Autobus magico completo

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NARRATORI RANEO


La Biennale 88 è prom ossa dal Consorzio Università-Città di Bologna, con il contributo e la collaborazione delFA zienda Comunale per il Diritto allo Studio, con il patrocinio della Regione Em ilia-Rom agna e del Ministero Turismo e Spettacolo. Hanno collaborato tutti i partner del Comitato Intemazionale della Biennale: Comuni di: Firenze, A ssessorato alla Pubblica Istruzione-Progetto Giovani; Milano, U fficio Problemi dei Giovani; M odena, Progetto Giovani; Parma, A ssessorato Gioventù; Prato, Assessorato alla Cultura; Reggio Emilia, Assessorato alla Condizione Giovanile; Torino, Assessorato alla Gioventù; Venezia, Fondazione B evilacqua La Masa; Regione Lombardia, A ssessorato al Coordinamento per i Servizi Sociali; Arcinova Arcikids nazionale; Arci Bari; Arcinova Arcikids Firenze; A rcinova Napoli; Arcinova Arcikids Torino

It a l i a .

c ip r o

.

Servizio Culturale del Ministero dell’Educazione

Comuni di: Lyon, Services de la Culture; Marseille, Affaires Culturelles; M ontpellier, Direction des Affaires Culturelles; Toulouse, Service des Jumelages, Ecole des Beaux Arts; Eurocreation, Paris; Peuple et Culture Languedoc Roussillon, M ontpellier

Fr a n c i a .

Gr e c ia .

M inistero della Cultura, Segretariato Generale alla Gioventù

Ljubljana, s k u c Forum, c i d m , Centro di Attività Culturale Giovanile, m k z s m s , Associazione di Giovani Socialisti; Dubrovnik, o k s s o n , Teatar Lero; Zagreb, h d l u , Associazione di Giovani Artisti, Comune di Zagreb

J u g o s l a v ia .

Po r t o g a l l o ,

f a o j , Fundo de Apoio aos Organismos Jovenis; Direc. Gral de Act. Cultural; Camara M unicipal de Lisboa; Clube Portugues de Artes e Ideias

Comuni di: Barcelona, Area de Joventut; Madrid, Direccion de Servicios de Educacion y Juventud; Sevilla, Instituto Municipal de Juventud y Deportes; Valencia, Concejalia de Juventud

Sp a g n a .

La Biennale di Bologna è la quarta edizione di una manifestazione ideata da Arcikids nel 1984, col nome di Tende neias e tenutasi nel 1985 a Barcellona, organizzata dal Comune di Barcellona in collaborazione con Arcikids. L ’edizione 1986 si è tenuta a Salonicco, organizzata dal Comune di Salonicco e dal Segretariato Generale della Gioventù-Ministero della Cultura; l’edizione 1987 ha di nuovo avuto luogo a Barcellona. Sponsor della Biennale 88, L a Repubblica.

Una pubblicazione by T r a n s e u r o p A

Ancona, Via Volturno 2 Bologna, Via S. M. Maggiore 7 Prima edizione con il titolo Autobus Magico Dicembre 1988


AUTOBUS MAGICO Presentazione di Mario Fortunato

T

r a n s e u r o p

A


Editor, Massimo Canalini


P r e s e n t a z io n e

di Mario Fortunato


Undici racconti di altrettanti giovani autori compongono questo libro. Che cosa li accomuna? M olto poco, di primo acchi­ to. Gli autori hanno, tutti, u n ’età com presa fra i venti e i trent’an­ ni. Sono inoltre appartenenti ai cosiddetti Paesi d ell’area del M editerraneo: Spagna, Portogallo, Jugoslavia, Grecia, Italia. È possibile scrivere di loro come di una “tranche” letteraria signi­ ficativa per capire um ori, culture, sensibilità, “tendenze” del no­ stro mondo? A nche a questa dom anda risponderei negativa­ m ente. E il motivo è semplicissimo: quello che mi pare testim o­ nino con forza queste pagine è proprio la loro non assimilabilità, l ’im possibilità di usare categorie e etichette di comodo. Per esem pio, quella di “ giovani.” Gli autori presenti in questa anto­ logia lo sono, certo, per l ’anagrafe, m a questo non corrisponde a un loro comune m odo di stare al mondo. Essere giovani, sem­ brano suggerire, n on significa quasi nulla in letteratura. Ho detto “quasi” nulla. Non per salvarmi l ’anim a e cercare u­ n a qualche scappatoia, ma, al contrario, per ripetere (e, se è il ca­ so, fino alla nausea) che in qualche m isura in chiunque scriva, o dipinga, o faccia del cinema, agisce sì una sotterranea istanza generazionale m a che non può da sola “giustificare” da un pun­ to di vista espressivo ciò che si è scritto, dipinto, realizzato.


Naturalmente, per ragioni assai simili, tendo a considerare anche il luogo di provenienza di ogni autore niente di più che li­ na informazione. Che, ai fini del gusto o d e ll’analisi critica, con­ ta molto poco. Quel tanto, temo, che serve a corredare, agghin­ dare il mio personalissimo giudizio di lettore. Dunque, nulla tiene insieme e mette in relazione questi undi­ ci racconti. Eppure, sentiamo che in questa afferm azione ser­ peggia qualcosa di non vero: forse, una disattenzione. Finito di leggere il libro, sentiamo come un colloquio fra una pagina e l’altra, una impercettibile comunicazione, uno scam bio silen­ ziosissimo. Di cosa si tratta? Si dovrà drizzare bene le orecchie e a ogni autore prestare ascolto. Cominciamo dal racconto “Batm an,” di Francesco Freyrie (ventisette anni, bolognese, studente di Lettere). E la storia di u ­ na incontenibile angoscia infantile. Il bam bino protagonista, in una colonia estiva, è continuo ostaggio di un senso di estranei­ tà rispetto ai genitori. Da loro si sente coccolato, vezzeggiato e in pari tem po abban­ donato alla solitudine dell’infanzia. Questo sentim ento diventa tangibile, crudele, durante una gita in campagna, a casa degli zii: mentre loro, gli adulti, parlano di incom prensibili malattie, si ri­ mandano segni e sensi critici, forse dram m atici forse penosa­ mente ridicoli, il bambino rimane chiuso nel bagno. Fantastica di essere anche lui come Batman: un eroe capace di cavaserla in ogni situazione, ma scopre di non possedere le stesse “ arm i,” le stesse capacità di quel personaggio. Così, atterrito, um iliato, per un istante che in lui si dilata a eternità di dolore, il bam bino non può che invocare l ’intervento salvifico della m am m a. Che, p u n ­ tuale, distratta, ottusa, arriva. La scrittura di Freyrie è controllata, precisa. Forse, di troppo si sente una certa adesione al cosiddetto “m inim alism o,” ai suoi


luoghi, a i suoi vezzi anche. Voglio dire che, in qualche caso, la apprezzabile asciuttezza dello stile di Freyrie si condensa al punto da detonare l ’intensità struggente di alcune situazioni. Il secondo racconto di questa antologia si intitola “Il vesco­ vo.” Lo h a scritto un venticinquenne, greco, studente di Archi­ tettura: A ristidis A ntonas. Se prima ho accennato al “minim ali­ smo,” q u i chiam erei in causa un certo gusto gotico, misterioso, inquietante. Si com incia con un viaggio su una strada polvero­ sa e si fin isce vittime volontarie di una strana abitazione, percor­ sa e attraversata dalla “spirito” di un misterioso, anziano perso­ naggio. I l giovane protagonista, sull’onda di una perversa, in­ spiegata fascinazione, catturato dalla curiosità, finirà con l ’iden­ tificarsi c o n l ’ombra silenziosa del vecchio. Ciò c h e però sorprende positivamente nelle pagine di Anto­ nas è la capacità di tenersi sul filo di questo mistero, senza ca­ derci d en tro in m aniera grossolana. La scrittura rimane così lim­ pida, distaccata, piacevolm ente ironica. Passiam o a “M adre dei nervi” del ventinovenne Maurizio M arzari (anche lui bolognese, m a senza specificazioni di studio o di lavoro: si vede che, nel compilare la sua scheda di parteci­ pazione a lla Biennale Giovani, è stato preso da invincibile pigri­ zia). N o n è pigro, però, quando scrive. Il suo racconto, infatti, im possibile a rissum ersi (sarà un pregio o un difetto?), mette in campo u n o strenuo lavoro sintattico: i periodi, lunghissimi, si at­ torcigliano e si inseguono. Cercano un curioso equilibrio fra “letterarietà” e linguaggio parlato. N egano il racconto e intanto costruiscono il senso, dall’interno, in m aniera spesso intelligen­ te. C ’è an ch e l’eco di una non chiarita “diversità” del protago­ nista: d a chi? da che cosa? dal padre? dalla società? Maurizio M arzari non ce lo dice. Si rifu g ia qui nel ricorso a u n ’immagine un p o ’ sbiadita: quel­


la di un corteo in cui si fronteggiano padre e figlio. Il brano “M am m a e papà mi vogliono bene” dello spagnolo V ictor M artinez Flores (vent’anni, iscritto al prim o anno di Psi­ cologia a M adrid) è invece un curioso e riuscito pastiche della nan'ativa beat. Costruito in brevi paragrafetti, anche questo rac­ conto inscena la “tragedia d ell’infanzia”: due genitori che litiga­ no e il bam bino (si chiam a Damòn) viene alla fine abbandona­ to. C ’è una sottile luce di crudeltà, in queste pagine, che manca nel pezzo di Freyrie. Anche se il ricorrere a un m odulo espres­ sivo un po ’ obsoleto, che molto ricorda la scrittura di Alien Ginsberg, tem o attenui la forza della storia stessa. L a prim a ragazza che incontriamo n ell’indice di questo vo­ lum e è portoghese. Ha venticinque anni, vive a Porto e studia L etteratura moderna, si chiama Isabel de A lm eida Santos ed è l’autrice di “L ’acqua.” È un racconto breve e misterioso. Ma nel senso di una segretezza, mi si perdonerà, tutta femminile. Al­ l ’interno di queste poche pagine, in uno stile che è insieme so­ brio e com m osso, è incastonata una lieve, fatata storia d ’amore. Si penserebbe, com e lontana ascendenza letteraria, a certe eroi­ ne di N athaniel H awthom e, a una malinconia da spiaggia sull’o­ ceano, una immersione in luci grigie e in oggetti poveri. L ’au­ trice, dicevam o, ha solo venticinque anni, m a potrebbe apparte­ n ere culturalm ente al secolo scorso. O, pensando al cinema, a u­ n a inquadratura del film “La merlettaia” di Goretta. “ Sequenze,” invece, (di Uberto Stabile Rodriguez, spagnolo di V alencia, ventinove anni, laureato in Storia d ell’Arte), a on­ ta del titolo cechoviano del primo “fram m ento,” è una sorta di lungo delirio in prim a persona. Si impastano fra le righe Rimb au d e Jim M orrison, un che di logorroico e dem enziale con u­ na continua fantasia di morte. Anche in questo autore, come già rilevato per M artinez Flores, l’eco della generazione beat è m ol­


to acuta: segno che in Spagna alcuni modelli letterari “datati” so­ no ancora molto forti e capaci di produrre suggestioni. Ciò che mi pare però diversificare questo racconto rispetto a “M am ma e papà mi vogliono bene” è una maggiore quota di “acidità,” di (se posso dire) “lisergicità.” Troviamo infatti un magm atico ar­ mamentario di droghe (m orfina e eroina) vissute quasi eroica­ mente, come segno di una alterità precisa. Insiem e, sentiam o un certo desiderio paradossalm ente realistico: i riferim enti a un male devastante, infettivo, credo si debbano al bisogno di rac­ contare l ’Aids. Vale a dire, appunto (e purtroppo), la realtà che ci circonda. “Ti spengo la luce, cara?” della ventisettenne Em m a Chiaia, fiorentina e laureata in Filosofia, sem brerebbe denunciare fin nel titolo un certo gusto carveriano. E in realtà, circola nelle sue parole un sapore che all’autore am ericano recentem ente scom ­ parso fa pensare: per un saper cogliere, quasi distrattam ente, piccoli gesti della quotidianità. Mi sem bra, per esem pio, molto felice la piccola fenom enologia della sèconda pagina dedicata al “dopo aver fatto l ’am ore”: vediamo una piccola sequenza di ra­ gazzetti impacciati, colpevoli, vestirsi di corsa senza mai un bri­ vido di tenerezza, di sincerità. Il racconto “D iana” di Romolo Bugaro (venticinque anni, pa­ dovano, lauree in Legge e in Scienze politiche), lo confesso su­ bito, è quello che più mi ha convinto. So di non essere un buon prefatore, ammettendo questa mia preferenza, m a tan t’è: ci si la­ menta sempre della sibillinità dei giudizi critici che qualcuno dovrà pur prendersi la briga e la responsabilità di dire franca­ mente ciò che pensa. Dunque: mi assumo briga e responsabili­ tà. Bugaro ha il polso e la sicurezza di un buon narratore: leggen­ dolo, ho spesso dim enticato di trovarmi di fronte a un autore an­ cora “inedito.” Nelle sue pagine, nei suoi periodi, circola u n ’a­


ria di sem plicità, di freschezza non facilmente rintracciabile an­ che in tanta letteratura “adulta.” Si sente in lui la lettura di Chri­ stopher Isherwood, m a ben digerita, assimilata: resa propria. E poi, in questo caso, un elem ento non secondario di novità è nel contenuto dello scritto: Stefano, il protagonista, è un ex eroino­ m ane che ha un complesso rapporto con sua madre. E qui, rove­ sciando con delicatezza alcune tonnellate di luoghi comuni sul­ le “m adri-coraggio,” Bugaro ci restituisce il ritratto di una don­ na (Diana, appunto) incapace di accettare il fatto che suo figlio sia riuscito da solo, senza aiuto, senza retorica, senza spargi­ menti di m elassa buonsensaia, a liberarsi dal buco. Francam en­ te, in clim a di tragici dibattiti pubblici sul fenom eno droga, il racconto di Bugaro è una boccata di ossigeno. Lo sloveno M iha M azzini (ventisette anni, studente di infor­ matica) è autore di “Good Rockin’ Tonight.” D ella propria evo­ luzione artistica, ha scritto: “Penna a sfera-M acchina da scrive­ re U nis-M acchina da scrivere Olympia-Printer Epson-Laser Okidata.” Di sicuro, Miha Mazzini è spiritoso. Con tutte queste m arche, poi, sem bra una popstar, e magari lo è. Anche il suo rac­ conto è venato di un certo umorismo surreale: è la storia di un giovane che, per via di una confezione di preservativi trovata per caso, diventa letteralmente un altro. E, da timido e inibito che e­ ra, si trasforma, l ’éspace d ’un jour, in una specie di super sedut­ tore. Esaurita la confezione, però, il protagonista non avrà mai il coraggio di comprare altri profilattici. N essun riferimento, credo, all’amore nel tempo dell’Aids, ma una tragicom ica rifl­ essione sul machismo. Chiari riferimenti borgesiani, invece, intridono il pezzo “ Jorge L uis” dello spagnolo Vicente Gallego, venticinque anni e stu­ dente di Legge. Nel chiuso di una prigione, un detenuto prossi­ m o alla cecità e alla pena capitale è il protagonista e il personag­


gio di un racconto che deve ancora essere scritto. Il tem a è quel­ lo, molto borgesiano, della vita in quanto opera scritta da qual­ cun altro che non sa d ’essere a sua volta interprete di un ’altra fin ­ zione. E via di seguito. Concludiamo questa, spero non troppo tediosa rassegna, con il ventisettenne A ndrea Canobbio, torinese, autore del racconto “U n’apocalisse in scalaridotta.” Il suo è un racconto, p er così d i­ re, iper letterario, consapevole, colto. Questa, anzi, mi sem bra in pari tem po la sua forza e la sua debolezza. Perché, a fronte di u ­ na scrittura attenta, rigorosa, gli squarci narrativi paiono talvol­ ta come sgonfiarsi dall’interno, forse proprio per via di una ec­ cessiva preoccupazione intellettuale. Abbiamo dunque ascoltato il suono di ogni pagina di questo libro. Qua e là, abbiam o individuato echi, o raccolto im pressio­ ni. Una nota ci è parsa magari troppo alta, u n ’altra perfettam en­ te arm onizzata col nostro orecchio. Si sono perfino, im provvi­ samente, disegnati alcuni leitmotiv (la fam iglia e l ’infanzia, i ge­ nitori e la droga, il sesso), ma non è questo che ci importa. E non ci im porta perché, in letteratura, ogni tem a vale un altro, e tu t­ to è contem poraneam ente vecchio e nuovo. Pure, ci sem bra che ancora qualcosa vada detto, vada svelato. E forse, sem plicem en­ te, tutto ciò si racchiude e si mostra nel “tono” di queste pagine, nel loro ritmo. Veloce ma insieme morbido. Nitido e poi appe­ na offuscato da una raucedine. Direi, anzi, che ciò che rende sin­ tonici e unitari questi undici, diversissim i testi è proprio la bas­ sa m elodia che li sottende. Viene fatto di pensare a una scena e­ sistenziale di grande spaesamento e di misurato desiderio di ri­ costruirsi daccapo, senza reticenze, con sincerità, gli strum enti per una nuova navigazione dello spazio. E la scrittura, infine, non è altro che questo: una partenza, un prendere il largo.



Ba tm an

di Francesco Freyrie


La signorina Piera lo sveglia quando non sono ancora le set­ te. Lo tocca leggerm ente sulla spalla, lo libera dalle coperte e gli passa una m ano sui capelli. Gli dice “D a bravo, ora, vatti a lava­ re.” Nella cam erata dorm ono tutti. Lui si stropiccia gli occhi, e non capisce bene cosa stia succedendo. “Avanti, sbrigati, dorm iglione,” ripete la signorina Piera a mezza voce. “A ppena sei pronto, seguim i in refettorio. E bada di non far freddare la colazione,” aggiunge. “Ma io ho sonno,” dice lui. Lei dice “Q uesto non è un buon m otivo per fare tardi a ll’ap­ puntamento. I tuoi genitori saranno qui fra u n ’ora, non ti ricor­ di più?” Lui spalanca gli occhi. Ma certo, pensa, oggi è dom enica, è il quindici d ’agosto! I suoi verranno a prenderlo, e insiem e an­ dranno a trovare i cugini, in cam pagna. M entre scende dal letto, dice convinto “Signorina Piera, non perm etta a nessuno di prendere le mie biglie,” e cerca le panto­ fole nella sem ioscurità della grande stanza. Si strofina la faccia e il collo con l ’acqua tiepida p er un mi­


nuto; poi, si asciuga con il piccolo asciugamano giallo e ciabat­ ta fino a ll’arm adietto a fianco del letto. Quando inizia a vestir­ si, sente il cuore battergli forte, perché sa che oggi rivedrà sua madre, e m angerà il coniglio arrosto insieme ai cugini. Lui pen­ sa che il quindici d ’agosto è l’unica giornata di festa vera, in que­ sta estate che non gli va troppo a genio e che deve passare in co­ lonia. La signorina Piera lo aiuta ad allacciarsi le scarpe, lo pettina un p o ’ con le d ita e gli fa cenno di raggiungerla in refettorio. Q uando si siede davanti al grande tavolo per la colazione, lui sbriciola la ciam bella nella tazza del latte e guarda la signorina Piera, prim a di affondare il cucchiaio nella ciotola. I capelli, co­ m e al solito, non vogliono saperne di stare in ordine; allora lei cerca di aggiustarglieli un poco di nuovo, aiutandosi con un pic­ colo pettine a fermaglio. Lui finisce di mangiare e si toglie il tovagliolo dal collo; lo piega accanto alla tazza, come gli hanno insegnato. Alla fine, la signorina Piera lo accompagna in portineria, da Padre Filippo, e gli lega il m aglioncino alla vita. Lui la saluta con un bacio e le consegna il sacchetto delle biglie. Le dice “Ne porto quattro con me per giocare, m a queste altre, per favore, non le dia a nessu­ no, mi raccom ando.” E seduto sulla sdraio ad aspettare, adesso. Si accorge di ave­ re le m ani sudate, per l’eccitazione. D avanti al cancello d ’entrata, Padre Filippo sta parlando con un giardiniere. Lui vede sua madre scendere dalla macchina e farglisi incontro, mentre Padre Filippo continua a tenerlo per m ano. Lui la chiam a forte con la voce, e aspetta che gli sia da­ to il perm esso di correre ad abbracciarla. “ B uongiorno, signora,” dice invece Padre Filippo senza


lasciare la presa. “Ecco il nostro giovanotto, pronto per partire.” “Buongiorno, Padre,” risponde lei. “Si è com portato bene, questo m onello?” Padre Filippo sorride. Dice “Oh, è un om etto davvero a m o­ do. Ha smesso anche di piangere, non è vero?” Lui annuisce col capo, m entre guarda i ragazzi uscire dal via­ letto, pronti per andare al mare. Indossano delle m agliette azzur­ re, e berrettini di cotone e zoccoli di legno. La signorina Piera ha in testa un bel cappello di paglia colorato; guida la fila e ripete ai più indisciplinati di restare in riga. Q uando lui la saluta da lon­ tano con la m ano, lei gli risponde alzando il braccio due volte. Dalla m acchina ferm a su ll’altro lato della strada, vicino al cancello d ’entrata, si sentono partire due brevi colpi di clacson; sua madre si accom iata da Padre Filippo e lo prende per mano. Mentre si avviano oltre il cancello, lui continua a guardare ancora per un istante la fila azzurra dei ragazzi che si incam m i­ na verso il mare cantando una canzone di chiesa. A ppena si siede in macchina, suo padre si gira verso di lui e fa una faccia allegra; gli pizzica le guance. G li dice “Ciao, ranoc­ chio. Sei pronto per partire? D am m i tu il via e tienti forte, per­ ché adesso si vola!” Ingrana la prim a e con la bocca im ita buf­ famente il rum ore di un bolide da corsa. La vecchia 125 bianca con i sedili ancora cellofanati, si avvia tranquillam ente lungo il rettifilo alberato della strada; lui guarda sua m adre puntare i pie­ di contro la scocca e afferrare la m aniglia laterale del tettuccio. Poi, lei fa scivolare il braccio dietro il sedile e gli posa la mano sulle gambe. “E allora, ranocchio,” dice suo padre. “Ti fanno m angiare ab­ bastanza, in colonia?” “ Sì, papà,” dice lui. “Ci danno anche la cioccolata...” “Però sei dim agrito,” dice sua m adre, preoccupata. “Senti le


gambe, sembrano due stecchi.” Il padre sorride. Distende le braccia sulle razze e inclina la te­ sta leggermente all’indietro. Dice “Ma no. È che li fanno muo­ vere... Li fanno camminare, no? Vedrai che quando tom a a ca­ sa avrà un fisico da sportivo.” “Posso tornare a casa con voi, stasera?” chiede lui a questo punto. “Perchè, non ti diverti più in colonia?” dice suo padre. “Non ci sono più i tuoi amici?” Sua madre dice “Papà ha ragione. E poi, il m edico ha detto che devi fare un p o ’ di mare. Ti fa bene, sai. Non vorrai restare un ranocchio per tutta la vita.” Lui si stringe nelle spalle deluso. “Allora, venite voi da me, in colonia,” dice. “Ci sono un sacco di letti!...” “Guarda, ranocchio! Guarda fuori!” esclama suo padre, indi­ cando con la mano verso il lato opposto della strada. In un am­ pio spiazzo che affiancano adesso è stato innalzato un tendone da circo, e due uomini si stanno dando da fare per lavare un e­ lefante. Lui incolla il naso al finestrino. “Hai visto com ’è grande, eh?” dice suo padre, mentre i due uomini strofinano la schiena del pachiderma con degli spazzo­ loni dal manico lunghissimo. Poi aggiunge convinto: “Quello, è l'animale più grosso di tutta la terra.” “Sì,” dice lui. “Ma è più forte della tigre?” “Sicuro,” dice suo padre. “Molto di più.” “Io dico che Batman lo batterebbe lo stesso. Ho letto un ’av­ ventura in cui mette fuori gioco due tigri, servendosi della batfune e del bat-boomerang!” Ehi, ma che roba vi fanno leggere, dai preti?” dice suo pa­ dre. Poi aggiunge “Hai sentito, Mina? Li lasciano guardare i giornaletti...”


Lui dice “M a papà, Batm an è buono, com batte solo contro i criminali. E poi, non uccide m ai.” “N on devi leggere i fum etti,” fa suo padre scuotendo la testa. “Non im parerai mai niente da quella ro b a.” Gli dice “I libri, p iu t­ tosto. Quelli sì, che istruiscono. Q uando andavo a scuola io, il m aestro lo ripeteva sempre: solo due cose servono sul serio nel­ la vita, i m attoni per reggere il tetto sulla casa, e i libri per reg­ gere la testa sulle spalle.” “A ndavi anche tu a scuola dai preti?” chiede lui. “N o,” risponde suo padre. “V eniva un maestro. D a fuori. E ­ ravam o dieci scolari in tutto. B eh,” conclude alla fine, “erano tem pi diversi, allora. Era più difficile, studiare.” “E dim mi, papà, in colonia ci andavi? Il nonno, ti ci m anda­ va?” chiede lui, appoggiandosi con le m ani allo schienale del se­ dile. La madre estrae un sacchetto di carta bianca dalla borsa, con ogni attenzione. Gli dice “Tieni, ora. C ’è una pasta, qui. Una di quelle alla crem a che ti piacciono tanto.” Lui vorrebbe dirle che non ha affatto fam e, adesso. Ma non ha il coraggio di rifiutare. E una strana sensazione che non rie­ sce a capire bene, e che assomiglia al tim ore di offendere chi cer­ ca soltanto di essere gentile. Per un istante lui pensa che è un im ­ barazzo strano, visto che a provocarlo è sem plicem ente sua m a­ dre. Pensa che loro due provano com passione p er lui, per il fatto di doverlo lasciare in colonia da solo, lontano da casa. M a lui, prova piuttosto una com passione vera per loro, nel vederli così im pegnati a far finta di nulla, com e due m aghi affannati, i cui trucchi ai suoi occhi sono persino ingenui... Tuttavia, è convin­ to che rim edierà anche a questo. C rede che fugherà ogni dubbio sulla sua felicità, ora, e sulla loro incolpevolezza.


“Se studierai, da grande potrai diventare ricco,” sta dicendo suo padre in questo momento. La m adre si volta a guardarlo. Lui tiene la pasta con entram­ be la mani e un p o ’ di zucchero gli brilla sulle labbra. Dice “Da grande voglio essere come Batman. Lui sì, che è ricchissimo!” Quando arrivano in fondo al vialetto della casa, l’aia compa­ re all’im provviso, al termine della breve galleria di cipressi. Il sole a picco brucia incredibilmente; la macchina si ferma solle­ vando una nuvola di polvere. Lui guarda lo zio Pietro, la moglie Caterina e la sorella di lei farsi incontro dalla casa. Si sente le guance letteralm ente torturate, dalle feste calorose di quella pic­ cola delegazione sorridente. Poi, sua madre viene rapita dalle due donne e scom pare in cucina, mentre lo zio Pietro lo afferra per la vita e gli dice “Beh, ti sei fatto proprio un’ometto!” E anche “Guarda, Valerio, non riesco nemmeno più a sollevarlo.” Il padre sorride. Lo guarda e gli fa un occhietto di complicità. “Tra un p o ’, ti farai la morosa,” dice lo zio Pietro. “E allora, addio visite agli zii!” “La m orosa?” chiede lui, mentre cerca di liberarsi dalla stret­ ta. “Sicuro,” dice lo zio Pietro. “Vuoi farmi credere che un omet­ to in gamba come te non ha ancora la fidanzata?” Lui dice solo “N o,” vergognandosi un poco. Beh, ogni vol­ ta che ha a che fare con una bugia le orecchie gli diventano su­ bito rosse: perché quando la signorina Piera gli rimbocca le co­ perte e gli dà il bacio della buonanotte, lui sente di volergli be­ ne con tutte le forze. E certi sogni, poi? Camminano su un pra­ to, qualche volta. Tenendosi per mano. Lui all’improvviso sco­ pre di essere nudo. Ha solo la canottiera di cotone, addosso; e senza vergognarsi, si mette a fare pipì e sente una specie di pic­


cola vertigine piacevole, proprio in m ezzo alle gambe, m entre la signorina Piera si porta le mani al seno e sorride allegramente... Dice “In colonia non ci sono ragazze. Siamo tutti m aschi,” ma si accorge che lo zio non lo ascolta più; ha preso suo padre sotto braccio e stanno avviandosi entram bi verso la rimessa. La madre si affaccia dalla finestra della cucina. Tiene in m a­ no un pezzetto di ciam bella fatta in casa. Lo chiam a ad alta vo­ ce. Gli dice “Corri, ranocchio! Corri a prenderla!” Lui la raggiunge, stringe in m ano il pezzetto di ciambella e chiede “Mamma, dov’è il cavallo?” “Dietro la casa,” gli dice lei, sorridendo. “Vicino alla stalla. I tuoi cugini ti stanno aspettando, sai? Vai a raggiungerli, corag­ gio.” “Mi accom pagni?” chiede lui. “Non fare il vergognoso, adesso,” dice sua madre, “Sono i tuoi cugini, no? Piuttosto, in m acchina ci sono i regali, sotto il sedile del babbo. Sono nel pacchetto rosso.” “E per me? Ci sono anche per m e?” chiede lui con un buffa espressione degli occhi. “Scommetterei di sì,” dice sua m adre. Poi aggiunge “M a sa­ ranno loro a darteli. Dopo pranzo.” Lui allora, corre fino alla m acchina e prende il pacco. Scosta leggermente la carta da regalo e quando vede che dentro ci so­ no dei palloncini coloratissimi da gonfiare e una bella scatola di soldatini, si fruga in tasca e fa cadere nella confezione le quat­ tro biglie. Poi, corre di nuovo alla finestra della cucina e porge alla madre il pacchetto rosso, prim a di dare un morso al pezzet­ to di ciambella. * * * Il cavallo, è un pony dal manto pezzato, e i quattro cugini gli corrono intorno facendo un gran chiasso. Lui si unisce a loro,


mentre l ’anim ale riprende ad agitare la coda come ci fossero le mosche, a dargli fastidio. Continuano a correre e a gridare attor­ no al cavalluccio per un p o ’, finché i genitori non li chiamano dalla casa; allora si allontanano tutti e cinque dal piccolo pony: bisogna andare a tavola, adesso. Guarda i cugini precipitarsi ver­ so la casa, m entre resta incantato a osservare l ’animale ancora per un istante. Il piccolo pony sem bra non badargli affatto; scrol­ la il muso, fa roteare la coda. T ira la corda che lo imbriglia al­ l ’albero. Lui alza una mano, esitante. Cerca un punto, sul collo, dove può arrivare senza fatica e prova ad accarezzarlo, ma non ci riesce; resta un istante con la mano sollevata a m ezz’aria. “Michele, allora! Qui si fredda tutto!” dice forte sua madre. Lui, si volta di scatto e corre verso la casa con il cuore in gola. “E così, alla fine non ce l ’ho fatta più. Un male, un m ale!...” sta dicendo lo zio Pietro in questo momento. “Un bruciore, vi di­ co, da non credere... E poi, la pancia gonfia; sembravo un bue, sem pre a girare con i pantaloni sbottonati...” I ragazzi, con i pezzi di coniglio ben stretti in mano, ascolta­ no incuriositi lo zio Pietro, mentre la zia Caterina annuisce preoccupata. “Beh, per farla breve, m ia m oglie mi convince ad andare in città,” dice lo zio Pietro. “Da un professore. Un chirugo, un ta­ glia e cuci, insom m a, ci siamo capiti. Fosse per me, i medici m o­ rirebbero tutti di fam e, m a alla fine il dolore era così forte che ho dovuto mollare. P er farla breve, quello mi fa sistemare senza tanti complim enti sul lettino; in una posizione che non dico, per­ ché ci sono i ragazzi, m a che assomiglia a quando l ’uomo la vuol fare sporca.” Lui vede la zia Caterina farsi rossa in viso. “Poi,” continua lo zio Pietro, “mi ha fatto tirare giù i pantaloni e le m u­ tande. Mi ha controllato tutto. Sì, proprio lì dietro... Un male che


non vi dico, ci sarà stato m ezz’ora. U na vergogna! P er fortuna che la C aterina era rim asta fuori. Beh* per farla breve, ha detto che è come se avessi della carne in più, dentro, una vegetazio­ ne, ha detto.” C hiede conferm a con gli occhi alla moglie, e quel­ la annuisce, rassegnata. Lui non ha più fam e, adesso. G uarda lo zio gesticolare, affa­ scinato. In un prim o m om ento ha persino pensato che nella pan­ cia della gente, certe volte, ci vive un verm e; e la cosa, alla lu­ ce dei discorsi dello zio Pietro, gli è sem brata incredibilm ente concreta. “Beh, per farla breve, il professore ha detto che non c ’era n es­ suna m edicina,” conclude lo zio Pietro. “E anzi, bisognava ope­ rare, per vedere se quella carne in più era buona o cattiva, p er­ ché poteva essere solo un polipo, sosteneva.” Lui rabbrividisce, all’idea di un polipo che si nasconde den­ tro la pancia della gente. A scolta lo zio Pietro concludere: “D is­ se proprio così, no, Caterina? Se si fosse trattato di un polipo non ci sarebbero stati problem i, m a se era carne cattiva...” G uarda sua m adre posare la forchetta dentro il piatto e dire: “L ’im portante è che ora tu stia un p o ’ m eglio, non ti pare?” m en­ tre tutti gli altri restano in silenzio. Lo zio Pietro infilza con la forchetta un pezzo di coniglio e lo solleva davanti a sé. “Sicuro,” dice. “D a quel giorno lì, sto b e­ nissimo: niente più pancia gonfia, niente dolori...” La zia C aterina ha gli occhi lucidi, ora. Lo zio Pietro dice: “E non basta, perché da allora sono qua­ si dimagrito... M a quella, però, era carne cattiva, cattivissim a, anzi.” La zia C aterina scoppia in lacrim e e corre via dalla tavola. Lui guarda sua m adre alzarsi in piedi e seguirla in cam era da letto. Lo zio Pietro s ’infila il boccone di coniglio in gola e sbatte un


pugno sul tavolo. D ice “È inutile che piange, quella là. Io non mi faccio o p erare.” Poi ride in un m odo strano e si versa da bere. D i­ ce “P er m e, quando arriva il m om ento bisogna chinare la testa, no? P erdìo, è troppo com odo lamentarsi! Siamo finiti su questa terra sen za che nessuno ce lo chiedesse, se ci stava bene. E nel­ lo stesso fottuto m odo, dobbiam o andarcene. Scemo chi cerca di capirci qualcosa!” I suoi cugini scoppiano a ridere; lui, invece, non riesce più a stare seduto sulla sedia. A desso, gli sembra che anche la sua pan­ cia brulichi di strane creature. “A llo ra,” interviene suo padre scostandosi leggermente dal tavolo. “V ogliam o aprirli, questi benedetti regali?” I cugini gridano eccitati e corrono a chiam are le donne in cu­ cina. Z ia Tina, che se ne è restata buona tutto il tempo segnan­ dosi con la croce alle im precazioni del cognato, sparecchia la ta­ vola. L ascia solo i bicchieri e il vino per gli uomini. L a piccola cerim onia dei regali, nonostante la gioia dei cugi­ ni, a lui sem bra più triste degli anni precedenti. Riceve in dono un libro di avventure e u na maschera di cartone. Finge un entu­ siasm o che non prova, ringrazia meticolosamente per i regali e alla fine si avvicina alla m adre. Le chiede “Mi accompagni in ba­ gno, p e r favore?” L a m adre lo bacia sulla fronte e gli toglie con la mano le bri­ ciole di pane dalla m aglietta. Gli dice “Il bagno è dietro la stal­ la. C redo che tu possa andarci da solo, ormai. Sei grande, no?” .ui allora si cala la m ascherina nera sugli occhi e si allontana lalla tavola in silenzio. I cugini corrono nell’aia con i soldatini stretti nei pugni, facendo esplodere bombe e granate con buffi v ersi d ella bocca, m entre lo zio Pietro versa ancora un goccio di v in o alla zia C aterina e scuote la testa. ***


Vede il casotto di m attoni dipinto di azzurro a una decina di m etri dalla stalla, sul m argine dei filari. F a una breve corsa, e quando si chiude la porta alle spalle si accorge di avere ancora il tovagliolo stretto in mano. È un bagno alla turca, popolato da m osche e ragni, quello. Della carta scura è infilzata su uno spillone di m etallo, sopra il lavandino. Lo specchio ha uno spigolo rotto ed è sporco di ver­ nice secca. Da una finestrella sistem ata sul soffitto, penetra al­ l ’interno un fascio di luce calda e polverosa. Lui si abbassa la m aschera sul m ento e guarda tu tt’attorno. L a catenella dello sciacquone è ossidata e oscilla lentam ente. Poi, quando guarda il buco nero della ceram ica, per un lungo istante gli sem bra una specie di bocca nera di un anim ale sconociuto. Proprio m entre sta accovacciato, ben attento a non sbilanciar­ si all’indietro, sente un rum ore provenire dalla porta. Sta per av­ vertire ad alta voce che lì dentro è occupato, quando scorge, pro­ prio sulla m aniglia, un grosso ragno nero e lucido, con dei pun­ tini bianchi sul dorso. H a catturato una m osca e se la trascina die­ tro, im balsam ata nel suo filo resistente: si m uove a scatti, e ogni arto sembra dotato di una vita propria, del tutto indipendente dal resto del corpo, che consente al ragno di spostarsi quasi scivo­ lando da un lato, senza inciam pare. P unta gli occhi su ll’anima­ le e si lascia rapire dalle sue m eccaniche interm ittenti, finché non sente che le gam be incom inciano a dolergli. A llora si tira su i pantaloni, tira la catenella in punta di piedi e si appoglia con­ tro il muro per non farsi bagnare d a ll’acqua che scende sulla ce­ ram ica con la forza di una piccola cascata. Si rim ette la m asche­ ra sugli occhi e sfila il catenaccio, continuando a controllare la traiettoria del ragno. Quando spinge l ’uscio verso l ’esterno, si accorge che la por­ ta è bloccata. Prova ancora, m a è com e tentare di spostare un m u­


ro. Col cuore in gola, si ritrae, e per poco non finisce col piede dentro il buco. Sente qualcosa che lo sfiora dietro l ’orecchio, m entre vede che il ragno non è più sulla porta. Lancia un grido. La catenella dell’acqua gli scivola sulla guancia e gli dondola leggerm ente davanti agli occhi. Lui pensa che la porta è blocca­ ta, e che adesso è rimasto chiuso dentro! D a solo, senza sua m a­ dre, senza la signorina Piera. N on sa come fare, per riuscire a tor­ nare all’aperto. Cosa farebbe Batman? si chiede. Per sfuggire dalle trappole del Jolly, lui e R obin usano acidi, bombe, e gli altri mille truc­ chi nascosti nella cintura del costume. Invece lui possiede solo una maschera di cartone, in questo momento. Si guarda allo specchio e vede che ha gli occhi rossi e la fronte tutta sudata. A l­ za la testa sulla sinistra e riesce a scorgere, riflesso nello spec­ chio, il viale alberato. La finestrella non è poi così alta, pensa. M a come arrivarci? Potrebbe cercare di appendere fuori la maglietta, ma chi la ve­ drebbe? Poi, in un angolo, nota una grossa scopa. Il cuore com in­ cia a battergli forte, e quando la afferra con entrambe le mani gli sem bra di stringere una specie di oggetto magico, un vero teso­ ro, la risoluzione dell’enigma. Adesso è certo che Batman se la caverebbe, in quelle condizioni, anche con una semplice scopa. A llora, per prim a cosa si cala bene sugli occhi la mascherina; quindi, si fa coraggio e si mette al lavoro. Usare la scopa come ariete è im possibile, perché è più lunga della distanza tra le pa­ reti; come leva, poi, non servirebbe a nulla, perché non c ’è pra­ ticam ente spessore tra il pavim ento e la porta. Allora pensa di in­ castrarla tra due spigoli, trasversalmente. Quindi, appoggiando­ si con le mani alla parete, com incia lentamente a salire su quel­ la scala di fortuna che si flette sotto il suo peso, un piede dopo


l ’altro. Riesce ad arrivare alla finestrella e ad aprirla. Sente l ’a­ ria fresca arrivargli sulla faccia e vede i filari com e sfuocati, nel­ la caligine polverosa del prim o pom eriggio. Scorge il viale al­ berato e le colline. R espira in fretta e resta a guardare per un lun­ go istante la cam pagna che dorme dietro il rettangolo scuro del­ la finestrella. Poi, un riflesso luminoso si accende tra i cipressi, a intermittenza. È un piccolo lampo di luce seguito da una nu­ vola di polvere come un m anto compatto. L ui si aggrappa alla fi­ nestra, mentre sente la scopa piegarsi ancora sotto di sé a ll’im ­ provviso. Il viale dei cipressi curva verso il vigneto, prim a di proseguire parallelo alla direzione delle colline. Il riflesso lum i­ noso si riaccende subito dopo la curva, sem pre seguito dalla pol­ vere; poi, quando gli alberi si diradano, il riflesso lum inoso si trasform an ellascoccachiarad’u n ’autom obile. È la m acchina di suo padre, quella! Lui stringe i pugni e pensa: M a c o m ’è possi­ bile, se ne stanno andando senza di me... “M am m a, papà, sono qui!” grida con quanto fiato ha in gola. Si strappa la m ascheri­ na dagli occhi e dice “M am ma, per favore!... N on ve ne anda­ te...” La macchina è già lontana. Sul viale adesso riesce a scor­ gere solo la piccola nuvola di polvere bianca che scompare. L ’ultim a cosa che sente, è una specie di P T R A C definitivo, m en­ tre la scopa gli cede di schianto da sotto i piedi. È disperato, ora. C ontinua a chiedersi perché loro lo abbiano dimenticato là dentro a quel modo; e perché sua m adre non è lì ad aiutarlo, visto che lui h a tanto bisogno di aiuto e non sa pro­ prio più cosa fare. Sente una lacrima rigargli la guancia, nello stesso momento in cui vede la porta spalancarsi e sua madre comparire sulla soglia, im m ersa nella luce. Gli chiede “Ranocchio, stai bene?” Poi dice “M i hai fatto prendere uno spavento... Non ti trovavo più! È u n ’ora che sei


scom parso... Papà era così preoccupato che ti è venuto a cerca­ re con la m acchina. M a chi è stato a chiudere la porta? Ho do­ vuto far scattare il catenaccio, prim a di riuscire a entrare,” dice tirandolo su per i fianchi. Sente le mani di sua m adre accarezzar­ lo tra i capelli. L ui le allunga le braccia attorno al collo per far­ si prendere m eglio in braccio, e intanto piega il viso in avanti, per nascondere le lacrim e. Pensa che sono stati in pensiero per lui, che si sono preoccupati tutti, che si sono sentiti in colpa per a­ verlo lasciato solo, m entre sua madre grida “Tutto bene, l ’ho tro­ vato !” in direzione dei parenti che stanno arrivando di corsa dal­ la casa. A desso, lui non riesce più a trattenersi. C om incia a piange­ re e dice “Grazie, per avermi cercato.” Al ritorno, decidono di andare allo spettacolo del circo che hanno incrociato al mattino. V edono i leoni, i cavalli, l ’uomo che sputa fuoco e quello che cam m ina sul filo. Suo padre, gli compera una stecca di zucche­ ro colorato e gli lega al polso un palloncino a form a di coniglio. Lui guarda felice i clown rincorrersi per la pista, mentre un uo­ mo gigante con un enorm e martello picchia sulla testa un buffo nano panciuto. V edono anche gli elefanti, alla fine, e lui dice a sua madre che gli piacerebbe starsene per una volta al loro posto, a farsi lava­ re la schiena con l ’acqua della pompa. Quando arrivano alla colonia è già passata la mezzanotte. Lui è disteso sul sedile posteriore, con gli occhi chiusi, semicoper­ to dal maglione celeste di suo padre. I genitori si voltano a guar­ darlo. N ella m ano, lui stringe ancora la sua stecca di zucchero colorato. Quando il padre lo prende tra le braccia, lui si scuote e la stecca dello zucchero gli scivola sul fondo della macchina.


Non dice niente, però. E continua a far finta di dorm ire, per non disturbare il piccolo rito dei saluti fra i suoi genitori e la signo­ rina Piera che adesso lo porterà a letto, stringendolo fra le brac­ cia, fino alla cam erata silenziosa.



Il

v esc o v o

di A ristidis A ntonas



Continuando a viaggiare con quel vento caldo, mi è arrivato di nuovo lo stesso odore. A ssom igliava all’odore della terra u­ mida, m a qualcosa di inafferrabile lo rendeva, nel contem po, di­ verso e particolare. Ho riguardato la mappa. Era im possibile de­ finire la località in cui mi trovavo. Ho spento il m otore della mia vecchia auto e sono sceso sbuffando. T ra le basse montagne si delineava una piccola valle con una vegetazione floridissima, per quella stagione, e piuttosto singolare; costituita per lo più da alberi som iglianti agli agrum i, m a con foglie spesse, di colore chiaro, e con frutti rossastri. D all’altra parte della strada, sul rapido pendìo che comincia­ va a oscurarsi mentre il sole aveva già preso a nascondersi, ho notato alcune piante alte e sottili, con un ciuffo secco sulla cima; anche queste erano piuttosto singolari. Ho aperto la m appa sul cofano. Ho calcolato la distanza per­ corsa all’incirca, d all’ultim o villaggio che avevo incrociato; se fossi rim asto sulla strada giusta, avrei dovuto già essere a desti­ nazione. Invece, niente lasciava im m aginare la presenza di una qualche città, in quei paraggi. Paragonando l ’orientam ento del­ la mappa alla posizione del sole al tram onto, mi sem brava di es­ sermi diretto verso la direzione giusta. Secondo i m iei calcoli la


regione dove credevo d ’essere finito per errore, sulla carta ap­ pariva com e u n a zona montagnosa presidiata da piccoli agglo­ merati. Pure, dal punto in cui mi ero fermato, non si scorgeva al­ cuna traccia di presenza umana, tranne, ovviamente, quell’am­ pia strada pianeggiante. Ho ripiegato la m appa e ho aperto lo sportello, mentre mi è arrivata di nuovo una piccola ondata d ell’odore sconosciuto. L ’ho respirato profondam ente, e ho notato che lasciava in gola uno strano sapore dolciastro. A vevo guidato senza sosta per più di tre ore, e la mia ango­ scia era d ecisam ente aumentata, adesso, dal momento che non solo non ero arrivato al villaggio, ma durante il tragitto non mi era riuscito di incrociare né una casa né una sola automobile. Il paesaggio, da quanto si poteva scorgere alla fioca luce del tra­ m onto, sem brava immutato da chilometri, e questi luoghi che io avrei dovuto riconoscere, mi risultavano del tutto ignoti. Dopo alcuni m inuti, quando mi sono reso conto che avevo sbagliato di nuovo, m a senza riuscire a comprendere in che punto fosse av­ venuto l ’errore, dato che non avevo avuto dubbi sul fatto che la direzione doveva essere giusta, ho deciso istintivamente di pren­ dere per una strada leggermente più stretta, di terra battuta, pen­ sando che se la fortuna avesse deciso di ritornare dalla mia, al­ la fine avrei dovuto incrociare comunque un qualche luogo abi­ tato. Per sovram m ercato, la benzina era diminuita notevolm en­ te, e pensai che non avrebbe avuto senso sprecarla per ritorna­ re indietro, sapendo che per chilometri e chilometri non avreitrovato altro che deserto. Così, ho deciso di prendere per una strada di ghiaia che sem­ brava prom ettere una rapida conclusione alle mie peripezie. Purtroppo, sbagliai di nuovo. L ’ho sospettato poco più tardi, no­ tando che la strada man mano che avanzavo accennava a restrin­


gersi, m entre le poche pietre che ne ingom bravano il percorso al­ l ’inizio, diventavano sem pre più grandi e pericolose. Tuttavia, come preso da una caparbietà insensata, continuavo a guidare ossessivam ente in direzione di quel buio sem pre più im penetra­ bile e ottuso. L a stanchezza e l ’agitazione mi si erano trasform a­ te un u n ’angoscia invincibile; al punto, che avevo persino co­ minciato a im m aginare che dei nem ici invisibili m i inseguisse­ ro. Ho iniziato ad avere paura delle om bre che i fari creavano contro alberi e pietre. Il forte colpo che ho sentito provenire dalle ruote posteriori, mi ha fatalm ente costretto a ferm are. A ppena sono sceso dal­ l ’auto, ho dovuto constatare che il pneum atico di sinistra era com pletam ente a terra: l ’ho colpito ripetutam ente, calciandolo pieno di rabbia. Sapevo bene che la ru o ta di scorta non era affat­ to dove avrebbe dovuto, nel bagaglio posteriore. Im potente a su­ perare quella situazione che m i rendeva im provvisam ente ap­ piedato e solo, nel cuore della notte, com pletam ente immerso in quella natura sconosciuta, mi ripetevo che dovevo cercare di cal­ marmi e m agari dorm ire per qualche ora, aspettando il sole del giorno dopo. M entre spegnevo i fari, risoluto ad abituarm i alla densa e ostile oscurità circostante, ho scorto tuttavia, poco di­ stante da dove mi trovavo, la luce di una finestra sem inascosta da una m acchia di alberi. Senza perdere tem po, pensando che il proprietario di quella casa isolata avrebbe ben com preso i mo­ tivi della m ia visita, sono sceso d a ll’auto orm ai inservibile e ho cominciato a salire, im panziente, tra la fitta boscaglia. Ho in­ ciam pato su alcune radici più volte, ho dovuto aggrapparm i a dei rovi spinosi, prim a di ritrovarm i, pieno di graffi e ferite, davan­ ti al giardino recintato di una costruzione a due piani piuttosto antica.


L a grande porta del cortile era solo accostata. Tuttavia, col proposito di n o n dispiacere al proprietario della casa, ho suona­ to u gualm ente al bel cam panello cesellato che avevo notato sul­ la sinistra. H o atteso per un p o ’, finché m i sono reso conto che nessuno sarebbe venuto a rispondere; a quel punto, ho deciso di passare a ll’interno com unque. Il giardino, nonostante il buio, appariva ben curato e conte­ neva una grande quantità di gardenie piantate in file diritte che term inavano, a ridosso del m uro, in un gruppo di cinque alti p al­ m izi. Poco distante d all’entrata del cortile, si ergeva poi una sor­ ta di pergolato in ferro, arrugginito e pure incantevole: tra i suoi supporti avevo scorto l ’aiuola assiale che conduceva diretta­ m ente a una scalinata centrale in pietra. Sono salito esitante fino alla massiccia porta d ’ingresso del­ la dim ora. E anche questa, con mio som mo stupore, era aperta. A ll’interno, c ’era u n ’ampio salone bene illum inato e lastricato di m attonelle nere, perfettam ente ordinato, con pochi mobili lu ­ stri per arredo. N essuna delle finestre era chiusa, e l ’aria faceva m uovere leggerm ente le pesanti tende di velluto scuro. “Per fa­ vore,” ho detto ad alta voce, “c ’è qualcuno, qui?” M a per sola ri­ sposta ho udito il tintinnìo dei cristalli del grande lam padario centrale, che aveva preso a oscillare im percettibilm ente a cau­ sa del vento. P oi, ho notato una stretta scala interna che condu­ ceva al piano superiore, m a non ho avuto sufficiente coraggio a salire. Ho chiuso a una a una le ampie finestre e mi sono sedu­ to sul divano vicino all’entrata, in attesa del proprietario. Mi so­ no sentito im m ediatam ente a mio agio, in quell’ambiente intimo e silenzioso. A lla fine, non riuscendo a vincere la stanchezza, devo esserm i addorm entato. Al risveglio, la luce del giorno aveva invaso la stanza. E ntra­


va dalle finestre disposte a oriente, in fasci potenti che attraver­ savano trasversalm ente l ’intero am biente. M i sono alzato dal soffice divano di velluto: nulla sem brava essersi m osso, dalla notte precedente. Ho trascinato lentam ente i piedi sino al portico con le colon­ ne posto a ll’esterno della casa, e m i sono seduto sulla som m ità di una pietra. E ra ancora abbastanza presto, e alla m ia destra, fuori dalle m ura che circondavano il giardino, si scorgeva un pendìo leggerm ente inclinato, pieno di vigneti e coperto da uno strato sottile di brum a. E il proprietario, pensavo intanto, dorm i­ va davvero al piano superiore o aveva forse abbandonato inspie­ gabilm ente la casa aperta, con tutte le luci accese? Sono sceso in giardino e ho cam m inato fino al cancello. La terra a ll’intorno, che scorgevo illum inata dal sole, aveva il co­ lore della cannella ed era um ida com e se da poco fosse caduta u­ na pioggia. H o deciso di prendere p er un sentiero che sem brava condurre alla som m ità della co llina più vicina; da lì avrei avu­ to una veduta com pleta del luogo. Passavo in m ezzo a quella vegetazione di strani alberi che a­ vevo scorto la sera prim a. H o osservato da vicino i loro frutti: la buccia era porosa e lucida com e quella d e ll’arancia, m a la di­ m ensione, più piccola, e l ’esterno era cosparso di una leggera peluria. H o colto uno dei frutti e l ’ho pulito con le mani. Il suo interno era consistente e succoso; em anava un odore piuttosto intenso. E ro digiuno orm ai da troppe ore, e dopo aver assaggia­ to il prim o, - il suo sapore era aspro e ricordava l ’arancia, pro­ fum ato con l ’arom a dolce della b anana, - ne ho colti altri quat­ tro. A vrei desiderato m angiarne ancora, se a un certo punto non mi fossi sentito stordito fino a non riuscire più a reggerm i in pie­ di. Mi sono seduto a terra, m entre l ’intero paesaggio intorno a me sem brava perdere consistenza e colore. Ho avvertito una


specie di enorm e boato e ho visto la terra m uoversi verso il bas­ so, trascinando gli alberi e inclinandoli paurosamente. Ho cer­ cato di aggrapparm i in qualche modo, m a il movimento frano­ so del pendìo diventava rapidam ente più forte e trascinava an­ che me. Il cielo era dipinto di rosso. Le cime degli alberi sem­ bravano correre insiem e alle nuvole, mentre terra e sassi rotola­ vano con grande violenza e io non riuscivo a resistere che debol­ mente, a tanto furore, restando carponi. Il respiro diventava sem pre più affannoso e il boato sembra­ va dovesse non avere più fine, mentre la terra calda scorreva sot­ to di me trascinando rocce e tronchi dappertutto. Poi, esausto e ferito, mi sono abbandonato al moto di quel fiume, perdendo i sensi ben presto. Prima di aprire gli occhi, ho sentito il calore del sole bruciar­ mi la schiena. D oveva essere già mezzogiorno. M i trovavo ri­ verso con la guancia appoggiata al suolo, e mi sentivo la testa in­ credibilmente pesante. Sulla terra che sfioravo con il respiro, ho scorto una quantità di form iche che avanzavano in piccole fila compatte. Poi, ancora una volta, mi è giunto, più intenso, il gra­ devole odore di prima. A lla m ia destra c ’erano alcuni cespugli che terminavano con dei fiori minuti. Ne ho afferrato uno e ne ho provato il profumo. Senza dubbio erano loro, a emanare quel­ l’aroma particolare che a ll’inizio mi aveva così impressionato. Mi sono alzato lentamente, con il corpo che bruciava a causa del­ le ferite; ero abbastanza lontano dall’albero da cui avevo colto quei frutti al mattino, ed ero in piedi, ora, molto più in alto, v i­ cino alla cima della collina. Ancora stordito, mi sono messo dell’erba sul petto, e ho in breve raggiunto la som mità della roccia. Sotto la luce calda del sole, ho distinto con sollievo alcune piccole case basse di pietra,


disposte sul fianco opposto: esse form avano una sorta di rado agglomerato, disteso fra due pendii, che riceveva aria attraver­ so il folto fogliam e degli alberi disposti a ll’esterno della piazza principale. A llora ho preso a scendere verso il villaggio il più ve­ locem ente possibile, m entre brividi di eccitazione m i salivano lungo la schiena. Trovai il paese com pletam ente deserto. Per la verità, non sem brava abbandonato da troppo tempo, inizialm ente ho pensa­ to che alcune case potessero essere ancora abitate. Tutte le por­ te, però, erano aperte, e l ’interno delle abitazioni era compietam ente spoglio e vuoto. H o passeggiato a lungo sulle strade di pietra, sono entrato in palazzi padronali ben conservati e in pic­ cole strutture pericolanti. In un ripostiglio, ho trovato per caso l’occorrente per la riparazione della m ia auto: una vecchia pom ­ pa e della colla in polvere. Poi, si è fatto bu io assai presto. Il ri­ torno del proprietario era orm ai l ’unica c o sa in cui potessi spe­ rare, a quel punto. A l rientro, ho trovato la porta della casa ancora aperta, esat­ tam ente come l ’avevo lasciata. Ho suonato di nuovo, tuttavia, per ogni evenienza. Non c ’è stata alcuna risposta. A llora ho spa­ lancato le ante di uno dei grandi mobili del salone: era comple­ tam ente vuoto. E così tutti gli altri. Finché, n e ll’ultim o, sistema­ to vicino a una delle finestre, ho trovato u n ’abito elegantem en­ te confezionato e piegato con cura. T enendolo per le spalle, ho lasciato che la stoffa mi si allungasse fino ai piedi. Ho potuto fa­ cilm ente riconoscere in esso l ’abito sacerdotale di un vescovo. Ero in casa di un clericale, dunque? Sospirando, ho acceso le lu­ ci e poi ho continuato a chiam are invano, ancora per qualche m i­ nuto. Poi, ripreso un p o ’ di coraggio, ho deciso di salire per rag­ giungere il piano superiore attraverso la stretta scala intema. Di sopra, c ’erano due cam ere da letto perfettam ente in ordi­


ne e un soggiorno che comunicava con un ripostiglio, credo, er­ meticam ente chiuso. Ho preso lenzuola e coperte, e dopo aver e­ stratto un rom anzo dalla grande libreria d ’ebano che arredava mirabilm ente una delle pareti, sono ritornato di sotto, nella gran­ de sala. Sono trascorsi orm ai dieci giorni. N ell’area che si estende intomo alla casa non sono riuscito a trovare alcun posto abitato. Ho provato in tutte le direzioni, per ogni strada e sentiero. Nel frattempo, i problem i quotidiani del­ l ’acqua e del cibo hanno preso a organizzare il mio tempo. Mi sveglio presto, al sorgere del sole, e raggiungo la fonte che ho scoperto durante il m io terzo giorno di perm anenza qui. E posta dietro la collina dei vigneti. In casa, nonostante la magnificenza d ell’arredo, non esiste alcun im pianto idrico; ogni giorno, sono costretto a recarmi al­ la fonte per riem pire un secchio d ’acqua da bere e portarlo alla casa. Ho persino pensato di approntare un piccolo canale di for­ tuna con il quale portare 1’acqua a ridosso del giardino. Ma la ter­ ra è troppo rocciosa, e tutti i miei sforzi non hanno sortito alcun risultato. Rimango alla fonte sino a mezzogiorno, sotto un riparo im ­ provvisato con delle canne, e ogni tanto mi tuffo nell’acqua fre­ sca. Poi, rientro in casa con il secchio colmo e cerco di dorm i­ re per qualche ora, prim a di uscire in giardino. A ll’inizio, ho trascurato il cibo completamente. Non avevo fame, e apparivo ogni volta leggermente più magro, sul grande specchio della sala. Poi, quando mi sono reso conto che la m ia perm anenza in questo posto sarebbe durata a lungo, ho cercato di trovare qualcosa di commestibile tra i frutti e le radici che cre­ scono in questa fertile landa. L ’uva è ancora verde. Ho trovato


alcune carrube, delle radici che ricordano le patate dolci e che sono molto saporite una volta bollite, e alcuni funghi. Ógni tan­ to m i perm etto uno dei frutti rossi, m a con moderazione: così posso controllare le allucinazioni, che in questo modo divengo­ no leggere e piacevoli. Mangio presto, il pomeriggio, poi parto per le mie esplorazioni'; ogni giorno in una direzione diversa. T om o alla casa soltanto dopo il tramonto, guidato dalle luci del­ la sala, che ho deciso di tenere sempre accese. Q uesta notte sta cadendo una pioggia torrenziale. Io ho appe­ na preso a leggere il mio romanzo, sdraiato come d ’abitudine sul divano, quando dal piano superiore mi arrivano una serie di ru­ mori; dei tonfi, credo, piuttosto forti. Con il cuore in gola salgo la scala il più silenziosamente possibile. È entrata dell’acqua dalla finestra a nord, e il bel tappeto sul pavim ento della stanza è com pletam ente zuppo; tuttavia, non c ’è niente qui dentro che possa aver causato quei rum ori. Mi avvicino alla porta chiusa del ripostiglio. Non si sente alcun suono. A llora penso che i rumo­ ri provengono dal soffitto: possono essere le tegole a provocar­ li, battute dalla burrasca, o forse qualcuno dei grossi ratti che ho scorto in giardino la settimana scorsa. Scendo di nuovo in salotto. C ’è una specie di forte boato che mi sveglia, mentre all’ester­ no è tutto ancora im merso n ell’oscurità; sento la pioggia cade­ re più forte e il rum ore d ell’acqua è diventato intensissimo, ora. La luce vivida dei lampi fa brillare il grande lampadario e illu­ m ina le suppellettili della stanza, mentre sospiro leggermente e mi porto le braccia sotto la testa. Non ho più sonno, adesso. Sto per alzarmi ad accendere la luce, quando sull’angolo di fronte a m e, vicino a una delle finestre, vedo u n ’ombra nera che sono si­ curo di non avere mai scorto prima. Non mi muovo. Il respiro mi


si blocca in gola. Cerco di concentrarm i sulla m assa oscura sen­ za riuscire a distinguerla, in questo buio compatto. Tenendo conto delle sue dim ensioni, mi immagino che potrebbe apparte­ nere benissim o a un uomo chino in avanti. Mi accorgo che la mia fantasia com pleta nel m odo più pauroso tutto quel che non ve­ do: finché, in preda a u n ’orrore indicibile, non credo di scorge­ re un volto di vecchio con gli occhi lucidi e dei lunghi capelli gri­ gi . M entre la paura m i im m obilizza completamente, m i pare che l’essere nero si sposti leggerm ente verso il muro. R icordo appena, gli istanti interminabili che sono seguiti a quella visione. Due lam pi successivi hanno sinistram ente illu­ minato l ’intera stanza. Ho sentito una specie di lieve fruscio, e ho visto, proprio in direzione del punto che stavo osservando, il corpo del vecchio correre verso la porta. Poi, un urlo agghiac­ ciante è uscito dalla m ia bocca, salendomi dal profondo delle vi­ scere: ho cercato di alzarmi, prim a di perdere i sensi. Q uando ho riaperto gli occhi, m i è parso che non ci fosse nul­ la di diverso dentro la stanza; pure, il modo in cui le cose erano disposte davanti a m e era impercettibilmente cambiato. Sono u­ scito fuori im mediatam ente, ho attraversato il giardino e mi so­ no diretto verso la fonte. Gli alberi erano ancora pieni di piog­ gia, e al suolo, alla base dei tronchi, si erano formate delle am­ pie pozze fangose. Ho oltrepassato la roccia da cui sgorga l ’ac­ qua che consente al grande generatore di fornire corrente elettri­ ca a tutta la casa, e sono sceso sino al piccolo riparo di canne, da­ vanti alla diga naturale che il corso d ’acqua forma in quel pun­ to. Sono rimasto lì a lungo, guardando i riflessi luminosi accen­ dersi sulle foglie degli alberi circostanti, mentre pensavo a co­ m e riuscire a trovare una via d ’uscita da questo posto maledetto. * * *


Penso che farei bene a trasferirmi in paese, per il mom ento. Avrò meno agi, m a certo più tranquillità. Im m agino che potrei continuare le mie esplorazioni da lì. L ’om bra che ho visto la not­ te scorsa forse conosce il modo per uscire da questa landa iso­ lata. Ma la sua presenza promette solo m ale, visto che evita di manifestarsi apertamente e mi sfugge. Poi, mi convinco che il vecchio conosce il segreto di questo luogo. Perciò, mi ripeto che è meglio restare qui, nella casa, te­ nendo gli occhi bene aperti. Devo riuscire a scoprire se dorme qua dentro anche lui. L ’unica stanza che può occupare è il ripo­ stiglio con la porta chiusa a chiave. Decido che dovrò controllare questa eventualità il più presto possibile. Ho fatto il giro dell’edificio, nel pom eriggio, per vedere se è possibile raggiungere la finestra del ripostiglio dall ’esterno. Im ­ magino che forzare la porta, sarebbe un vero e proprio atto di guerra nei confronti del vescovo, e preferisco evitarlo. C ’è uno dei ram i del grosso albero a ridosso della parete, che sembra arrivare giusto al punto che m i interessa. Prendo ad ar­ rampicarmi lungo il tronco cercando con ogni attenzione di non scuotere le foglie. Arrivo fin sotto la finestra con relativa faci­ lità, e quindi, appoggiandomi al muro esterno con entrambe le mani, riesco ad alzarmi e a guardare a ll’intem o. Questa stanza non assomiglia affatto a un ripostiglio, ed è molto più grande di quanto potessi im m aginare: sem bra perfet­ tamente ordinata, e credo sia stata pulita di recente. C ’è un let­ to intatto sulla parete di fronte, e un tavolo cosparso di fogli e quaderni, vicino alla finestra. Guardo le grandi mensole cariche di libri e le due alte lampade sistemate ai lati della libreria: la for­ te luce che c ’è adesso nella stanza può entrare solo dal soffitto,


credo. Cerco di avvicinarm i ancora di più al vetro della finestra. Sopra il tavolo scorgo anche una specie di diario. A metà della pagina di sinistra, sotto a una data, riesco a leggere alcune righe scritte a grandi lettere: “H a ripreso la sua attività preferita. Ap­ pena si sveglia, raggiunge la fonte. Ogni tanto vi si tuffa come fosse già estate, e dopo, resta per diverso tem po seduto al sole. Non sem bra abbia alcuna intezione di andarsene da qui. Oggi si è diretto verso nordovest. È arrivato sino alla Tana della volpe e poi è tornato indietro. Suppongo che preferisca tutto questo, al­ l’idea di cercare un modo per partire.” Non riesco più a respirare, le mani mi tremano; il vescovo non solo dorme di nascosto in questa casa, ma spia e annota ogni mio movimento. Quando cerco di allungarmi ancora in avanti, per guardare in direzione della parete sulla sinistra, scorgo il movi­ mento di un’ombra. Mi tiro indietro di scatto e sento il sangue gelare nelle vene: è vicinissimo a me, dall’altra parte del vetro. Riesco a vederlo in faccia, ora. Sembra stia cercando qualcosa sul tavolo, e pare non accorgersi affatto della m ia presenza. La sua parvenza è spaventosa: la bocca sottile, il naso quasi inesi­ stente, gli occhi piccoli e infuocati, il viso raggrinzito e color della terra. La speranza che per un po’ mi ha fatto credere di aver sem­ plicemente sognato gli orribili fatti della notte scorsa, l ’idea che essi potessero essere frutto di una allucinazione, si sono defini­ tivamente perdute. Quel vecchio spaventoso, non solo è al cor­ rente della mia presenza qui e soggiorna di nascosto nella stan­ za chiusa a chiave, all’interno di questa stessa casa, m a segue con grande interesse ogni mio movimento. Il tono delle poche ri­ ghe che sono riuscito a leggere in quella pagina del diario, fa sup­ porre che il vescovo si aspetti da me tutt’altro comportamento:


sono ancor più convinto che lui sia a conoscenza dei sentieri e delle strade che portano in città. C os’altro può nascondere quel­ l’ironico “È arrivato alla Tana della volpe ed è tornato indietro”? Sono forse soggetto alle osservazioni di un malato di nervi che mi ha intrappolato in questa casa isolata servendosi di un in­ ganno? È difficile capire le sue intenzioni. Mi chiedo se davve­ ro mi lascerebbe partire, n ell’eventualità che riuscissi a trovare un modo per filarm ela da questo posto. La notte sopraggiunge mentre, in preda a cupi pensieri, sto osservando le piante del giardino. Ho deciso di dedicarmi com­ pletamente alla ricerca di una via d ’uscita già da domani, dal mo­ mento che ogni mio passo e movimento sono esposti allo sguar­ do inafferrabile del vescovo. E giunta l ’ora in cui sono solito coricarmi, e così, nonostan­ te non abbia ancora sonno, rientro in casa, spengo le luci della sala e mi distendo sul divano. Non voglio creare il minimo so­ spetto, su quanto ho scoperto. Il buio della stanza mi rende in­ quieto. Resto sveglio senza sapere cosa fare, in preda a una pau­ ra sottile. Dalle finestre aperte, entra una leggera bava di vento insieme alla luce opalescente della luna. Per la prima volta, tut­ ti i rumori della notte mi giungono come amplificati. Sento dei passi leggeri lungo la scala. Vedo l ’ombra del vecchio apparire sul pianerottolo e avanzare lentamente verso di me. Si avvicina e si inginocchia sul pavimento. Io continuo a far finta di dormi­ re. Mi sento addosso il suo sguardo, e fino al mattino sono cer­ to di averlo accanto a me, che respira pianissimo. A mezzogiorno, mentre avanzo sul ripido pendìo della mon­ tagna posta a sud della casa, scorgo, leggermente più in basso, una specie di apertura sulla roccia. Penso immediatamente che


il vescovo mi stia seguendo da vicino, e allora, per prima cosa, cerco di nascondere la m ia agitazione. Raccolgo un p o ’ di carrube da un albero poco distante e mi appoggio al tronco con la schiena, prima di com inciare a man­ giarle. Alla fine di questa apertura naturale, si vede una luce. Que­ sta è dunque la Tana della volpe di cui il vescovo parla nel dia­ rio. È profonda e decisamente stretta, a causa della roccia che in­ combe dal lato della montagna. Senza dubbio, se riuscissi a ri­ muoverla potrei passare di lì strisciando. Il masso ha una base piuttosto larga e u n ’altezza doppia della mia. N on riesco a capi­ re quanto sia interrato in profondità. Sulla destra, poco distante, guardo la strada di terra battuta che ho percorso in macchina la prima notte. Con un p o ’ di fortuna, credo sarebbe possibile por­ tare l ’automobile fin qui, e usando la spinta del m otore e un tron­ co d ’albero come leva, dovrei riuscire a rimuovere il masso. L ’idea di questa opportunità inattesa mi fa agitare immedia­ tamente: non è facile controllare l ’impazienza che mi assale, mentre penso di m ettere in atto il mio piano il più presto possi­ bile, oggi stesso, ora! Alla fine, mi rialzo in piedi come se niente fosse e riprendo a camminare senza fretta seguendo il corso del piccolo fiume. Poi, quando all’im provviso mi trovo di fronte a u n ’area fitta di vegetazione, comincio a correre tra gli alberi come un pazzo, nel tentativo di disorientare il vescovo... Beh, non sono affatto fortunato: già dopo pochi metri, lo ve­ do apparirmi davanti che m i chiude la strada. È a dorso nudo, con una vistosa cicatrice sul ventre e un coltello sistemato di traver­ so nella cintura. Non si muove, m a sorride con un ghigno catti­ vo, credo. La sua apparizione mi spaventa a tal punto, che cer­ co subito di cambiare direzione, inciampando tra rovi e radici.


Penso mi stia seguendo, sento il suo respiro dietro le spalle... Ho i piedi feriti e il fiato sempre più corto, quando riesco a scorgere la casa in lontananza. Mi precipito dentro l ’auto parcheggiata a ridosso del giardi­ no. Cerco freneticamente di m etterla in m oto. Dirigo verso la Tana della volpe a tu tta velocità. N on c ’è al­ cuna traccia del vescovo, qui. Scendo dall’auto, e scelgo un tronco sufficientem ente robu­ sto fra quelli che ingom brano il sentiero, p rim a di sistemarlo tra un lato dell’apertura della roccia e il m uso d e ll’auto. Mi metto di nuovo al volante e cerco di dare gas. Sento i gruppi ottici an­ dare in frantumi, e le ruote girare rabbiosam ente insabbiandosi. Riprovo per altre tre volte. Il motore si surriscalda, il cofano si rincagna. Capisco che non otterrò niente, in questo modo. Inse­ risco la retromarcia. Mi convinco che se riuscissi a colpire il tronco in velocità, forse riuscirei a far spostare la roccia di quel tanto che mi consentirebbe di passare d a ll’altra parte. Dispongo il tronco-leva leggermente più in alto e rientro in macchina. Accellero e mi butto con la macchina contro il tronco. Urto violen­ temente il volante, il cristallo anteriore esplode in mille pezzi, sento il ventre bruciarm i orribilmente. Sto sanguinando. Non riesco ad aprire lo sportello, mentre il fum o nero che arriva dal motore mi prende alla gola. Riesco a raggiungere il sedile poste­ riore e a far scattere l ’apertura. Rotolo fuori. Guardo disperato verso il masso che non ha ceduto di un solo m illim etro, mentre la mia auto è una specie di rogo, adesso. Sono di fronte al portico dell’entrata, che sto guardando il pendìo rimandarmi sinistri lampi di fuoco e penso che dopo que­ sto fallimentare tentativo di evasione, non m i sarà possibile con­


tinuare sulla stessa linea di indifferenza, nei confronti del v e s c o ­ vo. Sono certo che questo gesto assurdo mi ha ir r im e d ia b ilm e n ­ te compromesso. Decido che devo affrontare il v ecch io u n a v o l ­ ta per tutte. E prima di ripensarci, entro nella grande sala, d e t e r ­ minato a raggiungere la stanza chiusa del piano su p e rio re . P o i , mi rendo conto che, per la prim a volta, non trovo le co se c o m e le ho lasciate: un cappotto e alcune radici e frutti sono s c o m p a r ­ si. Cerco dappertutto, m a non riesco a trovarli. L a s itu a z io n e m i sembra improvvisamente m utata, adesso. Salgo al piano superiore senza altri indugi. Non credo ai miei occhi. Lamassiccia porta del ripostiglio è aperta. S p alan ca ta d a v a n ti a me. Nella stanza c ’è u n ’odore insopportabile. C erti o g g e tti d e l ­ l’arredo, visti da vicino appaiono decisam ente strani. C i s o n o due grandi bussole navali e vari strumenti di m isu ra zio n e e u n telescopio, qua dentro. Sul pavimento, scorgo uno stran o t a p p e ­ to con una icona ricamata al centro. Dalla finestra g u ard o a n c o ­ ra una volta i bagliori dell’incendio, mentre il soffitto di v e t r o è illuminato da innumerevoli stelle. Afferro uno dei quaderni sistemati sugli scaffali d ella l i b r e ­ ria: è pieno di simboli incomprensibili e form ule e n u m e ri. N e l ­ le pagine iniziali trovo i disegni delle costellazioni, c o n a p p u n ­ ti sugli astri, annotazioni sulle catene montuose e i m ari d e l l a l u ­ na. Il tutto è accompagnato da alcuni schemi in d ecifrab ili. S u l ­ la mia sinistra, sotto il tavolino della stanza, scorgo un g r u p p o di fogli che sembrano abbandonati da tempo. L ascio d a p a r t e il quaderno e scruto con ogni attenzione il primo fo g lio del g r u p ­ po: non ci sono dubbi, contiene il disegno di una m a p p a a s s a i dettagliata. Sento un lungo brivido attraversarmi la s c h i e n a ,


m entre mi accorgo che quasi al centro della carta, un piccolo p u n to è evidenziato con un segno rosso. Subito accanto, scritto con ricercata grafia, leggo la scritta casa. “È la m appa della zo­ n a ,” mi dico. “È la chiave del segreto di questo territorio!” Ri­ conosco la fonte e il villaggio abbandonato e il resto dei luoghi che ho incrociato durante le m ie esplorazioni. M i concentro su uno dei lati del foglio: m olto distante dalle zone in cui sono riu­ scito ad arrivare a piedi, vedo bene evidenziata la strada statale; c o m ’è possibile che mi sia allontanato così tanto? Calcolo che m i servirebbero non m eno di due giorni di cam m ino, per arriva­ re in quella zona. Sarei com unque pronto a partire anche ora, quando sento un rum ore provenire dalla scala. Nascondo la m appa sotto il tappeto e m i alzo in piedi. Il vescovo è ritto im m obile sulla soglia. Indossa il mio cap­ potto e sorride sinistram ente. Quando è dentro la stanza, si gira p er chiudere a chiave la porta. L a sua voce risuona rauca e profonda, adesso. Come gli u­ scisse direttamente dalla gola. “ Hai bruciato la tua auto,” mi dice voltandom i di nuovo le spalle. Afferra una bottiglia di liquore trasparente da una delle mensole della libreria. N e versa un p o ’ in un bicchiere e dice “ M a non basta,” mentre si siede sulla poltrona davanti a me. “ H ai lasciato che le fiam m e si propagassero per tutto il monte!” C on un gesto rabbioso, indica perentoriamente fuori dalla fine­ stra. Mi rimprovera ancora severamente, ma in definitiva non sem bra avere delle cattive intenzioni nei miei confronti. A que­ sto punto, credo di doverm i giustificare con lui. Dico “Sono fe­ rito !” e gli mostro il sangue sul ventre. In parte è raggrumato e quasi nero, mentre al centro la ferita trasversale brilla di un co­


lore verm iglio e denso. “ N o n è n ie n te , quello,” risponde guardando il taglio trasver­ s a l e . M i f a s e g n o di avvicinarmi: lo tocca leggerm ente con le di­ t a e d i c e “ P r e n d i un p o ’ di questo liquore, bagnaci la camicia e f a n n e u n a fa s c ia tu ra .” F a c c i o q u e l ch e mi ordina. Urlo per il dolore, sforzandomi di n o n p e r d e r e i sen si. M i siedo sul letto, sfinito. Lui dice “Avevo i n t e n z i o n e d i lasciarti libero di fare quel che volevi; però, capi­ s c i c h e q u e s t o n o n è più possibile, ora. Sono m olto dispiaciuto p e r q u a n t o è accaduto oggi.” N o n s e m b r a particolarmente contrariato. Anzi, mentre m i p a r l a , n o n o s ta n te si renda perfettamente conto della mia soffe­ r e n z a , c o n ti n u a a sorridere con uno strano lam po di cattiveria n e ­ g l i o c c h i , q u a s i gioisse dei miei errori. R i e s c o a d ire “Dove siamo, qui... E quanto è distante la p ri­ m a c i t t à a b ita ta .” “ N o n lo so ,” dice lui, mentre gli occhi gli brillano illum ina­ ti d a i b a g li o r i d e ll’incendio. “Ma lo scopriremo insiem e.” S t a m e n te n d o . Ho appena scoperto la m appa che lui stesso d e v e a v e r diseg n ato ! Vuole prendersi gioco di me. Dice “Ti d o ­ v r a i s v e g lia r e p iù presto, al mattino. Prima d ell’alba,” aggiunge. “ T i s v e g l ie r ò io. Porta su le tue cose; dormirai qui accanto.” S i a lz a e prende a camminare avanti e indietro im paziente. “ T i d ir ig e r a i dove io ti suggerirò,” dice. “E la sera tornerai qui c o n le in fo rm a z io n i nuove.” G l i d ic o “ L ei può occuparsi da solo, delle sue eplorazioni,” c o n u n to n o rabbioso. Gli dico “Non le sarò di alcun aiuto, io !” M i la n c ia u n ’occhiata colma d’odio, prima che u n ’orrendo s o r r i s o g li affiori alle labbra. “ S e m i sara i utile o no, dovrai lasciare che sia io a deciderlo,” d i c e . “ C o lla b o re ra i ai miei piani, vedrai, per non costringerm i a


usare metodi che im m agino ti dispiacerebbero.” Sibila tutto questo con una cattiveria tale, da lasciar supporre che un mio ri­ fiuto sarebbe in realtà preferibile, per lui. Lo guardo dirigersi verso un grosso mobile a fianco del tavo­ lo. Apre uno dei cassetti ed estrae qualcosa di lucente che non distinguo. Se lo infila rapidamente in tasca. È un pugnale, pen­ so io. Mi vedo intrappolato in questo posto stregato, mentre la mappa che potrebbe condurmi via da qui giace sotto il tappeto e il vecchio mi m inaccia senza tanti complimenti. Dice “Sbriga­ ti, ora. Porta su le tue cose e vai a dorm ire!” Fa un passo verso la porta mentre sento il sangue salirmi alla testa e il viso avvam­ pare. Afferro disperato il grosso candelabro a fianco del mobi­ le e lo colpisco sulla testa due volte. Non fa nemmeno in tempo a girarsi; cade sul tappeto senza un gemito, allargando le brac­ cia, portandosi per un istante le ginocchia al petto in una specie di spasmo, prima di restare còmpletamente immobile. Penso di legarlo e guadagnare tempo per quando riprenderà i sensi. Lo sposto da un lato per alzare il tappeto e impossessarmi della mappa, quando scorgo la macchia bruna allargarsi lentamente sull’icona ricamata. Gli afferro la mano cercando di tastargli il polso. Ma è tutto vano, il vescovo è morto. Rimango vicino a lui fino all’alba. Poi, trascino il corpo in giardino e lo sistemo alla meglio su alcuni rami accatastati a ri­ dosso del muro di cinta. Gli poso sul petto il quaderno nel qua­ le ha registrato i miei spostamenti in questi giorni d ’incubo. Gli verso addosso il potente liquore e resto incantato a guar­ dare le fiamme salire verso l ’alto. Mi sto facendo strada tra la robusta vegetazione di una zona sconosciuta, riportata dalla mappa. Sono arrivato qui dopo tre giorni di cammino ininterrotto, impaziente di raggiungere, fi­


nalmente, un posto a me non ignoto. Il disegno del vescovo è ben dettagliato, ma ora sono certo che contenga degli errori piutto­ sto gravi per quel che riguarda la serie dei riferim enti descritti­ vi. Così, mentre riesco a trovare la strada per seguire alcuni dei punti caratteristici, caverne, crepacci, grossi tronchi caduti, to r­ renti e rocce, non mi è possibile rintracciare u n ’uscita in direzio­ ne della statale. Da molte ore continuo a incrociare dei segni, che se la mappa fosse esatta dovrebbero essere m olto più vicini. O p­ pure, come ora, al posto d ell’ampia valle che attraversa la gran­ de strada, si erge un ripido continuo pendìo che secondo il dise­ gno dovrebbe trovarsi più a sud. Cammino cercando di correggere gli eventuali errori del d i­ segno, ma non ci riesco. La mappa deve avere delle im precisio­ ni di fondo che mi sfuggono. Sono stato costretto a raggiungere di nuovo la casa. Ho pensato che nello studio del vescovo avrei trovato degli altri elementi relativi a questa isolata regione. Beh, non mi sono sbagliato. Continuando a guardare il resto dei fogli sistemati ai piedi del tavolo, ho visto che essi riportano tutti una m appa det­ tagliata di questi luoghi; e tuttavia, ciscuna carta è im percettibil­ mente diversa, nella serie dei particolari, dalle altre e da quella che ho pescato dal mucchio quattro giorni fa. In alcune, la sta­ tale è disegnata nettamente a nord, m entre in altre, essa è posta leggermente più a ovest... Quale di queste m appe, m i chiedo, ri­ produce esattamente il territorio della regione? Mi impongo di esaminarle attentamente una a una. Nei giorni successivi, lascio la porta dello studio sempre a­ perta. Non mi dispiace sentire l ’aria salire fresca su dalle scale. Non è necessario aspettare dei mesi, per capire quanto tempo ri­ chiederà l’esame di tutti questi casi.


* * * I giorni trascorrono rapidam ente. O gn i n u o v a ricerca è una delusione in più che mi si fa strada nella coscienza. S em bra g ià estate, ora. E così, finché m i trovo in p ro ssim ità d ella casa, non sm etto di tuffarm i nelle acque fresche della fonte. L a m ia feri­ ta è quasi guarita, adesso. Però tem o ch e la cicatrice trasversa­ le sul ventre non verrà più via. N on do alcun peso ai m iei rim o r­ si, e godo di una libertà assoluta. L ascio la casa in disordine. G li oggetti sono pieni di polvere e il g iardino è invaso dalle erb ac­ ce e senza acqua da settim ane. L ’uva della valle è m atura e particolarm ente dolce, in questa stagione. Trascorro intere m attinate nei vigneti. Ieri, poi, ho visto alcu­ ne piante uguali a quelle che a ll’inizio m i avevano così im p res­ sionato. Ne ho presa una e 1’ho avvicinata al viso. A lla fine, n o ­ nostante abbia inspirato più volte p rofondam ente, concentran­ dom i, non sono stato in grado di distinguere quel suo odore p ar­ ticolare. Poi, una volta a casa, m i infilo di nuovo l ’abito elegante del vescovo che ho trovato a ll’inizio, nel m obile vicino a una delle finestre, nella grande sala. M i sto guardando allo specchio, ora. Sorrido. H o appena deciso che prenderò a n c h ’io a portare il coltello del vecchio, sistem ato trasversalm ente sulla cintura.



M adre

dei nervi

di M aurizio M arzari



Li guardo partire sorridenti sul portone di casa, lei ha il cap ­ potto color cam m ello delle grandi occasioni, col collo di finto pelo di finto visone, m entre entrano nella scatola luccicante, e per lei è certo u n ’ebrezza pari a quella volta leggendaria in cui m io padre l ’accom pagnò al cinem a a vedere un pane am ore e non so cosa, che mi regalò qualche giorno m em orabile di m adre tenera e perfino appiccicosa, il padre invece ha l ’aria di un guer­ riero che ha vinto una battaglia ma non ancora la guerra, è fie­ ro e pensoso al punto che si scorda perfino di salutarm i, non di­ co dovesse invitarm i a salire con loro verso il futuro, m a alm e­ no accorgersi che sono lì e pendo dalle sue labbra, da quegli oc­ chi cupi che frenano ogni m ia richiesta e che mi hanno insegna­ to in pochi mesi il vizio dell’autocensura, come quella sera che avevo una fam e trem enda e mentre eravam o tutti nella grande cucina a mangiare polenta e coniglio io frem evo a ll’idea di po­ terne avere ancora e riem pirm i il piatto come il suo, stracolm o di sugo e carne, m a lui aveva gli occhi bui, parlava poco, e an­ che la nonnona, che alla fin fine è pur sempre sua m adre, stava tutta sulle sue e non parlava affatto nel suo rigoroso dialetto montanaro che nelle sere di buona riempie la casa e invade an­ che la stalla e gli spazi coltivati, vincendo ogni volta la sua per­


sonale battaglia col silenzio che dura da una vita o almeno da quando ricordo io, insomma presumo lui abbia lo sguardo rivol­ to al futuro o forse in un passato che ignoro e che mai crederò gli abbia fatto perdere il sonno per un solo minuto, e vorrei buttar­ mi sulla padella e tuffarmi con la faccia tra gli aromi assassini e sul tagliere giallo di polenta di grano ancora tiepida, allora lui mi guarda e chissà perché alza gli occhi proprio su quei pensieri ver­ gognosi e ingordi regalandomi un abbozzo di sorriso che io già allora non credevo fosse gratis, e quando mi dice ne vuoi anco­ ra, hai mangiato abbastanza o hai ancora un buchino nello sto­ maco, io non ci penso nemmeno un secondo e gli dico sono pie­ no pieno, no grazie, mangiala tu la polenta rimasta, e lui ma dai, solo un p o ’, e io gli vado vicino, mi tiro su il maglioncino da ci­ clista e gli faccio vedere il mio stomaco pieno da scoppiare gon­ fiandolo d ’aria e spingendo finché posso, attento a non farmi scoprire, mai e poi mai vorrei che lui s’accorgesse che spesso e volentieri gli mento, infatti quella sera non riesco a prender son­ no prima di aver vomitato quel po’ di polenta che mi aveva la­ sciato dentro altro che un buchino, caccio fuori tutto e la nonno­ na mi soccorre pulisce lava rincalza, e la stessa cosa fa quel gior­ no della cinquecento quando, anche se il mio borsino gastrico è completamente vuoto, riesco comunque a rigettare la bile e a protestare sulla porta di casa, e mentre loro se ne vanno a roda­ re la loro stabilità di coppia su quella scatola luccicante che cre­ dono un razzo proiettato verso l’Olimpo, io sto lì chinato e spin­ go sull’intestino e mi tocco le ossa del bacino che ci vuol poco, magro e rachitico come sono, e loro chissà cosa si stanno inve­ ce toccando mentre provo a bere un po’ di brodo e le coperte, il buio terribile e la punizione per un desiderio inammissibile che ha osato sfidare l’ordine delle cose mi avvolgono, quanti succhi rimasticati mi sono usciti dallo stomaco in quei mesi, e quante


informazioni vi sono invece entrate cercando un nido, mandate giù deglutendo forte come facevo per le pillole di calcio che do­ vevano rinforzare il mio scheletro da nascita precoce, oggi, de­ formato dalle letture, le chiamo informazioni, ma allora erano pianti frequenti e solitari e socievolezza zero e richieste incon­ fessabili e in effetti mai confessate perché ci pensavano le coli­ che continue e gli spasmi intestinali a rimettere in sesto il ciclo dei miei affetti, mia madre stanca e bella dimenticava i suoi so­ gni perduti e attaccandosi a quel piccolo segno del presente eh ’e­ ro io, si ricordava ogni tanto che un figlio ha diritto ai sorrisi, o alle stupide cantilene, e se un bacio significava distaccarsi trop­ po da un progetto di cronica amarezza, almeno a una carezza sui capelli, lei si accovacciava sul letto e avvicinava al mio il suo giovane viso e qualcosa inventava, soprattutto cercando di ri­ conciliarmi col cibo, visto che, pur non essendo ancora l’ipote­ si anoressica diffusa e temuta come oggi, i miei venti chili, im­ mutabili da un anno, cominciavano a preoccuparla, si acconten­ tava di credermi carente di vitamine e proteine e non la sfiora­ va l’idea che fosse il mio cervello a ordinare allo stomaco di star male, fatto sta che a un certo punto non ne può più di un figlio che vomita con la regolarità di una sveglia, così faccio la cono­ scenza di quest’omone col camice bianco e il faccione quadra­ to e cadente lungo le gote da bulldog, il dottor Armati, che mi guarda come una bestiolina dal veterinario, il cui pelo e le ossa rivelano un preoccupante dissesto dei visceri, lui fa svestire il gattino, lo solleva, se lo rigira tra le mani senza una parola, tan­ ti anni dovranno passare prima che il nodo si allenti, l ’animaletto ridacchia solleticato da quelle mani cliniche e forti che non chiedono permesso per conficcarsi sotto le costole, di fianco al­ l’ombelico e più giù ancora, dove tuttora ristagna la mia appen­ dice interna che quello avrebbe voluto castrarmi, ma ogni vol­


ta i dolori, guarda caso, svanivano o p iù spesso si spostavano dov'ero certo, chi sa come, che non ci f o s s e niente da portar v ia, lui mi sballotta senza riguardo e mia m a d re , incollanata e col r o s ­ setto come sempre in questi casi rosso sa n g u e , mi ripete di n o n ridere, che il dottore deve visitarmi, in so m m a, sei già grande n o n fare lo sciocco, dai che è tardi e c ’è g en te di là che aspetta, c o ­ me parlava bene l’italiano mia madre n e ll’ambulatorio del d o t­ tore, com’era grande e bella e altera lì s e d u ta di fianco al le tti­ no di tela cerata, lui mi prendeva in b raccio e mi piazzava su u n panchetto, stai fermino e respira forte q u a n d o te lo dico io, e u n gigantesco aggeggio luminoso mi sch iaccia contro la parete, e c ­ co dice adesso respira poi trattieni il fiato, e io ho il terror p a n i­ co di quell’affare che se mi spinge ancora un p o ’ addio so rrisi materni, sono eroico per lei e faccio tutto p e r benino, lei m i r i ­ veste e mi infila le mani tra i capelli e fu o ri mi dice, finalm en­ te me lo dice, sei stato proprio bravo, e lo ra c c o n ta a tavola q u an ­ do arriviamo a casa e tutti dicono poverino, piccolino, e cin ino in dialetto, e io ringrazio il cielo e dico tu tte le preghiere in fila come la nonnona vorrebbe facessi sem pre, ringraziando a m a ­ lincuore anche quello scimmione odioso d e l medico per averm i fatto male e spaventato a morte dandomi la possibilità di d im o ­ strare quel che so fare, per lei, se solo me n e desse l’occasione, e dal dottore comincio a finirci spesso fa c en d o spendere un p a ­ trimonio alla famiglia che lavora per farsi la casa nuova in p a e­ se, sono là regolare una volta al mese a fa rm i stritolare d all’o r­ co per poter fare venti chilometri in m acch in a con lei che m i spiega non richiesta tutti quei disegnini sul cru sco tto e che g u i­ da esperta e disinvolta, io vomito più spesso d i prima per m eri­ tarmi quello che lei altrimenti mi negherebbe, la sua bellezza con le labbra rosse, le collane che la fanno se m b rare una regina, quella gonna plissettata che le gira come una ru o ta sotto ai fian­


chi e che il padre vuole solo per sé e per le grandi occasioni in cui può mostrare al mondo il risultato delle sue fatiche e dove va a finire il frutto del suo stoicismo operaio, in quei giorni poco a poco il mio stomaco si placa, dall’alto gli arrivano segnali ras­ sicuranti e lui mastica, ma dopo qualche m ese la m ia ricchezza appena ricevuta e fragile fa naufragio nell ’aula di una classe sco­ lastica, madre malvagia tu non mi hai mai voluto, tutti falsi i tuoi belletti e le tue lusinghe, ora mi getti in pasto ai cani, mi tratti co­ me le altre madri ignobili che regalano i figli al mondo, li sca­ raventano nel porcile a ingrassare tutti dello stesso cibo disgu­ stoso, mi strappi dalle tue attenzioni per offrirmi a una madre pa­ gata dallo stato, a una zitella col naso lungo da poiana e i capel­ li corti da rinuncia casta, lei non ha le tue perle finte al collo, è arcigna e dolce uguale con tutti, perché mi sbatti in mezzo a quei ranocchi col fiocco blu e il grembiulino nero, non riuscirai più a distinguermi quando vorrai riprendermi con te, non capisci che mi perderai tra tanti, perché mi lasci appena ti ho trovata, non lo voglio quel bacio, vuoi farmi credere che così sarò un figlio più caro e tu una madre più felice, ma io non ci sto a questo patto dia­ bolico e i primi tre giorni di scuola, m ia cara, li passi vicino a me, unica madre presente inchiodata lì, cosa ti credevi che non avrei rigirato le budella pur di farti restare, pensavi che non avrei pian­ to come un disperato per potermi voltare ogni tanto indietro e ve­ derti là in fondo all’aula, anche tu ad ascoltare la maestra che ir*' para pian piano a sostituriti e a mettermi nel primo banco vk no a lei, dopo, quando tu non ci sei a ricordarm i che per te sonv comunque per sempre l’unico, il solo, inconfondibile, lo stoma­ co si contorce ancora per giorni e notti, elabora il disincanto e si ribella spesso, ma non è più così forte come un tempo, tu mi hai lasciato solo nel mondo con la mia cartella verdina intonata a­ gli occhi, piena di quadernetti da poco prezzo, e la madre puta­


tiva si fa avanti, riempie i quaderni d ella sua maestria, si guar­ da bene dal dirmi quando sbaglio e quando sto nel giusto, per­ ché lei in quei primi tre giorni mi ha visto soffrire e mai e poi mai vorrebbe procurarmi un dispiacere, così, alleato alla m ia debo­ lezza, divento forte, potente, il primo d ella classe e forse di quei­ rintera scuola di campagna dove il m io stom aco è m aestro di morale e imparo a far di conto e a trasform are le lacrime in scrit­ tura di scolaro attento a non scontentare chi l ’am a davvero spas­ sionatamente, e la signora dolce in effetti lo adora q u ell’allievo prediletto, sensibile e soprattutto rispettoso, beneducato, ordi­ nato, lei, debolissima di affetti, si finge m adre, e i suoi voti so­ no carezze e schiaffi, una pedagogia vera, e io m i im pegno a cat­ turarle il cuore imparando la lezione a m em oria, la ripago di b el­ la e ordinata calligrafia, la sazio di dom ande e silenzi attenti, fin­ ché un giorno Vincantesimo si spezza, lei si sente tradita da un mio errore di conto e mi scrive sul quadernetto a quadri un q u at­ tro rosso grande mezza pagina, lì sotto la vera m adre deve firm a­ re, e quel viaggio verso casa mi sembra la via crucis, tranne per il fatto che io cado molte volte più del Cristo nei miei p ensieri neri, e non c ’è nessuno intomo a farmi forza, arrivo a casa b ia n ­ co come un cencio, lei è seduta a tavola e m angia in pace con la sua coscienza, ma la mia, che è d ’am ianto, non tollera quello smacco, la fisso mentre ingerisce il cibo e m i fa schifo, ho i b ri­ vidi per il ribrezzo che mi fa la sua noncuranza, tremo com e u ­ na foglia finché lei finalmente s ’accorge che non sto bene, cos’hai, fammi sentire se hai la febbre, e appena mi è vicina e sta per mettermi la mano sulla fronte, io m i tiro indietro di scatto e in quel gesto d ’istinto c ’è un mondo che crolla, lei si avvicina di nuovo senza capire, le vomito sem plicemente addosso, sulla gonna, lungo le cosce a partire dal ventre, fortuna che non è q u e l­ la plissettata dei miei viaggi bolognesi, lei mi aiuta a cacciar fu o ­


r i la merenda m a è dura, silenziosa, e io so che fa così perché ha capito tutto, ora sa che non sono il bravo figliolo che sperava, mi accusa col distacco, con le sue cure d ’inferm iera prova a esse­ re m aterna senza riuscirci neppure m ettendocela tutta, neppure tradendo l ’am ata zitella m aestra che mi ha ripagato in m oneta sonante lei mi avrebbe accarezzato e baciato, entravo n ella sua stan­ z a mentre tutti erano fuori, aggiravo il lettone alto u n m etro su c u i l ’avevo sentita gem ere di im probabili, ripetuti, notturni mal d i pancia, non riuscivo proprio a spiegarm i come u n a persona potesse star così m ale di notte senza poi lam entarsi alm eno un p o ’ alla luce del sole m a sapevo che lo faceva per m e, non vo­ lev a che la vedessi soffrire, in m ia presenza si teneva tutto den­ tro ma di notte quasi piangevo per lei dolente vicina a mio pa­ d re che sicuro se la dorm iva, se ci fossi io vicino a te ti bacerei g li occhi e i capelli e le m ani, ti m etterei la testa in m ezzo ai se­ n i, ti darei le parole che cerchi, i silenzi che vuoi, e invece m i ag­ grappavo alla ziona co n cui dividevo il letto, cosa c ’è, tremi, ma n o , dormi che è tardi, m a v a ’, che la m am m a non ha niente, so­ lo un p o ’ di mal di pancia, non avrà digerito, ecco senti sta an­ dando in bagno, prende la borsa dell ’acqua calda, dorm i, su, che dom attina non ti svegli e arrivi tardi a scuola, e io dopo un p o ’ m i addormentavo triste, e il giorno dopo giravo attorno al letto delle sofferenze, lo guardavo, spianavo una piega delle coperte voltandom i poi verso l ’enorm e arm adio di castagno che cigola­ v a minaccioso solo sfiorandolo, lo aprivo come un pirata apre il forziere, e quanta ricchezza trovavo dentro quelle due ante tira­ t e a lucido, i suoi vestiti colorati scendevano come stelle filan­ ti e la visione d ’assiem e era quella di un bosco fitto di fiori e pro­ fu m i e pietre preziose da scoprire tra la terra e i ram i, io ne sce­


glievo uno, spesso quello nero coi fiori grandissim i azzurri e verdi che lei m etteva una volta l ’anno per la festa del paese, mi toglievo i calzoncini e il maglione, slacciavo la cerniera sul fian­ co trem ando di freddo, infilavo le m aniche, m entre il desiderio saliva caldo, richiudevo la lampo e le gam be non mi reggevano dalla paura, m i guardavo allo specchio e sentivo salire i brividi e il calore e la gioia di quella madre che ora avevo addosso, già allora capivo che c ’era qualcosa che non andava in quel vestito che mi scendeva fino ai piedi, quello scollo a ll’om belico, le m a­ ni nascoste a metà manica, non ero bello così m ascherato e an­ zi ero sicuramente punibile, per le leggi di D io e degli uomini, ma era così forte quell’onda di piacere, era così dolce quel pro­ fumo, era uno stratagemma così a portata di m ano, che qualsia­ si tribunale non mi avrebbe negato le attenuanti per una m adre con gli occhi opachi e per il forte bisogno di averla com unque con me così com ’era, piuttosto che lontana e luccicante con chis­ sà chi, nessun altro potrà incarnarti come m e nei tuoi abiti, nes­ suno si abbasserà a tanto amore, nessuno im pegnerà il proprio futuro per averti con sé qualche minuto al giorno, per guardar­ ti allo specchio nella stanza dei gemiti m isteriosi, m a sono io a­ desso che scappo via, ti lascio lì con la m ia p asta scotta riscal­ data, con le tue implorazioni e i tuoi bei vestiti di seta sintetica, se resterai sola in quella casa enorme e scura, che farai senza di me in quella gabbia tra marito suocera e cognata, sarai tu a cor­ rermi dietro per il mondo se vorrai restare in piedi sulla corda allora, nei momenti di buio, mi cercavi, eccom i in pochi m e­ si con venticinque centimetri nuovi di zecca, m agro e appunti­ to come uno spillo, esile e robusto insieme, com e un germ oglio di papiro, e le emozioni bloccate mi m odellavano i m uscoli e con loro le ossa il midollo e la forza, le em ozioni ristagnavano nel


derm a, nel diafram m a schiacciato contro l ’esofago, lei mi osser­ vava crescere di corsa, contorcerm i su m e stesso, trattenere il re ­ spiro e la parola, la b attag lia continuava e il m io corpo sacrifi­ cava al silenzio la sua g razia infantile, non accettava il mio m u ­ tism o im pietoso e siccom e la lingua non si m uove a com ando fi­ nii in u n a palestra crudele dove si strisciava com e serpenti e ci si aggrappava com e scim m ie ai muri, in quella jungla avrei d o ­ vuto tira r fuori gli artigli, far fluire gli um ori, raddrizzare le fru ­ strazioni dei m uscoli, sciogliere i nodi che m i schiacciavano le vertebre e gli affetti, lì m i attaccavano una fascia di tela attorno al collo e io tem evo di m orire così appeso, a quaranta gradi da terra, in quella gogna lenta, m i sentivo un m artire cristiano in un eterno supplizio, non sarei stato io a tradire la causa, ma lei in ­ sisteva a portarm i in q u ella stanza di tortura, continuava a finge­ re di interessarsi alla m ia scoliosi a esse italica, ai bustini co rret­ tivi, alle gabbiette per le scapole, sapevo che aspettava il m io ce­ dim ento, voleva i m iei sorrisi aperti di una volta, le coliche ra s­ sicuranti, le richieste piagnucolose con sguardi esclusivi, m a il mio orgoglio com inciava a cullare la propria fragile forza, difen ­ deva i suoi bastioni e scavava trincee e fossati e innalzava b a r­ riere di silenzio e tristezza, quella potenza assurda è ancora qui dietro, nella m ia colonna piegata a destra a ll’altezza dello sto ­ m aco, ch e s ’inchina al cuore insinuandosi verso l ’alto lei organizza serate coi colleghi, sorride e seduce, m ette le m aschere m igliori, ho tredici anni com piuti da poco e vedo ch ia­ ro quel suo gioco sporco, povero padre m io sem pre più grigio, di capelli, di spirito, lei è una traditrice, senza scam po insoddi­ sfatta ansiosa di conquiste, quella sera tra gli uom ini c ’è A n to ­ nia col suo viso perfetto e m isterioso, i capelli corti che non u ­ savano ancora, i pantaloni di panno fumo di Londra, il m aglio-


ne bianco d ’angora morbida, la pelle del viso tirata e lucida, la vedo allora per la prima volta, tutta la sera di fianco a m io padre rispettosa e fredda, mi fissa ogni tanto di sbieco senza girare la testa, sorride complice al mio im barazzo m uto di fronte a tanti adulti troppo allegri, Antonia parla poco, quando lo fa tutti a­ scoltano attenti la bellezza am bigua dei suoi v e n t’anni, gli uo­ mini oscillano tra lei e mia madre, le sbirciano, si caricano le ve­ ne, si scaricano parlando di donne con frasi sm ozzicate, nessu­ no mi dice che sono di troppo, però lo sento, allora lei si riv o l­ ge al padre maliziosa, gli hai già spiegato com e funzionano q u e­ ste cose? lui è come se mi vedesse per la prim a volta, m i fa di­ ventare viola, quando hai quindici anni ti racconto tutto, l ’A n ­ tonia mi guarda dritta stavolta e ride sguaiata e tutti gli altri d ie­ tro, e il mistero di quel “tutto” non mi fa dorm ire, diverse n o t­ ti io aspetto quel giorno e lui niente, qualche m ese p rim a dei quindici anni in compenso l’Antonia viene ad abitare per un p o ’ da noi, sempre più dura, misteriosa, e si fà carico di un lav o re t­ to delicato, una sera che loro sono fuori si infila nel m io letto, si è messa in testa di spiegarmi i segreti delle sue m ani e d ella m ia pelle, mi viene di fianco sempre più vicina, mi bacia la fro n te in silenzio, poi sotto le coperte mi viene sopra ed è fredda co m e il suo sguardo, mi preme il seno sul collo che quasi soffoco, e in ­ fatti il respiro non mi esce più quel quarto d ’ora, rabbrivid isco e blocco tutti i muscoli, artigliati alle lenzuola, lei scende a n c o ­ ra e io non so dove arriva o è come se non lo sapessi, sono in se n ­ sibile lì sotto, e non lo sento se ci arriva davvero oppure no, p oi risale, dio sta risalendo, ormai i brividi vanno di continuo su e giù per la stessa corrente, lei mi arriva alla bocca chiusa sig illa ­ ta, la forza con la sua lingua, dura me la conficca dentro, m ’in ­ chioda al suo respiro, anche l’Antonia alla fine trem ava q u ella notte pensata due anni prima, e tremava anche l ’ultim a v o lta ch e


m i entrò nel letto p er la lezione finale e mi chiam ò sudando col n o m e di mio padre padre mio, avrei voluto abbracciarti certe volte la sera quan­ d o tornavi dalle riunioni di partito e non ti scordavi di ferm arti al caffè per portarm i le caram elle alla mela, tu mi spingevi a far­ m i largo nel m ondo chiudendo gli occhi davanti ai sentim enti, m i dicevi vinci e io son sem pre tornato a casa in posizioni di rin ­ c a lz o , e Adele che ti p iaceva tanto, coi suo capelli fini, biondi a caschetto, ogni tanto m i fissava nei cortei del liceo, poi abbas­ s a v a gli occhi, verdi com e i tuoi, scoprivo la dolcezza con lei, stringendola piano, decidem m o insiem e di far l ’amore, era co­ sì im pacciata a slacciarsi, era quasi buio quando m e la sentii vi­ c in a e nuda accarezzarm i i capelli, dim m i chi ami, ti amo, mi v u o i davvero, ho voglia di te, è tutto un sussurro nella mia stan­ z a e io dovrei stringerla forte m a non riesco a sentire il mio pe­ so su di lei, non mi sento, lei m i prende le spalle, mi bacia il col­ lo dietro, leggera com e un bisbiglio, io non ti sento Adele, do­ v e sei, accendi la luce ho paura A dele, la guardo in faccia scar­ m ig liata, rossa e ansim ante, non è niente, adesso che ti ho visto sto bene, mi viene sopra, sem bra una pium a, mi sfiora, mi dim o­ s tra come può la sua g io ia di darsi, la tocco, la apro piano, ora do­ v re i prendere il suo d ono, dovrei ricam biare col mio orgoglio di g io v an e maschio, m a io neanche così ti sento Adele, sono sen­ za sesso, aiutami, lei è cara e inesperta, non sa cosa dire, non mi a sc o lta neppure, eccola che frem e poi, il palco del m io spettacolo quotidiano, così mi aggrego ai saltim banchi, seguo i guitti e gli istrioni, il mio è teatro di p iaz­ za n e i lunghi anni d e ll’im pegno, sono com parsa per le strade di q u e sta città affollata da attori d ’avanguardia, mi specializzo in


marginalità, la rincorro, la sfido a sfuggirmi via senza lasciarmi una parte dei suoi stracci, qualche motivo di rabbia condivisa, corro sotto i portici, gli slogan, ci arrivo appena nei cortei di m ar­ zo piango, lacrim ogeni alla deriva nell’aria di una cento sere ar­ rossate di barricate e fuochi, per vincere la confusione in quegli anni provo ad am are e a odiare, sfuggo l ’incubo della mediocri­ tà assaporando il gusto eroico del gregario, cedo all’ambizione moralista d ’essere il leader di me stesso, castigo il mio istinto, cerco l ’etica in un abbraccio, l ’ideologia in una passata d ’erba, cerco di unire le mie mani alla storia ed è una storia di carezze politiche e sentim enti collettivi, un’ondata dolce e forte di socia­ lismo affettivo, i miei amici ci nuotano in m ezzo, si sfiorano a stile libero, guadano i loro e i miei anni senza salvagente, ri­ schiano di restare privi di fiato nel bel mezzo della traversata, quel giorno tocca a me rischiare grosso, lo vedo in mezzo alla piazza delle grandi occasioni, io sto dall’altra parte della storia con la pretesa di farla, o, almeno, di essere presente all’ora ics, il corteo che mi trascina è pieno d ’anime che non hanno mai let­ to il Capitale ma che lo vogliono aggiornare al mondo nuovo, neppure lui l ’ha mai letto ma lo difende per un fatto d ’identità e d ’amicizie di paese, io che l’identità la cerco nella folla sottile degli innovatori provo i brividi della lucertola che cambia p el­ le nei bagni di sole, mi scaldo risalendo via Zamboni, sciolgo le resistenze alzando il pugno giù per via Rizzoli, la fronte mi si im ­ perla immergendomi in una piazza record d ’ostilità contenuta, la legge del presente sta tutta lì a difesa del camm ino percorso, delle sue conquiste, noi aspettiamo il momento, prepariamo il gran balzo nel futuro, sfiliamo come perle di un rosario di q u a­ resima, ci stringono tutt’attomo come un’espiazione, è un gran giorno quel sedici marzo per la città che sta diventando mia, o ­ ra la odio un po’ e sono dunque dei suoi, penetro nella piazza in ­


cestuoso, con l ’eccitazione della lotta frenata, m i stringo ai miei, li vedo indifesi, idealisti, così li voglio, e anche così uniti in quel cunicolo di folla che ci m ette in fila, c ’infila nella sua piazza, ci vuole nella sua storia, strisciam o in avanti com e un gran serpen­ te, ci arrampichiamo sulle corde vocali, cantiam o onorevoli ri­ chieste d ’armistizio, sto aggrappandom i a questa m elodia quan­ do lo vedo con quel suo sguardo duro e insiem e sorpreso, mio pa­ dre è lì, a servizio dell’ordine e la confusione per quel figlio i­ natteso lo fa im pallidire, si guarda attorno, è braccato tra gli sguardi accusatori dei suoi, non sa com e parare la vergogna, ar­ rossisce perfino quando gli sorrido cercando di dare una piega accettabile al viso, poi fa un passo indietro, si difende due file di popolo più dietro, esce dalla trincea, e da quel m om ento ho ini­ ziato a cercarlo, ecco ora ho un padre che so debole e bisogno­ so di protezione, l ’ho visto sgattaiolare fuori dalla sua corazza di pater, in quel periodo avrei voluto volare alto sul m ondo e ab­ bracciarlo tutto, poi planare leggero e con l ’aria pura delle alte quote rianimare gli entusiasm i dei com pagni di viaggio più stan­ chi, quella sera lui mi aspettò fino a tardi, per diverse ore, nuo­ va tuta mimetica, altro fronte, e m i fece scendere d all’altezza a cui viaggiavo, mi urlò la sua stanchezza, la sua paura, mi sputò addosso il disprezzo come fosse una richiesta d ’aiuto, mi colpi­ va sotto la cinta sperando di non far troppo m ale, m a la botta ar­ rivò piena come la nuova im m agine di un padre rosso di rabbia e la pressione alta, se dieci anni prim a avessi anche solo intui­ to quanto mi sarebbe costato far balenare tra gli altri pensieri l ’i­ dea della sua uscita di scena, per un istante una sera, nella lun­ ga attesa del suo ritorno di guerriero fresco d ’ufficio, lo pensai schiantato nella nebbia, m ’im maginai solo e un p o ’ più forte, se quella sera avessi im m aginato che bastava un abbozzo d ’idea per instradare gli anni, l ’avrei certam ente riem pito di baci


*** a scuola iniziai a odiare lo studio del c o rp o um ano e da quel momento non ho mai smesso di accrescere il mio rifiuto p e r il sangue e tutti i rami del corpo, in questo il p a d re ebbe certo il suo merito, si era messo in testa che dovevo f a r e il dottore per g u a ­ dagnare bene e forse anche curarlo, tasta rg li il polso, regolargli le frequenze, poi scoprì che gli avvocati in tascan o il doppio e si sporcano le mani meno della metà, e che i notai sfiorano a d d i­ rittura le vette della nobiltà in questo m o n d o tu tt’al più c o llin a ­ re, lui non diceva farai questo o quest’a ltro , buttava lì la sua grande disponibilità a farmi salire lungo l a scala della sua e s i­ stenza, avrebbe dato tutto per sapermi c o lto ricco e felice co m e lui non era mai stato, forse già da questo s ’intravvedeva un c ir­ cuito di malattie lente e feroci, non potevo c e rto essere com e lui ma neanche essere proprio diverso, lui mi d a v a lo specchio e d i­ ceva: le vedi queste rughe, tu le puoi a lz a re , forse puoi fa rle scomparire, ma soltanto se non le avrai, s o lo se i tuoi capelli r e ­ steranno neri e i tuoi occhi vivaci, io sono sc e s o e solo tu mi p u o i rialzare, così per un po’ gareggiammo per le i che restava in p e ­ nombra, silenziosa come una tempesta che si prepara la stra d a tra i venti, quando avremmo dovuto sm ettere lui si m ise in te s ta che perché fosse ancora all’altezza dell’a rd u o com pito io d o v e ­ vo essere più stimato e colto di lui, ma da m e non avrebbe a v u ­ to questa soddisfazione da alleato di sangue, geni e occhi v e rd e foglia. voleva dirle che suo figlio era fuori d a lla sua portata, v o ­ leva condurmi in alto il prima possibile p e rc h é lei m i se m b ras­ se poca cosa, una donna che non mi m eritava, che non mi a v re b ­ be avuto, lei doveva restare un suo possedim ento esclusivo e io dovevo aiutarlo, solo questo chiedeva in cam b io della m ia f e li­ cità


adesso lui è di là che gioca a carte con gli am ici, le rughe vo­ lano basse come le sue attese paterne, guarda le figlie degli al­ tri con rimpianto, se fossi nato fem m ina avrebbe potuto prova­ re il gioco inverso, la conquista diretta d e ll’am ore, strappare al­ la madre rivale ogni figlia amante di ogni padre, lei porta in ta­ vola i pasticcini fatti in casa come una m oglie qualunque, ha ri­ nunciato ai sogni cancellando tutto, e certo arriverà fra poco col suo buon latte e m iele e aspirina credendosi m adre di un figlio influenzato. Ecco che bussa piano. Entra in punta di piedi. Pro­ vo un soffio assonnato. A ppoggia delicatam ente la tazza. Sem­ bra abbia addosso una stanchezza infinita. E ntra nella luce del­ la sala. Sono troppo inclinato per guardarla attraversare il per­ corso nella penom bra



Mamma

e p a p Ă m i v o g l io n o b e n e

di Victor Martinez Flores



M a m m a e papà mi vogliono bene e stanno sempre a dire q u an to t i vogliam o bene Damòn e questo m i piace perché Dam òn s o n o io e io soltanto e un giorno forse non sarò più p icco ­ lo e s a rò com e papà m a per ora sto bene perché posso giocare a p ic c h ia re i pupazzi e dare calci alla palla con gli amichetti del­ la p ia z z a che mi dicono che sono un buon giocatore m a mi fan­ n o s e m p r e stare in porta anche se a me piace di più tirare d a at­ ta c c a n te . U n g io r n o sentii papà che diceva sta zitta lui è entrato e ci può se n tire e m am m a diceva sì lo so ma capisce appena sa parlare ap­ p en a e p a p à disse figliolo vai a fare un giro o a giocare con gli a m ic h e tti e io dissi che ero stanco e lui allora scosse la testa m en­ tre d ic e v a povero figlio m io e mam m a disse oh accidenti non p o sso s e n tire questi balbettam enti che mi fanno ammattire e pa­ p à d is s e su cara cerca di stare calm a perché da qualche giorno n on ti s i regge più e m am m a disse ma se sono quindici anni che non m i s i può più reggere e tu non te ne accorgi o fai finta m a io te l ’h o g i à detto che non vado oltre questa settim ana e la decisio­ n e la d e v i prendere tu perché io ho già detto tutto quel che do­ v evo.


* * *

Andai dalla m am m a e la m ia m am m a m i sussurrò m i dispia­ ce Damòn e si chinò per darm i un bacio e ap poggiò la sua bel­ la guancia sulla mia guancia e m i disse teso ro ti voglio davve­ ro tanto bene e io sorrisi e lei si fece da p arte e d isse santo-cieloche-schifo e io tirai su il m occiolo e m i strofinai le bave per tu t­ to il viso per non sporcare il vestito buono della d o m enica che mi faceva così bello ma lei fece una faccia stran issim a lo stes­ so. Papà mi si avvicinò e mi pulì col suo fazzo letto e io sposta­ vo la testa perché mi dava fastidio m a p ap à m i d isse che d ove­ vo essere pulito e anche vieni che ti m etto u n p o ’ d i p rofum o io mi misi a ridere tanto tanto forte perché m i b ag n a v a e allungai le mani dritte in avanti così mi avrebbe dato la c o lo n ia sulle m a­ ni come fa lui quando si rade. Mamma disse senti ti ho chiesto cosa do v rem m o fare e che ne pensi e papà disse che vuoi che facciam o eh d im m e lo tu c o sa fa c ­ ciamo e mamma disse senti non strillare e p ap à d isse n o n sto strillando e tutte e due gridavano così a n c h ’io m i m isi a strilla ­ re e mamma disse fallo tacere fallo tacere che non lo so p p o rto non lo reggo e si mise a piangere e papà disse no n a v rei m ai p e n ­ salo che non avresti avuto un p o ’ di pietà p e r il p o v ero D a m ò n e allora papà mi guardò e disse allora figliolo co sa v o g lia m o fa ­ re c io sorrisi e mamma disse a bassissim a voce sono stu fa di ra c ­ cogliere il suo sudiciume in giro per casa av rem m o d o v u to d a ­ re ascolto al dottore e rinchiuderlo fin d a ll’in izio ad esso c o sa si può più fare e poi dovremo dare delle spiegazioni alla g e n te e p a pè dm c ma non ti rendi conto che è nostro fig lio e m a m m a d is ­ teste diventando vecchia qua dentro e poi dim m i da q u a n to te m ­ pi» non vedo più mia sorella e da quanto tem po non a n d ia m o in


vacanza e papà disse m ica ti m anca il m angiare o il vestire e lei disse ci m ancherebbe che tu mi rinfacciassi le cose e poi per te la dom enica è sem plice te ne vai alla partita! M am m a incom inciò a mangiarsi le unghie e papà a girare e a sbuffare come un cavallo sono stato una volta su un cavallo che soffiava e anche quel giorno che mi portarono al circo dei pa­ gliacci e io dissi papà cavalluccio e papà m i prese in braccio e m i fece salire sulle sue spalle e io ridevo e battevo le mani e m am m a che era seria disse ti prego Pedro non è il caso di scher­ zare ora. Io chiedevo ancora cavalluccio papà m a papà si fece serio e m ise le braccia attorno alle spalle della m am m a e le disse teso­ ro stai tranquilla lo sai che è come un angioletto e forse in una di queste corse gli si blocca il cuore e così Dam òn riposerà per sem pre e anche noi e mam ma disse sì certo lo so che tu accomo­ di tutto in attesa che succeda il miracolo e lui muoia e papà dis­ se va bene questa mi sembra la solita lite domenicale e mamma disse Pedro tu non m i vuoi più bene. Papà chiuse i pugni tanto forte che gli diventarono bianchi e alzò una m ano m inaccioso come quando mi vuole picchiare e fe­ ce così con la m am m a come per schiaffeggiarla e il rumore fu proprio quello dello schiaffo e mamma cadde sul pavimento e si m ise a piangere. P apà abbracciò la m am ma e disse perdonami non so più co­ sa faccio anch’io sto perdendo la testa credi che a me non fac­ cia m ale m a D am òn è figlio nostro è nostra la responsabilità e non possiam o farci niente lo capisci questo?


Mamma disse oh sì certo Damòn è una responsabilità tutta la tua vita è stata una responsabilità ed è per responsabilità che ti sei sposato con me ed è per responsabilità che abbiamo avuto Damòn e allora dimmi se anche il piccolo non è una responsa­ bilità adesso. Adesso cosa c ’entra l’altro disse il mio papà e diede un pu­ gno sul muro e mio fratello che si era addorm entato nella culla si svegliò e cominciò a piangere e papà buttò a terra la sigaret­ ta e io andai subito a spegnerla col piede e poi mi avvicinai af­ finché mi desse un premio come fa quando mi comporto bene o mangio tutto ma lui non fece nulla. Papà disse cosa vuoi che faccia m aledizione so già cosa do­ vrei fare e vedrai come ci pentiremo per il resto dei nostri gior­ ni vedrai. Papà mi prese per mano e andamm o fino alla porta e m am ­ ma ci venne appresso col piccolino in braccio e diceva guarda bene cosa fai e sta attento ché ci m ettiam o in un pasticcio dim ­ mi dove vai e chiamò Damòn Damòn due volte e papà girando­ si disse stai zitta adesso. Andammo alla macchina e io chiesi a papà se la mamma sa­ rebbe venuta con noi e lui mi disse di no e chiesi a papà se sareb­ be venuto il fratello piccolo ché a me piace spingere la carroz­ zella e dargli il ciuccetto e mi disse di no e allora chiesi a papà dove andavamo e lui mi rispose in cam pagna e io fui molto con ­ tento e battevo le mani perché quando sono contento batto sem ­ pre le mani perché a me piace molto la cam pagna dove posso correre e abbracciare gli alberi.


*** In m acchina mi m is i a sedere davanti e mi immaginavo di es­ sere un gran corridore d i automobili e salutavo la gente con la m ano e papà mi disse s t a ’ attento non tirar fuori le mani ma io continuavo ad acch iap p are il vento e a salutare da tutte le parti. In campagna papà m i comprò un gran pallone blu a me piac­ ciono molto i palloni e papà me li compra anche se poi non me li fa gonfiare se no p o s s o soffocare non capisco ma non posso farlo papà mi com prò an ch e del cotone che si può mangiare e mi fece salire su una g io s tra con i vagoni e io chiesi un altro giro e papà m i fece salire a n c o ra e diceva ma che bambino coraggio­ so che non soffre il m a l di mare e io chiesi ancora un giro e co­ sì salim m o di nuovo e poi u n ’altra volta ancora. Poi comprò dei p a n in i in un chiosco e persino lattine di co­ c a cola e andammo p iù lontano nel bosco per mangiare io non a­ vevo molta fame m a m a n g ia i tutto tranne il pane perché mi stan­ co di mangiare pane. G iocam m o a rin co rrerci poi papà mi disse sai ballare il char­ leston m a no che non l o sai ballare e così si mise a ballare e a can­ tare m am m a mia d a m m i cento lire e io mi divertivo tanto e mi m isi a ridere e saltai s a lta i finché caddi e allora papà fece gli oc­ chi grandi e quando s ta v o per mettermi a piangere lui disse pumba! ed era così buffo c h e mi misi a ridere e anch’io dicevo pumba! pumba! Q uando com inciò a farsi scuro mi mise il giacchino verde e d o po il pallone blu m i scoppiò ma papà mi disse che ne avreb­ b e com perato un a ltr o ci mettemmo poi seduti sopra un tronco


e papà cominciò a fum are e io invece a fare la guerra alle formi­ che rosse che uscivano dal tronco e che avevano una testa mol­ to grossa e io le schiacciavo con le dita. Papà si alzò e mi disse resta qui com e un bravo ragazzino e non muoverti tom o subito ma io gli andai dietro e lui no figlio­ lo damm i retta e non mi fare arrabbiare devi restare qui seduto perché io ho delle cose da fare e ubbidisci a papà m a io gli an­ dai dietro fino alla m acchina e allora m i disse D am òn come sa­ rebbe bello se tu m i capissi è m olto triste p er m e per piacere ri­ mani dove ti ho detto io ti voglio bene m a voglio ancora più be­ ne a tua mam ma sai qualcuno ti troverà e ti v o rrà molto più be­ ne di me io non posso capisci e vedrai che ti tratteranno bene e ti porteranno con gli amichetti uguali a te e allora sì che potrai spassartela ragazzo mio. Allora iniziò a piangere e si chinò su di m e e m i abbracciò co­ sì forte che mi fece male m a io neanche mi m ossi e pensai di ac­ carezzargli la testa come lui qualche volta faceva con me ma non potei farlo perché certe volte non posso fare quello che vorrei e papà mi disse oh Damòn Damòn ti voglio bene perdonam i Dam ón voglio che tu sappia quanto ti voglio bene eccetera. Si allontanò a grandi passi ed entrò nella m acchina e allora io rimasi tutto mogio e fermo come papà m i aveva detto io che so­ lo un bambino buono gli ubbidii. Papà mise in moto e io lo vidi andar via. Poi trascorse un tempo lungo e io m i m isi in piedi perché a­ vevo paura e sentivo come delle voci e dissi papà ho paura pa­


pà ho tanta paura m a papà non mi ascoltava m a papà non ven­ ne e io ero solo e dissi ancora papà dove sei papà. Poi restai a sedere m olto molto silenzioso sul tronco per un tem po indicibilm ente lungo mentre cercavo di penetrare l ’oscu­ rità della notte m uovendo le palpebre a grande velocità.



L ’ACQUA di Isabel Santos



Ci sono dei peperoni rossi sulla tavola, e acini ancora verdi di piri-piri e una piccola zucca. C ’è luce. Q uesto tè h a un sapo­ re aspro; è una bevanda piuttosto forte, con uno strano vecchio sapore. Sulla tavola c ’è anche della m ollica inform e e del pane duro a pezzi. Io credo che il tè sia una b evanda p ericolosa per le anime solitarie. Q u an d ’ero ragazzina se ne b ev ev a m olto, in ca­ sa. Forte e dolce. Il tè ci rim etteva in sesto, ci riuniva veram en­ te. Poi, m i ricordo che fuori pioveva. Oh, sì, piove spesso nelle mie rim em branze. Oggi il mare sem bra una specie di anim ale in gabbia. Le o n ­ de s ’infrangono di continuo contro la b arriera degli scogli. E r così anche molti anni fa, m olto prim a che questa casa fosse co ­ struita tra le dune, credo. Forse, addirittura m olto prim a. Q uand’ero ragazzina, bevevo m olto tè n ella piccola tazza an ­ tica, e il vaso del tè era sistem ato su m obili scuri di legno odo­ roso; sognavo che un giorno sarei stata am ata proprio in una ca­ sa costruita sulle dune. U na casa piccola. D al di fuori, di un co-


lore blu, scolorito d alla salsedine, - e bianco. Sognavo, allora, che al tram onto il m io am ore avrebbe fatto del mio corpo un ter­ reno accogliente, una valle, un corso d ’acqua, un sentiero. Un luogo fertile. E com e in un teatrino cinese, da fuori si sarebbe­ ro p otute vedere solo le nostre sagom e. A nche se fuori non c ’era nessuno. N on uno sguardo, né niente. Il m are sarebbe stato color della cenere e insopportabilm en­ te m inaccioso. Il turbine avrebbe fatto danzare la sabbia fino all’ottundim ento e quello stesso vento sarebbe entrato dalle fessu­ re sibilando. C om e ricordo quei giorni, che allora mi sem bravano così in ­ term inabili. Q uei pensieri che per ore mi im prigionavano a o c­ chi aperti, fissi su un albero o su un piccolo corteo di form iche, senza riuscire a vedere. Sono invecchiata, adesso. Mi sono p ie ­ gata al tem po e forse raggiungerò la pace. T utte le sere scrivo l'u ltim a pagina di questo diario. Tutte le sere guardo il mare p er l’ultim a volta e gli uccelli e i cani sul terrazzo che tremano di freddo, q u est’inverno. Q uand’ero ancora ragazza, mi innamorai di un uomo che am a­ va i libri in un modo incredibile. Certe volte, le parole dei p o e­ mi era com e riuscisse a berle; pure, lui non era felice. Gli uo m i­ ni così non sono mai felici, temo. E in quel periodo, mi sentivo stanca a causa del ritmo frenetico dei giorni. Insiem e decidem ­ mo di prendere per noi una casa bianca: a ll’im provviso, com e può accadere in certi sogni dell’infanzia. Ci am avam o m olto, e nei giorni tristi andavam o spesso a passeggiare nella pineta, quando non avevamo niente da dirci o non sapevam o com e parlarci o quando lui doveva fermarsi per un p o ’ su qualche passo difficile di un libro.


* * * C ’era come una specie di barriera allora, che io conoscevo sin dai miei primi giorni. Mi sforzavo di pensare che non esistesse, ma lei continuava a vivere tra i libri; loro, erano per lui come la casa. Non aveva bisogno d ’altro. E così, un giorno la trovam m o insieme, quella barriera, m en­ tre seguivamo delle strane lucertole pazze. A vevam o cam m ina­ to a lungo, non sapevam o più neanche noi quanto. Il rum ore del m are era chiuso in una sorta di trem enda assenza di suoni, al pun­ to che era possibile ascoltarlo soltanto da m olto vicino, com e giungesse dal ventre della terra. M entre cercavam o di affrettre i nostri passi, aH’im provviso la boscaglia si aprì e lasciò appa­ rire un’inaudita distesa di acque burrascose e serpeggianti co­ perte di fiori; le dune si estendevano fin dove l ’orizzonte sem ­ brava morire in una specie di infinito abisso. Sono ormai m ol­ tissimi anni, che gli uom ini hanno dim enticato questo mare par­ ticolare. In lontananza, si scorgeva una casa posta sulle dune, una ca­ sa che stava m arcendo. Non c ’era nessuno là dentro, e faceva un caldo insopportabile quel giorno; solo a tratti, soffiava un p o ’ di vento fresco proveniente da Nord. Ricordo che il sole ardeva di una luce incredibilm ente intensa. Forse, noi due, ci siamo amati davvero. Beh, non sapevo leg­ gere il futuro nel fondo delle tazzine da tè, proprio come non lo so leggere ora, ma quella mattina capii che sulla m ia vita incom ­ beva uno strano destino e una singolare questione col tempo: quella casa sarebbe stata mia. Tra le sue pareti avrei amato quel­ l ’uomo e lo avrei perduto.


Piove. Oggi la tem pesta gonfia di nuovo le acque come sem­ pre, da m ille anni a questa parte, e infradicia chi arriva. Mi ricor­ do che in giornate com e queste, con il mio innam orato sedeva­ mo dentro casa accanto al fuoco; sono riuscita a realizzare que­ sto sogno. Ci im m ergevam o n ella m alinconia in preda a una spe­ cie di strana felicità. Lui raccontava quel che leggeva nei libri, in particolare di quanto lo prendessero quelle letture; mentre parlava, si capiva che era una persona d all’anim o pericoloso. Io sorridevo, m a senza credere alle sue parole. Il m io innamorato era un uomo triste e solitario e non credeva al legam e che ci u­ niva. Lui mi am ava e m i voleva bene, senza esserne forse co­ sciente. Forse, certe cose non s ’im parano sui libri, o forse, lui a­ veva letto i libri sbagliati. Oggi piove. M algrado la pioggia, guardando il m are si capi­ sce che è estate, si sentono i grilli qua attorno, e il caldo è molto intenso. Il mare oggi è com e sospeso a un filo; è com e se fosse la vi­ gilia di un giorno trem endo. C o m ’è possibile riuscire a com­ prendere le acque? I capricci degli uomini non mi sorprendono mai veram ente, e da m olti anni; m a quelli della natura invece mi sconvolgono sul serio. E il m are, è qualcosa di pericoloso; è co­ me un uomo seducente e infido: lui, non sarà m ai un buon ami­ co. Il mare non pensa a m e com e io penso lui. N on si fa scrupo­ li, quanto a questo, e neanche si accorge di com e cam bino le mie condizioni. Oggi piove. Anche la pioggia è fatta di acque pericolose. Mi sto godendo l ’intim ità del m io tè, insiem e a del buon pa­ ne caldo. 11 cane sta fiutando la terra umida; lui ha un odore dol-


cissim o; mi piace sentire questo suo odore sano. M i p iace affon­ dare le dita nelle piccole onde d el suo pelo m orb id o . N on è p e­ ricoloso: è una creatura triste, piuttosto. N o n so rrid e m ai. Così, il m io cane soffre m olto p er ciò che non co n o sce e che, tuttavia, può presentire. N on ricordo di avere m ai avuto altri cani, che fossero soli così crudelm ente.

Un altro giorno ancora Stam attina ho ripercorso di nuovo tutte le stanze d ella casa. O gni mattina mi preparo a lasciarla. Mi sento un gran nodo al­ la gola, m a non piango. N on m i piacerebbe se la casa m i ved es­ se piangere a causa d e ll’im m inente partenza. C om unque, non piangerei perché m e ne vado, m a perché resta la casa. Sem pre così, sulle dune com e quel giorno. E in quei giorni, “V ado a scrivere ancora sulle case ,” m i dis­ se quel mio innam orato. Io non risposi. M i p iace v a che scrives­ se delle case. Lui scriveva di case solide, fatte di granito; di ca­ se di ferro e fuoco. M a scriveva anche di pu g n ali e ferite. S cri­ v ev a sulle persone. Le persone, non erano affatto com e lui le de­ scriveva. M a non fu per questo che decise di andarsene. Lui partì p er­ ché non c ’erano altri che l ’am assero com e l ’am avo io, e anche p erché, a sua volta, egli m i am ava m a non sap ev a cosa fam e di q u e ll’amore. Lui era un perso n a serena. D isperata. Q uesta casa gli piaceva, era stata sem pre m olto im portante p er lui; lui s c r v eva in terrazza. Il sole gli batteva sulla cam icia e sul viso, lui non chiudeva gli occhi alla luce; si sofferm ava a guardar volo dei gabbiani. Scriveva spesso nella terrazza; e di notte, in­ v ece, in questa stanza. M a lui n o n sopportava q uesto grande si­


lenzio, questa grande serenità. Diceva, allora diceva, che non a­ m ava questa casa. Lui, - che non aveva costanza né sussiego, era un uom o della civiltà. Io ero com e sono oggi, perché in questo il tem po mi è stato alleato: terra, radici e pietra. Ecco perché lui aveva bisogno di partire. Chissà cosa gli sarà capitato, dopo; non credo fosse qualco­ sa di im portante per m e. L ’ho dim enticato, quel m io amore, co­ me le rocce dim enticano quel che il mare porta loro via. L ’ho di­ menticato, e cento volte ancora avrei d im enticato gli altri che ci fossero stati. Scrivo sem pre a m atita, su fogli finissimi. Scrivo così, in mo­ do che non rim anga di m e alcuna memoria. Prime a cadere in rovina saranno le tegole. Nel frattempo, questa è la mia piccola casa. Può contenere tante conchiglie e gusci, tutte cose marine che il mare perde o dim entica. E anche i frutti degli alberi che sono sulla terra. Frutti verm igli o verdi. Frutti dai toni castani di fine autunno. Frutti com e le noci, le castagne o le m andorle. E sul­ la tavola, il tè con il pane.


Sequenze

di Uberto Stabile R odriguez Verge


1. L'inverno dei gabbiani C hi sei? Sono le dodici e trenta della notte, e soffia un ven ­ to caldo di ponente. O scure c ittà del sogno si sovrappongono n e llo spazio della m ia piccola cam era. Ti sto cercan d o tra foto­ g ra fie e vecchi ricordi di m etallo e latta. Scopriti. Io non cam bio a ffatto . Sono venuto a cercarti perché sei solo. Il procedim ento p iù efficace contro la nostalgia consiste in u n a dose equilibrata d i shock emotivi che si ottengono spezzando le d ifese del pudo­ re . R ico rd o i flipper in continuazione. La m oneta cade lentam en­ te attraverso la fessura d ’acciaio fino a che la scossa elettrica non m i raggiunge allo stom aco. D ita sui pulsanti. L a sfera d ’allum i­ n io in izia la sua passeggiata elettrom agnetica in m ezzo m etro q u a d rato di luci e cam panelli sonorizzati. L a ra zza dei bigliard in i è in generale più m eschina del peggio che la città riesca a na­ sc o n d ere nei suoi bassifondi. Stanze di m acchine e anni di bre­ v i p erco rsi rom antici alla ricerca di cose forti. I cessi della sta­ z io n e N ord mentre le linee ferrate m i conducono via da te. 1 scriv erò . Ti amerò tutta la vita. M i si spezza il cuore. Beh, è tut­ ta u n a delusione disgustosa, alla fine. I tem pi stanno cam bian­ d o . R icordo il bam bino con gli occhi fuori d alle orbite che u sci­


va dai Biliardi Colòn. Se ne andò a casa senza salutare. Rimase assente dal collegio per una settimana. Quando tornò non volle parlare con nessuno. Poco dopo smise definitivamente di fre­ quentare le lezioni. L ’ho rivisto qualche giorno fa. Ha un chio­ sco, adesso. Vende tabacchi e giornali. Diventa difficile per me, questo viaggio. Ancora, quando la guardo, lei pensa che possia­ mo provarci un’altra volta. Beh, ci sono fantasmi e solo fanta­ smi nella mia casa vuota. Pomeriggi trascorsi di fronte al mare nel sedile posteriore di un’automobile bianca, la radio che par­ la del colpo di stato in Cile e la malvarosa contro il tramonto. Un piccolo mare di luci per te, che mi guardavi dritto negli occhi. So che esisti perché il vento caldo ti invoca e nella mia stanza non c’è più tempo per contemplare quest’orribile fuori. Che ne ave­ te fatto delle pistole di plastica, degli eroi istituzionali, di tanti sacrifici per i bambini negri della Guinea? Ho bevuto il mio pri­ mo bicchiere di vino proibito in una taverna nella parte vecchia della città, circondato da militari in servizio e studenti sudame­ ricani. Sul serio, non voglio capire assolutamente niente. Presto passeranno gli anni e chissà se la luna sarà un posto meno sgra­ devole. Capisci? Lo capisci, mentre mi guardi con quegli occhi sul punto di piangere? Niente. Niente. Mi rinchiudo nella mia stanza perché non sono un comunista, mi rifiuto di distribuire i libelli che mi fanno avere e mi sottraggo alle consegne. N on cre­ do agli eroi. Quando tornerai a mettere la tua mano tra le mie gambe? Lo capisci questo, amore? Leggo Rimbaud e ascolto cento volte i dischi che mi sono comprato con i risparmi di Natale e ve­ do Jim Morrison e i Doors sparire dalla mia memoria, più auten­ tici di qualsiasi proiezione di film da cineteca, con intellettuali barbuti dagli occhiali rotondi, critici semiotici il cui solo deside­ rio è portarsi a letto qualche studentessa ingenua di provincia,


affascinandola con le infinite interpretazioni critiche del cinema russo o di quello tedesco, perché loro sono conoscitori di tutti i cinema di tutte le nazionalità. Questa è la grande differenza. Noi ci suicidiamo in letti di tenebra senza chiederci il nome. Ognu­ no solo. Timorosi della realtà. Dopo, potremmo fare le nostre peregrinazioni nello scenario; potrei muovermi come un ramar­ ro per le vie della mia città. D ’accordo. Come un ramarro verde, per le vie della mia città. Quelli, certo, non erano sogni. Avresti potuto gettarli tutti dalla finestra. Amico, non ho avuto l’opportunità di conoscerti, perciò non credo di doverti qualcosa. Cerca nel tuo passato, per­ ché il presente non fornisce più risposte. Capisci? Ho trascorso tutto il pomeriggio accanto alla recinzione del giardino zoologi­ co. Ruggiti dei leoni in calore da far venire i brividi. Voglio cor­ rere a tutta velocità sull’asfalto nero della notte. Cerco mio fra­ tello negro tra le visioni di una lunga malattia. Oh mio Dio ! Mio Dio! Sono fradicio. Cos’è questo? Un angelo negro. Giacca di cuoio, James Dean, la tua macchina notturna si sfracella nella mia città. Che immensità elettrica sprigiona il mio stomaco. Il lungo inverno è finito. Ascolto il canto dei gabbiani, con la vi­ ta che si accumula nel loro stomaco piumato di carne nausean­ te. Simboli nostalgici. Ricorda le volte in cui aprivo gli occhi sporgendo la testa dal finestrino della macchina per quelle vie sconnesse e gesticolavo di rabbia a veder nascere il sole aggro­ vigliato alla tua vita nuda, adattandosi alle tue cosce mentre chiedevi al tempo di risvegliarci insieme... C ’è così poco dena­ ro in questo miserabile buco dell’adolescenza... E se fuggissi­ mo?... Almeno l’amore fisico non ha bisogno di grandi lussi, e in seguito, comunque, è trasformato in sogno. ***


L’essenza del sogno marcisce con la cattiva sorte. Apparta­ menti da affittare, telefono, ore dei pasti, senza luce né acqua, quartiere popolare, vicini vecchi e curiosi che ci spogliano con gli occhi mentre saliamo le scale ammuffite e loro discutono ad alta voce. E speculano sulle orge che facciamo nella nostra pic­ cola casa. Cronache televisive. La gran troia. Sempre lo stesso. A te t’ammazzo un giorno, lurida puttana. Non si può perdere la testa per una donna. Il nonno accende di nuovo per la ventesima volta la sua sudicia cicca. Continua a sorridere come un idiota. In questa casa sembra non ci siano limiti! Là di sicuro si droga­ no! Io qui non ci tomo! Ne ho fin sopra i capelli di quella vec­ chia! Sono stufa! Uno di questi giorni chiamo lo 091 e che se li portino via tutti! Sottile vergogna. Oh, amore, lascia che ti spie­ ghi. Ho un collega a Barcellona che ha un appartamento, e un suo amico mi ha promesso un posto da portalettere e se ci organiz­ ziamo per benino... Oh, ma non hai forse voglia di andartene da questa città? Io sarò la vostra guida. Io sarò il vostro guru. Ogni uomo ha bisogno di una stella. Una stella che gli porti fortuna. Adesso che lei non c ’è, i mobili e ogni oggetto e ogni silenzio sembrano incredibilmente tristi... Cristo! Lei se n ’è andata, non vuole più vedermi! Cristo! Vada all'inferno signora! AlFinferno! Lei non vive più qui! Lei se n ’è andata, non vuole più veder­ mi! Che le succede? È in calore? Mi lasci in pace in questa spor­ ca topaia! C’è una donna che entra nella mia stanza. Dietro i vetri si ve­ dono le navi alle banchine e una piccola pattuglia di gabbiani. Non piove, oggi, per il terzo giorno consecutivo dopo un mese di piogge devastatrici. Appartamento affittato a poco di fronte al porto. Passano dei marinai e mercanteggiano coi marocchini e ci sono bambini che giocano con le biglie e lo zingaro nano che


trascina un carro carico di cartoni per i quali, molto probabil­ mente, non gli daranno neanche la metà del prezzo, perché è un tipo strano ed è un po’ tocco. Ma la mattinata è convincente. Un cielo sereno e azzurro si estende oltre le darsene e le gru, oltre gli argini di sostegno, e il faro e le piccole navi da pesca che ma­ cellano e salano le carni sulla linea dell’orizzonte. Lei possede­ va 1’essenza degli anni dell ’acqua e della terra, del tempo che ab­ biamo fra le mani. Gambe magre, capelli né corti né lunghi, piccolo seno, occhi azzurri o verdi, forse grigi. C ’è un disco di Léonard Cohen su un tavolino di marmo che regge un giradischi e un televisore guasto. Sopra c ’è un trasformatore di corrente grigio e un panno che un giorno era bianco. Non ci sono né stra­ de né piazze. Varco la porta e la guardo fisso e lei si pettina i ca­ pelli, lunghi o corti, con una spazzola rossa a punte rigide. A­ scolto una canzone che mi piaceva ascoltare quando mia madre si sedeva di fronte ai vetri gelati della casa. Però non mi ricordo né il nome né di chi fosse. Sei entrata nel­ la mia stanza. Dimmi, chi sei? Dice che tutti i giorni c ’è una guer­ ra all ’altro lato della via, ma che lei non ha tempo di andarci. Non ricordo il loro colore. I tuoi occhi? Tutti i giorni c ’è abbastanza tempo perché la donna entri nella mia stanza e mi parli di stra­ ne scene accadute all’interno della miniera. Lei ha un profondo rispetto per le persone. Ama gli animali quasi più delle persone perché dice che anche se non ha studiato sa che suo padre discen­ de dai rettili e che sua madre prima che prostituta fu sirena e che un giorno alcuni marinai la trovarono impigliata nei loro paran­ chi e la condussero in porto. E lei si commuove e quasi piange, quando me lo racconta. Dice anche cose strane su come fare l’a­ more e sa parlare correttamente il francese, come in un film che ho visto tempo fa e che ancora non sono riuscito a capire. Cono­ sce un uomo che la maltratta e ciò nonostante lei lo ama. Lui vuo­


le che gli parli quando siete a letto?... Poi accendi la tua sigaret­ ta con dignità, buttando fuori il fumo com e se in esso si sollevas­ se l’essenza perfetta del tempo. Q uesta è la tu a idea dell’am ore. Costruire una montagna d ’acqua. M a esistono cose più d iverten­ ti. Il potere fa parte delle tue lenzuola candide. N on hai m ai fat­ to l’amore con un condannato a m orte?

Il letto di Isabella II Per esempio, a Montreal il Papa ha accettato di dorm ire in un letto d e ll arcivescovado che era stato usato, nell’antico H o ­ tel Windsor, dalla regina Isabella II d ’Inghilterra. Qualcuno ha sostenuto che poteva essere considerato “un sim patico g esto di ecumenismo” ilfatto che il capo dei cattolici dorm isse in un le t­ to precedentemente utilizzato dal capo d ella Chiesa anglicana. L’ultima volta non abbiamo nem m eno parlato. Di notte, t ’ho visto ritagliare il pesce sino a trasform arlo in piccole squam e di carne nauseante. E mi sono ricordato delle tue parole. Il lin g u ag ­ gio è una trappola, tesoro. Ricordalo, la prossim a volta che fa c ­ ciamo l’amore. Ti volti verso di me con le forbici ancora in s a n ­ guinate in mano. Una trappola dalla quale nessuno di noi potrà fuggire. S iam o poco più che miserabili tiranni della nostra stessa m iseria. È m e ­ glio che tutto cambi posto. Seconda sequenza = colpi frenetici. (...)


4. L’isola dei morti Stephen H aw king. D ove si nasconde l ’ultim a stella? Per An­ dy Warhol le stelle scom parvero dal cielo di N ew York per po­ sarsi sulla terra. D al principio alla fine del tem po navighiamo di­ sorientati in un m are da cui Dio è fuggito p er sempre. Colombo sbarcò nelle Indie O ccidentali dopo che alcuni intrepidi vichin­ ghi si erano avventurati fino alle coste di T erranova attraversan­ do le terre ghiacciate della Groenlandia. G li Stati Uniti d ’Ame­ rica piantarono la loro bandiera sulla luna venti anni fa. Haw­ king è un buco nero. E dal punto di vista del profano, la gravi­ tà di questo pianeta non risiede nella sua atm osfera, né nel suo stesso centro, m a nella esasperante esigenza di vuoto che esiste in ciascuno dei suoi abitanti. C osa penserebbe un essere di un al­ tro pianeta se ci vedesse m angiare, fare 1’am ore o guardare la tv? Chi è soddisfatto del proprio buco nero? H aw king parlaci del­ l’ora zero. Parlaci del tem po in cui non ci sarà più tempo. Ma come avvenne questa grande esplosione? Erano valide le leggi naturali con le loro costanti, la v elocità della luce e la gra­ vitazione universale, prim a della grande esplosione? L ’univer­ so si espandeva in m odo incessante o crollava e di nuovo si ri­ duceva a pezzi di m ateria com patta? E poi, la fine o morte del­ l’universo significherebbe anche l ’esaurirsi della corrente del tempo? Dovrà passare m olto, m olto tem po, e anche arrivare a scom­ parire. Qui, sotto la luce artificiale e opaca d ella città, generato­ ri elettrici scuotono il tram onto del serpènte, su ll’asfalto della strada. E passeggiano gli sfortunati pazzi, sacrificati d all’inva­ lidità della natura, avvolti nelle tim ide braccia di un maternità


piena di vergona, in carretti di plastica e ferro crom ato, m ostruo­ si corpi incapaci di esistere di per sé, abbandonati alla sorte di u­ na società con troppi scrupoli, deform ati dalla com plicatissim a genetica, come oscuri presagi per la fine d ell’um anità. Piccoli regali di Hiroshima, degli Atolli del Pacifico o di C hem obil. Le gambe mi tremano, a mala pena p iù resistenti d el vetro. La palla di fuoco si innalza dallo stomaco obeso verso le isole del­ la mente per non tornare mai più. La picco la pasticca ch e mi tra­ sforma in Alice o in Mr. Hyde, o n ell’im m ortale vam piro, sen­ za sosta, senza ombra né sem bianza um ana. La piccola pasticca nel cui segreto si nascondono le form e più perfette e i più spaventosi orrori. La pasticca che scom pone la reaìtà, che confonde gli spazi e deform a il tem po. S ento la mia nuca contrarsi, e la gola chiudersi m entre cerco di tro v are le fi­ nestre nel muro. E ora non desidero tornare... E ti inseg u o , cie­ ca follia, in silenzio, come se la storia dovesse cam biare o si m o­ dificassero le scale numeriche che controllano freddi calco lato ­ ri per il benessere dell’umanità. Poiché c h i non figura in un cal­ colatore non è una persona. E a tale condizione la gu erra si spo­ sta verso luoghi in cui solo i morti sono entità num erich e sui quali si può speculare a seconda degli interessi dei p aesi im por­ tatori. Ma dove rifugiarsi, dove nascondere q u ell’erro re di cal­ colo per cui cessiamo di essere una cifra?... Non ho l ’abitudine di fare passeggiate. Cerco di attutire le scosse della sp in a dorsa­ le. Mi vedo come una vacca pendente da un gancio e squartata. Il fuoco provoca una strana sensazione di rabbia, così, finisco tutti i cerini che ho in casa sino a spegnere la luce. Tento di uscire dal cerchio disegnato dalle mie o ssessio n i sot­ to l’azione del prosciugarsi dell’acido. M i sento p erseg u ita to in


qualsiasi angolo della casa. La m ia pelle si trasform a in cuoio ne­ ro. Esco di nuovo in strada dove le luci esplodono n e ll’oscuri­ tà e strani esseri pattugliano senza posa. D irigo la m acchina ver­ so il centro, invadendo i m arciapiedi e ignorando i semafori. La frenesia si im possessa delle mie gambe che prem ono a fondo finché non sentono l ’attrito della ruota contro l ’asfalto. Cado in uno stato di ebrezza totale, oltrepassando ogni limi­ te nel tempo, utilizzando u n ’arma contro la tua assenza. Sono riuscito a eludere lo zelo da segugio di una macchina della polizia. Entro in un bar, con la paura che m i tom a addos­ so, a stringermi la gola e a contrarre la nuca, la gente ha espres­ sioni orrende, i visi sono com pletam ente deform ati ridono e si voltano per guardarm i, e io non capisco quel che dicono. Uscen­ do ho spinto qualcuno. Adesso penso di aver intuito la vecchiaia di tutti i clienti. I m iei sensi sorpassano ciò che la m ia ragione può com prendere. La sproporzione dei nostri corpi nel tempo potrebbe trasform arci in dei eterni. In tal caso l’eccesso sareb­ be divino nella sua essenza, ma dem oniaco nella forma. M ori­ re senza morire è probabilm ente il più terribile degli inferni a cui si può condannare un essere vivente. L ’unico problem a consiste nel superare le barriere che crediamo invalicabili. I ricercatori americani, basandosi su calcoli matematici, hanno postulato l ’esistenza dei cosiddetti black hole, cadaveri di stelle bruciate, che sotto la pressione della loro forza di gra­ vita, sono andate riducendosi a pezzi di m ateria compatta. N ella singolarità di questi cadaveri-solari gli studiosi hanno creduto di ravvisare uno stadio finale del cosmo. Naturalmen­ te nessuna particella elementare, hanno affermato, può sfuggi­ re al campo di gravitazione degli astri a ll’interno del sistema


nella sua globalità; in ogni caso pu ò form arsi un block hole, che viene risucchiato nel vortice della atem porale Isola dei morti, restando prigioniero in eterno nella forza di gravità. Non pronunciare il nome di Dio invano, né con la bocca, né con le mani, né con le tue macchine spaziali, né con le tue cin­ quecento tonnellate di cocaina buttate in mare per svalutare il mercato dell’uranio. Non pronunciare il nom e di Dio invano o sarai castigato. Giochi divertenti, nella stanza della m ia infanzia. M a questo non mi preoccupa, al contrario, mi procura la vera em ozione di spezzare il quadro con pennellate che mi spostano senza ordine né significato dentro e fuori la superficie stessa del quadro. A l­ lora diventa difficile convivere. Provo un repentino bisogno di violenza e amore in oceani alcolici per distruggere il testo p e r­ cepito o riversarlo su ossessioni paranoiche e volgari ch iac ch ie­ re. “Occhi di perla, so dove ti nascondi,” disse il com m issario, guardando attentamente il dagherrotipo di quella puttana che gli aveva fatto perdere tanto tempo e denaro. “M a ti troverò. M ale­ detta città! sfuggirò dalle tue trappole e non scarto l ’e v e n tu a li­ tà di impugnare un’arma contro la tua assenza o di farm i carico della legge.” Il lettore a volte è incapace di eccitarsi con la lettura. C erca la comprensione passiva del testo, dà giudizi positivi p e r so ffo ­ care la paura della mente smarrita o intuitiva che raschia com e un tarlo famelico le pareti del suo cervello.


*** Il cielo che inghiotte la luce dei lam pioni come in un quadro di Magritte, m entre, accanto alla recinzione dello zoo, nella mia infanzia ruggiscono i leoni algerini. Lo sapevi papà? Accanto al­ la recinzione del giardino zoologico si sollevano le lingue e le te­ ste delle giraffe alla ricerca delle ultim e foglie. Seduti su labbra carnose, scontrandosi nella dolce oscurità, al fragore di mani ac­ canto al piccolo giardino da dove escono m inuscoli gnomi con cappucci rossi, che scendono dai verdi e acrilici lampioni per controllare il tem po che ci resta. Scendono in gruppo dalle sca­ le sistemate vicino al m etallo fluorescente e qualcuno dispera­ to e im paziente si lancia nel vuoto. Un folletto in meno. Lo han­ no obbligato con una pistola, a saltare dal terzo piano della direzione generale di pubblica sicurezza; rim arrà per sempre senza vendetta, seppellito da tutti quegli annunci pubblicitari e i migliori e più com m oventi progressi della tecnica. E il cielo com’è bello sotto i tuoi occhi, sotto i tuoi vestiti, sotto il legge­ ro movimento addom inale del tuo corpo rabbioso per la sconcer­ tante im portanza della realtà. E tu tt’ora, n e ll’atem poralità dell’acido, 1"Isola dei morti ri sulta irraggiungibile. O ccorre riconciliare l ’energia con la rotta. Si potrebbe forse partire dall’assoluto zero? Teoria del punto ze­ ro. Quante volte si ha la forza di iniziare lo stesso viaggio dal­ lo stesso punto, m ille anni dopo? E una volta aH’intemo, cosa importa più, una donna o uno specchio. Ram m entai la ribellio­ ne dei sensi che sono umani, perché nella loro stessa gestazio­ ne si configura la rivolta e il segnale d ’attacco della ragione, che mi fa dissociare tutto ciò che senza essere intelligibile è intelli­ gente. C ercando di abbracciarti senza sapere che ne fu delle ci­ cogne del sogno, appese in squallidi m agazzini di morte. Trema­


va. D oveva essere stupido cercare di superare la paura della so­ litudine e il tuo corpo che palpitava nello specchio come un gio­ co insostenibile tra lenzuola di vetro. Rim asi in te a poco a po­ co com e un soldato timido, vinto dalla stanchezza allucinante e lisergica. E oltrepassai il limite e ora sto m orendo nei tuoi occhi come nel tempo le visioni si dissolvono e precipitano nell’oblio, entrando nel carnevale del tem po e della storia e anche penetran­ do profondam ente il carattere sfrenato del desiderio. L ’amore ha avuto per me un bel significato: passione... A pronunciare questa parola m i viene in mente tutto quel che di più bello c ’è nella vita. Dopo un amore sfortunato e l ’esperienza di quella dolorosa delusione, è bello, è cosa sana rimanere fedeli a un sentim ento, e conservare nonostante tutto la fede nella pas­ sione, prim a emozione d ell’amore... E bello ricordare con ma­ linconia la parola come una cosa che non era certa, la perfezio­ ne che possedeva, tuttavia, una bellezza rara.

5. Consoli del tempo L a prima coincidenza può significare che tutto ciò che flui­ sce spontaneamente dalla mente e si dirige sulla carta è uguale a ciò che fluisce dalla disperazione di fronte al vuoto e sfocia nel­ l ’irrazionale. Essa può giungere o meno. Ciò che si desidera e si detesta. Da una mela fuoriesce un verme vischioso che a poco a poco si trasform a in un piccolo treno elettrico, m an mano che avanza sulla lucida superficie del tavolo emanando uno strano fe­ tore di morte. La finestra aperta fa sì che il vento caldo penetri nella stanza e con esso un uccello nero dalla testa di cane che si precipita sul piccolo treno e lo sbrana con i suoi artigli affilati


mentre emette un verso lam entoso. In apparenza il presagio è simbolo di debolezza, debolezza dinanzi al tem po, e paura. Ciò nonostante, non resta libertà di scelta quando si tratta di affron­ tare il futuro. Il destino: un m eccanism o che di per sé costringe la volontà di ogni individuo a disporre del proprio futuro o ad af­ frontarlo almeno da posizioni più aperte. Poi mi sono spogliato. Poi mi sono spogliato. B asta con le iniezioni! Sembrava una specie di apomorfina dello spirito. Si aprirono le finestre. Il de­ stino non ci possiede, al massim o ci appartiene. Non si tratta di un divenire; anzi, cancella il passato recente. Qualcosa come la selezione degli atti precedenti. Tutto poteva essere controllato da alcuni enigmatici consoli del tem po, che si impadronivano della nostra volontà, m a senza che tale dom inio fosse una tran­ sitoria egemonia del tem po sullo spazio. Le dimensioni critiche di mutamenti nel tem po erano regolate dai consoli. Teoria del punto zero. Nulla trapela così com e nulla si immagina. Mentre parlava con la bocca socchiusa lasciò cadere un occhio sul tavo­ lo dove l ’uccello rognoso faceva a brandelli gli ultimi resti del­ la sua vittima. Il problema risiede nel fatto che la cecità è uno stadio più a­ vanzato d e ll infezione, che non si manifesta in tutti i pazienti. I primi sintomi sono costituiti da affezioni cutanee che a volte guariscono senza gravi conseguenze ulteriori. Mentre il repar­ to di dermatologia ha curato pazien ti con questi sintomi, quel­ lo di oftalmologia si trova a curarne altri affetti da cecità di maggiore o minor grado e di cui si ignora Vorigine. Hanno formulato l’ipotesi che la cecità sia prodotta dalla candida e hanno riscontrato la presenza del fungo nei pazienti. Sulla ba­ se di tale scoperta è stata avviata efficacemente la cura con an-


fotericìna, un antimicotico, inizialmente p e r via endovenosa e successivamente per via intraoculare. Benché i due medici non vogliano pronunciarsi con chiarezza in merito all’efficacia di questa seconda via, è certo che essi Vhanno impiegata in due pa­ zienti e sembra che il loro miglioramento sia più rapido rispet­ to a quello degli altri pazienti. Verso le undici del mattino arrivarono i consoli e ci prepa­ rarono tutti per il ricevimento. Una donna giovane, non più di trentanni, capelli neri corti o lunghi, con un vestito rosso di piz­ zo e un gran medaglione dorato sul petto, entrò nella camera che ci avevano assegnato. Aprì la finestra che dava sul piccolo giar­ dino dell’ospedale. Venti piani bianchi, asettici, destinati alla correzione di individui con sintomi di instabilità nel tempo. Si trattava di curare le regressioni e progressioni che abitualm en­ te effettuavamo sul momento presente. Lo stesso virus da cui erano affetti gli eroinomani ci provo­ cava in alcuni casi una cecità parziale e disturbi al sistema ner­ voso. La donna ci fece di nuovo delle iniezioni, come aveva fat­ to negli ottanta giorni precedenti. Senza allontanare lo sguardo dal denso liquido, lasciò cadere nella sua tasca la capsula argen­ tea con la quale avrebbe immunizzato i nostri corpi debilitati. Poi uscì. Un altro giorno, mentre aspettavamo l ’arrivo dei consoli, quella donna silenziosa entrò di nuovo nella nostra cam era e co­ me al solito aprì la finestra. Fece cenno al mio com pagno di av­ vicinarsi. Una volta avutolo di spalle lo segnò con un lungo no ­ ve sulla nuca e gli ordinò di gettarsi nel vuoto. Il mio com pagno tremava e a stento riusciva a parlare balbettando e gem endo. P o ­ tei osservare come arrivasse a pisciarsi addosso, m entre trasci­

no


nava il suo corpo verso la finestra. Tornò indietro e piangendo confessò che non ne era capace. Lei si allontanò di un paio di me­ tri e premette il grilletto. Tutto il suo corpo volò fuori dalla fine­ stra con uno squarcio nel petto. Il sangue che imbrattò la came­ retta bianca. Restammo in silenzio per alcuni minuti che diven­ tarono anni, per me. Lei mi guardava fisso negli occhi con inau­ dita freddezza. Quando i miei nervi erano ormai sul punto di sal­ tare mi decisi a chiederle perché lo aveva fatto e se avrebbe fat­ to lo stesso anche con me. Non mi rispose. Tenne con sé la pi­ stola e si limitò a farmi un’iniezione. Prima di uscire chiamò un paio di custodi perché pulissero la camera. L'ospedale non è dotato di unità di sorveglianza intensiva né di strumenti capaci di prolungare artificialmente la vita. I pa­ zienti che conoscono la gravità della loro malattia hanno pra­ ticamente rinunciato a qualsiasi farmaco ad esclusione dei cal­ manti, e li assumono con frequenza sufficiente per sopportare gli ultimi giorni o settimane di vita con dignità e lucidità. Si cerca di fa r sì che i malati siano perfettamente curati e as­ sistiti, in modo che si distraggano e non soffrano. L’ospedale in pratica dispone di un infermiera o assistente per ogni paziente, allo scopo di fornire un trattamento individualizzato e premu­ roso. L ’edificio è decorato con colori chiari e piante, ed è dota­ to di sale di ricreazione comuni. Non ha l'odore di un ospeda­ le del servizio pubblico e non possiede le installazioni tipiche di un centro sanitario. I medici generalmente effettuano i consul­ ti, ma sono le infermiere a restare continuamente al capezzale dei pazienti. * * *

Esistono ancora vari aspetti oscuri che si stanno esaminan­


do. Da un lato, non si è ancora riusciti a dimostrare la presen­ za delfungo nel liquido oculare dei pazienti, benché nel sangue sì, fatto questo che i medici attribuiscono al fo rte isolamento che l’ascesso produce. Il giardino che si vedeva dalla finestra era com pletam ente ar­ tificiale. In realtà si trattava di una gigantesca serra in cui era sempre primavera. Non posso affermare con esattezza quanto tempo rimasi chiuso là. M isuravo il tempo in base alla regolari­ tà con la quale mi somministravano i farmaci e, a più lunga sca­ denza, sul grado di umidità registrato dalle pareti a seconda del periodo dell’anno, poiché lì la tem peratura era sempre la stessa. Alla fine, una mattina, provai una strana sensazione che per la prima volta, da quando ero entrato là, m i faceva vedere ogni cosa come estranea. Stavo girando per la stanza come un orso impaziente in cattività, in attesa di ricevere la sua razione di ci­ bo. Finalmente udii che i consoli stavano per andarsene. Quel giorno la donna non venne. Da allora nessuno entrò più n ella mia camera. Pensai che si fossero completamente dim enticati di me o che avessero deciso di uccidermi comunque. N on ebbi la p o s­ sibilità di mangiare nulla in quel periodo e l ’unica acqua ch e b e­ vevo era quella del rubinetto che avevo in bagno. Tem po addie­ tro avrei dato qualsiasi cosa per fuggire, per dimostrare ch e n u l­ la di ciò che accadeva era reale. Avrei cercato disperatam ente, - come feci in altre occasioni, - qualunque indizio circa la m ia as­ soluta normalità o circa l’identità del sogno e dei consoli del tempo.


1 disturbi alla vista sono provocati da un ascesso al bulbo, causato, a quanto sembra, dalla presenza del fungo nel globo. Man mano che si estende, Vascesso copre una parte sempre maggiore della retina e la vista diminuisce. Uno dei ricercato­ ri ha realizzato una serie di fotografie d e ll interno di occhi ma­ lati, e in esse si può valutare la riduzione della dimensione de­ gli ascessi dovuta alla cura. D ’altra parte, non è neanche certo che il fungo sia presente nell’eroina, giacché può darsi che questa o le altre sostanze a ­ dulteranti favoriscano il passaggio dall’apparato digerente, dove si trova abitualmente, al sangue. L ’ipotesi che invece è sta­ ta scartata è che l’elemento patogeno tragga origine dal limo­ ne col quale alcuni eroinomani sciolgono la droga, o che sia do­ vuto a ll’abitudine di altri di succhiare l’ago prima di procede­ re all’iniezione. L ’ipotesi più suggestiva, consiste nell’infezio­ ne di tipo esogeno per contaminazione della droga; tuttavia neanche questa ipotesi si è potuta dimostrare. Il medico sospet­ ta che tanta contaminazione si produca in piccole partite di dro­ ga, “p er il trasporto intestinale o vaginale e successiva manipo­ lazione dell’eroina in condizioni di scarso igiene.” Quando una mattina comparve di nuovo la donna misteriosa, capii che era tutto finito. Ci guardammo di nuovo come aveva­ mo già fatto il giorno in cui lei sparò contro il mio compagno. I consoli non sarebbero più tornati. Qualcuno aveva parlato. Sta­ vano chiudendo e non volevano lasciare alcun tipo di prova. Quanto a me, molto probabilmente mi avrebbero portato via da lì sotto l ’effetto di una forte dose di eroina. La donna andò diret­ tam ente in bagno, lasciando aperta la porta del corridoio. Attra­


verso lo specchio fui in grado di vedere com e si bucava. Per la prima volta mi sorrise. Mi chiam ò per n o m e e bucò anche me. Poi dormimmo.

Morte degna, non eutanasia Le accuse di alcuni massmedia, secondo cui in questo centro si pratica l'eutanasia ricevono risposte di questo tipo: “C erta­ mente qui non pratichiamo l’eutanasia, ciò che facciam o in realtà, è aiutare le persone che stanno p e r morire a fa rlo degn a­ mente, da esseri umani.” La direttrice d ell’ospedale sostiene che la medicina contro il dolore ha fatto passi da gigante negli ultim i anni, e che oggi e ­ sistono droghe capaci di procurare un sollievo duraturo; esse, non accelerano affatto l’aggravarsi della m alattia. Afferma che l'importante è sapere come dosarle e com e tagliarle. Ip a zie n ­ ti vedono alleviati i loro dolori con una dose di venti m illigram ­ mi di morfina somministrata ogni quattro ore. La cura è peifettamente tollerata. Ciò nonostante, molti m e­ dici rifiutano di somministrare moifina con tale frequenza, p e r timore di provocare dipendenza.


T i SPENGO LA LUCE, CARA? di Emma Chiaia


Uscire di casa non è mai sem plice, per me. N em m eno quan­ do l ’assenza durerà pochi m inuti, come in questo caso. Mi assale una specie di ansia non appena mi avvicino alla porta. E triste la porta di casa vista da dentro. E come se in cer­ ti mom enti tutta la casa chiedesse aiuto: un aiuto che non rice­ verà. N on sono la guardiana della casa, e neppure la sua m am ­ ma. E la mia presenza che vuole; lo so benissim o. Allora, visto che non può trattenerm i, mi chiede di essere alm eno controlla­ ta amorosamente: la stufa, il gas, la corrente elettrica. Qualche finestra sbatte? Q uesto lo faccio, lo devo: mi preoccupo di chiu­ derla, m a senza allegria. E tutte le volte penso con invidia e ran­ core alle mie coetanee che escono di corsa sbattendo la porta, senza tanti problemi. Inoltre, anche se per uscire pochi minuti, bisogna essere m i­ nuziosam ente equipaggiati: ricordare le chiavi, i soldi, gli oc­ chiali, il bancomat, i documenti. Ogni domenica m attina m i chiedo perché mai il mio bioritmo sia così poco elastico. Avrei voluto dormire sino all’una o alle due e riprenderm i dalla serata di ieri; ce n ’era certo bisogno, cre­ detem i. Insomma: dormire-come-rifiuto-del-m ondo; dormire,


visto che ho preso sonno a ll’alba. E vivere la giornata di oggi c o ­ me una giornata normale, cominciata soltanto un p o ’ in ritardo. Invece no. Eccomi qui, in piedi di nuovo, dopo solo quattro ore di sonno, come se il mio cervello avesse fretta di rip ren d e­ re un discorso interrotto. Riccardo crede di essere andato a letto più tardi di m e. M i metto sempre nelle stesse situazioni. E nelle stesse situazioni, gli uomini si comportano tutti esattamente allo stesso m odo. E sat­ tamente. Poi, è ovvio, pensano di essere originali. M a loro, q ue­ sto, non lo sanno. Non mi accompagnare alla porta, tesoro. Ti spengo la luce? Poi, dalla porta, 1’identico modo di girarsi u n ’u l­ tima volta. Sempre la stessa smorfia fatta per gioco, p er finge­ re che sia tutto normale, che sia giusto andar via. La stessa pre­ mura, - Non ti alzare, amore, - per un identico genere di abban­ dono: corpi che si vestono di spalle nella luce quieta del com o­ dino. C ’è un modo di vestirsi che riflette il loro sentirsi in col­ pa: una velocità misurata, u n ’eleganza nei gesti, o un sorriso a metà. Prima dei pantaloni. Qualcuno, più affettuoso, com pie tut­ te queste operazioni seduto sul letto, girato di fianco. Poi, la te­ sta che sbuca spettinata dal collo del maglione. L a m assim a lon­ tananza. Subito dopo, di nuovo il mio mom ento! Sorriso, ab­ braccio veloce, bacio a fior di labbra. Un “ci vediam o” che signi­ fica il contrario. Quel che mi interessa è ciò che accade dopo. L a loro espres­ sione mentre aprono la porta; e poi via, giù per la strada! proba­ bilmente a: prendere la macchina, di corsa, e filare a casa, pos­ sibilmente senza pensare. È sempre molto tardi. N essuno che fu­ mi una sigaretta camminando, i pugni nelle tasche, gustandosi la notte. Nessuno che per tornare a casa faccia un giro più lun­ go, guidando pigramente per le strade lucide di pioggia, lascian­


d o che i pensieri vengano fuori da soli, che si intreccino, che si appostino a spiarli come fantasmi a ll’angolo della strada. E in­ vece: a casa, presto! Vorrei essere nella loro macchina. Da so­ la, non con loro. È bello essere fuori in certi momenti, non in questa stanza opaca in cui riaccendo precipitosam ente la luce. In certi m om enti vorrei fumare anch’io. Mi appoggio alla finestra e guardo tu tt’intomo. Mi accorgo che è veram ente tardi. La stanza è silenziosa e familiare. Ho fatto bene a lasciarla in disordine nonostante sapessi del loro arrivo. Me ne riapproprio con uno sguardo circolare: di nuovo sole! Pile di libri sulla scri­ vania, e una nebbia azzurrina per tutta la casa. Non è mai entra­ to nessuno qui. Questa è u n ’alleanza, una solitudine che non si può spezzare. Saranno arrivati, ormai. Infileranno la chiave nella serratura e penseranno a me, di sfuggita, solo per invidia: Dorme già. E questo 1’ordine naturale delle cose: tocca a loro andare a letto più tardi. Poi via, su per le scale, verso la seconda serratura. Fossi in loro non vorrei aprirla, quella porta: sosterei al di qua della bar­ riera tendendo l ’orecchio ai rumori a ll’intem o, - un ’altra donna? un gatto? un fratellino? un figlio? Fossi in loro sosterei ancora un istante al di fuori delle regole, dell’agire pubblico conosciu­ to. D entro, la vita seguirà solchi profondi, sarà costretta a esse­ re conseguente, somigliante a se stessa, giorno dopo giorno. Sono seduta di traverso sul letto, incessantemente sveglia, e penso. Loro entrano frettolosi, senza notare il cambiamento di atm osfera dal pianerottolo freddo aH’aria buia e ferma della ca­ sa. O cchiaie blu sotto occhi blu. È una domenica mattina piena di sole, e si può affondare in una giacca larga e leggera. Stringe­ re in m ano con soddisfazione gli occhiali da sole. Non vedrete


i miei occhi. Infilarsi gli occhiali, e m odellarci intorno i cap el­ li. Volumi con volumi, senza espressioni. C arina com e una co ­ sa carina. O come una fotografia. Com unque non male. Faccio qualcosa di inutile, tanto per rodare i m ovim enti ancora incerti. Mi guardo in uno specchietto dorato col manico. Fuori una lu ­ ce spavalda: è di nuovo autunno. Un autunno sfolgorante, co lo ­ rato di miele, e dolcissimo. D ifficilm ente sopportabile, com e sempre. Attacco la segreteria telefonica: se qualcuno volesse proprio chiamarmi... Ma so già che al mio ritorno il segnalatore lam peg­ gerà due volte: 1) la domenica bisogna andare in cam pagna; 2) sono Pierfrancesco, sei sempre fuori, baci. Inverno, inverno. Non so perché continuo a fare colazione in quel bar dove il barista è capace di disegnare un cuore con la schiuma del cappuccino. Bianco, sullo sfondo caldo del caffè. Gli riesce sempre bene, e non lo sopporto. Fissa i miei occhi p e ­ sti, vorrebbe un po’ di complicità. A lm eno un p o '. Sfilo gli o c ­ chiali, solo un battito di palpebre contro il suo sguardo. M i av ­ vicino alla vetrata: è tutto grigio e fa freddo, solo la pioggia mi sembra amica. C ’è gente incredibile, fuori: naturale, è dom eni-

Qualcosa accadrà! mi ripeto m entre cam m ino in fretta strin ­ gendomi nel cappotto. Mi sento più sottile del solito. Mi c ap ita spesso in questo periodo di desiderare di essere un uomo, a v e ­ re una struttura ossea più forte. Sono affannata, ho le guance ro s ­ se dal freddo e il cappotto mi batte contro le ginocchia. La g e n ­ te mi viene incontro, mi guarda. Uom ini mi guardano in faccia. Sembra sempre stiano per dirmi qualcosa. No, no, per favore: non parlatemi. Uomini che camminano, e tanti: una p ro cessio ­


ne. Mi passano v icin issim i, e mi guardano in faccia. In silenzio, fissi. I ragazzi seduti s u l la gradinata della stazione, invece, mi guardano le gambe. L ’estate è all’inizio, porto calze leggere e pensieri radiosi nella testa. I m acchinisti e il ca p o stazio n e si levano il cappello quando passo. La stazione! U n a stazione di dom enica mattina. È la me­ ta delle m ie p asseg g iate . C ’è il sole e gente che si muove pigra­ m ente. C'è già aria d i vacanze. Resto interdetta un istante, con in m ano l ’orario dei tre n i: sono pensieri di vaga tenerezza, per persone lontane. Passo di fronte al fio ra io . Dipendo da lui, in primavera: riem­ pio la m ia casa di fio ri e piante sperando che la rinascita botani­ ca possa contagiarm i. N o: non è amore. Succhierei loro la linfa, se potessi. Sono così v u lnerab ile, in primavera. Quando tutto ri­ nasce, io m i sento m o rire . Così mi circondo di vegetali, che in realtà n ecessitereb b ero di cure e attenzioni. Potremmo appassi­ re insiem e. Poi arriva l ’estate, e le energie rinascono fortissime, palpitan­ ti. A bbandono le p ia n te : le regalo alla signora del piano di sot­ to, credendo sia la c o s a più giusta da fare. Bambini in adozione. N on sono stata u n a buona mamma, neanche per un minuto Q uando un uomo m i p iace gli parlo di lui. Non è difficile. Ogn uom o vive la p ro p ria vita in conseguenza di una o più motiva zioni fondam entali. Inesprim ibili, m a che generano convinzio ni form ulabili, vere e proprie teorie. Teorie sul vivere contem poraneo. Perché vivete? c h ie d o loro in maniera indiretta. Capiscono a volo, e rispondono c o n parole piene di fascino. Questa è la pai


te più bella dell ’amore. Q uesta parte può essere bella anche sen­ za amore. È anche la parte ideale. Tutti gli uomini sono bellissimi quando parlano di sé. Subi­ to dopo però, portano rancore. Distruggono le pallide architet­ ture che hanno appena creato, con parole fredde e pesanti. E, ir­ rimediabilmente, ce l’hanno con me. Sbaglio tutto con gli uomini. Amici premurosi vorrebbero guarirmi - Dovresti essere più prudente. Ti piacciono gli uom i­ ni sbagliati. So che non è così. È perché sono sempre distratta e poi, improvvisamente, troppo concentrata. Disoriento chi mi sta intomo. Gli uomini fuggono, e non posso dar loro torto. Ero considerata una bambina strana. Tenevo gli occhi trop­ po aperti, sbarrati. Poi, quando qualcuno mi rivolgeva la paro­ la, trasalivo. Non parlatemi, dicevo. Poi sono cresciuta. Ho imparato a guidare, a ballare, e a par­ lare. Quando un uomo mi piace, gli parlo di lui. A ll’inizio fun­ ziona. Sempre. Edicola uno. Ovvero: comprare un quotidiano come atto di concretezza e di buona volontà per legarsi alla vita. Ovvero: sa­ lutare Antonio mio malgrado. Spero sempre di non incontrare nessuno, e invece: Ciao. Poi non so che altro dire. Mi dispiace. La mente improvvisamente annebbiata. Mi dispiace non essere gentile. Gli faccio una domanda e lo fisso mentre risponde. M i chiedo come faccia a provare interesse per l ’argomento. Maria? dice lui. Bene, grazie. Non vorrei mai diventare come lui. Ma lui, com ’è? Mai come lui e Maria, comunque. Antonio parla, anco­ ra. Mi dispiace di non essermi truccata. Quanto poco faccio per la gente che mi sta intomo! Ciao. E, finalmente, edicola due. * * *


Edicola due. Soffermarmi a guardare i libri a ll’edicola della stazione è uno dei miei divertimenti preferiti. Innanzitutto cam ­ biano ogni domenica, e poi quest’edicolante è più aggiornato dei librai del centro. Ama gli scrittori americani, m a con acume cri­ tico. E mi piace guardare gli accostamenti. I saggi con i m anua­ li sul sesso. La narrativa straniera accanto ai libri per gli 1/2 m i­ nute manager. La narrativa italiana tra i libri di cucina. È come vincere ai cavalli, come fare innamorare un uom o, come inter­ pretare i sogni, come imparare il training autogeno, la cucina ci­ nese, l ’ikebana... G uardare i libri alla stazione mi rassicura sulla varietà della vita. Tutti i libri hanno diritto di esistenza, qui; una dignità più umile che nelle librerie, ma più concreta. T utta la stazione mi rassicura sulla varietà della vita. È un incanto, e un sollievo. È estate inoltrata e sto per partire. Luca ha dorm ito con me ie­ ri sera, ma ha messo la sveglia alle sei e mezzo per precipitarsi chissà dove, con una maschera sul viso. Ci vediam o, ha detto ve­ stendosi. Poi, per paura non avessi sentito, si è fermato sul va­ no della porta: Ci sentiamo, ha detto di nuovo, Ti telefono. E ri­ m asto un attimo a guardarmi chiedendosi se stessi davvero dor­ m endo. Mi ha mandato un bacio ed è uscito. Ho dormito ancora un p o ’ con la faccia affondata nel cusci­ no, un sonno senza domande, senza sentimenti. Poi mi sono al­ zata e sono uscita, concreta, presente, silenziosa. Niente com­ m enti. Sono molto seria e concentrata come prim a di una lunga attesa: qualcosa deve pur accadere! G am be calzate di nero si muovono nello specchio. Tornan­ do a casa posso specchiarmi nel vetro della cabina telefonica al­


l ’angolo. M i vedo avvicinarmi. Mi piace come cammino. M i piace la m ia figura, e la solitudine di quella camminata. Mi m u o ­ vo con abbandono, rilassata, come se fossi in più posti contemporanem ante. È bello immaginare altri sfondi dietro di me. P en ­ so a quando mi sono vestita davanti allo specchio, stamattina. Sono tranquilla. Ieri sera non è successo assolutamente nulla. E com e essere in un lido lontano e sconosciuto: qualcosa accadrà! L e strade sono piene di polvere. Cammino sempre più lentamen­ te, e di fronte alla cabina mi fermo. T om o a casa, ma non p ro ­ prio subito.


DIANA di R om olo B ugaro


La cam era è dipinta di bianco e ha un aspetto freddo e poco accogliente. In un angolo c ’è una scrivania su cui cam peggia una lampa­ d a regolabile da architetto; a fianco, ci sono due poltrone addos­ sa te contro il muto. Le pareti nude, il pavim ento lucido, l’arma­ d io a m uro con le ante chiuse, danno una strana sensazione di ec­ ce sso di spazio. Come se l ’ambiente fosse troppo grande per i m o b ili che ci stanno dentro. Stefano è disteso sul letto e sfoglia un giornale. Guarda i ti­ to li senza attenzione, legge un p o ’ qua un p o ’ là, senza finire gli a rtico li. Questa m attina si è svegliato molto presto e adesso si sen te stanco e intorpidito. A pre sulla pagina delle previsioni del te m p o e guarda la cartina dell ’Italia piena di frecce e di linee trat­ te g g ia te e di cerchietti bianchi e neri. Comincia a leggere le tem­ p e ra tu re dell’estero, B erlino, Oslo, Madrid, ma proprio in que­ sto m om ento qualcuno sta bussando alla porta. E una specie di b a ttito leggero e inconfondibile, che resta sospeso nel silenzio p e r qualche istante, com e la vibrazione di un diapason. Stefano abbassa il giornale e si volta lentamente. Per un at­ tim o la stanza gli sem bra più fredda, più estranea, un posto che n o n g li appartiene per niente e che non riuscirà mai a diventar­


gli familiare. Butta il giornale per terra e si mette a sedere sul let­ to. “Avanti,” dice con una voce appena rauca. La porta si apre senza rumore, mentre vede Diana comparire sulla soglia. Lei è una donna sulla cinquantina, alta e magra. Il viso è un p o ’ scavato m a non sgradevole, e gli occhi sono azzurri e in tel­ ligenti. “Ciao,” dice Diana, attraversando in diagonale la stanza. “Ciao, m am m a,” dice lui. Diana è vestita con un paio di calzoni di velluto a coste e un golf verde chiaro. Non porta anelli nè orecchini, e ha un’aria e­ nergica e nel contempo esile. Infila le mani in tasca, fa un m e z ­ zo sorriso e dice “E allora, come va stamattina?” “Bene,” dice lui spostandosi leggermente a ll’indietro sul cu ­ scino. Diana appoggia la schiena contro la parete e tossisce. Si p o r­ ta indietro i capelli con la mano e dice “Fra poco devi uscire d a l­ la stanza. C ’è la cameriera che aspetta di rifare il letto.” Stefano annuisce col capo e dice “Certo.” “Come funziona il materasso nuovo?” chiede Diana. “Benissimo,” dice lui facendolo affondare leggermente co n la mano. “Beh, se è troppo gonfio si può cambiare, sai?” dice D ian a guardando fuori dalla finestra. “Non preoccuparti,” dice Stefano “Va benissimo così.” Poi, c ’è una specie di lungo istante senza un suono, con q u e l­ la strana luce grigia che entra dalla finestra e il leggero odore di cera che arriva fin lì dal resto della casa. Attraverso la porta s o c ­ chiusa si sentono i colpi dello spazzolone che urta i battiscopa e la cameriera che fa andare il rubinetto dell’acqua nella v a sc a


del bagno. “A che ora ti sei alzato stamattina?” chiede D iana senza guar­ darlo. “Alle sette,” dice lui mettendosi su un fianco. “Come mai così presto?” dice Diana. Stefano alza le spalle. Dice “In inverno c ’è talmente poca lu­ ce, che se uno dorme fino a mezzogiorno vive sempre al buio.” D iana tira fuori di tasca il pacchetto di Dunhill e lo fa passa­ re da una mano all’altra. Dice “Ieri sera ha telefonato tuo padre.” Poi aggiunge “Tu eri appena andato a letto.” “Ah sì?” chiede lui senza nessuna intonazione. “E come sta?” “Bene. Ha detto di salutarti, sai? La prossima settimana deve andare in Canada,” aggiunge Diana. “Sembra che in questo pe­ riodo non abbia mai un attimo di pace, con il lavoro.” Stefano scuote la testa, e resta in silenzio a guardare un pun­ to qualsiasi davanti a sé. “ Ogni tanto dovresti farti vivo con lui,” dice Diana. “Potresti telefonargli, qualche volta, non credi?” “Sì,” risponde Stefano. “Uno di questi giorni lo chiamo.” La cameriera nel corridoio fa avviare l’aspirapolvere, men­ tre il suono delle spazzole elettriche filtra attraverso la porta. G uarda la radiosveglia bianca sopra il comodino: il display lu­ m inoso indica le nove e dodici minuti, e un piccolo punto ros­ so si accende a intermittenza fra le due coppie di numeri. Lei si infila il pacchetto di Dunhill in tasca. Gli dice “Che co­ sa fai oggi, hai qualche programma?” “N o ,” dice Stefano.“Nessun programma.” “N el pomeriggio devo andare dal notaio,” dice lei. “Perché non m i accom pagni?” “C he cosa ci vengo a fare dal notaio?” dice Stefano, siste­ m andosi le mani dietro la testa.


“P o tresti guid are un po ’ la m a cc h in a e farm i com pagnia,” di­ ce D iana. S tefan o scuote la testa. D ice “L ascia stare. Ci vediam o quan­ do to m i.” L ei si appoggia leggerm ente a ll’in dietro con la sch ien a e g u ard a da un lato. C hiede “C ’è q u alco sa ch e non va, stam atti­ n a?” “N o, perché?” dice lui. D iana resta com e sospesa per q u alch e istante, indecisa se par­ lare o no. A lla fine dice: “O rm ai sono tre m esi che stai sem pre chiuso in casa. M a non sei stan co ?” Stefano inclina la testa da un lato e serra le m ascelle. A lm e n o per una volta sperava di cavarsela senza interrogatori, e in v ece no, anche questa m attina arriva il terzo grado. C ’è q u alco sa che non va? E com e ti senti? E perché stai sem pre c h iu so in c a s a ? D a quando è tornato in Italia, Diana è sem pre lì a studiarlo; e certe volte si rende sem plicemente insopportabile, co n questo to n o da m adre preoccupata. Le dice “ Ma lo sai che da tre mesi mi fai ogni giorno le s te s ­ se dom ande?” D iana resta impassibile, incassa senza battere ciglio. P o i, c ’è una lunga pausa di silenzio, durante la quale si se n te di n u o v o il ronzìo d e ll’aspirapolvere nel corridoio. Stefano c o m in c ia a m angiarsi le unghie e guarda verso la finestra. Diana si gira in direzione della finestra e guarda gli alberi c h e in lontananza sembrano senza densità, m ezzi sciolti dalla n e b ­ bia. Gli dice “Coraggio, adesso, tirati su. C ’è la cam eriera c h e a ­ spetta di poter entrare.*' Il

getto

dell'acqua crepita sul fondo della vasca. Il bagn o è le pareti sono rivestite di piastrelle azzurre. Il

p iuttosto grande: e


grande specchio sistemato sopra al lavandino è leggermente ap­ pannato, e così i vetri alla finestra. Stefano mette una mano sot­ to il getto e lascia che l ’acqua gli spinga sulle dita. Ormai sono quasi dieci mesi che non buca più, eppure certe mattine gli ca­ pita ancora di sentirsi rincoglionito e a pezzi come quando si fa­ ceva mezzo grammo al giorno. È una sensazione orribile, di stanchezza che non viene dai muscoli o dal cervello, ma proprio dalle cellule, una specie di generale caduta del tono del metabo­ lismo corporeo. Si siede sul bordo della vasca, abbassa la testa, guarda la piccola corrente che fa gorgogliare l ’acqua vicino al­ lo scarico. Lui s ’è bucato per due anni; fra i vicoli della città vecchia e le stazioni della m etropolitana e i giardini pubblici. Sempre a gi­ rare da un posto all’altro, con l ’angoscia di far presto e dei sol­ di, mentre Diana aspettava a casa, in vestaglia, e buttava giù pil­ lole di Valium. Finché, poco a poco, lo stress di far su ogni gio­ no la roba, gli aveva ucciso il piacere della roba in sé; e allora, senza decidere niente, s ’era ritrovato pronto per smettere. Un giorno aveva preso il coraggio a due mani, aveva telefonato a suo padre e gli aveva chiesto dei soldi per fare un viaggio all’e­ stero. Gli aveva spiegato che le cose andavano sempre peggio, che non ce la faceva più, e che quello era l’unico modo per finir­ la con la droga una volta per tutte. Si sentiva abbastanza ridico­ lo a fare questi discorsi a un uomo che non vedeva da anni e che in fondo gli era del tutto estraneo, ma lui voleva andarsene as­ solutam ente e non c ’erano altri mezzi. Suo padre, dall’altra par­ te del filo, era rim asto in silenzio per un po’ e alla fine gli ave­ v a detto che non si trattava di una cosa da affrontare alla legge­ ra, che voleva pensarci; m a insomma, aveva fatto capire di es­ sere disponibile. Nei giorni seguenti si erano sentiti di nuovo e avevano discusso insiem e i dettagli della cosa, ppmn fra tutti la


destinazione del viaggio. Suo padre aveva in mente l ’Australia, m a lui si era opposto e aveva insistito per l ’Indonesia; alla fine, 1’aveva spuntata. Il giorno della partenza Diana s ’era sentita ma­ le e non aveva potuto alzarsi dal letto per accompagnarlo all’ae­ ro p o rto . Diana era sempre stata risolutamente contraria al pro­ getto del viaggio perché era terrorizzata dall’idea che anche suo figlio potesse sparire nel nulla come tanti altri tossici partiti al­ lo sbaraglio con la scusa di togliersi dal giro; ma ormai, non a­ veva più la forza di combattere, subiva tutto senza reagire. Lui avevapassato le prime settimane a Bali, sempre mezzo steso dal Valium e dal Roipnol, annientato dal caldo e dalla mancanza dell’ero. Poi, appena aveva cominciato a sentirsi meglio, era partito per la Piccola Sonda. Era stato a Sumba, a Flores, ad Adonara e a Solor, aveva gi­ rato tutto l’arcipelago spostandosi da u n ’isola all’altra su picco­ li sampang a motore, dormendo nelle guest-rooms delle m issio­ ni verbite. Spesso i missionari gli affidavano qualche piccolo la­ voro, come ordinare i registri di matrimonio o controllare la di­ stribuzione del riso, e lui faceva tutto, pur di tenersi occupato e pensare il meno possibile. Il fatto di essere completamente so­ lo in un posto ai confini del mondo, per un verso lo angosciava, ma per un altro gli metteva addosso una strana euforia, gli sem ­ brava di scontare una specie di castigo dopo il quale non a vreb­ be avuto più nulla da rimproverarsi. Era rimasto nella Piccola Sonda per quasi cinque mesi, e poco a poco tutte le ossessioni a­ vevano perso realtà, nell’impatto con quel nuovo ambiente e quel paesaggio di capanne con i tetti di foglie di cocco e pezzi di lamiera, e palmeti, e strade sterrate. Quand’era ripartito, si sentiva una persona completamente nuova, immunizzata. Come i sopravvisuti alle epidemie. * * *


La cromatura del rubinetto e il telefono della doccia si sono coperti di piccole gocce di condensa, adesso. Sopra a una mensola ci sono i flaconi del bagnoschiuma e del­ lo shampoo con le etichette stampate a colori vivaci. Stefano re­ spira a fondo e accarezza con due dita il bordo della vasca. Ormai è tornato in Italia da più di tre mesi, eppure non è ancora riusci­ to a superare il senso di malessere che ha provato sin dal primo giorno, quand’era appena sceso dall’aereo, e rivedeva le strade, i negozi, le luci e il via vai di Milano. Adesso che è rientrato nel Mondo Civile, si sente perennemente fuori posto, e passa le gior­ nate chiuso in casa a giocare col computer oppure a guardare la tv. In pratica, fa la vita del recluso volontario, ma la solitudine non gli pesa; gli piace pensare di essere tornato a casa solo a ti­ tolo provvisorio; una sosta forzata di qualche mese prima di ri­ partire per sempre. Forse per Londra, o forse per gli Stati Uniti. A cominciare davvero la vita. Socchiude gli occhi e per un attimo ripensa a Diana, con la sua faccia decisa e severa, che si tormenta le mani e riprende quei suoi interrogatori esasperanti. Da quando è tornato in Italia lui fa una vita tranquillissima, e non vede nessuno, e fisicamente sta meglio, e insom m a, anche un cieco si accorgerebbe che ormai ha chiuso con l ’ero; eppure, Diana è convinta che lui continui a bu­ care, di nascosto. Diana crede che il viaggio in Indonesia sia sta­ to solo un bluff e che la disintossicazione non sia mai esistita, in realtà. N aturalm ente si sforza di mostrarsi allegra e tranquilla, ma dietro quella maschera è sempre tesa, sospettosa e guardin­ ga. Ogni giorno controlla di nascosto il sacchetto della spazza­ tura in cerca di una siringa, o conta i cucchiani da caffè dentro ai cassetti, o tiene sotto chiave la borsa per paura che le sparisca­ no i soldi. Sta sempre all’erta, come credesse di avere ancora a che fare con un figlio tossico, e non abbassa la guardia neanche


per un momento. Più diventa chiaro che per lui l’eroina è un ca pitolo chiuso, e più Diana diventa ansiosa, ossessiva, incomben­ te. Lui ha riflettuto per settimane intere su questa situazione pa­ radossale e assurda, e alla fine ha concluso che si tratta di un in­ treccio perverso di affetto e possessività. Probabilmente, sotto sotto a D iana dispiace che lui abbia smesso di bucare, probabilmente le dispiace che si sia disintos­ sicato, e questo perché lo ha fatto da solo, in Indonesia, a mi­ gliaia di chilometri di distanza. Perché lo ha fatto senza di lei. In qualche modo, Diana si sente defraudata del proprio diritto-do­ vere di essere una Madre Coraggio che salva il figlio drogato; e questo non le dà pace. Lei voleva seguirlo, proteggerlo, aiutar­ lo a smettere, e invece non ha potuto far niente, perché lui ha smesso di bucare da solo, in qualche isoletta senza nome sotto l ’Equatore, e allora lei si rifiuta di prendere atto della disintos­ sicazione proprio perché non l’ha vissuta né sofferta, perché non ha avuto modo di “governarla.” Lei è, m olto semplicemente, u­ na donna sulla cinquantina, sola, con un matrimonio fallito al­ le spalle, ricca, intelligente. Ormai sta cominciando a invecchia­ re, e allora ha bisogno di battaglie da combattere, di m issioni in cui buttarsi anima e corpo, per sentirsi viva. La vasca è ormai piena, e l’acqua sta per traboccare. Stefano chiude il rubinetto ed entra n ell’acqua lentam ente, concentrandosi sulla sensazione del calore che gli arriva sulla pelle e si irradia fino ai muscoli. Resta lì per una m ezz’ora b u o ­ na, semplicemente immerso, senza pensieri; poi si infila n e ll’ac­ cappatoio, si riveste ed esce in corridoio. La casa è silenziosa, perfettamente tranquilla. Probabilmente Diana è già uscita per andare dal notaio, e anche la cameriera d ev ’essere andata via. Stefano scende al pianterreno, va nello studio e accende lo ste­


reo. La radio, che di solito trasmette musica non stop, oggi sta mandando in onda u n ’intervista con un cantante inglese che lui non ha mai sentito nominare. L ’intervistatore chiede “Che cosa provi durante i tuoi concerti?” E il cantante inglese risponde “Beh, più che altro incazzature, perché c ’è sempre qualche stru­ mentista che sbaglia certi timbri un p o ’ rochi, che per la mia mu­ sica sono invece essenziali.” Stefano spegne la radio, pesca un disco di Tom W aits dallo scaffale e lo mette sul piatto. Il basso e la chitarra attaccano insiem e, salgono lentamente di tono pre­ parando l’ingresso della voce. Stefano accende una sigaretta, si avvicina alla vetrata e guar­ da fuori. L ’erba del parco è tagliata all’inglese, ma il manto in alcuni punti si è rovinato a causa del gelo, ci sono delle macchie di terra quasi nuda. In lontananza si vede la strada di ghiaia che porta ai garage, e più indietro il muro di cinta coperto d ’edera. L ’aria è ancora grigia, e il cielo è coperto di nuvole. Stefano dà un tiro alla sigaretta e si morde il labbro inferio­ re. Le pareti dello studio sono tappezzate di libri, sugli scaffali ci sono edizioni d ’arte di grande formato e poi piccoli sopram­ mobili, come vasetti cinesi o bottiglie di cristallo colorato. La voce di Tom W aits è incredibile, distrutta dall’alcool. Gli sem­ bra im possibile che quella voce appartenga ad un bianco di tren­ ta n n i anziché a un negro di settanta. Respira a fondo e per un attimo pensa di uscire, a fare due pas­ si nel parco; m a cam bia subito idea, perché ha appena smesso di piovere e ci d ev ’essere fango dappertutto. Il poliziotto è ferm o nel centro della strada. Tiene il revolver con entram be le mani e spara contro una berlina in corsa. D ’im provviso l ’inquadratura cambia e si vede un tipo in giacca e cravatta che corre come un pazzo su una scala antincendio. L n


negro lo insegue con la faccia feroce e ogni tanto spara delle bre­ vi raffiche di mitra. Stefano è seduto sul divano e tiene in mano il telecomando. Ogni tanto pigia il pulsante della luminosità per contrastai^ m e­ glio le immagini. Il salone è pieno di quadri, tappeti, m obili a n ­ tichi. Accanto alla porta c ’è un trumeau veneziano con le ante d i vetro smerigliato. Più indietro c ’è un caminetto di marmo con la sua bella fila di attizzatoi appoggiati contro la parete. D a p p e r­ tutto ci sono oggetti belli e ricercati, lì dentro, ma l’am biente è troppo ordinato, tutto si trova esattamente al proprio p o sto c o ­ me in un museo. La sparatoria adesso è diventata veramente furiosa, s e m b ra una guerra. Ci sono decine di persone che corrono a testa b a s s a in mezzo alla pioggia di proiettili, e ogni tanto qualcuno r o t o la per terra, o casca giù dal tetto di un palazzo. Stefano fa un mezzo sbadiglio e decide che il film è p r o p r io una cazzata. Senza pensarci due volte, spegne la tv, si alza in p i e ­ di e dice a voce alta: “Buonanotte.” Diana è seduta sul lato opposto del salone e sta leg g en d o u n giornale. Alza gli occhi, chiede: “Dove vai?” Stefano dice “Vado in camera mia.” Diana annuisce, ma resta come in attesa. Lui se ne a c c o r g e , e si sente in dovere di aggiungere qualcosa. “Vado a l e g g e r e , ” dice. La camera è disordinata, il letto è di nuovo disfatto e c i s o n o parecchie riviste per terra. Stefano si avvicina alla fin estra e a p ­ poggia una mano sul vetro gelido. Il cielo adesso è fitto d i s t e l ­ le, stelle isolate o raccolte in grappoli o nebulizzate d e n tro z o ­ ne di luce diffusa. Senza dubbio, fuori ci sono parecchi g ra d i s o t ­ to zero, ora. Il parco è completamente ghiacciato e l’erb a è b i a n ­ ca come se avesse nevicato. Un sottile strato di brina s ’è d e p o ­


sitato dappertutto e i cristalli di ghiaccio riflettono la luce in m o­ do irregolare, riempiono il buio di colori grigi e azzurri, creano uno strano gioco di chiaroscuri e false prospettive. Stefano infila le mani in tasca, si volta e guarda le pareti bian­ che della stanza, la porta chiusa, le riviste sparse sul pavim en­ to. È stanco ma non ha ancora voglia di mettersi a dormire. In realtà non gli viene mai sonno, prim a d e ll’una o le due. Resta qualche secondo a guardare nel vuoto, cercando di farsi venire in mente qualcosa da fare. Alla fine decide di dare u n ’occhiata all’album con le foto dell’Indonesia, che tiene sul comodino. Negli ultimi tempi quelle foto le guarda quasi ogni giorno, le stu­ dia una per una cercando di ricordare il momento preciso in cui ha effettuato lo scatto, si diverte a far venire su continuamente i ricordi. Attraversa la stanza, si inginocchia sul tappeto scendiletto e apre lo sportello del comodino. A ppena guarda dentro, si accor­ ge che qualcosa non va. I pacchi di vecchie lettere, il passapor­ to, gli album con le fotografie, tutto è disposto con un ordine in­ solito e non familiare. Il vecchio fascicolo con le pagelle delle medie era sempre stato sotto a tutte le altre carte, e invece ades­ so campeggia in bella vista davanti allo sportello. Il passaporto non aveva mai avuto una custodia, e invece adesso è infilato den­ tro a una busta di cellofan insieme ad altri documenti. Lì per lì resta interdetto, ma poi capisce bene che cosa è successo. Diana gli ha perquisito la camera, ha frugato in mezzo alla sua roba. In realtà questa storia delle perquisizioni non è nuova, è già succes­ so altre volte. Ogni tanto Diana si fa prendere la mano dalle sue fantasie, dalla convinzione che lui continui a bucare, e allora se­ taccia tutta la casa in cerca delle bustine nascoste. Stefano resta per qualche secondo a fissare lo sportello aper­ to del comodino, e poi bruscamente si alza in piedi ed esce dal-


la stan za. N el sa lo n e le luci sono ancora tu tte accese, m a sua m adre n o n c ’è. P ro b a b ilm e n te è andata giù in cucina, pensa lui. A llo ra to r ­ na in d ie tro , scende le scale e infila il corridoio bianco. D ia n a è in cucina, in piedi accanto al lavandino e sta m e tte n ­ do d elle g o cce dentro a un bicchiere. T iene la pom petta di p l a ­ stica c o n d u e d ita ed è tutta concen trata sulle stille di liq u id o scuro ch e cad o n o n e ll’acqua. S tefan o la guarda, e il fatto di trovarla così in n o c e n te m e n te occu p ata con le m edicine della sera gli dà terribilm ente su i n e r ­ vi, gli sem b ra che quel suo star lì tutta tranquilla sia già u n t e n ­ tativo p e r n eg are di aver rovistato fra la sua roba. A ll’im provviso, tutti i discorsi che aveva pensato di f a r e g l i si interrom pono in gola. Si avvicina al lavandino senza n u s s u n progetto preciso. La cucina è m olto grande e la luce d e lla l a m ­ pada che pende dal soffitto è forte, irreale. Vicino al f r ig o r i f e r o c ’è una m ensola sulla quale stanno allineate una mezza d o z z i n a di piante in vaso. Senza pensarci due volte, allunga una m a n o e dà un colpo alla mensola. I sostgni si staccano dal muro e le p i a n ­ te volano giù. L a terra e i cocci schizzano dappertutto, le r a d i c i restano a ll’aria in uno strano groviglio di filamenti se n z a c o l o ­ re. D iana sbarra gli occhi, lancia un piccolo urlo. “E cco,” dice Stefano con la voce appena alterata. “Q u e s t o è il tuo tossico in crisi d ’astinenza.” I passi si avvicinano lentamente nel corridoio e si f e r m a n o davanti alla porta. C ’è qualche secondo di silenzio, prim a c h e l a porta si apra suonando impercettibilmente sui cardini. S t e f a n o si irrigidisce sotto le lenzuola, affonda la faccia nel c u s c i n o e socchiude gli occhi.


Una striscia gialla di luce penetra nel buio della stanza, si specchia sui vetri della finestra diffondendosi in gradi differen­ ti di rifrazione. Diana chiede: “Stai dormendo?” e la sua voce è bassa, legger­ mente roca, come avesse davvero paura di svegliarlo. Stefano resta immobile e si sforza di respirare più piano che può. Sa benissimo perché Diana è venuta nella sua stanza: vuo­ le parlare delle piante che lui ha scaraventato a terra, e della dro­ ga, e del futuro. Vuol fare una bella discussione a base di doman­ de dirette e di sincerità. Diana è convinta che parlare a voce bas­ sa nel cuore della notte sia molto più utile che parlare di giorno, è convinta che la luce soffusa di una abatjour e il silenzio di li­ na casa addormentata siano le condizioni essenziali per una ve­ ra comunicazione. Ogni tanto piomba in camera sua all’una o al­ le due di notte, e si siede sulla poltrona accavallando le gambe, e si accende una sigaretta, e poi sta lì a dire cazzate finché non casca dal sonno. È una donna intelligente, ma per certi versi è terribilmente infantile. E ridicola. “Stai dormendo?” ripete. Stefano stringe le mascelle, irrigidisce tutti i muscoli del cor­ po come se questo potesse rendere più verosimile l’immobilità della persona addormentata. C’è qualche secondo di silenzio e poi si sente un leggero fruscio e lo scatto della maniglia della porta che si chiude. I passi di Diana si allontanano lungo il corridoio. Poi si fer­ mano per un istante, prima di perdersi definitivamente nel silen­ zio della casa.


GOOD ROCKIN’ TONIGHT di M i ha M azzini


C ’è una donna incredibilm ente maestosa, che gli passa ac­ canto com e una specie di carro armato. Lui cerca di scansarsi sulla destra buttandosi a ridosso del muro che chiude il marcia­ piede, m a quella lo colpisce comunque, gli piazza una gomita­ ta trem enda su un fianco e prosegue per la sua strada senza nean­ che chiedergli scusa. Lui si piega in due, e sente il fiato venirgli meno. L o vede m entre solleva la testa davanti a sé: è seminascosto fra le cartacce a un paio di metri; è il classico portafogli che ti a­ spetteresti di incrociare legato a uno spago, in quelle storielle dove dei ragazzini pestiferi nascosti dietro l ’angolo si diverto­ no alle spalle dei passanti. M a quando si guarda attorno, si ac­ corge che il resto della via è completamente deserta. Maldestra­ m ente, finge di allacciarsi una scarpa e si china verso il portafo­ gli nero in logora similpelle. Lo afferra con un gesto rapido del­ la m ano e si rialza in piedi. La cosa più giusta da fare, gli pare sia tenerlo in m ano senza cercare di nasconderlo; così, se il pro­ prietario si trovasse ancora nei paraggi e tornasse indietro a cer­ carlo lui non sarebbe accusato di volerlo rubare. Resta fermo in attesa p e r un p o ’, m a nessuno si fa vivo. Non lo degnano di un< sguardo neppure i due giovanotti che transitano per il marciapie


de in quei pochi minuti. Alla fine, quando si rende conto d ell’in­ sensatezza della situazione, decide di girare sui tacchi e avviar­ si verso l’auto parcheggiata alla fine d e ll’isolato. Chiude la portiera, e si sente rim ordere la coscienza, m entre guarda la vetrina della pasticceria dove avrebbe voluto com pe­ rare una confezione di confetti per Andrej a. Q uindi, decide di a­ prire il portafogli; ma subito dopo lo richiude: lui pensa che qualcuno potrebbe vederlo; che magari si stia già ghignando al­ le sue spalle tenendolo d ’occhio in qualche modo. A llora prefe­ risce mettere in moto in tutta fretta e sparire lungo una laterale poco trafficata. Come una specie di crim inale in fuga. Non sa decidersi ad aprirlo, questo portafogli. Lo spaventa la muffita oscurità della viuzza in cui si trova a ­ desso, le orbite vuote delle finestre e lo squallore delle case e la quantità di biancheria stesa sopra la sua testa, in file così fitte e numerose da nascondergli la vista degli ultim i piani. In questo posto, lui si sente molto, molto sospetto. Inserisce la retro m a r­ cia e procede all’indietro per alcuni metri, evitando a ll’ultim o i­ stante un autocarro che fila a tutto gas a ll’incrocio con la strada principale. Sente il sudore condensarglisi dietro la schiena e fa r­ gli aderire la camicia addosso. Guarda di nuovo il portafogli si­ stemato sul sedile accanto al suo. È incredibilm ente gonfio. N on ne ha mai visti di così gonfi. È invitante, e lui pensa che d ev e d e ­ cidersi a fare qualcosa. Uscire dalla città? R aggiungere la p in e ­ ta in riva al mare? Lui non c ’è mai stato, m a sa fin troppo b en e che tipo di persone frequentano la pineta: persone m oralm en te tarate, che soddisfano i propri istinti anim aleschi sui sedili p o ­ steriori delle automobili, con puttane da quattro soldi. N on può permettere che lo si veda in un’ambiente del genere. *

*

*


Alla fine, il lavaggio rapido gli è sembrata la soluzione mi­ gliore. Si è messo in fila e sta aspettando il suo turno. Quando il getto d ’acqua e detersivo ricopre i vetri dell’auto come un sipario e le enormi spazzole rotanti laterali entrano in azione, lui apre il portafogli girando gli occhi in tutte le direzio­ ni, con u n ’aria furtiva da personaggio del cinema muto. Dentro ci trova solo pochi spiccioli: il resto del malloppo è rappresentato da una serie di ritagli di giornale. Sono ritagli di articoli sportivi; e parlano tutti della stessa squadra di calcio. Li scorre rapidamente: lui odia lo sport. Il culto del corpo non l’ha mai interessato. In uno scomparto intemo trova una carta d ’i­ dentità e una confezione di cartone leggero. La estrae dalla ta­ sca interna e legge la scritta “Joy without risk.” Apre la confe­ zione e lascia cadere sul palmo della mano la serie degli anelli di gom m a trasparente. Fa una smorfia di disapprovazione e li ri­ sistem a precipitosamente nella scatolina; la richiude e la na­ sconde nuovamente nello scomparto del portafogli. E deluso e rabbioso. Quanto tempo ha perso dietro questa porcheria piena di inutili ritagli sportivi e confezioni di preser­ vativi! Mentre Andreja lo aspetta!... G etta un nuovo sguardo al portafogli, e pensa all’uomo che porta con sé ovunque vada, oltre ai documenti e a pochi spiccia li, anche i preservativi. Inimmaginabile! Quest’uomo, dunqi sarebbe uno di quegli sciagurati che sono soliti fermarsi lung i marciapiedi, a scambiere qualche parola con certe signorine com piacenti senza vedere in loro che corpi per soddisfare i suoi lascivi appettiti; in sostanza, senza vedere in loro degli esseri in­ nanzitutto spirituali! Si sfrega sui calzoni la mano con cui ha aperto la scatolina, m a non riesce a liberarsi del senso di sudiciume che l’ha preso. A ll’im provviso, l’aria dell’automobile gli sembra incredibil-


Decide di fermarsi davanti al prim o tabacchi. Entra con aria circospetta e chiede busta e francobolli, prim a di appartarsi in un angolo. Restituirà il portafogli per posta. In fondo, si rende con­ to di aver curiosato là dentro non già per i soldi, ma perché vo­ leva mettere il naso negli affari di un altro; e questo, adesso che la cosa gli è perfettamente chiara, lo fa vergognare. Ci mette un po ’, prima di decidersi a toccarlo di nuovo. Cautamente, con la punta delle dita lo apre ed estrae la carta d ’identità dalla quale trascrive nome e indirizzo. Getta ancora un rapido sguardo alla fototessera. La faccia dell’uomo è tale quale l ’aveva im m agina­ ta: brutta, con un che di grossolano nei lineamenti e, naturalm en­ te, una fronte piuttosto bassa. Quando cerca di risistemarla nel­ lo scomparto non ci riesce, p ervia dei ritagli di giornale. M entre lotta con ritagli e scomparti, la confezione di preservativi gli ca­ de sul palmo della mano: un brivido di disgusto gli percorre la schiena, mentre la squallida scatolina gli scivola sotto il ripiano delle riviste. Poi, sente dei passi alle sue spalle. Allora infila ra­ pidamente il portafogli nella busta, si china sotto il ripiano e n a­ sconde la confezione dei preservativi nel pugno. C ’è una donna che gli si è affiancata adesso, intenta a scrivere qualcosa su un foglio di carta da bollo. Lui, incollato al muro, riflette d ispera­ to su come infilare i preservativi dentro la busta senza farsi v e ­ dere dalla sconosciuta. Invece, la penna con cui la donna sta scri­ vendo sembra abbia finito l ’inchiostro proprio ora. “Non sarebbe così gentile da prestarm i la sua?” dice la d o n ­ i scuotendo la testa e mostrandogli la biro inservibile. Lui arrossisce, la fìssa per un istante e dice “Certo... S ì.” Allunga il pugno verso l’altra penna sul ripiano: tenta di a ffe r­ rarla utilizzando goffammente solo l ’indice e il pollice, m a n o n


ci riesce. Si accorge che il lato superiore della confezione è vi­ sibilissim o, in quel modo. Allora, infila il pugno in tasca, vi de­ pone la scatolina e infine porge la biro alla donna, che lo fissa con una strana aria interrogativa dipinta in faccia, mentre c’è un gruppo di turisti vocianti che invade ogni angolo della tabacche­ ria: scarabocchiano saluti sulle cartoline; si urtano, gridano; pra­ ticam ente lo sospingono fino a ll’uscita. C ’è un fascio di luce molto intenso che lo abbaglia, in questo m om ento. Si accorge che c ’è un bel sole, fuori. È la prima vol­ ta, dopo un lungo inverno livido e nebbioso. Si tocca la tasca che contiene la confezione di preservativi. Poi, si rende conto all 'im­ provviso che l ’arrivo della primavera ha denudato le spalle al­ le signore e accorciato loro le gonne. C om pera un sacchetto di confetti e si dirige alla casa di A ndreja. C erca di distrarsi dalla tensione che la storia del portafogli gli ha procurato, accendendo il mangianastri. I brani musicali di H indem ith che in genere può ascoltare per ore in preda a un’au­ tentica estasi, non gli danno alcun sollievo. È turbato. Dopo due m inuti è costretto a chiudere il mangianastri. Che cosa gli sta succedendo? Tutti i suoi pensieri sono concentrati sulla tasca de­ stra. Dovrebbe gettare la confezione dal finestrino? Che cosa po­ trebbero dire i passanti? No. Forse sarebbe meglio fermarsi e b u ttar via tutto in un cestino per rifiuti... Q uando comincia a cercarne uno adatto, come se non fosse­ ro tutti fin troppo buoni per quella schifezza, si ritrova davanti alla casa di Andreja senza essere riuscito a sbarazzarsi della sca­ tolina maledetta. Vorrebbe gettarla fra i cespugli che circonda­ no la casa, ma il pensiero che qualche inquilino potrebbe ritro­ varla tanto vicino all’abitazione di Andreja lo fa rinunciare: gli


sembrerebbe, in qualche m odo, di disonorare la loro vecchia a­ m icizia che risale ai tempi del liceo. Quando lei va ad aprirgli, in tu ta da g in n astica, gli dice sor­ ridendo “Salve, Alfred. A ccom odati.” Sul tavolino del soggiorno c ’è la scacch iera g ià pronta, con accanto due bicchieri di succo di frutta. Di solito, lui va da Andreja tutti i venerdì, portando un pac­ chetto di confetti che mangiano entram bi, ch iacch eran d o del più e del meno, mentre giocano a scacchi. Poi, o g n i lunedì, qualche collega d ’ufficio lo avvicina p e r chiedergli im m ancabilm ente “ Beh, com ’è andata venerdì con la tu a A n d reja? T e la sei scopa­ ta, eh, mandrillone?” o cose del genere. A lfred a llo ra abbassa lo sguardo, arrossisce e non sa cosa dire. N on h a m a i cercato di spiegare come stanno le cose fra lui e A n d reja: co n o sce bene i suoi colleghi e gli è chiaro che loro non gli cre d e reb b e ro . In fon­ do. sono anche loro gente coi p reservativi in ta s c a , pensa strin­ gendo i pugni dalla rabbia. L oro lo ch iam an o A lfred in o e gli danno grandi pacche sulla schiena e gli so rrid o n o p ie n i di co m ­ plicità vera, come a dire “Ti conosciam o, m a sc h erin a ! Sotto so t­ to, siamo tutti uguali...” E invece no! Non siamo tutti uguali, p en sa A lfre d ogni v o l­ ta: lui si sente pulito sin nel fondo d ella co sc ie n z a . C o m u n q u e, ad Andreja ha raccontato tutto, perché il c o m p o rta m e n to d ei suoi coi leghi d ’ufficio, le loro battutine, le loro a llu sio n i, gli avcvano messo in testa che in un certo senso lui s te s s e sul se rio abusando della sua amica: in fondo, lei ra p p re se n ta l ’ultim o f i­ lo che I» leghi a questa vita di insopportabili b a s s e z z e , re n d e n ­ dolo, con la sua amicizia, ancora m em bro di q u e s ta so c ie tà, e non un emarginalo totale. Dopo av erle c o n fid a to la sto ria d e i . Andreja lo aveva consolato dicendogli d i la s c ia rli s p a r­


lare qu an to volevano: lei n on si sentiva toccata. Pensassero pu­ re le cattiverie che preferivano, i maligni. D el resto, non che A lfred tem a la calunnie per via della mo­ glie. Sì, A lfred è sposato. A nche se non sa esattamente perché. P robabilm ente, la condizione di donna maritata era gradita alla tipa c h e l ’ha condotto al matrim onio. Fatto sta, che loro si vedo­ no p iu tto sto di rado, adesso: lei passa da un seminario a un con­ vegno di studi a u n a conferenza a una lezione universitaria; e p ro babilm ente lo tradisce. M a lui se ne infischia. Non è mai sta­ to sch iav o del sesso, lui: se dovesse definire il proprio caratte­ re, d ire b b e di sé che si considera un uomo razionale. In grado di cap ire p erfettam en te i m otivi per cui sua moglie non è in grado di d o m in are il proprio corpo così perfettamente come lui, anche se q u e sta cosa del dom inio del corpo a lei non l’ha mai rivela­ ta, p e rc h é tra loro non c ’è mai stata sufficiente intimità. Se l’in­ tim ità sia m ai sufficiente, per fare simili dichiarazioni. A n d re ja adesso è di nuovo divorziata. Lui sa tutto dei suoi c in q u e ex m ariti, p u r non avendoli mai incontrati di persona. È lei a p arlarglien e, anche perché le giornate lui le trascorre comu­ n ic a n d o a m onosillabi, convinto che per intendersi con la gen­ te n o n siano n ecessarie le frasi intere. “ C erto che oggi m i sembri strano, Alfred,” gli dice Andreja g u ard a n d o lo inclinando la testa. “È successo qualcosa?“ chiedr L u i si porta la m ano sulla tasca destra. Diventa ro&so in fai e ia. D ice “N o, p e rch é?” con u n ’aria terribilmente goffi. C o m in cian o la loro partita, e tocca ad Andreja muovere il pn m o p edone. M entre lei si piega in avanti sulla scacchiera, le n d e le sfere delle poppe occhieggiare dalla scollatura delia ma­ g lie tta . Poi, si accorge di non riuscire a concentrarsi sui dwcni


si e nota invece che le sue contromosse sulla scacchiera diven­ gono sempre più fitte e veloci per accellerare le mosse di Andreja; per poterle rivedere le collinette del seno. “Perchè hai tanta fretta, oggi?” gli chiede A ndreja guardan­ dolo di traverso. “Restituiscimi il m io alfiere, se no ti do scac­ co matto!” Lui ubbidisce, si sente in testa una gran confusione. Ha deci­ so: andrà in bagno e getterà i preservativi nel water... Ma se il getto dello sciacquone non bastasse a farli sparire? Che cosa penserebbe Andreja, trovando i preservativi nel suo water? Comunque, lui pensa che deve liberarsi di quella maledizione. Deve riuscire a far sparire quell’oggetto infetto! Schiocca la lin­ gua sul palato e vuota il succo di frutta nel bicchiere in un sor­ so solo, senza dire una parola. Allora A ndreja si alza in piedi, prende il bicchiere e va in cucina a riem pirlo di nuovo. Mentre si allontana dal tavolino degli scacchi, lui nota per la prima volta il culo di Andreja. Si sente crollare la terra da sotto i piedi: non può credere di aver pensato la parola “cu lo .” Quando Andreja ritoma in soggiorno col nuovo bicchiere di succo, lui si accorge che lei è, pur non essendo altissim a di statura, decisa­ mente formosa. Rosso. Si sente rosso come un peperone. Non si possono p en ­ sare cose del genere senza arrossire. “Che cosa ti succede, Alfred,” gli chiede lei teneram ente. “Sei pallidissimo. Ti senti male?” “No,” dice lui tutto tremante. “È tutto okay.” Si ripete ossessivamente che deve riuscire a buttar v ia la c o n ­ fezione dei preservativi. Subito. La perversione che essa irradia sta cominciando a impadronirsi di lui. È in preda al panico. Si slaccia il primo bottone della camicia. L a fronte è im perlata di sudore. Andreja lo osserva preoccupata. Lui si slaccia la cravat­


ta. Si to g lie la giacca. A ndreja gliela sistem a sull’attaccapanni. L ui non p u ò fare a m eno di guardarle il culo. Mentre lei toma a sedersi al tavolo degli scacchi, vede le poppe oscillarle sotto la m ag lietta. Santo cielo, A ndreja non porta il reggiseno! Sente u­ na voce d ire “Basta con questi succhi di frutta. Non c ’è della bir­ ra ? ” m e n tre si rende conto che la voce è la sua, e Andreja sta tor­ nando in cucina dopo averlo squadrato con uno sguardo di stu­ po re v e ro negli occhi. H a n n o ripreso a giocare. L ui ha bevuto un sorso di birra e ne è rim a sto schifito. N on gli piace il gusto della birra. Lei, aspet­ ta di p o te r m uovere la torre. L ui p o s a il bicchiere da un lato, sposta la regina in diagona­ le, e q u in d i afferra la bottiglia di birra e la beve d ’un fiato sen­ za v e rs a rn e nel bicchiere. Q u a n d o la p artita finisce, A ndreja si appoggia airindictro sulla s e d ia e continua a fissarlo: Alfred, non s ’è mai comporta­ to co sì. A vverte uno strano formicolìo passarle per le gambe. L u i è al colm o d e ll’angoscia. Si sente inturgidire il cos** c m e n tre A n d reja si china in avanti per prendere il bicchiere, lui p e n sa: s e allungassi la m ano e la appoggiassi sulle sue tene ( sì u sa p ro p r io q uesta espressione: tette) che cosa direbbe lei. con la m ia m an o sulla scollatura? Griderebbe “Alfred?!** Mi *chi.ii fe g g e re b b e ? Sì, lo farebbe certamente! E allora succeda quckh» d e v e succed ere! E che uno schiaffo mi riporti alla nonni».il A llu n g a la m an o verso la scollatura e stringe lentamc d ita in to rn o alla poppa. La titilla. Andreja dice "Alfred.’ Fi n a lm e n te ! ” L u i le salta addosso scavalcando il tavolino.

S i ro v e sc ia n o entram bi sul divano. Si spogliano I un I

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Lei lo morde sul collo e allarga le cosce. Lui, incontenibile, get­ ta via un pedone che gli è finito non si sa come fra le mutande, cerca i calzoni sul tappeto, arriva alla tasca destra e estrae la sca­ tolina. Cerca di infilarsi il preservativo. Ma adesso è troppo ec­ citato; non ci riesce. Lei cerca di aiutarlo, ma lui rifiuta con de­ cisione: ci sono cose nella vita, che un uomo deve fare da solo. Ha solo bisogno di una breve pausa. E della cosa più noiosa del mondo a cui pensare, finché l’arnese non gli tomi abbastanza a posto da riuscire a infilare il preservativo. Allora si ricorda dei ritagli di giornale nel portafogli dello sconosciuto. Il calcio. Ecco la cosa giusta a cui pensare! Mentre palpeggia i seni di Andreja, cerca a occhi chiusi di ricordare il contenuto degli ar­ ticoli sportivi che ha scorso al lavaggio rapido. Cerca di ricorda­ re addirittura qualche sequenza di certe rare partite di calcio che ha seguito in tv: Tizio che passa la palla a Caio; Sempronio che si produce in un dribbling irresistibile; la palla che si infila sul sette della rete e il gioco a zona sulla tre quarti: si sente subito meglio. Infila il preservativo, apre gli occhi, individua il suo ber­ saglio ed entra in azione senza indugi. Pensa: “Ecco perché i pre­ servativi e gli articoli sportivi stavano insieme, nel portafogli! Oh, quanti misteri cela il mondo!” Le palpeggia il didietro e la scopa gagliardamente. Lei gli si avvinghia stringendolo a più non posso. Lui caracolla in avanti, si alza in piedi afferrandola sotto le cosce e quindi si slancia contro la parete puntellandosi come può. Lei geme. Lui la spinge a sé e muove un passo indie­ tro. Sostiene il corpo di lei, la morde, prende una specie di rin­ corsa e la sospinge di nuovo contro il muro. Quindi, si va avan ­ ti così ancora per un pezzo, mentre Andreja urla di piacere. Questo sabato mattina, sta guidando con la sinistra sul volan ­ te mentre con la destra infila la cassetta di Hindemith nel m an ­


gianastri. Ci rinuncia immediatamente. Si butta la cassetta die­ tro le spalle. Il nastro di Hindemith rimbalza sul sedile poste­ riore e finisce sul tappetino. Al diavolo. Lui preferisce accende­ re la radio e cantare insieme a Presley “Good Rockin’ Tonight.” Parcheggia la macchina davanti a un negozio di alimentari vicino a casa, senza badare alle strisce pedonali. Prima di entra­ re nel negozio, fa lo scemo fischiando dietro a una ragazza in mi­ nigonna. N on ha nessuna voglia di cucinare, oggi; per cui deci­ de di comprare dei panini e rientrare a fare una dormita come si deve. La commessa, che è di una decina d ’anni più giovane di lui, coi capelli arricciati artificialmente, gli consegna i suoi pa­ nini e gli dice “Desidera altro?” “Un sorriso,” dice lui. La ragazza sorride e lui la ricambia. La ragazza ripete “Desidera ancora qualcosa?” “A ccidenti,” dice lui, mentre la sua audacia lo sbalordisce. La guarda dritto negli occhi e aggiunge “Ma non puoi accontentar­ mi, durante il lavoro.” “Oh,” dice lei, “forse non ora. Ma dopo le sette, stasera sono libera,” conclude fissandolo in un tono di autentica complicità. Alla fine, lui si avvicina alla cassa e tra gli occhiali da sole in esposizione ne sceglie un paio con la montatura particolarmen­ te lucida e le lenti metallizzate a forma di goccia. Q uando apre la portiera dell’auto inspira profondamente l’a­ ria m ite di questa nuova giornata primaverile, quindi, infilati gli occhiali, si sbottona la camicia, si accarezza i peli del petto e par­ te facendo stridere le gomme. H a fatto tardi. Dieci minuti dopo le sette, la commessa non c ’è più, davanti al negozio. Lui allora fa il giro delfedificio e la scorge alla fermata dell’autobus. Alza al massimo il volume del-


la radio e le si ferma accanto abbassando il finestrino. Si china in avanti a guardarla seguendo la voce inimitabile di R eed che dice “Hey, baby, take a walk on thè w ild side.” Le apre la por­ tiera, aspetta che lei si sieda, e senza dire una parola si dirige fuo­ ri città, in direzione della pineta e della spiaggia, incontro alle prim e luci degli alberghi che si intravedono a distanza. Si dicono, in auto, le solite stupidaggini. Lui si accorge che ha osservato per anni nello specchietto retrovisore sem pre le stesse strade e quartieri e adesso decide che è ora di cam biare: lo inclina finché non ci vede dentro la propria faccia. Pensa: “Non sono affatto male, per la mia età.” Si sente ben conserva­ to. I pochi capelli grigi che gli curvano dietro le orecchie lo ren ­ dono sufficientemente affascinante. La mattina, adesso, invece di pettinarsi, si arruffa i capelli e cerca di nascondere l ’inizio di calvizie che li minaccia. Gli occhiali da sole, nel crepuscolo, gli conferiscono un che di aggressivo e perverso che non guasta, su quel suo viso per il resto assolutamente mite. Le offre u n a siga­ retta e ne accende una anche lui. Riesce a non tossire perché si è esercitato tutto il giorno. Al ristorante, ordina una bottiglia di vino e dei gam beretti in salsa. Accende la candela rossa al centro del tavolo e danza con la giovane commessa che è sempre più divertita e allegra: sono ritm i lenti, sentimentali; lui balla senza m ai togliersi gli o cch ia­ li. Si stringe a lei e cerca di farle sentire il suo coso fra le g am ­ be. Le dice “Hey, bambola, sai già cosa ti aspetta, non è v e ro ?” Lei, neanche fa finta di protestare. Ha preso la stanza per una notte. E in piedi accanto alla finestra e osserva la miriade di luci in lontananza. Lei invece è in bagno. Sta facendo la doccia. U n m i­ nuto dopo, lentamente, con freddezza, lui si infila il p reserv ati­


v o e quindi la raggiunge nella stanza da bagno e la prende, pe­ n etran d o la vigorosam ente sotto la doccia. A lla fine, nudo e bagnato, esce sul balcone e fa girare il pre­ servativo vorticosam ente sopra la testa, prima di lasciarlo osser­ van d o n e il volo verso la passeggiata illuminata a giorno, lonta­ n o , m olto sotto di loro. C hiude a chiave la porta e si palpa la tasca per accertarsi di a* v e re con sé la scatolina; quindi, esce all’aperto nelle prime ore d i questo pom eriggio domenicale. Raggiunge la spiaggia in au­ to m o b ile e in un bar acquista alcune lattine di birra. Ne sorseg­ g ia una lentam ente girando per la città, con il finestrino abbas­ sato e il gom ito fuori. Si incolla a una teenager coi capelli bion­ do artificiali, in m inigonna e minimaglia. Le fischia dietro per un p o ’, finché lei non si volta e gli dice “Cerchi qualcuno, papari­ no?” “L a m am m ina, bam bola,” dice lui ridendo con una vera e­ spressione lasciva in faccia. “ A llora, vai a vedere a ll’ospizio dei pensionati.” dice la bion­ d a artificiale. “ Ci sono già stato,” dice lui. “Anzi, i tuoi figli ti salutano!" L ei sorride, e il sorriso le toglie quel po' di vago ebetismo che le traspare dal volto. Lui ferma l’auto, apre la portiera e continua tran q u illam en te a fum are, senza fare un solo gesto, per invitar­ la dentro. Q uando lei gli si sistema accanto, lui le offre una birra. B ev o n o entram bi per un po’ senza dire una parola. Anche gli ul­ tim i alberghi sono rimasti alle loro spalle, adesso. Stanno cor­ ren d o p er la strada che attraversa la pineta, sulla terra rossa co­ sp arsa di aghi. “Sei veloce, libertino,” dice lei.


“Yeah,” dice lui. “Come ti chiami?” dice lei. “Freddy,” dice lui. “Sai, Freddy, a me interessano solo gli uomini con un certo spessore fra i calzoni. Ma non in mezzo. Di fianco. In tasca,” d i­ ce lei. “Avrai tutt’e due, bambola,” dice lui. “Allora okay,” dice lei. Lui ferma l’auto e dà un’occhiata in giro. Fra gli alberi d e l­ la pineta, il sole si rifrange sulle carrozzerie lucide delle autom o­ bili parcheggiate un po’ ovunque, in quei paraggi. “Questo è il posto adatto per una scopatina,” dice. Poi g u ar­ da alcune delle auto oscillare e ondeggiare leggermente e a g ­ giunge “Fammi vedere quel che sai fare, bambola!” Il crepuscolo di questa serata domenicale si è insinuato n e l­ l’abitacolo dell’automobile ferma nel perimetro del parcheggio del centro. Lui sta seduto dentro e osserva la scatolina vuota ri­ girandosela fra le mani. “Joy without risk,” continua a ripetere fra sé e sé. Chiude il finestrino e indossa il giubbotto. Si ferma davanti all’ingresso della farmacia e cerca di riflet­ tere. Si toglie gli occhiali e li infila in tasca. Prima di entrare, vuole assicurarsi che nessuno lo stia osservando. Si mette in f i­ la, e si prepara mentalmente a pronunciare la parola “P reserva­ tivo.” O non sarebbe meglio “Profilattico?” In ogni caso, esclu­ de di nominare la parola “Antifecondativo.” Ci sono un vecchio e una ragazza, che stanno lavorando dietro il bancone della fa r­ macia. Lui spera e prega di capitare in mano all’uomo. Quando la ragazza gli si rivolge, domandogli che cosa d e si­ dera, lui ordina delle pillole vitaminiche. Nella farmacia seguente, riesce a comperare u n ’aspirina.


E nel piccolo m arket successivo, sotto lo sguardo inquisito­ re della commessa, compera un pettine e si sistema i capelli tut­ ti arruffati all’indietro. Il freddo della notte lo fa tremare. Decide di abbottonarsi la camicia fino al collo. Ritoma alla prima far­ m acia e resta im m obile dinanzi all’ingresso. Pensa “Se mi fin­ gessi sordomuto e scrivessi la parola Preservativo su un fogliet­ to porgendolo alla commessa?” Si passa il palmo della mano sul­ la fronte. “Cosa m i succede?” pensa. “Sto forse sognando? Che diavolo sto facendo? Non può essere vero!...” R espira profondamente. Alla fine, fa dietrofront e si avvia verso l ’automobile. Se li volesse sul serio, li comprerebbe, i pre­ servativi! Va bene così, decide. Tutte le cose di cui siamo fatti, sono in linea di massima ri­ cordi. Lui estrae dalla tasca la scatolina ormai vuota e dolcemen­ te la depone nel cestino dell’immodizia. Nel cestino seguente cunfila gli occhiali. Gli sembra di assistere a un funerale. L’automobile è par­ cheggiata sulle striscie pedonali. Lui pensa che per fortuna non ci sono vigili, lì attorno. Guarda sotto i sedili per vedere dov'è finita la cassetta di Hindemith, ma in quel buio non riesce a tro­ varla. Allora decide che la cercherà domattina. E certo che cer­ care la cassetta di Hindemith sia la prima cosa da fare, domat­ tina. È quel che gli preme di più, adesso. È sceso di nuovo dall’auto per respirare un po’ d’aria di que­ sta serata primaverile. C ’è una donna incredibilmente maestosa, che gli passa ac­ canto sul marciapiede, in questo momento. Lui cerca di scansar­ si sulla destra. La evita. Poi si curva in avanti scrutando dispe­ rato le cartacce a un paio di metri davanti a sé.



JORGELUIS di Vincente Gallego


Si è svegliato in prigione. A ll’improvviso. È una cella piuttosto angusta, provvista di un bricco lurido, di un catino d ’acqua e di una panca di legno sudicio al posto del letto. A desso lui si trova coricato sulla panca e da questa prospet­ tiv a distesa può godere di un rettangolo di cielo molto azzurro. C ’è u n ’aria mite e gradevole, qui; com e di primavera prossim a alla fine, o di estate appena cominciata. Ricorda perfettam ente d ’essersi coricato in camera sua a not­ te tarda, intento a rileggere uno dei suoi libri preferiti. L a m em o­ ria dell’ambiente confortevole della camera è molto viva. Con altrettanta certezza, sa che quando si è coricato l ’ultima volta nel suo letto non era ancora m età inverno. È capace di p recisale il m ese: dicembre; m a non il giorno. È un dettaglio privo di im por­ tanza, però; perché lui è abituato a ignorare questo genere di par­ ticolari. Sono tre le cose che lo tengono “ sospeso,” ora. O m eglio: ce n e sono due che lo inquietano; m entre una terza, sem plicem en­ te lo spaventa. Innanzitutto gli è im possibile ricordare esattamente cosa stesse leggendo quando il sonno lo ha sottratto alle pagine d e l li­ b ro. Tutti gli sforzi in questa direzione sono inutili. Poi, gli oc­


chi non gli dolgono affatto, nonostante la malattia che lo perse­ guita da anni e che lo sta rendendo cieco. Insomma, si accorge di poter aprire gli occhi perfettamente. La grossa cispa bianca che si è abituato a eliminare dalla pupil­ la ogni mattina con pazienza, davanti allo specchio, con un b a­ tuffolo di cotone imbevuto di una sostanza oftalmica, è scom ­ parsa. Non ha bisogno neppure del collirio speciale che h a dovuto farsi preparare appositam ente come rimedio ai dolori del bulbo. Nota con piacere che neanche il fascio luminoso che gli ar­ riva a perpendicolo sul viso attraverso la feritoia del tetto, lo d i­ sturba. Per un istante, pensa in preda a una sorta di felicità inco n ­ tenibile, di essere guarito; di essersi miracolosamente liberato da quella specie di quotidiana penosissim a tortura. Tuttavia, è subito costretto a confessarsi di non aver mai creduto ai m iraco­ li. Inoltre, c ’è un terzo fatto che gli procura angoscia fino al p u n ­ to di spaventarlo. Sta ricordando, parallela a questo suo nuovo stato di v eglia e non meno intensa, una realtà ulteriore; anche se è vero che rie ­ sce a ricordarla solo come una sorta di “piano secondo.” V ale a dire, sente questa realtà ulteriore com e compiutamente sua e n e l contempo estranea. È questa ambiguità che lo stupisce, p erch é tra le sue due vite di cui in questo m om ento è perfettamente c o n ­ scio, lui desidera tornare alla prima; e non perché questa gli a p ­ paia più soddisfacente, ma per una sorta di mero im p u lso interiore naturale e ineffabile. Al risveglio, la prim a p ercezione l ’ha attinta dalla sua vita “originaria.” Per questo ora sj, s e n ­ te come sospeso. Poi, non deve sforzarsi molto per ricordare d i essersi coricato, poche ore prima, sulla stessa panca di legno in cui è disteso adesso; in questa stessa cella in cui, aprendo gli o c ­ chi, si è così turbato. In questo mom ento si rende conto anche d e i


m esi che ha già trascorso lì dentro... A ll’inizio è stato difficile. Ma poi si è abituato completamen­ te al suo nuovo destino carcerario. Ha pensato molte volte tra sé (e quando non l ’ha pensato c ’era la sua defunta madre sempre pronta a ricordarglielo), che noi esseri umani siamo innanzitut­ to animali abitudinari, capaci di un grande spirito di adattamen­ to. D ’altra parte, se ben considerata, la sua situazione non è poi così terribile. Lui crede che se lo obbligassero a vivere in un tron­ co d ’albero cavo, senza altro compito che l’osservazione del­ l ’infinito, si abituerebbe ad attendere anche solo la visita di un m erlo o le mutazioni delle condizioni di luce circostanti. E il cie­ lo c ’è ancora, grazie a Dio. Il filo dei suoi pensieri si arresta di fronte all’espressione “ grazie a Dio.” Lui non ha mai creduto in Dio. Non ha mai cre­ duto, se così si può dire, a nulla; credendo nel contempo, sia pu­ re in un certo suo modo poco dicibile adesso, profondamente in tutto. Ricorda persino di aver negato l ’esistenza del divino da­ vanti al giudice, durante il primo della serie di interrogatori che lui si è sforzato di subire con risoluta pazienza e rassegnazione. E dunque, perché mai ora ha invocato il nome di Dio? E solo con se stesso, in questo momento, non ha bisogno di finzioni né men­ zogne: riflette che è l ’abitudine, ad averlo portato inconsapevol­ m ente a pronunciare quello strano enunciato che per lui, come p er la maggior parte dei parlanti, ha perso ogni parvenza di re­ ligiosità. Si è abituato alla prigionia senza eccessivi sforzi. Anzi, ha già dei pensieri “carcerari.” Aspetta il turno d ’aria che gli è conces­ so, l ’ora dei pasti, aspetta persino di poter rivedere le assurde cravatte che il suo avvocato sfoggia durante le visite; così come, quand’era in libertà, aspettava il sabato per incontrare una don­


na o restarsene tutto il pom eriggio seduto sul balcone. Per lui le cose più dure sono state smettere di fumare, (come gli hanno imposto), e adattarsi alla totale mancanza di fem mine. Il problema del fumo lo ha tormentato solo durante le prime settimane, fino a quando cioè non si è abituato all’idea. Il secondo, al contrario, col trascorrere dei mesi è divenuto sempre più acuto, ma alla fine lui è riusciuto a trasformarlo in u­ na specie di occasione p er amm azzare il tempo. Ha finito per soddisfarsi da solo, e ha persino imparato a dilatare il periodo dell’eccitazione, che orm ai sta diventando la sua più intensa fonte di piacere, la più inaspettata. Lui inizia im m aginandosi u­ na donna; poi, a rotazione, tutte le donne che ha posseduto in vi­ ta sua, e anche quelle che ha solo desiderato fugacemente in au­ tobus, al cinema o anche sem plicemente camminando p e r stra­ da. La cella si popola allora dei loro visi, delle fisionom ie e del­ le parole oscene che le donne gli rivolgono lascive. Ha fin ito con l ’imparare a eccitarsi grazie al suo stesso odore; ogni v o lta si sforza di procurarsi le im m agini più perverse: donne dal d e re ta ­ no enorme e sodo, coi fianchi larghi e il seno piccolo; donne completamente prive di peli pubici e altre oscenam ente p elo se nelle zone sessuali, specie nella regione anale. Q ualche altro giorno, cerca invece l’innocenza di una bam bina o la fo rz a ses­ suale di una vedova di campagna. Nel delirio, nessuna re s is te ai suoi desideri; e anzi, sem bra li riconoscano im m ediatam ente, vogliose soltanto di sottom ettervisi al più presto, asso lu ta m e n ­ te compiacenti, come se quei desideri coincidessero p e rf e tta ­ mente con i loro. In fondo è possibile che lui si im m edesim i con tutte, e che ognuna di esse finisca col rappresentare p e r lu i, gli episodi più seducenti e sfrenati che la sua lussuria è in g r a d o di immaginare. Può accelerare o trattenere gli orgasmi m ediante una a d e g u a ­


ta pressione alla base del pene, e questa possibilità di controllo 10 aiuta, insiem e alla spossatezza fisica che gli orgasmi gli pro­ curano, a godere di un altro dei piaceri resi squisiti dalla cella: 11 sonno. L ’inquietudine e i disagi degli inizi non gli sono stati' molto di aiuto, m a in seguito è riuscito a dormire fino a sedici o­ re al giorno. Si sente im prigionato da un meccanismo irreversibile, da u­ no strano ingranaggio al quale, tuttavia, non vuole sottrarsi. Re­ sta in uno stato di lieve dormiveglia che gli offre, attenuate, al­ cune delle sensazioni più piacevoli del mondo reale, (anche se qual è, in fondo, il mondo reale?) insieme ad altre, che sono poi le più num erose, del regno dei sogni. Per esempio, può racchiu­ dere il verso soave di un uccello o la fugace carezza del sole che arriva nella sua cella, in un sogno in cui lui si trova disteso su u­ na spiaggia deserta godendo di una quiete indicibile. Sì, questa è la parola giusta: quiete. Ma una quiete che talvolta è, per co­ sì dire, pericolosam ente vicina alla follia. Le poche ore di veglia è solito riempierle esercitando la me­ moria. Prova piacere a ricordare le cose, ed è giunto al punto di ripassare m entalm ente tutti gli oggetti che aveva nella sua came­ ra, scoprendo ogni volta nuovi dettagli segreti'e mai sospettati prim a. Capisce che un uomo che abbia vissuto anche un solo giorno potrebbe avere ricordi sufficienti a riempire cento anni di carcere. Gli piace, inoltre, rileggere un vecchio pezzo di giorna­ le ingiallito e logoro, che ha trovato sotto il pagliericcio. L’ar­ ticolo riporta la notizia di un fatto di cronaca singolarmente rac­ capricciante. Un uomo era partito da un paese della Cecosvovacchia in cerca di fortuna. Dopo venticinque anni era ritorna­ to, ricco, con la m oglie e un figlio. Sua madre e sua sorella, era­ no le proprietarie di un albergo, nel paese natale. Per far loro u­


na sorpresa, l ’uomo aveva lasciato la m oglie e il figlio in una pensione e si era recato da solo fino all’albergo della m a d r e , la quale, tuttavia, non lo aveva riconosciuto. Per fare a lei e a lla so­ rella una sorpresa, l’uomo aveva deciso di prendere lì, u n a ca­ mera per riposare. Quindi, aveva mostrato alle donne il p r o p r i o denaro. Durante la notte, la m adre e la sorella lo avevano a s s a s ­ sinato a martellate. Per derubarlo. Quindi, avevano g e tta to il corpo nel fiume. La mattina seguente era giunta a ll’a lb e r g o la moglie, preoccupata per l ’assenza del m arito, e aveva riv e la to alle due donne l ’identità del viaggiatore. A lla fine, la m a d re d e l­ l’uomo si era impiccata, e la sorella s ’era gettata in un p o z z o . Ha letto questa storia mille volte: per un verso essa g li a p p a ­ re del tutto inverosimile; per un altro, la considera invece n a tu ­ rale. Il viaggiatore, pensa lui, aveva sem plicem ente v o lu to g io ­ care e aveva perso. Ha imparato a osservare gli insetti per ore, così com e d a u o ­ mo libero osservava ogni sabato la gente sfilare sotto la s u a te r ­ razza. Lui è sempre appartenuto a quella ristretta categoria d i u o ­ mini che dalla vita si augura solo benessere, non già fe lic ità . O forse, un tipo di felicità m odesta e nello stesso tem po p ie n a , c h e consiste nel godere innanzitutto cjelle sensazioni più che d e i s e n ­ timenti, nell'avvertire necessità fisiche prim a che e m o z io n a li. Lui avrebbe potuto godere in m aniera ineffabile di un p a s to , se avesse avuto fame; o del corpo di una donna e della sua b e l l e z ­ za, ma difficilmente del suo am ore. Allo stesso m odo, un r u m o ­ re nel pieno del silenzio era capace di farlo au tenticam ente s o f ­ frire. Qualcosa di molto simile si potrebbe dire anche per la s e m ­ plice presenza di una persona non gradita. M olto d iffic ilm e n te invece, avrebbero potuto addolorarlo la perdita di una p e r s o n a cara o l ’abbandono di una donna. Tutto questo che il suo m o d o


di agire lasciava indovinare, doveva risultare decisamente stra­ no ai suoi sim ili, nonostante la sua innocenza gli impedisse di rendersene conto. La cella gli offre l ’opportunità di godere di alcune delle pic­ cole cose che preferisce. Prova un piacere vero a ritardare volon­ tariamente la defecazione mentre, accovacciato, gira estasiato il viso verso il rettangolo di sole che piove al centro della stanza. Gli manca solo la libertà. O forse, nemmeno quella. Certo, lui gode di una libertà m olto limitata, in termini spaziali; ma è pur vero che anche quella del mondo è resa tale dalle possibilità che ci toccano in sorte. Ciò che lui ha sem pre cercato sopra ogni altra cosa, è l ’equi­ librio. Ma un genere di equilibrio per così dire personale, gioioso, che può essere costituito dagli abusi più diversi purché questi siano in grado di procurargli quel benessere interiore che grazie alla natura delle sue poche necessità, è relativamente facile adat­ tare anche agli am bienti più ostili. L ’hanno invece sempre irri­ tato le m olestie e le introm m issioni degli altri nel suo mondo: lui le respinge con una risolutezza innata. Per questo motivo, quel giorno aveva ucciso l ’arabo. Tutto era perfetto nel suo “perso­ nale equilibrio” : un pasto a lungo atteso e gustoso, la dolce son­ nolenza che lo accom pagnava, la passeggiata sulla spiaggia de­ serta con i piedi rinfrescati d all’acqua e un leggero rumore, lon­ tano e fam iliare, di piatti e posate proveniente dalle piccole ca­ se vicine. C ’era solo qu ell’arabo che non aveva mai visto prima, a di­ sturbarlo inaspettatam ente col suo coltello luccicante, impeden­ dogli a quanto credeva, di sdraiarsi vicino all’acqua come desi­ derava. In quel m om ento si sarebbe liberato di qualsiasi ostaco­


lo pur di non rinunciare al suo “personale equilibrio.” T uttavia, quell’arabo col coltello non era un cane che si potesse spaven­ tare agitando le braccia; né un ram o portato dalla m area che si potesse rigettare in acqua... Non gli importò molto di sparare contro l’arabo. Lo fe c e sen­ za odio. A ll’istante. Non si preoccupò d ’altro se non di av er di­ strutto l’equilibrio del giorno e il silenzio di quella spiaggia in cui si sentiva felice. Sta cominciando a seguire il filo di molti altri ricordi, quan­ do la porta della cella si apre a ll’im provviso e un gendarm e gli dice “Signor Mersault, mi segua.” Allora, nell’udire il suo no­ me comprende tutto: ricorda di essersi addormentato n e lla sua camera mentre rileggeva un libro che lui aveva sempre conside­ rato in un modo speciale, quasi l ’avesse scritto lui: “Lo S tranie­ ro.” Adesso, sa con certezza che cosa lo aspetta. C apisce che lo stanno conducendo al processo. Come Cristo, sa in anticipo che sarà condannato. Anche Cristo ha vissuto due vite parallele; e come Cristo, accetta il proprio fatale destino. Chi è lui p e r de­ fraudare la letteratura? Decide che non gli è possibile trad ire Ca­ mus. E quando durante il viaggio nel cellulare nota che la por­ ta è malchiusa e che in quel mom ento gli agenti sono distratti, ri­ nuncia a una facile fuga che pure nella sua testa sarebbe g ià ben delineata. Non può deviare il corso della trama; così c o m e non può, scappando, trasformare tutto in un volgare racconto poli­ ziesco. Sente di dovere questo alle generazioni future e, soprat­ tutto, sente di dovere questo a se stesso. Durante il processo ha riconosciuto improvvisamente la don­ na che ha amato in un altro mondo e i suoi amici e gli uom ini che gli hanno tenuto compagnia per anni. M a essi, chiamati a testi­


moniare, rispondevano ad altri nomi: M aria Cardona, Celeste, Salamano, Raim ondo, M asson... Nessuno di loro si è svegliato da quel sogno... Era un sogno? Questa è la dom anda che ancora lo tormenta. Sa che soltanto la ghigliottina gli rivelerà tale mistero, perché lui ricorda che in altri sogni, solo il terrore di fronte alla morte lo ha riportato, all’ultim o istante, allo stato di veglia. Soltanto lui sembra ricordare il nome: Jorge Luis B. Allora pensa ancora u­ na volta e definitivam ente, che tutti noi siamo lo stesso uomo, Shakespeare, la ballerina di tango, lo scrittore mediocre, Cer­ vantes, lo straniero... E comprende che il suo ultimo racconto non resterà inedito. La morte non lo seppellirà. Qualcuno, in qualche luogo, da sempre, lo sta già scrivendo.



U N ’APOCALISSE IN SCALA RIDOTTA

di Andrea Canobbio


L’aula - buia anche nei giorni sereni pareva con quel tempo infernale una ca­ tacomba: ci si vedeva a malapena. Luigi Pirandello, L ’eresia catara

1. Era entrato sbucando dalle quinte di velluto rosso e, com e era entrato, un silenzio di tom ba stupendo tutti era sceso in sa­ la, ed io avevo perso per un attim o di vista le braccia bianche di A m alia distese sui braccioli della poltroncina e non avevo resi­ stito al sorriso nervoso che mi saliva alle labbra. U na sm orfia che non poteva essere di benvenuto, sia perché il carattere d e ll’an­ ziano professore non invitava a queste confidenze, sia perché il sorriso era troppo forzato, un ghigno sarcastico piuttosto, p iù of­ fensivo che conciliante. M a lui comunque non p oteva vederm i, lì in prim a fila a sbirciare le braccia di A malia, tanto pareva con­ centrato nel raggiungere la sua posizione di oratore, e io so rri­ devo pur non trovando p er nulla ridicolo quello ch e C am illa sta­ va facendo, sorridevo forse perché se A m alia m i avesse guarda­ to avrebbe pensato che tutto sommato, m algrado avessi cercato in tutti i modi di dissuaderle da q uell’im presa, lo consideravo u n gioco divertente. V olevo che pensasse di m e che ero al di sopra di quelle bam binate, che non vi partecipavo e anzi le ostacola­ vo non perché fossi codardo, m a perché ero più saggio e m a tu ­ ro di loro due, A m alia e Camilla, le braccia bianche d e ll’u n a e gli occhi strabici d e ll’altra. Tanto è vero che ero lì con loro, non avevo paura di essere coinvolto, ero lì a rischiare il risu ltato del-


Tesarne a cui tenevo di più, e se questo n o n era coraggio e sprez­ zo del pericolo... Se non era coraggio, erano le braccia b ia n c h e di Am alia a cui non volevo rinunciare, anche se lei aveva la mente rivolta a C a­ milla, sotto il palco, nascosta, che tram a i n segreto, m entre sen ­ te sopra la sua testa i passi del professore che entra dalle q u in ­ te di velluto rosso e cammina rap id am en te sul palco verso la scrivania dell’oratore, come se avesse fr e tta di chiudere la sera­ ta, cammina senza stupirsi del silenzio c h e orm ai regna sovra­ no nella sala del vecchio teatro, abituato a spezzare il silenzio con uno dei suoi mirabili attacchi: “P arlerem o oggi di m illen a­ rismo: eresia!” Ecco, ormai non c ’era più m o d o di tornare ind ie­ tro, Amalia lo avevo sentito e si agitava n e lla poltrona, perché il professore si era irrimediabilmente se d u to sulla sedia fatale e Camilla di sotto, come uno stregone che p re p a ra i suoi intrugli, oliava gli ingranaggi e tremava di e m o zio n e sperando che tutto funzionasse a dovere. Camilla aveva detto U n o scherzo così non lo potremo mai più fare in vita nostra, non te ne rendi conto?, è l’ultima occasione per avere qualcosa da ra c c o n tare, per m ette­ re qualcosa di voluminoso nell’archivio d e i ricordi, prim a d el­ la fine, degli studi s’intende. Avevo scosso la testa e osservato di sbieco Amalia che invece tratteneva un s o rriso , tra l ’am m ira­ to e lo scandalizzato, affascinata e sp av en tata insiem e, e stringe­ va al petto le braccia incrociate e fissava C a m illa e pensava a quanto era bella malgrado gli occhi storti, e disin v o lta, e a com e tutti i ragazzi avrebbero dovuto morirle d ie tro e che an ch ’io d o ­ vevo essere per forza pazzamente inn am o rato di lei. C am illa che diceva Lo devo fare, mi martellava le o rec c h ie nel m om ento in cui il professore iniziava a parlare, quando l a pelle bianca e tra­ sparente delle braccia di Amalia si rag g rin ziv a tutta in un b rivi­ do di paura e di emozione, e mentre io, lascian d o m i andare, pen­


savo a lei senza più pudori. 2. Parlava e diceva Ringrazio gli am ici del Cerchio Cultura­ le Duemila, ed era il prim o segno di quello che sarebbe succes­ so, tutti se ne erano accorti, non poteva essere una semplice svi­ sta, aveva detto C erchio invece di Circolo, e poteva averlo fat­ to apposta per prendere in giro quelli del Circolo che aveva or­ ganizzato la conferenza, m a io non ne ero poi tanto sicuro, pri­ mo perché lui non era il tipo da fare d e ll’ironia a buon mercato, se gli fossero stati antipatici non avrebbe nemmeno accettato di fare un discorso, secondo perché l ’argom ento lo appassionava, e affrontava tutto ciò che anche lontanamente si poteva riallac­ ciare alla Storia delle Religioni con serietà assoluta, consideran­ do sacra, nel vero senso della parola, la sua materia, tanto che il tono e l’inizio del suo discorso mi avevano spento il sorriso e mi chiedevo se C am illa avesse sentito e se anche lei fosse perples­ sa quanto me. Ma Cam illa no, non percepiva che un borbottio indistinto, un gorgogliare lontano, e non capiva quello che il professore dice­ va e anzi era in ansia e si era costruita un ’im palcatura di sedie per arrivare più vicino al soffitto ed accorgersi quando la conferen­ za finiva. Non aveva sentito lui dire Ringrazio gli amici del Cer­ chio Culturale, altrimenti forse non avrebbe insistito nel suo proposito, Cerchio invece di Circolo era una gaffe così colossa­ le da suscitare incertezze e sospetti. Perché Cerchio? E se fosse stato intenzionale, se il professore avesse voluto rendere eviden­ te, con quel sinonim o a metà, qualcosa di connesso al tema del­ la conferenza? Era facile costruire una catena di associazioni del tipo: cerchio, ciclo, nascita, morte, inizio, fine. Se proprio aves­ simo voluto m etterci a ragionare e scervellarci su questo esordio esplosivo, “C erchio” invece di “Circolo,” se proprio avessimo


voluto vederci un ’intenzione sarebbe stata u n ’intenzione diabo­ lica, perché negava l’esistenza d ell’argomento su cui il profes­ sore stesso si accingeva a dissertare. M a c ’era u n ’altra soluzio­ ne ed era quella del lapsus rivelatore: cerchio invece di circolo indicava un desiderio, la speranza che fine significasse inizio e viceversa. 3. A scoltavo l’esordio incredibile del professoree con g li oc­ chi abbassati fissavo le braccia di Amalia, lunghe e bianche, che distese sopra i braccioli contrastavano con il velluto rosso con­ sunto della poltroncina, e ripensavo a un velluto simile, quello del cuscino su cui giaceva un cofanetto pieno di ossa, nella cripta di quella basilica. Amalia era sem pre stata attirata dai luoghi te­ tri, cim iteri e simili, le piacevano la varietà, la fantasia, il p itto ­ resco di certe tombe, era una collezionista, tanto che voleva pro­ porre al suo professore di Storia d ell’Arte una tesi sull’evoluzio­ ne nei secoli della forma sepolcrale. In quella cripta mi ci ave­ va portato ad ammirare la tom ba di un nobile del settecento, u­ na rarità, a prima vista si vedeva una semplice pietra pavim en­ tale rialzata di lato, come se fosse stata chiusa male, mentre chi­ nandosi si scopriva all’interno uno scheletro di marmo bianco raffigurato nell’atto di spingere con il cranio e le mani la pietra stessa com e se volesse uscire. E ra divertente, ma n ell’insiem e m etteva a disagio, soprattut­ to perché Amalia, eruditissima, non trascurava di raccontare che il nobile era stato sepolto vivo per errore (un caso di m orte ap­ parente) e quando la tom ba era stata aperta, lo avevano trovato così com e lo rappresenta la scultura (forse un p o ’ più in carne, m a com unque morto). La m oglie aveva voluto quella stranezza per ricordare il triste evento, e com e spesso accade, l ’artista a­ veva cercato, al di là delle indicazioni personali del com m itten­


te, di dare un significato universale alla sua opera e l’aveva per­ ciò intitolata: in no v issim o die . Bisognava interpretare in chia­ ve grottesca lo sforzo bestiale che lo scheletro sembrava com­ piere per sollevare la pietra? Lo scultore non credeva forse ve­ ram ente nella nuova alba dopo la fine del mondo? N on indagavo più del necessario, Amalia mi avrebbe tratte­ nuto in q u ell’antro umido e freddo ancora per mezz’ora se le a­ vessi dato corda, cercavo invece di farle esaurire gli argomen­ ti in fretta, fingendo che mi avesse già parlato di ogni cosa. Per esem pio delle cento rose conservate in una bacheca di vetro, spedite cinquant’anni prima da uno sconosciuto ammiratore per il funerale di una contessa ed ancora in ottimo stato: sotto vuo­ to? surgelate? L e spiegazioni chimico-fisiche non interessava­ no A m alia che di regola attribuiva cause soprannaturali agli e­ venti più banali, e quindi a quelli inusuali pretendeva di trova­ re radici ancor meno scientifiche. Rose bianche perfettamente conservate, forse di marmo, chissà, per ingannare i visitatori, per costituire un motivo in più di attrazione (si pagava per accedere alla cripta). Scheletri di marmo bianco, braccia lunghe e bianche di A m alia distese sulla poltroncina, mentre il professore esordi­ v a sbalordendo l ’uditorio. 4. Parlava e diceva Ringrazio gli amici che mi hanno offer­ to questa occasione, ma prima di iniziare con l’argomento del­ la serata vorrei raccontare una piccola storia a guisa di introdu­ zione, non l’ho letta né sognata, l’ho immaginata stamane in tram , mentre m i recavo come ogni mattina alFUniversità, una storia inventata dunque, una specie di parabola. Ho pensato ad un uom o in visita ad una cartiera, un tipo molto curioso, un bi­ bliofilo per esempio, morbosamente interessato al processo in­ dustriale di fabbricazione della carta, che vuole vedere da vici­


no ogni più piccola fase del ciclo, dal legno al foglio bianco. L ’ho immaginato affacciato ad una specie di balconcino, sp o r­ to su una grossa vasca in cui enorm i pale meccaniche rim esta­ vano la pasta bianca destianta poi a seccare in sottilissimi fogli. L ’ho visto infine cadere, cadere a testa in giù, a capofitto dentro la vasca, sotto la superficie bianca agitata dal tuffo e poi di n u o ­ vo regolarmente ondulata dal m ovimento ritmico delle pale. Scomparso. Annegato? No, am algamato con la pasta e poi tra­ sformato in tante pagine di finissim o “papier de luxe” per ed i­ zioni costose di capolavori classici. Al momento della stam pa deH’“Infem o” sente appena un p o ’ di solletico, più che altro c a u ­ sato dai caratteri troppo fronzuti d ell’edizione. L ’uomo trasformato in libro può iniziare la sua nuova vita, la quale consiste nell’essere letto, cioè nell’essere preso in m ano dal ripiano della libreria in cui giace, aperto alla prima pagina e tenuto sott’occhio e accarezzato in tutte le sue righe dagli occhi del proprietario. Nei momenti in cui non viene letto, il libro se ne sta chiuso, giacendo appunto nella libreria: è una sorta di le ­ targo e se si prolunga troppo diventa una prigione. Viene sp o n ­ taneo l’assioma: il libro esiste quando viene letto, cioè “ nel momento in cui,” durante la lettura. Quando è chiuso? È una c o ­ sa qualsiasi, posata li. Il mio libro, l ’uomo libro che ho sogna­ to stamattina a occhi aperti, è sfortunato: capita in una casa in cui serve soltanto per decorare; con la sua copertina di finta pelle e i caratteri gotici dorati (di così cattivo gusto) è adagiato in p e r­ manenza sopra il televisore. A forza di stare chiuso soffoca. Muore. Quando un ospite si decide ad aprirlo per recitare l’attac­ co del Poema con enfasi e far ridere le signore, trova i fogli b ia n ­ chi oppure ridotti in polvere, fate voi. * * *


5. Fissando il palco all’altezza dei miei occhi, mi sembrava che da un m om ento all’altro avrei visto aprirsi una finestrella o un buco o una fessura nel legno e apparire gli occhi di Camilla che mi vedevano senza guardarmi, intenti come al solito ad e­ splorare la punta del suo naso, grigi, bellissimi, m a strabici di u­ no strabismo così evidente, esagerato, da far pensare ad un truc­ co, ad uno stratagemma di lenti a contatto inventato da un comi­ co, anche perché in quel viso pefetto pareva incredibile che ba­ stassero due pupille sfasate a cambiare tutto. Personalmente, il presunto fascino di Camilla mi era sempre stato estraneo, ben­ ché Amalia avesse cercato più volte, senza successo, di convin­ cermi che quegli occhi storti erano irresistibili; e forse una del­ le ragioni per cui lei ignorava le mie attenzioni era proprio che io ignoravo la bellezza dell’amica e non ne facevo mistero. Mentre Camilla ci esponeva il suo piano, non avevo smesso di criticarla, e questo, lo sentivo, Amalia non me l ’aveva perdo­ nato, perché per lei tutto quello che riguardava Cam illa era sa­ cro, e se Camilla le avesse proposto di attraversare l’oceano a nuoto per allenarsi a un nuovo diluvio universale, lei lo avreb­ be fatto, con quelle sue braccia lunghe e bianche. Al prim o so­ pralluogo (Camilla possedeva le chiavi per entrare dal retro del vecchio teatro) c ’ero solo io. Camilla era eccitatissima, mi mo­ strava l’ingranaggio magico come se avesse scoperto la M acchi­ na del Tempo, accompagnandomi sopra e sotto il palco per far­ mi capire dove come e quando sarebbe accaduto quello che do­ veva accadere, ciò che ormai era impossibile evitare. C ’erano ruote dentate parecchio arruginte e poi pulegge e corde che puzzavano di marcio e leve che si sarebbero dovute spostare, m a erano dure e Camilla ci si doveva appoggiare sopra con tutto il corpo, piantandosele nella pancia, e tutto era coper­ to di muffa e ragnatele e si respirava con difficoltà e la luce era


quella di una lampadina che penzolava dal soffitto come un uo­ mo appeso a testa in giù. Da quella visita in poi, quasi che il luo­ go mi avesse stregato, non ho più insistito nei miei discorsi mo­ ralistici, anche se continuavo a pensare che lo scherzo fosse cre­ tino e rischioso. Chiacchieravo con Camilla sotto il palco, dove da chissà quanto tempo giacevano in ordine sparso vecchi oggetti di sce­ na, maschere e costumi. Camilla giocava a travestirsi, m a dietro a ogni maschera, dietro a ogni costume brillavano i suoi occhi in­ crociati, come un distintivo di riconoscimento. Camilla rideva, mi proponeva di balzare in scena a metà della conferenza ma­ scherato da diavolo, di riempire la sala di fumi di zolfo, m a men­ tre parlava quegli occhi restavano come separati dal resto, come se le pupille fossero disegnate sui globi bianchi, e non fossero parte dell’umore dissacratore di lei. C ’era Camilla e poi c ’era­ no gli occhi: lei irradiava quell’entusiasmo da ogni atomo del suo corpo, ma gli occhi era come se fossero lì a dire: quest’alle­ gria è falsa, quest’allegraia è impossibile: dietro ogni risata c ’è uno sguardo obliquo, come ogni sguardo inflessibile è ridicolo. 6. Parlava e diceva È solo una storia, una piccola storia, e sembrava che sudasse e fosse a disagio, ma tutti in sala lo era­ no, la voglia di scherzare era passata anche ai più cinici, perché la storia che lui aveva raccontato non si capiva ancora come dia­ mine riguardasse l’argomento della conferenza, ed eppure si te­ meva che un qualche legame misterioso l’avesse, un segreto che il professore si accingeva a rivelare, una confessione che noi non volevamo ascoltare, imbarazzati dal tono confidenziale che ave­ va preso con noi, abituati alla sua freddezza, e di fronte a quel­ la freddezza abituati a opporre l’ironia e gli scherzi, con questo atteggiamento ci aveva spiazzato, sembrava quasi che ci suppli-


casse di ascoltarlo, che tra breve sarebbe arrivato al punto. Il silenzio si prolungava, ci guardavamo e guardavamo lui che guardava verso di noi, ne sono sicuro, senza vederci, o meglio senza riconoscere allievi, amici, conoscenti, vedendo solo dei corpi, come manichini senza vita con cui vuotare il sacco, sen­ za desiderare una risposta, un cenno di comprensione. L ’importante era parlare, liberarsi di quello che gli premeva di dire, e diceva Non volevo deludervi, era solo una piccola sto­ ria, l ’ho pensata andando all’Università, il giorno stesso in cui la casa editrice mi scriveva il lapidario biglietto che ora vorrei leggere: “Egregio collaboratore, pur riconoscendo l ’importan­ za e l’interesse dei Suoi studi, siamo spiacenti di comunicarLe che rinunciamo all’esclusiva sulla pubblicazione della Sua ope­ ra Il regno Millenario ritenendo che la deprecabile indifferen­ za di studiosi e pubblico verso questa materia impedisca un sep­ pur minimo recupero delle spese di stampa.” Perciò, oggi non riesco a parlare di quello che doveva essere l’argomento di que­ sta conferenza, Fine del Millenio / Fine del Mondo, quando stan­ no per finire il mio millennio e il mio mondo, quando so che scri­ vere non avrà più senso, e nemmeno leggere quindi, non mi siederò più in poltrona a leggere un bel libro fragrante come una pa­ gnotta appena sfornata, né mi metterò al tavolo a lavorare davan­ ti ad un foglio bianco come un ’ostia, a raccontare di popoli in­ teri sterminati per non aver voluto abiurare la loro fede, e in quel foglio raccontare l ’Apocalisse, ecco, l’Apocalisse vera per me è adesso, non poter più leggere e scrivere, la fine della mia vi­ ta è la fine del mondo, è la fine dei libri, e per questo ho qui qual­ cosa, profetico, si potrebbe fondare una setta religiosa basando­ si soltanto su questo passo dell’Apocalisse di San Giovanni, la setta di Chi Teme Che I Libri Scompaiano e tirava fuori dalla ta­ sca un altro foglietto di carta su cui aveva annotato qualcosa e


con accenti sem pre più esaltati leggeva: “E vidi nella destra di C olui che sedeva sul trono un libro scritto di dentro e di fuori, si­ gillato con sette sigilli. E vidi un angelo potente che diceva a gran voce: C hi è degno di aprire il libro e di rompere i sigilli? E nessuno, né in cielo, né sulla terra, né sotto la terra, poteva apri­ re il libro e guardarlo. E io piangevo forte perché non s ’era tro­ vato nessuno che fosse degno di aprire il libro o di guardarlo.” 7. A m alia trem ava, il professore aveva finito di parlare e que­ sto era il m om ento, A m alia trem ava e io iniziavo a preoccupar­ m i p er lei, perché pensavo che da un mom ento all’altro svenis­ se per l ’em ozione, ero pronto a prenderla per le braccia, a toc­ carle finalm ente, a farm i abbracciare, ad annodarla a me. A ma­ lia trem ava p er C am illa che avendo infine capito che la confe­ renza era chiusa, stava certo scendendo dal suo castello di sedie per correre alla leva m agica e m ovim entare la serata. Io trem a­ vo per A m alia che trem ava per Cam illa che tremava perché lo scherzo riuscisse, e tutta sudata in quel forno del sottopalco, in m ezzo a quella polvere soffocante, si agitava solo ed esclusiva­ m ente per poter poi raccontare qualcosa. M a non avevo la for­ za di alzarm i e correre a fermarla, tem evo che anche se avesse ascoltato la pietosa rivelazione del professore non avrebbe de­ sistito. C osì, l ’uscita di scena era orm ai segnata. Sul libro del futuro da qualche parte c ’era scritto che quella sera il professore aveva smesso di parlare e guardava fisso in pla­ tea e la platea gli restituiva lo sguardo, un unico sguardo di sgo­ mento, e lui continuava a guardare fisso la platea anche quando il pavim ento si m uoveva e scendeva e Amalia rideva nervosa com e se avesse avuto le convulsioni e il professore scendeva con sedia, tavolo, fogli, acqua minerale e microfono e Amalia ride­ va fragorosam ente e gli occhi di Cam illa s ’incurvavano sempre


più verso l ’intem o e il ritaglio di pavim ento intorno al professo­ re scendeva e il professore continuava a guardare davanti a sé e non m uoveva un m uscolo e C am illa spiava quel raggio di luce che penetrava sem pre più grosso dal soffitto del sottopalco e go­ deva il suo trionfo m entre la gente di sopra era tutta paralizza­ ta dalla sorpresa e io capivo che non avrei mai avuto A m alia non in questo m ondo alm eno e il professore lentamente scom pariva scendendo con la pedana mobile sottoterra inghiottito dalle v i­ scere del pianeta richiam ato a sé dal Re delle Tenebre.


F rancesco Freyrie vive a Bologna. Ha ventisette anni e studia all’U niversità di Lettere e Filosofia. A ristidis Antonas è nato ad Atene, dove vive, nel 1963. È laureato in architettura. M aurizio Marzari, vive e lavora a Bologna. È laureato in psicologia e ha ventinove anni. V ictor M artinez Flores è nato in M essico venti anni fa e attualm ente vive a Madrid. È iscritto al primo anno di psicologia. Isabel D e Almeida Santos vive a Porto. Ha venticinque anni ed è iscritta alla Facoltà di Lingue e Letterature Moderne. U berto Stabile Rodriguez Verge è nato in Spagna ventinove a n n i fa. Si è laureato in Storia d ell’arte nel 1981. Emma Chiaia vive a Firenze ed è laureata in Filosofia. Ha ventisette anni. R om olo Bugaro, venticinquenne, vive a Padova. Lauree in S cien ze P olitiche e Giurispudenza. Due suoi racconti sono apparsi recentem ente nel secondo volume Under 25 curato da Pier Vittorio T ondelli. Miha Mazzini, jugoslavo, ha ventisette anni. Ha compiuto studi di informatica. Vincente G allego, spagnolo, venticinque anni, ha compiuto studi di Diritto e Filologia. A ndrea Canobbio, ventisette anni, vive e lavora a Torino. E la u re a to in E conom ia e Commercio. Un suo racconto è apparso nel p rim o volume Under 25 curato da Pier Vittorio Tondelli.



I

n d i c e


PRESENTAZIONE, 7

BATMAN,

17

I L V E S C O V O , 35

M A D R E D E I N E R V I , 59

M A M M A E P A P À MI V O G L I O N O B E N E , 77

L ’ A C Q U A , 87

S E Q U E N Z E , 95

T I S P E N G O L A L U C E , C A R A ? , 115

D I A N A , 125

G O O D R O C K I N ’ T O N I G ' H T , 141

J O R G E L U I S , 159

U N ’A P O C A L I S S E IN S C A L A R I D O T T A ,

171



Finito di stampare nel m ese di Dicembre 19M p resso la Tipolitografia UTJ di J c v


AUTOBUS MAGICO. UNDICI N ARRATORI UNDER 29 Le undici storie inedite che compongono questo Autobus magico appartengono ad altrettanti giovani scrittori di Paesi dell'Europa mediterranea. Da Borges ai minimalisti, da Batman all’LSD, dai demoni all’AIDS, questo atipico libro può essere anche considerato come una prima possibile ricognizione fra certi elementi costitutivi dell'immaginario giovanile di questi anni. Si tratta di storie in cui undici giovani “ Under 29'" di Italia, Spagna. Portogallo, Jugoslavia e Grecia mettono in campo, oltre ad alcune personali rivisitazioni di seduzioni letterarie “mediate” da Isherwopd, Carver, Hawthorne e Borges, Burroughs c Ginsberg (ma anche dalla musica rock, Jim Morrison e Tom Waits. Elvis Presley e Lou Reed, o dai comics e le ghost-stories) una "lettura" di questa fine di decennio volta a volta ironica, o drammatica, 6 “quotidiana.” In continuità con il progetto “ Under 25“ avviato in Italia da Pier Vittorio Tondelli, questo Autobus magico ha il merito di ampliare !a ricognizione sulla scrittura giovanile a un panorama non solo italiano. Il “tono” di queste pagine, il loro ritmo “veloce ma insieme morbido” è dunque ciò che forse accomuna queste differenti narrazioni: “ Viene fatto di pensare.” come sottolinea Mario Fortunato nella presentazione al volume, “a una scena esistenziale di grande spaesamento e di misuralo desiderio di ricostruirsi daccapo, sènza reticenze, con sincerità, gli strumenti per una nuova navigazione.”

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ISBN 8 8 - 7 8 2 8 - 0 1 8 - 6

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