La gatta che suonava il piano - Anteprima

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Nicola Nicodemo

La gatta che suonava il piano

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La gatta che suonava il piano © 2012 Nicola Nicodemo BNR Blog novel: Il Romanzo http://blog-romanzo.blogspot.it/

È vietata la riproduzione dell'opera o di parti di essa, con qualsiasi mezzo, se non espressamente autorizzata dall'autore.

Questi racconti sono opere di fantasia. I nomi, i personaggi, i luoghi e gli eventi discritti sono frutto dell'immaginazione dell'autore, o hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sono pertanto utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti accaduti o a persone realmente esistite è da ritenersi puramente casuale. L'immagine in copertina, di pubblico dominio, è liberamente presa da Wikimedia Commons, all'indirizzo http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/a/a1/Paris19 44.jpg/769px-Paris1944.jpg

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Prefazione

Non avevo mai visitato Parigi durante la stesura dei racconti. Dopo averlo fatto, sono ora ancora più legato ad essi, ed è questo il motivo che mi spinge a condividerli con Te, Lettore. Essi non si propongono come documento storico, né come ricostruzione dei fatti accaduti. Magari non restituiranno la giusta veemenza agli eventi, non li ricollocheranno nel giusto quadro storico-politico, non esporranno la tragedia della guerra così come essa veramente fu. Questo perché non è mio scopo, come già espresso, narrare della guerra. Voglio piuttosto narrare della vita: la vita di un uomo sullo sfondo della guerra; di come un uomo, nella sua individualità, agisce e si confronta con il dolore e con il desiderio di lottare. Magari nessuno ha davvero percepito le emozioni e gli stati d'ansia allo stesso modo in cui li avverte il mio protagonista. Magari Vincent non è 4


che espressione di una mia ipotetica reazione, delle mie sensazioni dinanzi a uno scenario del genere. Ed è questo che io voglio trasmetterTi, Lettore: una scena di vita, gli stati d'animo di un uomo qualunque di fronte alla guerra e alla possibilità di riscattare la propria libertà. Vincent potrebbe essere un partigiano della città occupata di Parigi, o uno delle migliaia di partigiani che persero la vita sugli Appennini italiani, durante la nostra Resistenza. In questo contesto non ha importanza. Perché essa è pur sempre una scena di vita. Ti auguro buona lettura.

Nicola Nicodemo

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A Jacqueline, Robert, Franรงois e a Voi altri che ci avete difeso.

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La gatta che suonava il piano

Chez Dubois era uno dei café più in voga di Parigi, sulla riva destra. Molti dei clienti lo frequentavano, anche solo per farsi dire “Guarda, è entrato da Chez Dubois”. Era un vezzo. Questo accadeva soprattutto tra gente ricca, perché la fama del locale era ben ripagata dalla prezzatura delle vivande. Chi vi era affezionato non poteva però rinunciare a una capatina quotidiana, per incontrarsi con gli amici nel bar di lusso. Vincent non era un borghese, ma valeva anche per lui questo principio: era un privilegio sedere a quei tavoli e bere il miglior whisky che si potesse chiedere in Francia. Ma il whisky e i tappetini rossi, le poltrone di pelle, i tavolini intarsiati e quelle lampade placcate che emettevano una tiepida luce soffusa non erano le uniche attrattive del locale - anche 7


perché sarebbe bastata l’insegna all’esterno e la gloria del posto avrebbe fatto il resto. No, neanche la cordialità di Dubois e la gentilezza dei camerieri rendevano quel bar così speciale. E neppure l’atmosfera di tranquillità che si respirava, mentre, tra un bicchiere di liquore e l’altro, si trascorrevano i pomeriggi invernali accanto al camino. Ciò che faceva di quel bar la meta per tanti rappresentanti dell’alta borghesia - che forse riempivano solo così le proprie giornate - era una gatta. Era una specie di celebrità. Da tempo, e con l'ilarità di chi intende prendersi gioco dei nuovi arrivati, si vociferava che essa suonasse il piano. Vincent a quella cosa non aveva mai creduto, anche se, in verità, avrebbe sperato di vederla posare le zampine sui tasti bianchi e neri e accennare qualche melodia. E invece sembrava che quel pianoforte non fosse mai stato suonato, dacché lui frequentava il posto. Quella mattina uscì di casa presto. Il cielo era ancora grigio sopra Parigi. Per quel giorno non si sarebbe schiarito. La fuliggine e una nebbia fatta di polvere e vapore celava la tragedia a chi non voleva vedere e aveva già consumato tutte le lacrime. A voler guardare bene – ma nessuno era disposto a rendersi conto della realtà com'essa era davvero – si 8


rischiava di perdere ogni speranza, che pur doveva esser rimasta negli animi smarriti e avviliti dei parigini. Sui marciapiedi si stendevano i corpi senza vita dei clochards, irrigiditi dal gelo e sfigurati dai morsi dei pochi cani randagi non ancora periti dopo gli ultimi mesi di penuria. I vecchi mendicanti e nullatenenti che ancora sopravvivevano si ritiravano dalle strade e si ammassavano in edifici abbandonati nelle periferie della cittĂ . Alcuni dicevano che, da quando le scorte dei magazzini erano giĂ state depredate e consumate, essi si nutrissero di carcasse di animali morti. Ma forse erano solo voci, diffuse allo scopo di mantenere i barboni lontani dalla cittĂ . O forse i tedeschi li avevano giĂ portati via. Gran parte delle attivitĂ commerciali erano state chiuse. Le insegne divelte e utilizzate in barricate o ripari fortuiti segnavano l'inattivitĂ e l'abbandono. Qualunque cosa potesse essere utilizzata come mezzo di difesa o copertura era stata strappata via dai muri. Le porte e le saracinesche dei negozi erano state picconate, le vetrine abbattute, le merci saccheggiate. 9


Gli esodi in massa dalla città si erano intensificati negli ultimi mesi, a causa degli attacchi sempre più violenti da parte dei tedeschi. In mezzo alla confusione generale, nessuno sapeva dove andare. Si pensava solo a come lasciare Parigi, come allontanarsi dal cuore dell'occupazione nazista. Chi riamaneva in città lo faceva per inerzia, per mancanza di iniziativa, o era mosso dalla speranza cieca che la situazione non potesse peggiorare. Si avvertiva nell'aria la tensione dei nazisti, e qualcuno arrivava a vederci i sintomi della prossima sconfitta. Altri organizzavano i primi moti di resistenza. Le barricate sfondate dai carri armati, le macchie di sangue nelle piazze, le scariche di colpi di mitragliatrice, che tuonavano di tanto in tanto da questa o quella parte, erano i segnali degli scontri. I cadaveri erano vessilli di una contestazione sanguinosamente repressa dal fuoco nemico. Vincent camminava tra le strade affannate della città. Il viavai di persone che si recavano al lavoro – quel poco di cui la città non poteva fare a meno neanche in quel periodo – sembrava una coda di topi in marcia lungo le pareti degli edifici, in un luogo che altrimenti sarebbe apparso vuoto. Uscivano di buon’ora: presto avrebbero 10


ricominciato a bombardare. Alcune colonne di fumo ancora si alzavano al cielo. Al loro posto, il giorno prima, svettavano le cime dei palazzi più alti. Vincent le guardò. Temeva che presto anche la sua famiglia avrebbe perso casa. Aveva già pensato di lasciare tutto per trasferirsi in campagna, almeno fino al termine della guerra. E ora che tendeva alla corsa sulla strada lastricata di ghiaccio, ripensava al volto della sua bambina e sperava che gli aerei passassero in fretta, senza lasciare feriti. Svoltò in una strada secondaria. Lì avrebbe evitato le ronde naziste che controllavano la città. Un uomo correva impacciato verso di lui, come se gli fosse difficile mantenere l'equilibrio. Si stringeva la giacca con le braccia incrociate. Guardò Vincent per un solo momento. I suoi occhi erano sbarrati dal terrore, carichi di inquietudine. Scomparve dietro l'angolo, improvvisamente com'era apparso. Vincent accelerò il passo e arrivò alla boucherie dove comprava la carne per la piccola Francine. Anche quella mattina la trovò chiusa. I rifornimenti erano stati tagliati. Nelle campagne nessuno più lavorava. Si trovava nei negozi solo lo stretto indispensabile. I mezzi di sostentamento che ancora circolavano, giungevano in città per vie 11


traverse e alimentavano il mercato nero su cui gli stessi tedeschi speculavano. I parigini ne risultavano asserviti al sistema e la tensione sociale aumentava negli strati più bassi della popolazione, tra i quali paura e rassegnazione davano origine ad una rabbia repressa che non avrebbe esitato a scoppiare e a travolgere i nazisti che ora ghignavano alle loro spalle. Svoltò in un vicoletto laterale e bussò ad un portone. «Sono Vince» sussurrò. Dall'altra parte il rumore del chiavistello. Qualcuno aveva già avvertito della sua presenza. La porta si aprì quel poco che permettesse all'uomo di entrare. All'interno, Vincent si mise in fila. Una dozzina di uomini si guardavano intorno angosciati, mantenendo un silenzio irreale. Tremavano e si spingevano. Nella calca qualcuno tentava di avanzare nella fila scavalcando. Ma veniva subito ricacciato indietro a forza di percosse. Ai bambini veniva più facile infiltrarsi e superare le posizioni. I genitori rimanevano indietro senza perderli di vista. E quando essi facevano ritorno, allora subito si allontanavano, sottraendosi agli sguardi feroci degli altri. 12


Ma niente urla. Tutti mantenevano il più stretto silenzio. La rabbia, repressa in gola, era liberata dai pugni e dai calci che si libravano nell'esiguo spazio di un corridoio, dall'aria irrespirabile e fetida. Un uomo percorse la fila in verso contrario e uscì. La coda si accorciò e Vincent avanzò. Un orologio alla parete segnava un quarto d'ora dopo le tre di chissà quale giorno. L'uomo fissò le sue lancette ferme, attendendo con pazienza e procedendo di una manciata di centimentri ogni volta che qualche avventore fuggiva via. Giunse il suo turno e Vincent si avvicinò al banco. Un uomo arrotolò nella carta di giornale una forma di pane vecchio e dall'aspetto sgradevole, un barattolo di carne secca probabilmente scaduta da mesi e una scatola di legumi. Vincent pagò e uscì. Nascose il pacco sotto l’impermeabile e si avviò verso casa, seguendo un’altra strada. Lì non c’era nessuno. Le vie si erano svuotate d’un tratto. Tutti erano entrati nei loro negozi o nei portoni. Vincent si guardò attorno. Il silenzio destò in lui una sensazione di smarrimento. Riprese a camminare a passo svelto, finché si ritrovò davanti all’entrata del locale. Guardò l’insegna “ Chez 13


Dubois” e entrò sorridendo. Faceva sempre il suo effetto. Si avvicinò al bancone e vi posò il pacco con i viveri, mentre, togliendosi i guanti, sfregava le mani per riscaldarsi. - Vince, sei tu? Da quanto tempo non ci si vede. - Salve Dubois, come sta? - Ehi, amico. Ma come mi dai del lei? Fatti un po’ vedere. Come va? Sospirò. L’altro attese paziente. - È la guerra, Claude. - riprese con un respiro. - Sai che ho una bambina. Non voglio che cresca qui. È pericoloso. - La piccola Francine. Sta bene? - Non ha perso il sorriso. Ancora non ha visto cosa succede qui fuori. Voglio portarla via. I miei fratelli vivono in campagna. Pensavo di trasferirmi da loro. Dubois si guardò intorno. I camerieri servivano croissants e caffè ai vecchi e ricchi mercanti fiamminghi, i quali approfittavano dell’ora per fare colazione e parlare tra loro di come la guerra stesse rovinando gli affari. Alcuni giovani soldati tedeschi bevevano birra già di prima mattina, prima di prendere servizio. 14


Un vecchio entrò rumorosamente nel bar. Squadrò l'ambiente e quando sembrò essersi tranquillizzato si ricompose. Parve spaventato. Riprese a respirare con calma e si sedette. I giovani tedeschi lo fissavano con sospetto. Poi arrivarono le birre e ripresero a bere, tralasciando la questione. Nella sala però era sceso il gelo. Gli avventori avevano ormai lasciato perdere lo strano tizio che era entrato correndo, e stavano tornando ai propri discorsi, quando ci fu chiaro il motivo della sua preoccupazione. Un convoglio nazista procedeva a piedi lungo la strada. […]

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