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NICOLA NICODEMO
LIVIO ESPOSITO
O‟ SCHIATTAMUORTO (IL BECCHINO)
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Livio Esposito
O‟ schiattamuorto (Il becchino) © Nicola Nicodemo BNR Blog novel: Il Romanzo http://blog-romanzo.blogspot.it/ È vietata la riproduzione dell‟opera o di parti di essa, con qualsiasi mezzo, se non espressamente autorizzata dall‟autore.
Questo racconto è un‟opera di fantasia. I nomi, i personaggi, i luoghi e gli eventi descritti sono frutto dell‟immaginazione dell‟autore, o hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sono pertanto utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti accaduti o a persone realmente esistite è da ritenersi puramente casuale.
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“Ormai per me il trapasso è na pazziella; è nu passaggio dal sonoro al muto. E quanno s'è stutata 'a lampetella significa ca ll'opera è fernuta e 'o primm'attore s'è ghiuto a cuccà.”
da: „O schiattamuorto Totò
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O‟ schiattamuorto
un racconto di Nicola Nicodemo
A passare davanti al necrologio di Livio Esposito si restava un po‟ perplessi. E chi se lo aspettava che l‟ora sarebbe giunta anche per lui? Lui che di morti ne aveva visti tanti, lui che la morte l‟aveva per compagna. Lui che da sempre aveva svolto la professione di becchino. Vecchio, ormai troppo debole, si avviava ogni mattina sulla via che portava a „O Campusanto d‟ „e Funtanelle. Usciva di buon‟ora, quando il sole albeggiava appena sulle strade di Napoli, per arrivare presto e aprire le porte ai visitatori. Lui, che dentro al cimitero svolgeva tutte le mansioni, da custode 4
a giardiniere, era così profondamente legato alla sua professione di schiattamuorto che al cimitero ci passava l‟intera giornata. Ed ecco, allora, che tutti si domandavano cosa mai ci facesse tutto il tempo lì dentro. Inutile dire che le storielle nate intorno alla sua persona si moltiplicavano giorno per giorno e si diffondevano, orecchio per orecchio, in tutto il quartiere Rione Sanità. I bambini, che lo vedevano rientrare alla sera, verso la via delle sette (molto prima nei mesi invernali, quando fa notte presto), lo spiavano curiosi e spaventati da dietro le tapparelle delle finestre. Ma non avevano mai il coraggio di avvicinarsi a lui o figuriamoci - di parlarci. E se qualche mattina faceva tardi, o non andava al cimitero - cosa che accadeva raramente, e - mettiamo caso - lo incontravano per strada, lanciavano il pallone lontano e, fingendo di andare a riprenderselo, scappavano di corsa, prima che lui fosse troppo vicino. Con gli adulti non andava meglio e, quando potevano, facevano di tutto per evitarlo. Che si sappia, una sola volta avevano visto o‟ schiattamuorto al mercato rionale (nel giorno in cui il cimitero rimane chiuso per mezza
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giornata). La sua presenza non passava inosservata: il suo completo nero e grigio sempre lo stesso, la sua pelle cerulea e la fronte stempiata erano sintomi di una stranezza che l‟uomo doveva aver ereditato dal padre, anch‟egli becchino, e di cui ricalcava a pennello le fattezze. La camminata buffa e lo sguardo perso tra la folla lo facevano apparire estraneo alla realtà. Nel complesso, la sua figura attirava gli sguardi di tutti i passanti, i quali, pervasi dal desiderio di guardarlo e ammirarne incuriositi le stranezze, gli lanciavano un‟occhiata appena fosse passato. Rimanevano stupiti nel vederlo invecchiare ad un ritmo davvero impressionante. Nessuno sapeva quanti anni avesse perché nessuno glielo aveva chiesto. In effetti, almeno per quanto si sapesse, nessuno aveva mai parlato con lui, se non il vecchio locandiere, al quale ogni sera chiedeva una tazza di vino. La madre gli era morta che era un bambino e il padre aveva fatto appena in tempo a tramandargli i segreti del mestiere, quando si era ritrovato rinto a nu‟ tavuto. Una sorella forse era morta, o forse se n‟era andata al nord,
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non si sapeva bene. Per il resto nulla, abitava da solo, senza moglie né figli. Una sera Livio entrò da Peppino „o locandièr e disse buonasera con la sua voce che sembrava uscita da una caverna o da una tromba arrugginita. Nello stesso momento, Totò e Carmelo si alzarono per uscire, rivolgendo al locandiere il loro ghigno ironico e facendosi una grattatina. Peppino strinse il cornetto che portava legato alla cintura, e mosse il braccio nella loro direzione: Jatevenne! Il locale era rimasto quasi vuoto, se escludiamo una coppia di giovani fidanzati e un gruppo di vecchi che giocavano a carte e bestemmiavano, troppo lontani per essersi accorti dell‟angusta presenza. Livio bofonchiò qualcosa che al locandiere dovette sembrare un saluto, perché rispose “Buonasera, Liuccio”. Liuccio era una traduzione più o meno corretta di Livio, e solo il locandiere lo chiamava così (anche perché solo il locandiere lo chiamava). Doveva riflettere una sorta di calore, di complicità, e invece la tensione con cui pronunciava il suo nome e il lieve tremore
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nelle mani, facevano sembrare ridicolo e ipocrita quel segno di rispetto. - A‟ solita tazza e‟ vino? - fece il locandiere, con voce insicura. Livio si limitò ad annuire, stanco, e osservò i vecchi giocare a carte. Peppino non osò chiedergli cosa avesse e perché fosse così abattuto. Livio sospirò e bevve il vino in un solo sorso. Dopodiché guardò il locandiere, che si sentì spaesato. Questi cercò il modo o la scusa di sottrarsi allo sguardo del becchino, che però continuava a fissarlo pensieroso. - Sapete, anch‟io prima giocavo a carte. - disse, passando a un italiano che il locandiere credeva non conoscesse. Questi restò in silenzio, non sapendo cosa rispondere. Ci pensò Livio a toglierlo dall‟imbarazzo, alzandosi e uscendo dal locale, dopo aver posato qualche moneta sul bancone. Il locandiere le prese con un po‟ di sospetto, poi osservò il vecchio avviarsi lento e goffo verso l‟uscita e sparire nella via buia. - Cosa voleva? - Giggino si alzò dal tavolo dove stava giocando a carte e si avvicinò sghignazzando al banco del locandiere.
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- La solita tazza di vino. - sembrava perplesso. Però... mi ha detto una cosa. - Che cosa? - Giggino fremeva dalla curiosità. - Secondo me, voleva giocare a carte insieme a voi. Giggino guardò il locandiere con un‟aria che esprimeva tutto il suo stupore e la sua indignazione. Scosse la testa e ritornò al tavolo, dove ripropose l‟accaduto ai suoi compagni di gioco, che risposero con la stessa reazione. Il locandiere però era dubbioso. Si avvicinò al tavolo e consegnò il secondo giro di birre. - Potreste farlo giocare con voi qualche volta? Dagli astanti si levò una fragorosa risata. - Ma t‟ „a scemonitò, Peppì? Il locandiere posò le birre sul tavolo e si allontanò impensierito. La mattina dopo, alle prime ore dell‟alba, quando aveva appena finito di lavorare alla locanda, Peppino chiuse il locale e si diresse verso la piazzetta del paese. Sapeva che, quando al mercoledì si riuniva il mercato di quartiere, una ragazzina, quasi certamente vittima di una strana malattia (che assomigliava alla
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tubercolosi), si sedeva su un muretto per vendere i suoi fiori. Naturalmente nessuno le si avvicinava, per paura del contagio; anzi, le intimavano di allontanarsi quanto più possibile. Ma quella mattina il locandiere le chiese un fiore, e la ragazzina, col suo sorriso innocente, non diverso da quello delle sue coetanee, lo ringraziò e gli porse il fiore infagottato in una carta sporca e brutta a vedersi. Ma Peppino le sorrise ugualmente e le diede qualche moneta, eccedendo di molto il valore del fiore. Sulla via del cimitero gettò la carta e rimase con la margherita gialla in mano. Gli sembrò di essere ridicolo. Non andava a far visita alla moglie defunta da così tanti anni, sebbene la forte tradizione cattolica della sua città, e ancor più del suo quartiere, gli imponevano il dovere morale di farlo almeno una volta all‟anno. Pensò di tornare indietro, ma il suo scopo era anche un altro. Avanzò con passo risoluto verso l‟ingresso del cimitero, che già si vedeva al termine della strada. Dopo una breve visita alla tomba della moglie, sulla quale provò un leggero disagio, Peppino cominciò a vagare alla ricerca del custode. Livio stava tirando via le foglie con un
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rastrello, e si sorprese nel vedere il locandiere. Ma fu davvero impressionato solo quando questi lo salutò: - Salve, Livio. - Salve, Peppino. Il locandiere sorrise: non lo aveva mai chiamato così. Livio si sentì un po‟ in imbarazzo e continuò nel suo lavoro. - Hai molto da fare qui. - disse Peppino, guardandosi intorno e, infine, indicando il rastrello. - Veramente no. È che non ho nient‟altro da fare. Qui intorno non c‟è anima viva. Peppino voleva scoppiare a ridere. Ma non era sicuro che Livio l‟avesse detto con ironia, e quindi cercò di nascondere la propria ilarità. - Sei libero quindi? Livio annuì, tornando al suo lavoro. - E che ne dici di farci una partita a carte? Peppino cacciò un mazzo di carte napoletane dalla tasca. Livio fu così emozionato, che i suoi occhi brillarono. E a Peppino sembrarono gli occhi di un bambino rimasto solo per troppo tempo, escluso dai giochi dei suoi coetanei, e che ora trovava un nuovo amico, forse il solo.
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Da quel giorno, una mattina sì e una no, Peppino e Livio si incontravano nella casetta degli attrezzi e giocavano a carte. Il locandiere era sicuro: da quella mattina il viso del suo nuovo amico si era rasserenato e ora sembrava perdere il suo colore cinereo per acquisire una tonalità più calda. Quando entrava nella locanda, la sera, a prendere la sua solita tazza di vino, spendeva qualche parola in più e anche la sua voce si era raddolcita. Peppino era soddisfatto, ma gli altri cominciavano a guardarlo in modo strano, prendendo le distanze anche da lui. - Ma che ti è successo, Peppì? - gli chiese Giggino, davvero preoccupato. - A che ti riferisci? - Al tuo nuovo amico. Ma che cosa credi? Che non si veniva a sapere che vai sempre al cimitero per incontrarlo? Qua non si parla d‟altro. - E che cosa dicono? - Che fate cose strane. Peppino si mise a ridere. - che tipo di cose?
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- Peppì, lo sai. Quelli credono che „o schiattamuorto fa il malocchio. E mo‟ che ci vai pure tu appresso. Non è ca‟ pure tu... - Giggì, ma perché si accussì strunz? - Peppì, guarda che io lo faccio per te. Ma se a te sta bene così, saje quanto me ne fotte? Giggino andò a sedersi, tra i volti stupiti dei compagni di gioco. Peppino li vide scuotere la testa. Non ci prestò caso e strofinò con maggiore forza lo straccio sui bicchieri. Quando Carmelo finì di giocare, passò davanti al locandiere e gli disse: - „O saje che quello non è buono. Lascialo stare, quello porta solo guai. Il locandiere finse di non sentire. Quando trovarono il corpo del locandiere, riverso a terra senza vita, sul pianerottolo di casa sua, i vicini si convinsero che Liuccio portasse sfortuna. Anche se era palese che Peppino era scivolato per le scale bagnate e aveva battuto con la testa, e che la domestica non aveva esposto il cartello “Attenzione. Si scivola”. Per un uomo anziano come lui, l‟incidente era stato fatale.
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Angela, la donna che lo aiutava in locanda che doveva essere una sua lontana cugina - era la parente più stretta, e a lei si rivolsero i medici dopo aver constatato il decesso del locandiere. Angela, intransigente seguace della dottrina cattolica, aveva predisposto la data del funerale per il giorno successivo, aveva scelto il luogo per il rito e aveva organizzato la cerimonia. L‟indomani la basilica di San Gennaro era gremita di gente. Chiunque conoscesse Peppino, o fosse passato almeno una volta per la locanda, era invitato (per un tacito accordo che vigeva da sempre tra i cittadini dello stesso quartiere) a prendere parte alla funzione. E così la folla scortò la bara, in silenzio triste e affettuoso. Angela piangeva nel suo velo nero, sostenuta dal marito e dalla figlia. Ma tutti preservavano quel silenzioso rispetto dovuto all‟amico appena perso. Le lacrime venivano consumate in privato, rispettando ossequiosamente il dolore dell‟altro. Livio osservava la lenta processione da lontano. Sapeva di non essere il benvenuto. In altre circostanze, avrebbe atteso di essere solo al
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cimitero per porgere il suo estremo saluto. Ma per l‟unico amico che avesse mai avuto negli ultimi anni, sentiva di dover valicare il muro che lo separava dai suoi concittadini. - Come si permette di venire qui, lei? Livio se lo aspettava. Giggino gli stava puntando il dito contro, accusandolo di chissà cosa. - Non ha neanche il rispetto per la sua famiglia addolorata. Se ne vada. Livio si limitò a non rispondere, provando dispiacere e disagio nella reazione dell‟uomo. Sperava che, almeno in quel momento di dolore condiviso, venisse accettato per quello che era, un amico di Peppino. La moglie di Giggino si tirò da parte il marito, e poi rivolse un sorriso impietosito all‟altro: - Se ne vada. La prego. „O schiattamuorto si chiuse nella sua casetta degli attrezzi, come un bambino che si nasconde quando viene rimproverato. E si sentiva proprio così Livio, ché - benchè nessuno sembrava accorgersene - anch‟egli provava dei sentimenti e ancora non aveva fatto l‟abitudine di sentirsi escluso. Ci sono cose a cui non ci si abitua mai.
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Livio dubitò per un attimo che la causa di tutto fosse davvero lui. La causa della sua sfortuna e della sfortuna degli altri. Fu intuitivo pensare che perdere l‟unico amico che aveva appena trovato non fosse normale. Non poteva essere così, se lui fosse stata una persona normale. Forse - pensò - la professione di becchino ti cambia la vita. È come se la morte, troppo vergognosa di se stessa, affidasse al becchino il vile compito di farsene portavoce. E allora perde la propria individualità, diventa una bandiera, agli occhi della gente. La bandiera della morte. Dalla quale fuggire, perché essa fa paura. E agli occhi della gente, velati dal terrore, anche l‟uomo perde le sue forme, assumendo le sembianze della morte. Livio era l‟attore di questa pantomima. Il suo ruolo era ben identificato da un copione che gli era stato imposto, quel giorno in cui suo padre aveva voluto che lui seguisse le sue orme. Non si poteva andare oltre. Il suo palcoscenico era quello, ben delimitato dalle mura del cimitero.
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Quando Livio si spense, pochi mesi dopo, non avvertÏ dolore. Il sipario si chiuse, tra i sospiri di sollievo degli spettatori. Il suo lavoro era finito. Le luci si spensero e Livio tornò dietro le quinte.
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Continua a leggere... La gatta che suonava il piano di Nicola Nicodemo Tre racconti, una sola storia. 1944. I nazisti occupano Parigi. Edifici crollati, i corpi delle vittime campeggiano come vessilli nei luoghi degli scontri. Fame, disperazione e rassegnazione riempiono gli animi avviliti dei parigini. Ma c'è ancora speranza nei cuori di chi non si è mai arreso, di chi combatte, di chi ogni giorno ravviva la fiamma del ricordo e di una promessa. C'è bisogno di lotta nel cuore di Vincent, che ha perso tutto ma vuole difendere il futuro di sua figlia. C'è entusiasmo, voglia di vivere e di riconquistare la libertà, nei cuori di un gruppo di operai che non sanno nulla di guerra, di odio, di armi, ma scelgono di ribellarsi al nazismo e di riscrivere il finale ad una insulsa pagina di storia, per la loro città occupata. Per saperne di più
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L‟autore Nicola Nicodemo è nato a Battipaglia nel 1994. Vive a Capaccio, dove frequenta il Liceo Scientifico. Amante sin da piccolo delle materie scientifiche e delle lingue, scopre presto il "gioco della scrittura". Dopo i primi catastrofici tentativi di scrivere romanzi, si rassegna all'evidenza di essere troppo piccolo. Grazie alla scuola comincia a scrivere poesie e vince i suoi primi concorsi letterari, se non altro utili ad alimentare l'entusiasmo necessario a riprendere il tortuoso cammino nella scrittura. Nel 2010 il suo sogno di aspirante scrittore si concretizza in Blog novel: Il Romanzo, il suo blog letterario. Comincia a scrivere il suo primo romanzo, La verità di Leon, ancora inedito. Scrive diversi racconti, alcuni dei quali pubblicati in diverse antologie cartacee e digitali. Grazie al blog riesce a coniugare la passione per la scrittura a quella per la lettura, scoperta con qualche anno di ritardo. Nel 2012 pubblica la sua prima raccolta di racconti, La gatta che suonava il piano. Ora è al lavoro con un nuovo romanzo. Scrivere è cercare di capire se stessi. All'insegna di questo motto cerca di migliorarsi e di andare avanti. Il suo autore preferito? Pensa di avere un feeling particolare con Hemingway, suo modello di scrittore. Vorrebbe vivere nella Parigi letteraria degli anni venti, a bere un' eau-de-vie con Ernest e Fitzgerald.
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