazie per questo. Restate con noi e parlateci ancora, nascosti come gli Dèi.

Carlo Grande




GRIMALDEUDO (Dragus magnus montanarus de l’Aprutium Citeriore) Non date retta a chi pensa che il Dragus Magnus Montanarus de l’Aprutium Citeriore sia un essere malvagio, come pensavano nel Medioevo e anche prima in Occidente. E’ vero, ha il corpo di un biscione, è robusto e massiccio, con tutte quelle placche ferrose sul dorso dalla testa alla coda, con le sue le ali che sono falci, il collo pieno di catene più di un metallaro o di un bullo di periferia, le lunghe zampe tubolari e le unghie affilate, la coda appuntita... Ma guardatelo, insomma! Chi volete che spaventi? Da noi i draghi erano creature minacciose e malvagie, enormi serpenti con le zampe e le ali, rettili che vivevano in grotte oscure, sconfitti dai santi (San Giorgio) e dagli Arcangeli perché simboleggiavano il male, il demonio. Erano dipinti sugli scudi dei pirati scandinavi e oggi imperversano nel fantasy, come Safira, solitaria e coraggiosa dragonessa di Eragon: le suggestioni degli esseri alati nell’arte e nel fantasy sono infinite, c’è anche un drago rappresentato in una statua a Lubiana, in Slovenia, che si dice scodinzoli ogni volta che una vergine gli passa vicino... Secondo voi quante volte scodinzola, in un giorno? Erano anche tipi da montagna: i ghiacciai, nel Seicento, venivano spesso raffigurati come draghi che avanzavano spaventosi e inesorabili come una maledizione e si mangiavano pascoli e villaggi. Ma il Grimaldeudo no, guardatelo con occhi benevoli, anzi, con occhi a mandorla, perché in Cina, anche se ha corna, artigli e squame, il dragone Grimaldeudo è benaugurante; è simbolo imperiale ed è uno dei quattro animali magici, con l’unicorno, la fenice e la tartaruga. Pare che i Grimaldeudi, laggiù, si riproducano fecondando una perla. “Il Grimaldeudo ha carattere divino – scrive Borges nel “Manuale di zoologia fantastica” – ed è come un angelo che fosse anche leone”. Questo esemplare, agile e scattante nonostante la stazza, è originario delle montagne Abruzzesi, lo si trova soprattutto nella Valle Peligna e gira spesso cantine, stalle e officine meccaniche alla ricerca di ammassi di ferro per creare la sua anima gemella: quindi è un sentimentale (e anche un po’ casinaro, vive nella confusione e nel caos più totale), è un buono, solo un po’ cocciuto, d’altra parte con tutto quel metallo a volte i meccanismi mentali si inceppano e perde in elasticità. Nonostante la struttura metallica gli permetta di vivere


molto a lungo, deve stare lontano dall’acqua che gli arrugginisce le articolazioni: niente mare, niente bagni in piscina e niente docce; si lava molto di rado e solo con olio motore. In compenso è meravigliosamente casereccio, semplice e profondo, adora la pasta e la musica metal (va da sé) e quella di Ivan Graziani. Ma anche la New Age, perché l’abbiamo detto, ha un che di orientale, e come i suoi cugini cinesi è molto più positivo dei nostrani, è simbolo dello Yang, uno dei due eterni principi complementari: simboli dello Yin – specifica il Grande Cieco Borges - sono “la donna, la terra, il colore arancione, le valli, il letto dei fiumi e la tigre; dello Yang l’uomo, il cielo, l’azzurro, le montagne, le colonne, il drago”. Odia i bugiardi e gli arroganti, adora i classici della letteratura e tutti gli animali che vivono nel suo territorio: il lupo, l’orso, la lince, il camoscio. Voliamo dunque con lui, a cavallo del dragone. Ma secondo voi possono sbagliarsi più di un miliardo di cinesi e centinaia di migliaia di abruzzesi? Ecco, il Grimaldeudo è semplicemente... fantastico. Una personcina fantastica. E anche un po’ ambivalente, come ogni cosa dell’esistenza. Simboleggia la potenza della natura e delle forze soprannaturali, i colpi della sorte, il bene e il male intrecciati indissolubilmente all’esistenza e quindi insegna le leggi dell’umiltà. Mentre si vive a volte dobbiamo chiederci se il bicchiere, la bottiglia è mezza vuota o mezza piena. Tanto vale vederla mezza piena, tanto dobbiamo berla comunque. E immaginare che il dragone Grimaldeudo, scivolando verso il Polo Nord celeste, guardi benevolmente le nostre scelte. E’ una delle costellazioni più grandi del firmamento, il Serpente di Virgilio che “con le sue pieghe sinuose e come un fiume passa intorno e in mezzo alle due Orse...”. Quindi largo ai buoni propositi e al Dragus Magnus Montanarus de l’Aprutium Citeriore: “Il futuro è vuoto – scriveva Simone Weil - è la nostra immaginazione che lo riempie”.


GIANNI COLANGELO (MAD) Grimaldeudo Nato nel 1983 a Sulmona, vive e lavora a Introdacqua (AQ ). Gianni Colangelo, in arte MAD, si può definire un artista eclettico. La sua estrema fantasia gli permette di spaziare in tanti e svariati campi senza mai divenire banale. Con l’uso delle mani, ma soprattutto dell’intelletto, è in grado di creare ammassi di ferraglia che si trasformano in veri e propri soggetti che da un momento all’altro sembrano prendere vita. Qualcuno afferma che le sue opere, così ricche di forza vitale, siano solo assorte, vittime di un sonno profondo. I suoi personaggi, abitanti di un universo parallelo, lo accompagnano nella vita e lo ossessionano al tempo stesso. Consapevole della situazione in cui il mondo versa, ha capito che non avrebbe potuto tirarsi indietro nell’utilizzo della tecnica del riciclo, pertanto si è dedicato per diversi anni alla realizzazione di lampade ed oggetti di design partendo da vecchie macchinette del caffè e utensileria varia. Negli ultimi anni le sue opere sono divenute sempre più complesse, perché la sua ossessione di donargli la vita lo ha portato all’inserimento di parti meccaniche e robotiche, che inducono l’opera a chiedere l’interazione con il fruitore. Un diploma di conservatorio, una laurea triennale in Lettere e Filosofia ed una specialistica in Decorazione all’Accademia di Belle Arti non sono altro che un bagaglio che l’artista porta dietro di sé e riversa su tutte le sue creature. MAD lavora tra Pratola e Introdacqua, due paesi dell’entroterra Abruzzese, in quella valle di lacrime detta Valle Peligna.

GRIMALDEUDO di Gianni Colangelo MAD 2014 Metallo riciclato, vetrificante per ruggine 150x315x230 cm



hg 80 (Gerrhosaurus Hydrargyrum) Poeti e storici dell’arte lo ignorano, ma viaggiatori nelle Terre del fuoco e i vulcanologi conoscono bene l’Hg80, essere precipitato nell’Alto Medioevo sulla terra con un meteorite: a volte lo incontrano nelle loro escursioni, si aggira impassibile e flemmatico vicino alle caldere e ai crateri laterali. E’ composto da mercurio alieno allo stato solido, cioè con un punto di fusione molto più alto di quello terrestre. L’Hg80 può dunque permettersi di fare lunghi bagni ristoratori nella lava incandescente dei vulcani, usa le forti zampe per arrampicarsi fin sulle vette, si nasconde fra le rocce e osserva i viandanti emettendo mugolii di soddisfazione, immerso nei densi vapori sulfurei. Ne parla il gesuita e vulcanologo Athanasius Kircher (tra l’altro inventore della lanterna magica) nel suo “Mundus subterraneus”: lo vide alla fine di marzo del 1638 di ritorno da Malta, testimone diretto dell’eruzione contemporanea dello Stromboli e dell’Etna. L’Hg80 ha temperamento potenzialmente feroce ma l’indole pacifica prevale, non avendo nessuno il più delle volte con cui litigare. Se attaccato è in grado di secernere vapori di mercurio che intossicano istantaneamente qualsiasi predatore. In ogni caso il bacino molto stretto gli consente inversioni a “U”, quindi il più delle volte preferisce lasciar perdere e andarsene. Meglio tenere le distanze da lui e girare alla larga, tutt’al più parlargli da lontano (è in grado di comprendere il nostro linguaggio e ha un vocabolario piuttosto vasto, comunque in grado di formare frasi superiori ai 140 caratteri). Si possono scambiare con lui tweet, sms o messaggi su Facebook, cui è regolarmente iscritto. L’amico preferito è il mostro Acheronte, evocato da Borges nel “Manuale di zoologia fantastica”, che spiega come abbiano fatto amicizia intorno all’XI secolo, in un pub della città di Cork. Se c’è qualcosa che lo manda in bestia sono i malumori dell’interlocutore, mentre lo rende felice la felicità altrui. Insomma, ha un carattere un po’ mercuriale e alienato (da un alieno cosa vi aspettavate?), è un lunatico dal colore argenteo che riflette la luce solare e rimanda a chi lo osserva indifferentemente gli umori delle giornate grigie


e burrascose durante le tempeste o la quiete cilestrina del bel tempo. E’ talmente capriccioso che se vi capita di discutere con lui non contradditelo e aspettate: lo farà lui stesso, dopo un po’. Lasciate fare, lasciate dire. La sua fantasia è senza freni, ama sentire il suono della sua voce e nella sua testa proietta continuamente film che variano da “La Bibbia” a “Pretty woman”. E’ un vorrei-ma-non-posso continuo, con serie turbe psichiche; passa il tempo a sospirare nella sua ampia cassa toracica. Odia il caos, inteso come tempeste magnetiche o solari, odia i meteoriti, ne è terrorizzato: ma bisogna capirlo, è precipitato con uno di questi sulla Terra. La qual cosa origina un conflitto interiore che prima il suo confessore, un anacoreta catanese dell’Anno Mille, poi una nobildonna libertina amante delle stranezze e infine suo analista lacaniano attuale da una dozzina di secoli tentano di risolvere.


RENATO SABATINO Hg 80 Nato a Vibo Valentia nel 1977, vive e lavora a Torino. Da sempre appassionato d’Arte, ha frequentato il Primo Liceo Artistico e poi il corso di scultura all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, diplomandosi con il massimo dei voti e la Lode. Negli anni ha maturato innumerevoli esperienze lavorative nel campo artistico, da laboratori scenografici al restauro di aff reschi ottocenteschi, dalla costruzione di monumenti urbani alla realizzazione di sculture di ghiaccio. Usa diversi materiali e tecniche di lavorazione, dalla tornitura di vasellame alla lavorazione del marmo, dalla fusione del bronzo alla scultura in legno. Ha lavorato, e collabora tuttora, con diversi artisti affermati ed emergenti e ha partecipato a diverse mostre collett ive in Italia e all’estero, venendo selezionato per diversi concorsi internazionali. Consapevole dell’ardua difficoltà nell’affermarsi nel mondo dell’Arte contemporanea, continua a coltivare la sua passione, incurante, delle critiche e dei compromessi del sistema dell’arte e dedica le sue sculture, i suoi lavori, a chi sa amare e rispettare il mondo intero, a chi sa sognare e immaginare un mondo fantastico.

hG 80 di Renato Sabatino 2014 Resina 145x340x165 cm



CHEOPE (Piramis Pomatia Elegans) Era il penultimo giorno d’estate, un giorno piovoso, Cheope se ne stava lì, a ridosso dell’equinozio d’autunno, nella sua bava argentea e luminescente come tutte le lumache del mondo, anche se lei è di razza gigante. Parliamoci chiaro: nonostante la specie a cui appartiene sia composta soprattutto da ermafroditi, da individui cioè che hanno sia gli organi maschili che quelli femminili, cioè che non hanno bisogno di consimili per accoppiarsi, Cheope maschio e Cheope femmina sono molto diversi. Il maschio è piuttosto macho, ritira le corna in una cavità, stringe la mano a pugno e tende a minacciare, a essere rissoso. Se affrontato con parole e argomentazioni adulatorie, tende a calmarsi, a spegnersi facilmente. Se preso di punta continua ad eccitarsi, fino alle estreme conseguenze: mena. Risse, bottigliate, duelli al cacciavite. La femmina è l’opposto: in genere è molto affettuosa e fedele, si ciba di sogni e pulviscolo, cura molto il guscio, lo lucida e lo lava, lo infiocchetta, piuttosto mangia due granelli di terra ma spende tutto nella cura di sé e dei figli, è devota fino allo svenimento: quando trova l’affetto “giusto” lascia volentieri la bava sull’amato, è un po’ appiccicaticcia. Tende addirittura a farsi schiavizzare, a diventare succube. Il maschio la picchia, le mette spesso le corna. La femmina le porta. Per quanto nuove ricerche etologiche indichino che il caso inverso è sempre più frequente: tante femmine bevono, menano, sono infedeli e arroganti e tendono a non dare la precedenza, proprio come i maschi. D’altra parte molti maschi cominciano a infiocchettarsi la piramide e ad avere cura estrema di se stessi. Sono una coppia molto “pop”: giocano al lotto due volte la settimana, passano lunghe ore nei bar alle macchinette del videopoker o sdraiati sul divano a guardare programmi di gente che bisticcia; fanno scorpacciate di calcio, film mélo e telenovelas, talent show. Hanno senso della famiglia sviluppatissimo, guai a toccare le creature: i figli se maschi sono adorati e viziati, si trasformano a loro volta in piccoli tiranni. I Cheope non sono per niente snob, amano alla follia il riposo, i ritmi lenti e crepuscolari, l’autunno e il letargo


prolungato: restano quiescenti per anni. Sigillano la porta e amen. Ma hanno una sessualità molto sviluppata: in Spartacus, film censurato da Hollywood, Kubrick tagliò una memorabile scena in cui Crasso (Laurence Olivier) tenta di sedurre Antonino (Tony Curtis) chiedendogli se ama di più i Cheope o le ostriche. A Crasso piacciono entrambi, ad Antonino solo i Cheope; così Antonino fugge, per unirsi ai ribelli e non condividere le passioni di Crasso. Da vecchia, intorno ai diecimila anni, Cheope tende a impigrirsi, a sclerotizzarsi, a ritirarsi nel guscio: le sue estati esistenziali finiscono più o meno tutte allo stesso modo, ai primi freddi: “E agosto finisce sono scalzi i giorni - scrive il poeta ceco Jan Skácel - fioriti gli astri si sente già il freddo/
l’autunno è una lumaca, sporge le corna”.


OSVALDO MOI Cheope Nato a Silius (CA) nel 1961, vive e lavora a Torino. Pittore e scultore, inizia il suo percorso artistico da autodidatta dopo aver compiuto gli studi da geometra. Le sue opere raffi nate e ironiche, sono realizzate privilegiando il bronzo e i legni pregiati , ma dedicandosi anche a materiali innovativi come vetro-resina, plexiglass e resine epossidiche. Ama sopratt utto esprimersi nel figurativo aprendosi al surrealismo con la scultura. Ha realizzato tre monumenti dedicati ai Caduti di Nassiriya (Torino, Novara e Pianezza), il Busto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, numerosi ritratt i a personaggi pubblici tra cui il Principe Alberto Grimaldi II di Monaco, Carlo Verdone, Giorgio Falett i, Irene Grandi, Flavia Pennetta, Fabio Fognini. Apprezzato dai critici Angelo Mistrangelo, Vittorio Sgarbi, Martina Corgnati e Monica Mantelli, è presente in mostra permanente a Parigi, Eze (Nice), Monte Carlo, Milano e Torino. La sua estetica è stata defi nita dalla critica Paola Simona Tesio “dinamismo esistenziale”.

ChEOPE di Osvaldo Moi 2014 Polisterolo rivestito, legno compensato 300x120x140 cm



QUAKE CRAB (Cancer Tremoris) Sembra uscito da un romanzo di Jules Verne o da una cura di proteine spacciate su una tv privata: è un granchio ma è cresciuto a dismisura, ha lasciato il mare adattandosi a vivere sulla terra, in particolare nei deserti; vive in cunicoli nelle zone aride del Madagascar e si ciba di rettili e piccoli mammiferi: mimetizzandosi da roccia tende loro agguati, finendoli con le chele irte di protuberanze ossee. E’ un animale molto pericoloso quindi, alcune popolazioni indigene vedono nel Cancer Tremoris l’incarnazione maligna delle forze della terra, tanto che i giovani patrizi delle tribù durante i riti di passaggio all’età adulta sono chiamati a cacciarlo; chi tra loro infligge il colpo mortale ottiene lo status di guerriero scelto e ha diritto a brandire chele e aculei come armi rituali e a darle in testa agli altri, con il che diventano armi irrituali. Se muore di vecchiaia, il Cancer si fossilizza al sole cocente creando bizzarre strutture rocciose che danno riparo alle carovane nomadi, come gli scheletri delle balene sulle spiagge patagoniche nei racconti di Coloane. Nel capitolo 36 del libro di Marco Polo si legge che “Gli abitanti dell’isola di Madagascar vedono ogni anno, sotto Natale, tribù nomadi di Cancer Tremoris tornare sulle spiagge dell’isola, rossi fuoco per l’eccitazione della rimpatriata”. I maschi scavano tane, le femmine depongono le uova prima dell’alba, nell’ultimo quarto di Luna, che si schiudono subito; i piccoli dopo due settimane tornano nell’entroterra, in una altrettanto stupefacente contromigrazione. Gli abitanti cercano di facilitarli chiudendo alcune strade, rallentando il traffico e imponendo sui campi da golf la regola che se un granchio manda la pallina in una direzione bisogna seguirla.
 Che marcia sbalorditiva, quella dei granchi di Natale! Come molte cose dell’esistenza, che maturano segretamente e si mettono in moto ineluttabili. Poche decisioni sono “improvvise”, la vita è fatta di impercettibili scelte quotidiane, come mostra la parabola di Calvino nelle “Cinque lezioni americane”: un giorno il re chiese al filosofo Chuang-Tzu (quello che disse: “ruba un pezzo di legno e ti chiamano ladro; ruba un regno e ti chiamano duca”) di disegnare un granchio. Lui rispose che aveva bisogno di 5 anni e una villa con 12 servitori. Dopo cinque anni il disegno non era cominciato. ‘Ho bisogno di altri cinque


anni’ disse ancora. Li accordò. Allo scadere Chuang-Tzu prese il pennello e con un solo gesto disegnò un granchio perfetto. A volte il tempo è concetto relativo… Quanto ci ha messo Chuang-Tzu a fare il disegno? Dieci anni? Una vita? “Il lavoro dello scrittore – scrive Calvino - deve tener conto di tempi diversi: il tempo di Mercurio e il tempo di Vulcano”, l’intuizione istantanea e gli aggiustamenti pazienti, il tempo “che scorre senza altro intento che lasciare che i sentimenti e i pensieri si sedimentino, maturino”. Alla fine il risultato arriva ed è necessario. Un po’ come la marcia dei granchi. “Ogni cosa è pronta, se il nostro cuore lo è”, dice Shakespeare.


NEROPECE Quake Crab Collettivo artistico operante a Urbino, è formato da: Giorgia Cegna, Giuseppe Puletto e Mattia Santarelli. Giorgia Cegna, nata nel 1986 a Tolentino. Dopo la laurea all’Accademia di Belle Arti di Macerata, termina il corso di studi specialistico in Scultura con 110 e lode all’Accademia di Belle Arti di Urbino. La sua poetica ruota sul tema della natura, gli animali e in particolare gli insetti, per via di una fobia personale. L’entomofobia si manifesta in quasi tutte le sue opere, ma è proprio attraverso la sua rappresentazione ossessiva che la paura viene esorcizzata. Giuseppe Puletto, nato nel 1988 ad Agrigento, laureato presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino compie un percorso artistico variegato usando vari media. Nel suo lavoro l’anatomia e il disegno sono fondamentali. Dall’inconscio, tratti meticolosi prendono forma con dettaglio maniacale, disegnando corpi che sembrano levitare in assenza di gravità, anime erranti nella vana ricerca di un punto di ancoraggio. Mattia Santarelli, nato nel 1987 a Spoleto. Dopo gli studi nelle Accademie di belle Arti di Perugia, Bologna e Urbino, nel 2013 consegue il diploma specialistico in Visual e Motion Design, a completamento di un percorso di studi eclettico che lo ha visto entrare a contatto con i più disparati ambiti creativi. Attratto dalle forti contraddizioni della contemporaneità, nei suoi lavori affronta l’umano e il corpo, esaltandone i caratteri grotteschi e mostruosi, in contrapposizione con i canoni estetici attuali, alla ricerca di una verità interiore che obietta, ma subisce, la schizofrenia del nostro tempo. QUAKE CRAB di Neropece 2014 Materiali di recupero, cartapesta e vernici spray 190x220x150 cm



GraFFA RAFFA COPTERUS (Graphaetis Raphaelas Copterus) GraffaRaffa risale la corrente d’acqua con eleganza e sensualità innate. Ha gambe lunghe e sottili e un simpatico caschetto di piume come Mirelle Mathieu, alla parigina: si capisce subito che è uno degli ossimori zoologici più raffinati, parente prossimo degli anatidi, cioè delle oche e delle anatre e cugino stretto della famiglia degli okapi, che già per conto loro sembrano una sorta di incrocio fra la zebra e la giraffa e invece sono una specie a sé stante, con la lingua blu, corna e grandi orecchie. GraffaRaffa è naturalmente seduttiva, scondinzola frequentemente e schifa le battute pesanti, adora l’acqua pulitissima, pettina frequentemente le piume e ha zampe deliziosamente snelle: anzi, a ben guardare somigliano proprio a gambe di donna, che com’è noto diceva François Truffaut sono il compasso che misura il mondo. Però le sue poggiano su pinne palmate e il busto è di un ovale deforme, con un mantello ricoperto da un piumaggio argentato; di lì si dirama un collo grosso e allungato che termina in piccole corna. Beh, è evidente che siamo di fronte a un salto evolutivo prodigioso, un po’ in stile alla Joséphine Baker. Infatti GraffaRaffa è un ibrido tra giraffa e fenicottero: ha l’aria da giraffa, ma seriosa; e di un fenicottero ma senza il becco. Se aggiungi che guarda solo film di Truffaut e Rohmer, ci siamo capiti. E’ come i francesi, che in fondo sono come gli italiani ma di cattivo umore. O come gli italiani, che sono francesi ma di buon umore. Non per nulla GraffaRaffa legge Cocteau ed è il più intellettuale degli animali: compie riti complicatissimi per mangiare e per accoppiarsi, vocalizza a monosillabi per darsi importanza (tipo “bof ”, “olalà”) però odia gli snob, i borghesi e i fighetti annoiati. Un’altra bella contraddizione. Come il fatto che vola a occhi chiusi, dato che soffre di vertigini. Dice “mon dieu”, “mais oui”, emette pernacchiette di dissenso sussultando con tutto il corpo. Poi spicca il volo. GraffaRaffa si nutre di gemme, foglie e germogli e a volte - pur di distinguersi - di cibi costosissimi e molecolari. Anche se preferirebbe pane e mortadella con gli amici. Si muove silenziosa e solitaria, un po’ come Tilda & Tom, gli affascinanti vampiri innamorati del film di Jarmush “Only


lovers left alive”, che vivono depressi e chiusi in casa fra libri e chitarre Sixtie’s e si difendono dagli zombie, gli umani, perché il loro sangue corrotto li avvelena. Lei si chiude nella tana e si sveglia ascoltando la musica preferita: è una fan sfegatata di Raffaella Carrà, tanto che nella stagione degli amori il maschio emette richiami che provocano nelle femmine movimenti particolari, vere e proprie danze di Tuca Tuca. Poi beve il consueto brodo con prezzemolo e pettina il fantastico caschetto. Si mette nella sua posa yoga e osserva il mondo. Un mondo all’incontrario, perché è perennemente innamorata ma non sa di chi, cerca qualcuno che si innamori di lei allo stesso modo in cui lei è innamorata di se stessa. E’ dura. Però ha ragione Jarmush, hanno ragione Tilda & Tom e GraffaRaffa: solo gli innamorati sopravviveranno. “Only lovers left alive”.


PIETRO D’ANGELO Graffa Raffa Copterus Nato nel 1974 a Palermo, vive e lavora a Palermo. Il suo interesse per la scultura inizia all’età di 12 anni quando comincia a frequentare lo studio di uno scultore palermitano, imparando le tecniche della terracotta, delle resine e del bronzo. Nel 1992 si diploma al II Liceo Artistico di Palermo per trasferirsi poi a Bologna iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti sezione Scultura, diplomandosi con il massimo dei voti nel 2005. È durante questo periodo che D’Angelo trova la sua strada nella sperimentazione di materiali inconsueti per il mondo dell’arte, come oggetti d’uso quotidiano quali graffette, viti e chiodi. Dopo la Laurea, nel 2005 ritorna a Palermo dove frequenta il corso per l’abilitazione all’insegnamento delle discipline plastiche, abilitandosi nel 2007. Nel corso degli anni affina la ricerca e la tecnica artistica per aumentare le caratteristiche di resistenza e durevolezza delle sue opere, arrivando a realizzare sculture con rete metallica e graffette in acciaio inox, realizzate “su misura” da una fabbrica specializzata. Attualmente continua la propria ricerca cercando nuovo potenziale artistico in altri materiali insoliti. Nelle sue opere qualunque oggetto utilizzato, anche se spostato dal proprio contesto d’uso, non perde la sua funzione originaria e così le graffette vengono agganciate, le viti avvitate e le puntine da disegno appuntate. L’oggetto finale viene assemblato, manipolato, accumulato e maneggiato per dare vita a opere in cui la scultura tende a superare il proprio limite, creando illusioni ottiche grazie all’ambiguità tra visibile e invisibile, pieno e vuoto, pesante e leggero. GraFFA RAFFA COPTERUS di Pietro D’Angelo 2014 Rete e graffette in acciaio inox 525x140x250 cm



THORAX BRASSICA (Struthio testudines) E’ un animale solo ma ne contiene molti: ha corpo di cammello e guscio di lumaca (un curioso carapace con scuti disposti a spirale, che senza offesa sembrano un broccolo romano), ha corna e occhi ruotabili che mettono a fuoco indipendentemente l’uno dall’altro, donando una visione a 360 gradi. Come lo struzzo ha le ali ma non è in grado di volare; il corpo è ricoperto di folto pelo senza piume o penne. Nel quarto secolo a.c. Thorax Brassica si aggirava già nelle foreste e steppe primigenie della penisola, preda la più ambita dagli antichi cacciatori, più del mitico cinghiale calidonio raffigurato in tante opere d’arte. Il carapace durante l’Impero romano era un trofeo prezioso per i nobili, non per nulla Virgilio lo cita nell’Eneide. Per i romani era l’“Aves capite insano”, l’uccello con la testa matta, forse per la sua stranezza e stupidità. Ovidio, nell’”Ars amandi”, paragona la sua rozzezza a colui che goffamente avvicina una donna per sedurla e null’altro sa dire se non: “Ci eravamo già visti prima?”… Oppure: “Scusa, sai mica l’ora?”. Insomma insipienza, ma non cattiveria: a sua discolpa va detto che il Thorax è drammaticamente timido, ma con questo non vorremmo giustificarlo come faceva la vecchia Jane amica del giovane Holden, che stava con quel tipo terribile, Al Pike, tutto muscoli e niente cervello, quello sempre in piscina con il costume di lastex bianco a fare tutto il giorno il tuffo a capriola e credersi un campione; sempre e solo quel tuffo schifo. Beh, Jane diceva che non era un bullo, ma che aveva il complesso di inferiorità; e un po’ gli faceva pena. Il Thorax – che già con quel nome solleva qualche sospetto – avrà un complesso di inferiorità, ma sicuramente non è dei più furbi, stante che ama infilare la testa in cavità o buchi e spesso rimanere incastrato con le corna. Comunque, fedele al motto “Chi non ha testa ha gambe”, corre molto velocemente (come gli struzzi), divertente e difficile da catturare. A questo si deve la sua dispersione in tutta Europa, di corsa naturalmente ma sempre - causa del peso del carapace – sotto il limite dei 50 km/h, cosa che gli ha evitato molti verbali sulla rete urbana. Nel pericolo l’animale si appiattisce al terreno fingendosi pianta o roccia, simile a uno spigoloso panettone antitraffico.


Cosa resta del mitologico essere? L’evoluzione continua, pare che alcuni individui abbiano cominciato a mettere costumi di lastex e frequentare ragazze, suscitando amore misto a compassione. A quelle non sai mai cosa passa per la testa. Bob Robinson, dice Salinger, usciva con Roberta Walsh e Bob sí che aveva realmente il complesso d’inferiorità. Ma lei lo trattò da presuntuoso solo perché aveva accennato vagamente al fatto che andava bene nei temi. Ah, le ragazze. “Se gli piace un ragazzo – dice Salinger - può essere il più gran bastardo dell’universo ma loro dicono che ha il complesso d’inferiorità, e se non gli piace, può essere simpaticissimo e avere il più grande complesso d’inferiorità del mondo, loro dicono che è presuntuoso. Perfino le ragazze più in gamba fanno così”.


NICOLO’ BORGESE Thorax Brassica Nato nel 1990 a Torino, dove vive e lavora. Formatosi sotto la guida di Raffaele Mondazzi presso l’ Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino, ha terminato da poco la laurea triennale con 110 e lode presentando un progetto intitolato: “L’écorché: un rapporto di fruttuosa collaborazione tra due saperi arricchitisi vicendevolmente nel corso della storia: arte e medicina” di cui facevano parte tre elaborati raffiguranti animali domestici che si scorticano durante un morboso atto di autolesionismo. Dal suo interesse per l’anatomia in cui convergono numerose discipline, parte il suo lavoro artistico, da cui nascono opere nelle quali osteologia e miologia vanno a fondersi con il mondo moderno e quotidiano. Nei suoi lavori però non mancano la sperimentazione e la ricerca che lo portano a confrontarsi continuamente con nuove tecniche e diversi materiali.

THORAX BRASSICA di Nicolo’ Borgese 2014 Ferro saldato, resina e plastica 200x130x220 cm



Attinia Panoptes E’ stato sul fare dell’alba: salivo la collina e al rumore dei miei passi ha spalancato i trenta occhi tutti improvvisamente, producendo il rumore che fanno trenta kiwi schiacciati da un masso. Suono inquietante, per chi non ama la spremuta di kiwi. Trenta occhi spalancati, trenta smarrimenti, trenta implorazioni, trenta malinconie. La tenerezza che mi ha suscitato l’Actinia Panoptes rasentava le lacrime. Ho pensato alla canzone di Lucio Battisti “La collina dei ciliegi”: “Ma se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante/ cancella col coraggio quella supplica dagli occhi”. Poi mi sono avvicinato (sono molto socievole), ho sostato a lungo presso di lei e abbiamo tentato un dialogo con gli occhi ma niente da fare, è rimasta muta, continuava a scrutarmi: d’altra parte l’Actinia Panoptes vive su collinette brulle e sperdute ed è molto solitaria, non nutre sentimenti né di odio né di amore, sostanzialmente desidera essere lasciata in pace. Così siamo rimasti lì, chiusi in noi sempre di più. Alla fine mi sono allontanato, seguito dai suoi trenta sguardi. Trenta sguardi che contenevano una supplica, rivelavano una tristezza dell’anima. Non capisco cosa possa provocare tanto isolamento e melancolia: troppa introspezione forse, troppi punti di vista. “Tout comprendre c’est tout perdonner”, si dice, “Capire tutto significa perdonare tutto”: è una bella cosa ma temo che porti all’abulia. Temo che i trenta punti di vista dell’Actinia producano una visione del mondo troppo complessa, un’eccessiva consapevolezza che alla fine risulta paralizzante. Chi pensa di sapere già tutto rischia di non essere più curioso di nulla. La troppa “pietas” inibisce lo sdegno, la passione e l’illusione cieca che comunque aiutano a vivere. La vita è illusione, “Life’s but a walking shadow”, è un’ombra vagante. O forse il punto è che l’Actinia ha occhi umani ma radici vegetali, avrebbe solo bisogno di un po’ di moto, di cambiar aria e panorami… O ancora, anche muovendosi, sarebbe sempre schiava del suo destino “multitasking”, delle sue mille schermate aperte sul computer universale, che


conducono al blackout cerebrale. “E’ saggio colui che conosce ciò che è utile – dice Eschilo non chi sa troppo”. “La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”, dice Archiloco. Al riccio basta. Ma anche l’Actinia sa bastare a se stessa: l’ho interrogata con gli occhi e con gli occhi le ho consigliato trenta psicanalisti. Nessuna risposta. O meglio, ne ho avute trenta, tutte discordanti. Alla fine ho rinunciato a capire. Sarei diventato pazzo anch’io. Inutile, l’Actinia è di un altro pianeta. Viene da Iridea, luogo che non ha mai conosciuto divisioni sociali e guerre. Assorto in tali pensieri, canticchiando Lucio Dalla (“Telefonami/fra vent’anni/io adesso/ non so cosa dirti: non so risponderti/ e non ho voglia di capirti”) me ne sono andato. Ho camminato a lungo, respirato profondamente sul sentiero di cresta. Sentivo gli occhi dell’Actinia Panoptes addosso. Poi ho guardato lontano e ho visto il mare.


STEFANO PRINA Attinia Panoptes Nato nel 1965, architetto, vive e lavora a Milano. Da sempre coltiva una grande passione per le realizzazioni manuali e il suo laboratorio, att ivo dal 1984, è un ibrido tra uno studio di progettazione e una bottega artigiana d’altri tempi, dove prendono forma le idee di architett i, scenografi o artisti, sensibili agli aspett i materici e produtt ivi fi n dalle prime fasi di ideazione e che desiderano essere accompagnati nella genesi di un oggetto. Nella pratica di modellista e realizzatore di mock-up e prototipi ama sposare materiali tradizionali e innovativi con le lavorazioni più diverse, cercando la sintesi migliore tra le caratteristiche tecniche dei materiali e le loro potenzialità estetiche. Tra i suoi principali temi di interesse gli oggett i ludici, l’arte cinetica e le macchine leonardesche. Dall’esperienza di insegnamento della lavorazione artistica del metallo presso il carcere di S. Vittore sono scaturite diverse mostre e pubblicazioni. Ha recentemente esposto presso l’Acquario Civico di Milano e partecipato a tre edizioni dell’Affordable Art Fair a Milano e Amsterdam con creazioni antropomorfe che hanno come suggestione principale l’occhio umano.

ATTINIA PANOPTES di Stefano Prina 2014 Poliuretano rivestito di resina, occhi in acrilico tornito e lucidato 200x150 cm



STRIZZA (Ardea Timens) In un bosco sul Rodano, tra Arles e Avignone, viveva un tempo Strizza, bellissimo piccolo airone femmina della specie Egretta Cerulea. Aveva ali blu come la notte e quando le distendeva pareva un piccolo aeroplano azzurro, come quello di Saint-Exupéry. La madre non le riservava molte attenzioni: era una donna bizzarra, piena di temperamento artistico, molto conscia della sua bellezza e della sua originalità. Riceveva dal marito mille attenzioni, a Natale l’innamoratissimo consorte le regalava anche vino allungato con l’acqua delle rose e così più che l’amore la madre di strizza coltivava il suo narcisismo. Era come quelle attrici che non ti parlano se non parli di loro, che non si godono mai la vita ma si sentono sempre inquadrate da invisibili telecamere. Voleva sempre più attenzioni e lusinghe, ne desiderava sempre di più, vittima in cuor suo di chissà quale smarrimento o orgoglio. Forse per il doloroso ricordo di sua madre, che con lei si era comportata più o meno allo stesso modo. Come spesso accade, alla fine tutto questo le venne a noia. Intrecciò numerosi flirt con animali del posto e infine, non più contenta di “surfare” sull’esistenza, quando arrivò da quelle parti un giovane struzzo delle praterie gli chiese: “C’è posta per me?” (era vestito da postino), lui disse di sì. Provò una fitta al cuore. Un feeling così, con il fascino della divisa, non l’aveva mai provato. Fuggì con lui, lasciò sola la piccola Strizza, i suoi grandi occhi blu sgranati. Il padre ricoprì di attenzioni la figlia e l’amò ancora di più, ma nell’animo di “Strizza dagli occhi blu” fiorì l’inquietudine. Nelle sue forme riviveva la bellezza della madre, nell’animo lo spavento per i contrasti che avvertiva dentro di sé e per la diversità che percepiva negli sguardi del mondo. Così adattò via via le sue ali a mantello e trasformò la sua lunga zampa in un arto rigido, utile solo a saltelli da cornacchia. Dimenticò gli eleganti voli dei suoi avi e la naturale bellezza: avvolse i suoi sentimenti nel filo spinato e prese a condurre vita da struzzo, nascondendo la testa sotto la sabbia ogni volta che si sentiva insicura. Prese a vivere tra i Marabù e andò sposa a uno di loro, essere pantofolaio e goffo, gregario e orgoglioso, con alto tasso di aggressività (come tutti i maschi marabù); si aggirava tra loro a testa bassa,


camminando piano per non farsi notare, usando le eleganti e lunghe ali solo per coprirsi. Invidiava segretamente il volo ardito delle aquile e le virate dei condor andini, che osservava su youtube. Divenne la regina dell’immutato, la campionessa mondiale del lamento, la padrona del già detto e del già successo, la scrittrice dei copioni già scritti. Si circondò di musica senza orecchi, di libri senza parole, ascoltando all’infinito “Baci e saluti” di Ivano Fossati. Se la cercate la troverete lì, fra i marabù, col suo maschio rassicurante, nutrendo figli e alibi. Avrebbe mille posti dove andare ma resta dov’è, come un pesce sul fondo che sta a guardare… e se passa l’ombra dell’amore si nasconde e aspetta. Che vada via.


GIOVANNA BASILE Strizza Nata nel 1969, vive e lavora a Bologna. Psicoterapeuta per formazione, da diversi anni a questa parte, ha affiancato alla sua professione un percorso da outsider nell’ambito della scultura. Nel 2000 espone a Bologna le prime sculture, malinconiche figure di donna, affusolate e solitarie. Negli anni successivi, per dare forma alle sue idee, si aggira per i cantieri di edilizia, perfeziona tecniche e sperimenta diversi materiali, imparando a saldare il ferro e a realizzare sculture di grandi dimensioni. Dal 2007 ad oggi, partecipa a diverse mostre, collettive e personali, tra le quali, “Aliene al pratello”, a Bologna nel 2008, “Nel vento”, a Milano, e “Nuova icona” a Urbino nel 2009. Le sculture, modellate attorno ad un’anima saldata in ferro, antiche figure aliene senza volto e dal corpo accarezzato da tatuaggi colorati, cercano di condensare in un movimento o in un gesto le storie e gli stati d’animo che la scultrice ha attraversato. Negli ultimi anni, catturata dal fascino poetico e dalla potenza scultorea dei frammenti di elementi naturali erosi dalle onde e sopravvissuti alle tempeste, scoperti in anni di lunghe passeggiate, ha realizzato “Venuti dal mare”, una raccolta di sculture ottenute cucendone ricomponendo su tela frammenti di pietre, vetri, legni, conchiglie ed ossa levigate dal mare.

STRIZZA di Giovanna Basile 2014 Armatura in ferro saldato, rivestimento in resina ecocompatibile, vernice acrilica 110x140x212cm.



Diplotene Alata La fama di questo animale pesante, leggero e pensante, è straordinaria presso tutti gli ambientalisti e coloro che amano la natura. Davanti a uno di questi sacri esemplari, un essere con quattro zampe, una coda, due orecchie, due ali, due occhi, due proboscidi, quattro zanne e una bocca sa anche volare - non si può che riflettere sulla magnificenza e potenza della natura, madre e alleata degli umani. La SpecieBandiera, o “Diplotene alata” è un essere capace di piangere, diceva Darwin, di fare amicizia e di avvicinarsi ad ascoltare gli uomini che cantano. Ha un cervello simile al nostro, è capace di ricordare e di complesse relazioni sociali, di grandi emozioni: la SpecieBandiera può provare amore, coraggio, compassione e terrore. Tra loro si proteggono a vicenda, emettono una specie di brontolio quando sono soddisfatti, comunicano su lunghe distanze con suoni molto bassi, frequenza non udibile dagli umani. Come il principe Myskin, protagonista de l’”Idiota” di Dostoevskij, il Diplotene è una creatura spiritualmente superiore, in cui la generosità d’animo e la candida fede nel prossimo si accompagnano a una totale inesperienza di vita e a una sorta di paralisi della volontà. E’ infatti cresciuto in un parco svizzero dove è guarito da una malattia nervosa che lo ha portato ad essere indifeso e fiducioso nel prossimo. Tornato fra i cosiddetti “normali” ha avuto ogni giorno a che fare con la società malata e crudele, dove il suo atteggiamento bonario e innocente è considerato idiota. La cosa spaventa di più il Diplotene è l’apatia, il vento freddo del deserto dell’indifferenza. Proprio per questo il Diplotene è diventato simbolo dell’innocenza tradita; spesso soggiace a piccoli uomini che danno ordini e lo costringono a lavori umili, come trasportare tronchi, portare a passeggio ricchi sfaccendati turisti o compiere brevi voli di linea da un villaggio all’altro al servizio dei maharaja. Come i cugini elefanti è un essere caro (e utile) a miliardi di persone e viene festeggiato, a metà settembre, da milioni di indiani nel “Ganesh Chaturthl“, la nascita di Ganesh, dio portafortuna dalla testa di Diplotene, durante la quale vengono letti brani di Rudyard Kipling: lo scrittore lo cita spesso nei suoi libri, racconta ad esempio le marachelle di una “Diplotene alata” chiamata Gerowlia.


Non abbastanza persone lo pregano, evidentemente: viene ammazzato per impadronirsi delle zanne anche dai poveri, per fame. Il rischio di estinzione è in agguato: è minacciato da cinesi, turisti europei, nordamericani e orientali, dai faccendieri. I principali trafficanti di avorio sono Cina e Hong Kong, lo lavorano e lo rivendono su internet. Il Diplotene è un patrimonio estetico da salvare: rappresenta la bellezza che fa amare la vita. L’estetica, presso gli antichi greci, era inscindibile dall’etica: commuoveva e aiutava a vivere meglio. Non per nulla “an-estetizzare” significa non far provare più nulla; dunque è una forma di morte, di insensibilità. Pochi ancora hanno capito che si tratta di una divinità.


VINCENT BIOS Diplotene Alata Nato nel 1976, a Erice, Trapani, vive e lavora tra Milano e la Cina. Si diploma nel 2000 presso l’Accademia di Palermo e inizia a lavorare realizzando una serie di illustrazioni della Divina Commedia per il Di.ART Museo d’Arte Contemporanea Sacra di Trapani. Nel 2004 frequenta il Corso di Arte e Antropologia del Sacro dell’Accademia di Brera a Milano. L’anno seguente è in Cina, dove rimane a Pechino per due anni diplomandosi poi nel 2008 a Brera. Realizza installazioni di grande formato, performance e mixed media utilizzando ogni mezzo e materiale fi no ai colpi d’arma da fuoco e le fonti di energia rinnovabile. Utilizza codici antichi come la grafica o la letteratura medievale, l’arte sacra e un immaginario visionario. Si identifica con Pinocchio, tragico e irriducibile baluardo di salvezza, protagonista delle sue performance. I lavori più maturi parlano di ecologia con gli elefanti di “Specie Bandiera”, realizzati all’Università Statale di Milano, o di violenza, con l’installazione ambientale “Il muro ha un suono” (Palazzo Reale, Palermo, 2012). Il tema della pena di morte, con la serie delle “Fucilazioni” si apre alla riflessione sulla violenza sociale, psicologica e affett iva che abbrutisce l’umanità. Nel 2013 e 2014 la ricerca continua a concentrarsi su questi temi con il progetto itinerante “Camerardente. Contro ogni pena di morte”.

DIPLOTENE ALATA di Vincent Bios 2014 Lastre di polistirene e vernice 150x300x230cm



AQUILERA A SONAGLI (Pneumaticus Pantaquilus) In un limpido albeggiare, ho visto un’Aquilera su una roccia. Stava per spiccare il volo, mi fissava con occhi neri e selvaggi. Nel suo sguardo un fuoco senza fiamma e scintille furiose di pagliuzze d’oro, il giallo della pantera e del serpente.
Ha sbattuto le grandi ali e uno stormo di uccelli è schizzato dai rami di un albero vicino, come a un colpo di fucile. Ha allungato il collo, ha fatto forza sulle zampe e s’è innalzata potente, prendendo quota a grandissimi cerchi, con lirica disinvoltura. E’ salita a duecento metri di altezza: lassù era piccola, una balestra lanciata tra le nuvole. Luccicavano le squame della pelle.
S’è fermata in volo stazionario ad abbracciare l’aria; le ali curvate in avanti. Sembrava un aquilone legato a un filo invisibile. Uno spirito santo con gli artigli, chinato sugli umani.
Mostrava i grandi canini splendenti e colmi di veleno, la lingua biforcuta; ha agitato la coda a sonagli ed è scesa in picchiata verso di me: non ero io la preda, grazie al cielo, ma una tortora ignara. L’ha colta ai limiti della boscaglia, ha affondato l’unghia nella schiena, strappando i tendini delle ali. Poi ha ripreso quota ed è tornata per finirla, a vertiginosa velocità: con un colpo le ha spezzato il collo, troncandole il midollo spinale. E s’è posata languidamente su un ramo per mangiarla. L’Aquilera sale con la velocità del pensiero e scende con la velocità di un destino, dice un proverbio arabo. C’è nobiltà, nella sua ferocia: ho visto Aquilere volare, correre e strisciare, localizzando le prede da grandi distanze. Le ho viste attaccare contro sole, somma astuzia; scendere e ghermire bestie e umani, secondo l’imperscrutabile legge dell’universo.
Ho anche visto questo splendido animale – quanta tristezza, ma sono tempi mediocri, i nostri - vivere dentro grandi capannoni e autorimesse abbandonate, nei depositi per auto e ai margini delle discariche. Proprio in un capannone, una notte, ha sognato di fare un uovo, spinta dal suo grande spirito materno; al risveglio – tra realtà e sogno - ha visto un sasso di marmo bianco ed è nata la convinzione di averlo fatto davvero. Da quel giorno lo custodisce gelosamente nell’attesa che si schiuda.
In libertà, nelle vaste solitudini, tornano se stesse: veleggiano sulle correnti termiche, amano l’alto volo e attaccano a cielo aperto. Il lampo bianco di un’ala di colombaccio è un


richiamo irresistibile, come le code bianche e nere delle pavoncelle. A volte l’Aquilera si accontenta di lattine vuote e resti di chewing-gum e somiglia, così facendo, ai nobili decaduti dei film neorealisti che lasciano palazzi più vuoti dei loro stomaci e vagano per le strade di paese nel pomeriggio con uno stuzzicadenti in bocca, fingendo di aver mangiato. 
L’Aquilera ha tempo, l’Aquilera è eterna. Quindi si annoia moltissimo: ha già visto tutto, come il Nosferatu di Herzog; ogni cosa è routine, infima e banale ripetizione.
Ma se incontra un umano con fantasia, profondità e coraggio sufficienti, se ne accompagna volentieri per qualche giorno, come un gattino che non si può accarezzare contropelo. Rassegnatevi comunque a vederla presto partire: l’Aquilera è un mondo di scie, di inclinazioni, di strapiombi sull’aria e sull’acqua. L’uomo, con il suo peso che lo tiene legato a terra, ne è irrimediabilmente escluso.
Il cielo è dell’Aquilera, sua è la terra; l’uomo, ai margini è spettatore rapito.


NAZARENO BIONDO Aquilera a sonagli Nato nel 1985 a Torino, dove vive e lavora. L’artista ha compiuto la sua formazione artistica presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino sotto la guida di Gianni Busso. Conclude gli studi nel 2011 a pieni voti con lode, presentando una tesi dal titolo “Il Suono e la Luce attraverso il Marmo” in cui l’artista propone una performance dove le opere protagoniste, strumenti e diapositive in marmo, producono luci suoni e colori. Già dal 2006 inizia a collaborare con Daniele Miola, con il quale partecipa ad alcuni simposi di scultura nazionali ed internazionali, e alla realizzazione del Monumento ai Caduti senza Croce di Cafasse (TO), nel 2008. Allo stesso anno risale anche la sua attività di assistente dello scultore Fabio Viale, che lo porta ad acquisire metodi di lavorazione sempre più sofisticati. Dal marmo, materia e matrice delle sue sculture, Biondo fa emergere oggetti del quotidiano in una ricerca di perfezione formale e rielaborazione concettuale. Le grandi capacità tecniche gli permettono di giungere ad un gelido iperrealismo con il quale riproduce nei dettagli armi, rifiuti e carcasse della società contemporanea. Il marmo lavorato “per via di levare” racchiude in nuce le forme che si rivelano all’artista attraverso il suo sguardo ironico, ma allo stesso tempo drammatico, sul mondo.

AQUILERA A SONAGLI di Nazareno Biondo 2014 Pneumatici, marmo di Carrara, legno e ferro 280x280x230 cm



ALIEN LIFE (Alienus oviparus nuntius) La Notte cosmica, alata e nera - corteggiata dal Vento interstellare - diede alla luce un uovo d’argento e lo portò sulla Terra: Alien Life, nunzio esoterico che si nutre di verità e di sogni, di bontà, essere soprannaturale che vive fra cielo e terra e oggi è qui, in questo parco, ed è in grado di leggere nel pensiero e condizionare l’animo umano. Avvicinatevi con pensieri puri, dunque, perché lui, tramite l’essere fantastico e curioso che contiene, li coglie. Oppure accostatevi con desideri bestiali, se è questo che volete e se albergano in voi, ma abbiate il coraggio di ammetterli e non corazzarvi nel vostro squallido perbenismo borghese. Alien Life sa. Alien sente. In fondo siamo fra bestie e bestie noi stessi siamo, appena allentate le redini del libero arbitrio. Alien Life è tra noi, guardatelo. Vuole consolarci, salvare l’umanità dalla perdizione; ama Eros, Gioia, Verità, Giustizia, odia la guerra, le armi, l’odio, l’ipocrisia. E’ vecchio e quindi giovanissimo, giovanissimo e dunque vecchio, mite quindi rivoluzionario, povero quindi ricchissimo, nella paglia come un bambino pezzente; ama il gioco dei contrari, legge col pensiero, dipinge con la mente. Adora i libri di Stephen King e Asimov, i quadri di Piero della Francesca e di Hyeronimus Bosch, ama il Trittico delle delizie e l’empireo demoniaco, il “daimon”, la “vocazione”, il “carattere”, lo spirito che ciascuno riceve come compagno prima della nascita e con il quale dobbiamo fare i conti e a volte combattere. Il Duende di Garcia Lorca, il diavoletto della creatività, dell’ispirazione: non solo tecnica, non solo fantasia, non solo intelligenza. Ma una cosa che ci trafigge nel profondo, che ci scuote dalla testa ai piedi, che produciamo noi stessi (poche persone in maniera somma) forza istintiva e potentissima contro cui si lotta, dalle più segrete stanze del nostro sangue; parla di carità e compassione, dell’amore profondissimo che l’artista deve avere per la vita, se vuole toccare l’estasi creativa. Perché è ben vero, ognuno è complice del suo destino. Scrive James Hillman, ne “Il codice dell’anima”: “Alien Life offre conforto e può attirarci nel suo guscio, ma non sopporta l’innocenza. Può far ammalare il corpo. E’ incapace di adattarsi al tempo, nel flusso della vita trova


errori, salti e nodi, ed è lì che preferisce stare”. Ascoltiamolo dunque, è utero e matrice, messaggero e forma perfetta, Alien Life annuncia una nuova era, una nuova terra, una nuova speranza. Ascende e discende continuamente tra Terra e Cielo, trascorrere il tempo riunendoci alle dimore cosmiche. Ha la forma sferica del Pianeta, nostra madre, organismo superiore alle piante, agli animali, all’uomo stesso. Tutti li contiene e li sovrasta. Ha percorso i millenni e contiene l’anima imprigionata; governa il caos dall’artefice, secondo la cosmogonia cinese: tutto originò dall’apertura di un uovo contenente il caos, ne fuoriuscirono elementi pesanti Yin e leggeri Yang ed essi costituiscono la terra che ci sostiene e il cielo che ci copre.


CARLO DICILLO Alien Life Nato a Bari nel 1969, vive e lavora a Lecce. Compiuti gli studi presso l’Accademia di Belle Arti, prima di intraprendere in maniera attiva e professionale la sua attività di artista, risulta fondamentale l’esperienza di stage work con Carlo Rambaldi, maestro di effetti speciali cinematografici e creatore di E.T. Attualmente, oltre all’insegnamento, si occupa di cortometraggi, make-up per il cinema e lavori di sculto-installazioni per ambienti di varia tipologia. Dicillo realizza sculture polimateriche, in cui si avvale dell’utilizzo di una grande varietà di materiali, soprattutto poveri, come catrame, resine, lattice, gomme siliconiche e marmo. Nelle sue opere l’artista tende ad unire il mistero ed il fantastico, l’immediato e l’essenza del cosmo, il misfatto e l’orrore, plasmando la materia attraverso una cura certosina del dettaglio. Tutta la sua produzione è frutto di una continua metamorfosi e la sua capacità di interagire con i più svariati materiali lo conduce costantemente a nuove soluzioni ed evoluzioni artistiche. Tra le varie mostre personali dell’artista possiamo ricordare: ‘Cammina cammina verso l’arca’, ‘I miei porci comodi’, ‘Morbido zoo’, ‘Tra terra e mare-Riciclandia’, ‘Another green World’.

ALIEN LIFE di Carlo Dicillo 2014 Fibra di vetroresina, polvere di marmo, catrame, gomma siliconica, pelliccia sintetica, paglia sintetica, lattice, sabbia 60x140 cm



ORSOMARTELLO (Orsuommartelloums) Stamattina l’Orsomartello si è svegliato dal letargo in mezzo ai boschi, nella mente un presentimento di Oceano. Si è tolto la lunga coda dagli occhi e annusando l’aria sottile, frizzante, è uscito dalla tana facendo ondeggiare il corpaccione. Intorno a lui era tutto verde. La sua natura di grizzly (e la fame) non s’erano ancora svegliate. Non che l’Orsomartello sia feroce, in fondo anche Yoghi è un grizzly e salvo che per qualche cestino della merenda incustodito rifugge i contatti con l’uomo e ride spesso con Bubu. E’ un simpatico fannullone, diciamolo, un opportunista che dorme tutto il giorno e gironzola la sera e la notte; mica ti aspetta dietro l’albero per rubarti il panino. Il suo motto è “minimo sforzo, massimo rendimento”: alveari, polli, pesci, ecco cosa gli stuzzica l’appetito. Ma stamattina l’Orsomartello sognava il mare. Ascoltava la musica della natura, la pioggia, i ruscelli, il vento tra gli alberi e guardava in che direzione scorreva l’acqua. L’Orsomartello è molto sensibile alla musica. La natura è la sua orchestra preferita. Ho visto una volta un’Orsamartello accucciata su una roccia, intorno era circondata dai piccoli, e ascoltava le note lontane di un’orchestrina a fondovalle. Pareva guardasse gli umani, i giovani e gli anziani, abbracciarsi e roteare nel ballo al palchetto. Era un valzer. Oggi è il giorno del risveglio, è la fine del letargo. L’Orsomartello ha guardato i boschi e sentito una fitta liquida nel cuore: la sua natura acquatica s’è svegliata. Aveva nostalgia dell’oceano e si è messo in cammino. Ha attraversato prati e valichi, è sceso nelle forre, ha passato le boscaglie. A poche miglia dal mare ha fatto colazione con i salmoni, avreste dovuto vederlo mentre li pescava al volo con le fauci spalancate, in bilico su una pietra del torrente, in mezzo alla furia delle acque. Sembrava che gli saltassero direttamente in bocca. Con lo stomaco pieno si viaggia meglio: la spiaggia non era distante. Si è rimesso in cammino e per merenda ha fatto scorpacciata di miele, rubandolo a un favo. Poi le pinne hanno cominciato ad avvertire la sabbia sotto di loro, non più l’erba verde. E’ entrato in acqua ed ha cominciato a galleggiare per qualche istante, godendosi il sole; si è fermato un poco in uno specchio d’acqua poco profonda, calda, annusando il salmastro dell’Oceano.


Poi si è tuffato, con colpi di pinna potenti ha raggiunto decine di metri di profondità. Eccolo che nuota negli abissi dell’Oceano, adesso. E’ sprofondato ancora più sott’acqua, il mondo sottomarino in fondo è un alpinismo al contrario, è semplicemente una verticalità ribaltata. Non vedete come fluttua a trecento metri dalla superficie, come si lascia trasportare dalle correnti? E’ tutto blu, intorno a lui. Ha fatto una scorpacciata di aringhe, frantumando la loro sfera perfetta; ha gustato cozze e ricci di mare. Ora, sul fondale, ha scorto una roccia e piante verdi: per un istante ha pensato alle sue montagne e ai suoi boschi.


DANIELE MIOLA Orsomartello Nato a Torino nel 1975, dove vive e lavora. Si forma all’Accademia Albertina di Torino e alla Reale Accademia di Madrid, concludendo nel 2002 il percorso di studi a pieni voti con lode, prendendo successivamente anche una laurea specialistica in Lavorazione del Marmo e Pietre Dure. Inizia la sua ricerca artistica già dal 1996 con la prima esperienza nei simposi di scultura su marmo, esperienza che continua a perseguire con numerose partecipazioni a simposi Nazionali e Internazionali. Nella sua ricerca l’artista indaga il rapporto più profondo con la natura e la terra, esprimendo questo connubio att raverso l’esaltazione dell’essenza più pura della femminilità. Il momento di massimo splendore dell’essenza umana è il corpo fertile pronto a creare una nuova vita, in riferimento alle veneri votive e alla dea mater dell’era primordiale, dove la figura femminile diventa un vero e proprio “feticcio”. L’esigenza è quella di creare una rivisitazione di quelle che sono le “icone” presenti nel contemporaneo, dove tutto diventa simbolo e suscita stereotipi, e ridare così in un certo senso un vero valore alle cose.

ORSOMARTELLO di Daniele Miola 2014 Legno, polistirolo, cemento sintetico 120x360x130 cm



MOSTRA

a cura di: Francesca Canfora e Daniele Ratti progettazione e organizzazione: Cut4Art Production in collaborazione con: Paratissima RACCONTI

Carlo Grande FOTOGRAFIE

Daniele Ratti PROGETTO GRAFICO

Irene Pecchenino Creativity Zoom Torino STAMPA

Prinp Editore, 2014 ISBN 978-88-97677-48-2 www.prinp.com

SI RINGRAZIA

Gian Luigi Casetta, fondatore di Zoom, per la sua follia creativa. Tutto lo staff di Zoom, per il supporto e la disponibilitĂ dimostrata sempre. Un grazie speciale a tutti gli artisti che hanno creduto nel progetto partecipando al concorso e ai 12 artisti selezionati per la mostra, che si son trovati per davvero a dover dare alla luce -con tanto impegno e fatica- le loro creature impossibili .... Complimenti a tutti, siete stati veramente bravissimi!




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