Alfredo Chiàppori
STORIE D’ITALIA 1846 - 1896 Con i commenti di: Franco Della Peruta Giorgio Candeloro Ugoberto Alfassio Grimaldi
INTRODUZIONE
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a rappresentazione a fumetti dei fatti storici presenta, rispetto alla trattazione sistematica e critica degli avvenimenti che è propria della storiografia, alcuni limiti inevitabili, che sono simili a quelli di altre rappresentazioni nelle quali ha una parte la fantasia e l’espressione artistica, come le opere teatrali e cinematografiche di soggetto storico. Essa infatti deve mettere in primo piano gli scontri tra i personaggi e i discorsi diretti dei personaggi stessi, deve semplificare e attualizzare i termini di questi discorsi, deve procedere a forzature caricaturali, deve insomma ricorrere a mezzi di espressione che in molti casi rendono semplicistica e approssimativa la visione della storia. Perciò, a parte ogni altro genere di valutazione, dal punto di vista dello storico, la rappresentazione a fumetti di periodi o momenti del passato è più o meno valida a seconda del grado di approssimazione di essa alla realtà accertata dei fatti e alla valutazione critica dei fatti stessi. Premesso questo, si deve dire che la rappresentazione a fumetti, nei casi in cui essa ha un grado notevole di validità storica, è dotata di una forte efficacia divulgativa, soprattutto in direzione dei giovani, e può avere inoltre una funzione critica molto utile, in quanto può servire a eliminare quella patina retorica che per molto tempo ha ricoperto e falsato, e in parte ricopre e falsa tuttora, la realtà effettiva di certi periodi storici, come è avvenuto in Italia per il Risorgimento. La mitizzazione del Risorgimento e dei principali artefici dello Stato unitario italiano, evidente in molti manuali scolastici e anche in una parte notevole della storiografia ispirata alle ideologie prevalenti per un secolo nella classe dominante italiana, è stata fortemente criticata dalla storiografia degli ultimi trent’anni; ma non si può dire che sia stata del tutto superata nell’opinione corrente. Perciò la rappresentazione a fumetti di alcuni importanti momenti del Risorgimento e dei primi anni dell’Italia unita può contribuire alla diffusione di una coscienza critica della storia nazionale e quindi della realtà sociale e politica dell’Italia odierna. Infatti la storia del popolo italiano dall’Unità a oggi è stata in larga misura condizionata dalla conclusione del Risorgimento, cioè del processo formativo dello Stato unitario italiano.
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Questi aspetti positivi, che la rappresentazione a fumetti della storia può avere, sono particolarmente evidenti in questo volume. Le tavole di Chiàppori rivelano infatti, accanto alla grande capacità espressiva dell’autore, già largamente nota, una conoscenza assai notevole del periodo storico rappresentato, fondata su vaste letture non solo delle opere generali e particolari sull’argomento, ma anche delle principali fonti edite. Le frasi di fantasia, messe in bocca di tanto in tanto ai personaggi, che richiamano all’improvviso fatti e problemi del nostro tempo, sono in genere ben trovate e capaci di stimolare lo spirito critico del lettore. Degno di nota è il frequente ricorso a canzoni del tempo, a detti e a espressioni di protesta popolari, che danno il senso dello sfondo storico generale e fanno apparire qua e là sulla scena le masse popolari con la loro visione degli avvenimenti, diversa e spesso contrastante rispetto a quella dei maggiori personaggi. In questo modo Chiàppori riesce a sfruttare al massimo le possibilità espressive dei fumetti e a dare al lettore il senso della complessità e della contraddittorietà dei fatti storici. Tra quelli narrati da Chiàppori, il fatto decisivo fu l’unione del Mezzogiorno, dell’ex Regno delle Due Sicilie, alle regioni del Nord e del Centro già unificate per opera dei moderati. Questo avvenne per la duplice iniziativa di Garibaldi, che liberò la Sicilia e il Mezzogiorno continentale, e di Cavour che, per sopraffare l’azione garibaldina, fece proprio il programma unitario e preparò la spedizione delle Marche e dell’Umbria e l’intervento delle forze regie nell’Italia meridionale. Così fu attuata l’unità statale dell’Italia e fu assicurato il predominio delle forze monarchico-moderate. Insieme all’unificazione nazionale fu attuata una rivoluzione liberale, perché il nuovo regno fu uno Stato costituzionale, pur con i limiti del vecchio Statuto di Carlo Alberto vigente in Piemonte; ma non fu attuata una rivoluzione democratica: non vi fu l’Assemblea Costituente preconizzata da Mazzini; la legge elettorale restò fino al 1882 basata sul censo, come già in Piemonte, e solo nel 1912 fu introdotto il suffragio universale; l’amministrazione fu di tipo napoleonico, autoritaria e accentrata.
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Nel primo decennio di vita unitaria furono anche gettate le basi dell’ordinamento del nuovo Stato e fu iniziato il processo di modernizzazione economica e civile dell’Italia, ancora fortemente arretrata al momento dell’Unità rispetto ai principali Paesi dell’Europa occidentale e centrale. Contemporaneamente fu attuato il completamento dell’Unità, sul quale si sofferma la narrazione di Chiàppori. Questo punto d’arrivo coincide con una svolta storica più rilevante di quella del 1860, perché essa si manifesta con una serie di mutamenti di importanza europea. Basti pensare alla guerra franco-prussiana, alla conseguente caduta del Secondo Impero in Francia, alla fondazione dell’Impero germanico, alla Comune di Parigi del 1871. Del resto anche la presa di Roma, resa possibile dalla guerra franco-prussiana, è un fatto che oltrepassa i limiti della storia italiana in senso stretto, perché segna la fine del dominio temporale dei papi e quindi apre una nuova fase anche nella storia del Papato e del cattolicesimo. Giorgio Candeloro
Introduzione scritta da Giorgio Candeloro per la prima edizione del 1977 di Storie d’Italia.
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1846 - 1860 Commento di Franco Della Peruta
STORIE D’ITALIA
Della Peruta In questa prima parte Chiàppori ci dà la sua acuta e vivace interpretazione visiva di due fasi centrali del nostro Risorgimento: quella che portò dalle agitazioni riformistiche del 1846-47 all’esplosione rivoluzionaria del 1848-49, e quella del cosiddetto “decennio di preparazione”, che si concluse con la guerra d’indipendenza del 1859 e poi con la formazione dello Stato unitario italiano. Giustamente nella tavola con cui si apre il volume, che allude all’esordio del Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels (l’alleanza di tutte le potenze della vecchia Europa contro lo “spettro del comunismo”), si mette in rilievo il prevalente carattere nazionale, di rivoluzione democratico-borghese, degli avvenimenti italiani del 1846-49; ma al tempo stesso si sottolinea la presenza di una spinta delle masse popolari nel corso di quegli stessi avvenimenti, ai quali impresse così uno dei loro tratti distintivi. Il corso del 1848 mise infatti in rilievo di quale importanza fosse per un conseguente sviluppo in senso democratico della rivoluzione italiana l’atteggiamento del “popolo”; apparve chiaro che là dove artigiani, operai, contadini erano stati disposti a battersi, là la lotta era riuscita vittoriosa o aveva comunque toccato elevati vertici di passione e partecipazione collettiva. Ma nel contempo si era anche visto chiaramente che le masse, quando erano scese sul terreno dell’azione, si erano messe in movimento soprattutto perché avevano identificato la lotta per la libertà e l’indipendenza, contro i principi assoluti e contro l’Austria, con la lotta per il miglioramento delle loro condizioni di vita, fosse questa la lotta per una esistenza più civile nelle città, o la lotta per la terra e per patti meno angarici nelle campagne. L’elezione al soglio Pontificio di Pio IX, che aveva fama di non essere pregiudizialmente ostile alle idee temperatamente liberali, accelerò il processo di formazione e di rafforzamento di una corrente d’opinione moderata, che mirava a elaborare una linea di condotta alternativa al metodo insurrezionale di Mazzini e a coagularsi intorno a un programma di riforme amministrative basato sull’accordo tra principi e popoli. L’agitazione riformista ebbe il suo primo centro a Roma, e si sviluppò con un crescendo di dimostrazioni nelle quali, come a ragione sottolineano le vignette, ai borghesi e ai paini si affiancarono i popolani. E questa partecipazione popolare al movimento liberal-nazionale è la riprova del fatto che già negli anni precedenti, in seguito all’azione della Giovine Italia di Mazzini, della Carboneria e di altri gruppi clandestini, strati più o meno larghi della plebe romana avevano rotto con la mentalità e gli atteggiamenti tradizionali: quella mentalità e quegli atteggiamenti che avevano trovato espressione nei sonetti del Belli, che aveva rappresentato i popolani della capitale pontificia come «tutti papalini», pronti a staccare i cavalli dalla carrozza del «zor Grigorio» e a tirarla a braccia per le vie della città, devotissimi al loro sovrano e disposti a battersi per lui contro i «giacubbini» e i liberali al grido di «Pe’ Grigorio e De’ Roma. Viva Dio! – A da voj’esse er primo er sangue mio».
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Della Peruta Alla testa del movimento riformistico si posero in questi mesi i moderati, che si ispiravano ai programmi di Gioberti, Balbo e D’Azeglio; nei loro intenti era il conseguimento di obiettivi limitati (una libertà di stampa e di riunione più o meno ampie, l’ammodernamento delle antiquate strutture amministrative, la partecipazione alla gestione delle amministrazioni locali, l’istituzione di organismi consultivi), da raggiungere in modo graduale, evitando la rottura con i Governi e una partecipazione autonoma delle masse popolari agli avvenimenti. In questa situazione, nella quale l’iniziativa dei democratici vedeva assai ridotti i propri spazi di intervento, Mazzini fu così costretto a rivedere il suo atteggiamento. Sul piano programmatico generale rinunciò pertanto a lanciare la parola d’ordine della repubblica, continuando invece a insistere sull’unità; e tanto più convinti si facevano questi suoi appelli all’unità quanto più pericolose sembravano farsi le tendenze disgregatrici, municipalistiche, federalistiche implicite nella linea di condotta adottata dai moderati.
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Chiàppori Ci fu un’aspra polemica fra Mazzini e i moderati... Della Peruta Sì, il rivoluzionario genovese li accusava di puntare alla concessione di miglioramenti amministrativi locali da parte dei principi nell’ambito dell’esistente geografia politica della penisola, trascurando la presenza dell’Austria in parte del paese. Quanto al piano tattico, Mazzini decise di abbandonare per il momento il metodo della cospirazione tendente all’azione insurrezionale immediata e di rinunciare a una lotta aperta contro quella che definiva la «direzione locale, dottrinaria, codarda» impressa dai moderati all’agitazione riformistica; pensava che si dovesse piuttosto agire dal di dentro nel movimento, inserirsi alla testa della gioventù e approfittare di ogni occasione per creare nei giovani l’intelletto rivoluzionario. Mazzini, insomma, puntava giustamente sulle contraddizioni che prevedeva sarebbero prima o poi emerse tra la direzione moderata e la spinta popolare, che avrebbe finito con il lasciarsi alle spalle i tiepidi e i riformisti “omeopatici” allora, quando di fronte al lievitare delle agitazioni in senso nazionale e radicalmente rinnovatore il Papa e i principi si fossero arrestati, sarebbe venuto per gli uomini del Partito d’azione il momento di muovere guerra aperta al partito moderato, riprendendo l’iniziativa nelle proprie mani. Nel quadro delle agitazioni per le riforme, che nel corso del 1847 ebbero come centri focali Roma, lo Stato Pontificio e la Toscana, una delle richieste di fondo dei liberali fu quella della mitigazione della censura laica ed ecclesiastica, che impediva la libera comunicazione delle informazioni e soffocava il dibattito delle idee. All’interno delle maglie del controllo preventivo sulla parola stampata una più rigorosa sorveglianza era esercitata proprio sulla forma più agile e sullo strumento più diffuso della stampa, e cioè i giornali ai quali la trattazione delle materie politiche era istituzionalmente proibita, con la sola eccezione delle “gazzette” ufficiali e privilegiate. In questi scialbi fogli di ispirazione governativa, come scrisse un giornalista del tempo, le sole notizie politiche che potevano essere ospitate «erano senza eccezione i parti delle principesse, ... le scaramuccie dei Carlisti e dei Cristini [in Spagna] e le cose delle Indie e dell’Algeria». E i giovani che intendevano intraprendere la carriera del giornalista dovevano quindi limitarsi a dar vita a «uno sciame di Farfalle, di Mode, di Figari e altri giornali artistici e teatrali, che avevano l’indipendenza del logografo, della sciarada e quasi quasi potevano anco non lodare affatto una compagnia di comici e la gola di qualche tenore». In queste condizioni già dall’inizio del 1846 i gruppi liberali più decisi avevano cominciato a utilizzare in maniera sistematica, sia a Roma che soprattutto a Firenze, le possibilità offerte dalla stampa clandestina, dando vita a una serie di foglietti i cui compilatori chiedevano riforme politico-amministrative e facevano risuonare le note della nazionalità e dell’indipendenza.
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