BSM - Anno IV n. 1 - Gennaio/Febbraio 2012
CONTRIBUTORS Silvia Barucci, Fabio Canneta, Armando Dal Col, Gian Luigi Enny, Stefano Frisoni, Antonio Gesualdi, Min Hsuan Lo, Laura Monni, Luca Ramacciotti, Roberto Raspanti, Francesco Santini, Anna Lisa Somma
IN COLLABORAZIONE CON
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photo Š Hitoshi Shirota
BONSATIREGGIANDO
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SOMMARIO
EDITORIALE
08
Antonio Ricchiari Cross culture
26
SECRET WORLD
10
Fabio Canneta Le forme d'acqua
DAL MONDO DI BONSAI
& SUISEKI
20
Gian Luigi Enny L'essenza del giardino nella storia giapponese
24 26 34
Stefano Frisoni Club Bonsaisensi in streaming Luca Ramacciotti Ikebana. Arte del divenire
34 10
Silvia Barucci Florero Design
BONSAI-DO: PRATICA E SAPERE
42
Massimo Bandera Pittori e letterati. Gli stili Bunjin
MOSTRE ED EVENTI
48
Laura Monni Una buona idea per la Mostra d'Autunno Bonsai e Suiseki dell'Associazione Culturale Roma Bonsai
42 20
SOMMARIO
IN LIBRERIA
54
Antonio Ricchiari Le Icone di Hiroshima di A.
1
Curcio
55
Carlo Scafuri Commento al libro "Bonsai. Tecniche avanzate" di A. Ricchiari
58
1
BONSAI 'CULT'
56
Antonio Ricchiari Bonsai e mercato
1
LA MIA ESPERIENZA
e
58 64
Antonio Gesualdi Sakurako. La geisha triste
70
Roberto Raspanti Quercus "Zoo"... iperarborea!
Armando Dal Col Corniolo. Alla ricerca dell'esemplare.
A LEZIONE DI SUISEKI
76
76 97
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v
1
& CO.
1
Luciana Queirolo Flusso - II parte
...QUELLI DI BONSAI CREATIVO
87
1
Francesco Santini Ginepro Itoigawa
r
L'OPINIONE DI...
97
Giuseppe Monteleone Nicola 'Kitora' Crivelli
54 64
1
SOMMARIO
I FANTASTICI QUATTRO
106
Massimo Cotta I fantastici quattro
TECNICHE BONSAI
108
114
Antonio Acampora La collocazione dei bonsai
NOTE DI COLTIVAZIONE
114
Luca Bragazzi Il corretto utilizzo degli estratti umici: radicale o fogliare? IL GIAPPONE VISTO DA VICINO
115
Anna Lisa Somma Mishima, o la visione del
116
Antonio Ricchiari La bellezza del quotidiano
vuoto
116 108
MALATTIE ED INSETTI
122
Luca Bragazzi I batteri fitopatogeni
BCI NEWS
124
MinHsuan Lo Imperturbable like jade, righteous like a mountain
131
BCI The Ambassador's newsletter
115 124
L
a febbre occidentale per la cultura pop dell’Impero del Sol Levante riflette un profondo mutamento generazionale. Ciò che sta emergendo, insomma, è una gioventù pan-asiatica che condivide condizioni di vita e si riconosce in idoli, pose e modelli di consumo comuni. E molti di questi modelli giungono dal Giappone al pari di quei flussi non dissimili che in Occidente continuano a dettare la fascinazione per il pop londinese o il cinema hollywoodiano. La penetrazione della cultura giapponese, insomma, non si limita più all’Asia o ai giovani della diaspora asiatica: essa ha una dimensione mondiale. Alcuni sociologi si sono chiesti se sia possibile parlare di un processo di “giapponesizzazione” delle culture giovanili mondiali paragonabile a quello dell’”americanizzazione”. Anche in Occidente, in effetti, il pop giapponese: manga, anime, videogiochi, moda, telefilm, mostra di essersi radicato oramai nell’immaginario giovanile contemporaneo. Le nuove sottoculture giovanili sembrano avere esaurito il serbatoio della cultura americana per riciclarsi e tendono a guardare globalmente. Moda, media e pubblicità hanno adottato da tempo lo sguardo globale. Volti e modelli asiatici, moda ispirata ai giovani di Tokyo, arredamenti zen e post-zen, magliette Hawaii, ideogrammi, cyber lolite ricalcate sull’iconografia degli anime, tycno nipponica, sushi-bar: il Sol Levante è da tempo trendy. Il Giappone si impone come polo di seduzione e di sesiderio per gli occidentali. Il Sol Levante emerge come il prototipo della società post-moderna, postindustriale, cibernetica, ribaltando le coordinate di Estremo Oriente in quelle di Occidente Estremo. Il momento iniziale di questa costruzione, secondo i più attenti osservatori, è da ricercarsi nel film cult Blade Runner, di Ridley Scott, datato 1982, dove per la prima volta le immagini di fantascienza futuribili e le immagini del Giappone si fondono indissolubilmente. Oggi però è sempre più difficile isolare o definire una cultura pop-olare da contrapporre ad una cultura “alta”. Nello scenario contemporaneo, tutti questi confini appaiono sgretolarsi o comunque farsi più fluidi. In Giappone esistono pratiche normalmente etichettate come cultura d’élite come la cerimonia del tè, l’ikebana, il bonsai (tanto perché ci riguarda da vicino) e rientrano dunque nel patrimonio culturale condiviso da strati sempre più ampi della grande classe media giapponese. La cross culture non investe solo i confini fra arte e commercio, quelli fra mainstream e undergroud: a saltare sono anche i confini fra Oriente ed Occidente. E il bonsai con il suiseki hanno fatto degnamente la loro parte sull’onda dei cultural studies poiché hanno aperto agli appassionati un mondo meravigliosamente impensabile con tutte quelle implicazioni anche culturali che queste arti comportano. © RIPRODUZIONE RISERVATA
di Fabio CANNETA
Il respiro della terra...
cattura evanescenti semi alati forieri di nuova vita...
accarezzando verdi foglie che si specchiano nel cielo...
sfidando la gravitĂ in un ostinato abbraccio a non voler tornare alla terra...
incontrando il vento del nord che trasforma l'acqua in soffici batuffoli...
che il morso dell'inverno avvolge in un gelido soffio che tutto purifica.
N
on esiste una definizione semplice di ciò che costituisce un giardino giapponese, come non esiste un unico stile. Agli occhi occidentali, tre degli elementi più sorprendenti sono: le lanterne di pietra, la vasca per l’acqua o tsukubai e la ghiaia rastrellata con al loro interno rocce, ma questi componenti non sono sufficienti per fare un giardino giapponese. La composizione è importante in ogni giardino, ma ciò che distingue un giardino giapponese è il bel risultato ottenuto attraverso una miscela di piante sapientemente potate, sabbia, acqua e roccia. L'obiettivo non è semplicemente quello di ottenere un effetto estetico, ma trae la sua ispirazione dalle due religioni principali in Giappone: Shintoismo e Buddismo. ISPIRAZIONE SPIRITUALE Sin dall’antichità, i giapponesi hanno considerato i luoghi circondati da rocce come dimore degli dei, così pure come montagne, boschi e corsi d’acqua sono tradizionalmente considerati terra sacra. E’ in queste antiche credenze Shinto che l'origine creativa del giardinaggio giapponese si sviluppò. Quando il buddismo per mezzo dei cinesi entrò in Giappone nel 6°secolo, portò nuove convenzioni intellettuali trovando la strada giusta nel disegno del giardino. Il primo di questi fu l'utilizzo dei giardini per rappresentare la visione buddista del paradiso. Poi, dopo il 14° secolo, la dottrina buddista zen dette luogo a uno dei concetti più importanti del giardinaggio giapponese; l'espressione simbolica di un universo intero in uno spazio limitato, in pratica un universo in miniatura. Vari dispositivi ingegnosi sono stati utilizzati per realizzare tali effetti, la ghiaia rastrellata a rappresentare un fiume o il mare, pietre con forme idonee a rappresentare
1. Giardino che rappresenta simbolicamente la visione buddista del paradiso - 2. Giardino dipinto su stoffa
isole o montagne e, alberi in miniatura per rappresentare un'intera foresta. I giardini nipponici acquistarono, nelle loro composizioni, una delicatezza quasi pittorica che dura ancora oggi, divenendo materia di osservazione e studio,innescando un concetto molto diverso dal giardinaggio occidentale, che cerca spesso di deliziare con una profusione di forme astratte e colori sgargianti. Quando la pace ritornò in Giappone nel tardo 16° secolo dopo molti anni di lotte interne, samurai e shogun famosi svilupparono il loro amore per l’arte attraverso la progettazione di giardini, costruendoli con rocce avente forme sorprendenti e utilizzando piante dalle sagome ricercate. Tali idee in seguito vennero ostentate dal grande maestro della cerimonia del tè, Sen no Rikyu, che ne cercò l'ispirazione per il suo giardino del tè (roji Niwa) nella tranquillità isolata in un borgo di montagna. Questa era simboleggiata attraverso elementi come pietre miliari, lanterne e vasche rigoro-
samente in pietra e alberi dalle fattezze sorprendenti. Anche se ancora oggi il design più sobrio sembra essere considerato da molti come il "vero spirito" dei giardini giapponesi, recenti esempi di stile più esuberante sono facili da trovare oggi in Giappone, in particolare nella cintura di insediamenti moderni attorno alle grandi città. UNA SINTESI DI STILI. Il lungo periodo dello shogunato Tokugawa a partire dall'inizio del 17°secolo diede vita a un altro stile di giardinaggio giapponese, una sintesi di tutto ciò che era successo prima. Questo è riconosciuto come kaiyu ( il luogo del piacere), in cui vari stili di giardini, spesso intorno ad un laghetto centrale, vennero costruiti per visualizzare i cambiamenti di scena sorprendendo i visitatori mentre vagavano intorno. In seguito si diede vita a quella che oggi è considerato come uno degli elementi più importanti di un giardino giapponese :il shakkei o paesaggio preso a prestito.
SHAKKEI – UTILIZZO DEL PANORAMA CIRCOSTANTE COME SFONDO NATURALE. Il concetto di natura, riprodotta in miniatura, è stata interpretata nel corso dei secoli e inserita dai niwashi (maestri giardinieri) come concetto base nei progetti dei giardini nipponici, ed è per noi oramai naturale che la stessa natura debba essere copiata,oppure utilizzata, inserendo nel progetto lontane colline o paesaggi sullo sfondo e altre caratteristiche topografiche che vengono "prese a prestito" e integrati nella prospettiva del giardino. In questo modo il giardino e la natura sembrano diventare uno, ma alla fine è una sottile combinazione delle due cose. © RIPRODUZIONE RISERVATA
3. Nuove concezioni di giardino giapponese moderno - 4. Il bel risultato ottenuto lo si deve al sapiente utilizzo di pochi elementi - 5. Altro scorcio di un giardino realizzato secondo i canoni moderni
O
gni giorno dobbiamo confrontarci e vivere nuove esperienze che la vita ci presenta, ma spesso e volentieri dobbiamo affrontarle basandoci sul nostro istinto. La passione che ci unisce è ricca di situazioni che dobbiamo affrontare per la prima volta senza mai averle potute vivere personalmente o per lo meno senza aver mai potuto assistere ad una dimostrazione
pratica. Il Club Bonsaisensei ha percepito questa necessità del bonsaista e per questo che in collaborazione con il Laboratorio Bonsaisensei di Stefano Frisoni ha ideato “Bonsaisensei in Streaming” (foto streaming 1) ovvero una sezione interattiva direttamente sul web a disposizione di ogni persona che desideri approfondire il proprio interesse per il bonsai. In questo modo ogni appas-
La Diretta Live segue un calendario ben preciso. Per conoscerlo basta collegarsi al sito: http://www.bonsaisensei.it/
sionato o chiunque desideri assistere ad interventi e lavorazioni potrà collegarsi al link: http://www.bonsaisensei.it/live.htm (Foto immagine 1) e vivere in diretta da casa o dal proprio laboratorio le tematiche che in ogni incontro si presenteranno. Sarà possibile rivolgere domande in diretta utilizzando la CHAT (foto immagine chat 1) nella quale potrete scrivere le vostre curiosità (previa registrazione gratuita al sito Livestrim), ed avere così in tempo reale la risposta a quanto richiesto. E’ inoltre possibile rivedere frammenti di filmati girati in precedenza semplicemente accedendo alla funzione VIDEOS (foto libreria 1).
Nella Video Library è possibile visionare degli spezzoni su lavorazioni eseguite in passato.
Noi ci crediamo! Crediamo che questo strumento possa esserci utile per eliminare le distanze che spesso ci separano e che purtroppo rendono difficili gli incontri. Facciamo questo per una passione che ci accomuna, nelle nostre possibilità tentiamo di divulgare l'arte bonsai e speriamo così di fare appassionare più persone possibili, per garantire il futuro di questa meravigliosa arte. Vi aspettiamo numerosi sul web. A presto, e... buon Bonsai! © RIPRODUZIONE RISERVATA
Durante la diretta, è possibile comunicare con Stefano Frisoni tramite l'apposito pannello di chat. Per farlo, basta soltanto registrarsi gratuitamente al sito.
Stile libero. Alla carnositĂ del lilyum viene contrapposta la rigida essenzialitĂ dei rami di Mitsumata. I colori delicati di entrambi i materiali sono messi in risalto da quelli quasi fluorescenti dei vasi di vetro.
Stile libero realizzato sotto la supervisione della mia insegnante Valeria Raso Matsumoto dove abbiamo utilizzato platano e calla selvatica (materiale a disposizione ovunque) e margheritine gialle proprio per sottolineare la bellezza e l'eleganza della natura che spesso i nostri occhi distratti non riescono a percepire.
I
kebana (fiori viventi) il nome con cui dal secolo XVIII si definisce l'arte compositiva nota anticamente come Kado (via dei fiori) nata nel VI secolo in Giappone. Di derivazione religiosa l'ikebana penetra in Giappone assieme al buddismo e all'offerta floreale che veniva fatta agli dei e con cui si adornavano gli altari. Due sono le leggende che stanno alla base della nascita dell'ikebana. Secondo la prima, Amaterasu-oMikami (dea della luce e del calore terreno) dopo aver litigato con il fratello Susano-o-no-Mikoto si rinchiuse in una caverna, sigillandone l’entrata con un grosso masso e facendo precipitare la terra nel buio e nel freddo. A nulla valsero le suppliche degli altri dei, la dea non ritornava sulla sua decisione. Fu posto allora, innanzi alla grotta, un sakai di cinquecento rami e la dea della bellezza (AmenoUzumeno-Mikoto) improvvisò una danza. Incuriosita dal trambusto Amaterasu si affacciò dalla caverna spostando di un poco il masso e il dio della forza fu lesto a prenderla e a tirarla fuori; così il sole tornò a risplendere sulla terra riportando luce e calore. La seconda, che si svolge nel VI, racconta invece del rapporto di amicizia e rispetto tra il reggente Shoku-Taishi e l’ambasciatore in Cina Ono-no-Imoko che al rientro in patria, saputo della morte dell’amico, decise di ritirarsi a vita privata. Scelse di stabilirsi in una località vicino ad un lago e al tempio Rokkakudo assumendo il nome di Sen-mu e il suo eremo fu chiamato Ike-no-bossia. Nel suo modo di porgere i fiori alla dea Kannon (dea della misericordia), collocandoli all’interno del vaso, egli oltre ad omaggiare l’amico scomparso voleva ricordare gli alti principi che avevano caratterizzato il suo regno. Le persone iniziarono a recarsi presso il suo eremo per imparare la nuova arte fino a quando il nome dell’eremo e della scuola si fusero dando vita appunto alla prima scuola di ikebana l’Ikenobo. Questa è la scuola più antica in assoluto ed ancora oggi svolge la sua attività con allievi ed insegnanti in tutto il mondo. Le scuole di ikebana sono molte, le più famose sono riunite nell'associazione Ikebana International, ma le principali, assieme all'Ikenobo, sono l'Ohara e la Sogetsu (a cui appartengo). L'ikebana è l'arte del divenire sia perché i fiori o i rami che andremo ad utilizzare hanno un durata ben specifica sia perché, nel suo mutare forma e stile, ha seguito di pari passo la storia del Giappone. Per secoli è stata un'arte di esclusivo appannaggio di monaci, aristocratici e sho-
1. Ikebana realizzato per la mostra Incontro con l'ikebana Biblioteca Comunale Pier Paolo Pasolini - Roma - nell'ambito delle attività promosse dal Comune di Roma per le festività di Natale del 2008. Si tratta di uno studio di rapporto tra linee curve e verticali, tra materiale secco, naturale e sintetico. 2. Il triangolo è la figura base comune a tutte le scuole di ikebana che prevedono tre rami principali, e il ricreare attraverso di essi tale figura geometrica. Qui ho creato questa figura geometrica due volte utilizzando sia il triangolo di pietra sia disponendo le tre sfere di vetro con l'orchidea. Un tocco di naturalezza è dato dal rametto di bambù (che per i giapponesi rappresenta forza e delicatezza allo stesso tempo) mentre della sabbia bianca collega i vari elementi posizionati sul dai (base di legno su cui si posa il contenitore che spesso contribuisce a dare il tocco finale ad una composizione). 3. Durante il secondo anno di studio si realizza la variazione 8 che prevede una doppia composizione abbinata (nageire con nageire, moribana con moribana, nageire con moribana). In questo caso ho scelto l'abbinamento nageire (composizione verticale) con moribana (la composizione in ciotola bassa) per sfruttare la drammaticità naturale dei rami di pino.
gun e solo nel 1860 (quando il Giappone fu costretto ad uscire dal suo isolamento e ad aprire di nuovo i suoi confini) che l'ikebana cambiò il suo volto ed anche le donne iniziarono ad accedere a quest'arte. Il primo stile che incontriamo, il Rikka, è caratterizzato da un ramo principale posto al centro del contenitore, intorno al quale sono disposti altri fiori o foglie. Fino alla fine del 700 si usavano i rami come erano in natura (anche se selezionati con molta cura), poi si iniziò a lavorarli e a curvarli verso la linea voluta. Con il passare dei tempi il Rikka si trasformò in virtuosismi, regole e manierismi tanto che gli si preferì un nuovo stile denominato Shoka, molto più semplice, che prevedeva l'utilizzo di tre rami da posizionare in maniera asimmetrica. Un'altra celebre composizione il Chabana che veniva fatto per la cerimonia del te consisteva in un unico fiore o ramo di stagione che si mostrasse con discrezione, leggerezza e bellezza a chi partecipava alla cerimonia senza essere chiassoso o invadente per
colore o struttura. Un successivo stile fu il Nageire (letteralmente fiori gettati dentro) che prevedeva l'uso di vasi alti e stretti (tsubo). Quando il Giappone tornò in contatto con il mondo occidentale iniziò ad importare anche i fiori che non erano adatti a questi ikebana per le foglie grandi, le corolle pesanti o gli steli corti. Unshin Ohara (fondatore dell'omonima scuola), allievo della scuola Ikenobo, ruppe con l'esperienza centenaria dell'ikebana comprendendo che si dovevano percorrere nuove vie ed invece di comporre ikebana verticali creò un nuovo stile dove l'andamento fosse orizzontale. Era nato il moribana (fiori ammassati) che utilizzava contenitori bassi e larghi ideati dallo stesso Ohara (sono i suiban ancor oggi in uso) e mescolava materiale autoctono con quello nuovo creando nuovi stili e forme. Una successiva evoluzione dell'ikebana si ebbe quando Sofu Teshigahara nel 1927 fondò la scuola Sogetsu il cui motto era che tutti potevano fare ikebana con qualsiasi mate-
Luca Ramacciotti è regista e scenografo in campo lirico. Da anni si occupa di Ikebana Sogetsu tenendo corsi, dimostrazioni e realizzando ikebana di grandi dimensioni per foyer dei teatri o come scenografie. Ha partecipato a trasmissioni televisive per parlare di ikebana e svolto corsi anche per i bambini delle scuole elementari. Di recente è stato chiamato ad ideare degli ikebana su cui potessero essere inclusi dei gioielli per il lancio di una linea di gioielli etnici ispirati all'Oriente.
La Scuola Sogetsu nello stile libero permette la massima creatività andando ad impiegare anche materiali non canonici, a reinventare l'uso di oggetti ideati per altri scopi. In questo ikebana un coppapasta diviene un elemento visivamente importante, che spicca rispetto alla comunione cromatica che c'è tra la canna da zucchero e l'orchidea, ma nello stesso tempo riesce ad integrarsi con essi creando un tutt'uno armonico.
riale e in qualsiasi luogo. Lontani dall'idea del tokonoma in cui veniva tradizionalmente inserito l'ikebana Sofu ebbe una visione innovativa dell'ikebana che perdeva una bidimensionale facciata ed esplodeva a 360° guadagnando una tridimensionalità fino ad allora mancante. Nell'ikebana si iniziarono ad inserire materiali secchi, plastici, metallici o cartacei. Era dato libero spazio all'artista dell'ikebana dato che per la prima volta veniva introdotto il concetto di stile libero. Dopo un percorso di studi l'ikebanista poteva esprimere la sua creatività senza riprodurre forme e stili all'infinito come nelle precedenti scuole. Interiorizzate le regole e i principi base dell'ikebana Sogetsu poteva applicarle con fantasia. Magari non vi si ravvedono nello stile libero i rami principali, ma sono il punto di arrivo di un cammino fatto di studi di stili base e di variazioni volti a far acquisire esperienza, tecnica ed occhio all'ikebanista.
Persino il contenitore inizia ad avere forme particolari accanto a quelle tradizionali e può essere di qualsiasi materiale non solo ceramica, bambù (il cestino) o vetro. Si reinventa il materiale, gli oggetti non canonici vengono riideati come contenitori od elementi decorativi all'interno dell'ikebana che da composizione diviene scultura moderna. Dopo la Sogetsu sono nate altre scuole che hanno proseguito questo cammino poiché come dice uno dei maggiori Iemoto della Scuola Sogetsu, Hiroshi Teshigahara: Non si deve considerare l’ikebana come un oggetto fisso; l’ikebana è costantemente fluttuante. Non si deve dare una forma all’ikebana; l’ikebana ha una nuova forma per ogni nuova era. © RIPRODUZIONE RISERVATA
T
utto è cominciato con un regalo... mi è arrivata in casa una Phalaenopsis quasi sfiorita che avevano regalato a mia madre. Lei partiva per le vacanze estive e visto che io e mio marito Mauro coltiviamo da qualche anno bonsai, ha pensato di lasciarla alle nostre cure, così ho preso l’orchidea e l’ho messa in giardino insieme ai nostri bonsai. Dopo qualche
tempo, con mia grande sorpresa, la Phalaenopsis è rifiorita e sull’onda dell’entusiasmo (era la prima volta che riuscivo a non farla morire), ho cominciato a documentarmi su come coltivare al meglio queste piante. Nel frattempo le Phalaenopsis da una erano diventate 5 o 6 e adesso ne ho circa una ventina. D’estate le tengo all’aperto in un angolo riparato dal sole e in inverno in casa su una scala
inutilizzata che, con l’ausilio di lampade per la coltivazione indoor, vivono benissimo. L’idea di FLORERO è nata dall’esigenza di avere un vaso bello da tenere in casa, ma allo stesso tempo funzionale. Leggendo e applicando i consigli di coltivazione ho capito che alcuni tipi di orchidee, amano fondamentalmente tre cose: luce alla parte aerea e alle radici, aria all’apparato radicale, umidità alle radici ma non ri-
1. La base d’alluminio forata impedisce il ristagno dell’acqua delle annaffiature, limitando così una delle cause di morte delle orchidee: il marciume radicale. I piedini che sollevano la base da terra favoriscono la circolazione dell’aria all’interno del vaso e quindi alle radici.uove concezioni di giardino giapponese moderno - 2, 3. Il corpo trasparente (vetro pirex 3 mm. di spessore) consente di far arrivare la luce alle radici della pianta. - 4. Il design di florero fa di questo vaso un oggetto d’arredamento bello e funzionale.
stagno d’acqua. Quello che normalmente facciamo (anche io l’ho fatto) quando arriva in casa una di queste piante è quello di procurarsi un controvaso carino dove mettere l’orchidea in modo da coprire quel bruttissimo vaso di plastica. Così facendo togliamo alla pianta tutto ciò di cui ha bisogno aria, luce e favoriamo i ristagni d’acqua dopo l’annaffiatura con l’acqua che rimane nel controvaso.
Ho cercato ovunque, un vaso che avesse le caratteristiche giuste per la coltivazione e fosse anche bello esteticamente ma non ho trovato niente. Così ho cominciato a pensare a come poter realizzare il vaso “perfetto” per queste piante. Il vaso doveva rispettare alcune caratteristiche fondamentali: essere trasparente per consentire alla luce di arrivare alle radici, garantire la circolazione d’aria (come per i vasi bonsai, i piedini che sollevano il vaso dal piano d’appoggio garantiscono questa funzione), evitare i ristagni d’acqua (il fondo forato molto più di un vaso normale non consente all’acqua di rimanere all’interno dopo l’annaffiatura). Ed infine, essere bello tanto da poterlo lasciare su un tavolo senza pensare di doverlo coprire. Da questi quattro punti fondamentali ho cominciato a sviluppare l’idea di come realizzare il vaso. Devo dire che l’aiuto della mia famiglia è stato fondamentale, le serate a discutere tutti insieme su come 5. Florero è disponibile in diverse varianti.
realizzare Florero sono state un valido aiuto. Il sostegno impagabile di Mauro (mio marito) è ed è stato fondamentale per la realizzazione del mio progetto. Devo anche un ringraziamento speciale ad Andrea (amico e bonsaista) che si è prestato ad aiutarmi realizzando il primo prototipo. Mi è servito moltissimo per far capire la mia idea a chi avrebbe dovuto costruire una parte del vaso, avere un prototipo rende ogni spiegazione più facile (sono serviti cinque fornitori diversi ed ognuno ha realizzato un pezzo del vaso). Comunque, dal momento che è nata l’idea e ho presentato la domanda di brevetto, al momento che effettivamente sono stata pronta a commercializzare FLORERO è passato un anno. Un anno di prove, tentativi,
ricerche, campioni e poi finalmente il cerchio si è chiuso. IL VASO ERA PRONTO! La prima uscita pubblica è stata la presentazione sulla mia pagina Florero Design su FaceBook e contemporaneamente sul sito www.florero.eu. Dal “vivo” alla mostra di Bologna ORCHIBO’ ed a Piacenza all'ORTIDEA. Il riscontro è stato positivo, alle persone piace e questo è molto importante. Sulla funzionalità non ho dubbi, io coltivo già da mesi alcune delle mie orchidee nei vasi FLORERO e stanno benissimo. FLORERO è sicuramente “il vaso” per chi come me ama e coltiva, le orchidee in casa. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Bonsai di Ginepro nello stile letterato BUNJIN del pittore Blas Cano di Malaga
N
ell’arte bonsai esiste un particolare tipo di stile dal tronco molto sottile, quasi minimalista, prerogativa di un certo tipo di letterati e pittori che si ispirano alla antica poesia e pittura cinse. Il Bunjin, nella sua accezione più corretta non deve essere considerato uno stile vero e proprio, ma un modo di fare bonsai di qualunque tipo e di qualunque forme. Alcuni giapponesi considerano una differenza tra il “vero bunjin” ed il “tipo bunjin”. Altri giapponesi considerano il bunjin l’unico vero bonsai veramente figlio dell’estetica zen. In ogni caso ci troviamo di fronte alla massima raffinatezza estetica intesa in un ambito informale e spirituale. Vengono quindi rifuggite le raffinate preziosità di origine cinese e le formalità imperiali e militari del mondo giapponese. La spiritualità diventa l’elemento chiave di interpretazione dello stile bunjin. II bunjin è lo stile rappresentativo del bonsai, è l'essenza del bonsai.
Tutta la cultura giapponese deriva da quella cinese. Anche il bonsai, ossia il bunjin, vede le sue origini nella lontana Cina. In particolare, lo spirito che sta alla base del bunjin è riferibile all'OUTTSE (taoismo cinese) nato 2,5 sec a.C. Già nel 600 d.C. lo spirito bunjin arriva in Giappone, ma solo dopo il 1200 d.C. si diffonde e si evolve. Gli intellettuali cinesi, detti bunjin, fuggivano la gloria, la posizione sociale, la ricchezza. Si dedicavano allo studio dell'uomo e spesso vivevano come eremiti. Il bunjin-bonsai deve essere così: non appariscente ma nobile d'animo, minimo materialmente ma massimo spiritualmente. In Giappone il bunjin si arricchisce della bellezza semplice. Il bunjin deve quindi essere leggero, esile, morbido, non perfetto, non apparente, ma deve celare la forza invisibile e mistica, la potenza della natura: la VITA. Questa forza non si vede, non è esplicita ma è il fondamento della natura. Un esempio che chiarisce tale concetto è il seguente: "...un
Pinus parviflora var. pentaphylla "Kuon" Età 230 anni
campo in inverno è ricoperto di neve, il gelo rende tutto immobile, il grigio e il bianco fanno rabbrividire... sembra tutto morto... ma in realtà sotto la neve, nella terra c'è un seme, ed è VITA!". Il concetto di forza celata è fondamentale nella cultura giapponese ed è anche indicato con il termine shinri che significa ragione vera. Tutti gli stili del bonsai devono essere bunjin, tutti devono celare ad un primo sguardo, ma manifestare dopo un'osservazione più accurata, la vita. La danza che si faceva anticamente davanti alla divinità scintoista (Kagura) veniva praticata a corte per rendere omaggio alla divinità, per ringraziare la bontà del raccolto e si celebrava danzando e suonando flauto e tamburo; anch' essa di derivazione cinese. ancora oggi si ripropongono nell'ambito delle accoglienze musicali che sono sempre fatte per l'ospite, insieme ad altre arti fini all'interno della casa giapponese. La derivazione del bonsai dalla Cina, che si adegua al territori giapponese rappresenta una via ed un'arte nella quale si elabora la natura con gli uomini per creare opere d'arte che ne sono il risultato in armonia tra uomo e natura. Naturalmente sarà l'uomo a rispettare il disegno naturale. Dall'antichità i giapponesi pensano che ci siano divinità in ogni parte della natura, e ciò è in ogni opera d'arte. Ricordiamo che i giapponesi sono politeisti e che il buddismo è entrato in Giappone nel XI sec. La concettualità del bunjin è molto profonda ma è molto difficile, ma è da studiare perché rappresenta una filosofia molto utile. La sua storia ha origine in Cina dalla filosofia taoista del Lao Tse. IniziaImente se ne occupavano i letterati che praticavano la cerimonia del the, successivamente il bunjin è diventato un modo di pensare ed oggi è sbagliato consideralrlo uno stile. Possiamo considerare l'arte
Bunjin di ginepro Foto Marco Cantafore
bonsai come anche altre arti giapponesi in tre stili principali: shin, gyoo, soo. Nello stile shin il gusto è rigido, siamo nella formalità e lo stile bonsai corrispondente è il chokkan. Lo stile gyoo, di carattere morbido è considerato di maggior classe e dal punto di vista bonsai è rappresentato dal moyogi e dal sakkan. Lo stile soo è il più libero ed è caratterizzato da linee eleganti e raffinate; ad esso appartiene il bunjin. Questo modo di classificare è basato sulla personalità, la forza, la morbidezza, il gusto. La parola bunjin deriva dall'ambiente dei guerrieri, che in Cina erano normalmente dei dignitari, proprietari terrieri e burocrati del governo (IX sec d.C.). Per essere considerati bunjin dovevano conoscere sette arti, tra
cui suonare l'arpa, giocare a scacchi, comporre poesie, saper scrivere, comporre calligrafie, dipingere e scrivere libri. Erano persone dalle grandi possibilità che non si macchiavano di mondanità, ma preferivano vivere da eremiti. In Cina l'epoca d'oro di questo modo di essere va dal X al XII sec. (dinastia Sung). La storia del bunjin giapponese inizia dopo la fine del periodi Kamakura (XIII sec.). In questo periodo nascono diversi pittori bunjin che vivevano frugalmente. Per arrivare a capire il gusto bunjin si deve praticare la forma più regolare ed in base a questo si comprende lo stile morbido, agile, spigliato, arguto, elegante e non curante, così da arrivare al culmine per comprendere la vera ani-
Zhuāngzi - Illustrazione Mistico e filoso cinese, è considerato tra i fondatori del Daoismo.
ma bunjin, la quinta essenza della passione. L'albero bunjin dovrebbe avere un tronco snello ma non giovane, elegante, disinvolto e ricco di poesia. Anche il suo vaso e il suo tavolo devono essere molto raffinati, suggestivi e delicati. n bunjin è l'essenza del bonsai. L'immagine ideale ricercata dai cinesi deriva dalla filosofia taoista ZUANG-ZI, e non è precisamente uguale al concetto di wabi-sabi da cui scaturisce la bellezza estetica giapponese. Del resto anche in Giappone ci sono due correnti principali, la prima intorno alla cerimonia del the e la seconda legata allo spirito dello zen. La ricerca della bellezza del vuoto, cioè della semplificazione, è la bellezza bunjin che è tipica del Giappone, appartiene al gusto zen e culmina realizzando nella figura del bonsai questa caratteristica. In questo senso la bellezza della cultura Giapponese è una bellezza del togliere. In Cina nella dinastia Ming incontriamo l'apice della maturazione intellettuale di questi uomini sublimi: persone raffinate, intelligenti, amanti della lettura e della cultura, pittori, calligarafi, maestri del tè che hanno buon gusto, amanti della vita eremitica. Sono persone che comprendono la passione per la natura ed hanno un sentimento poetico. Sono collezionisti di pietre, oggetti d'arte per l'allestimento dei tokonoma, ceramiche ed antiquariato in
generale. Anche l'ikebana era molto amata soprattutto nell'antichità, negli stili che ricordano la pittura delle forme libere. Lo spirito bunjin si vede anche nel modo di fare ikebana e di goder della bellezza dei fiori, indifferenti delle cose mondane; per questo sono ikebana liberi e non formali, talvolta anche senza tecnica. Talvolta anche con fiori rari o stravaganti, dalle forme ricche di formalità. L'albero bunjin dovrebbe essere un'opera che esprime al meglio la bellezza giapponese. Secondo Sudoo il bunjin può essere anche essere considerato una via da percorrere per arrivare ad una illuminazione della vita attraverso il bonsai. Conclude augurando che si possa fare bonsai ringraziando di essere in vita e rispettando la vita e la natura. Il bunjin non è una forma d'arte, perché è vivo, mutevole nel tempo, fugace (gicon). Per poter realizzare un bunjin è importante conoscere il concetto di bellezza del vuoto. Il vuoto è bello perché esso accetta illimitatamente tutto ciò che si trova nell'universo; nel vuoto ognuno può esprimere cosa ha nel cuore. Il bunjin deve trovare spazio nel vuoto ma non riempirlo, deve suggerire ma non raccontare. © RIPRODUZIONE RISERVATA
UNA BUONA IDEA PER LA MOSTRA D'AUTUNNO BONSAI E SUISEKI dell'Associazione Culturale Roma Bonsai
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crivere un reportage di una mostra è spesso ripetitivo, le dinamiche delle mostre sono più o meno le stesse. Ma questa volta lo scrivo con molto entusiasmo, che spero di trasmettere ai lettori. Roma, “Città dei ragazzi”, è giunta alla IV edizione la Mostra d’Autunno Bonsai e Suiseki dell’Associazione Culturale Roma Bonsai. Negli ultimi mesi è arrivata nuova linfa all’Associazione, si sono iscritti dei nuovi soci appassionati di bonsaismo, e con noi “vecchi” si sono anche dedicati all’organizzazione della mostra. Ogni anno, facendo tesoro dei piccoli errori commessi nelle precedenti edizioni, ci miglioriamo e speriamo di continuare così. Ad ogni edizione aumentano le richieste di iscrizione di bonsai e suiseki alla mostra, tanto che questa volta abbiamo dovuto limitare ad uno soltanto il numero degli spazi da assegnare a ciascun partecipante. Ma va bene lo stesso, l’importante è passare un fine settimana assieme agli amici, godendo della condivisione della nostra passione. Anche la sala dedicata ai suiseki è stata insufficiente, ma siamo riusciti ad
allestire altri spazi, cercando di non scontentare nessuno. Ormai la mia collaborazione per l’organizzazione delle mostre inizia ad essere annosa, ma le preoccupazioni e l’agitazione pre - durante - post mostra sono sempre uguali! Quest’anno la Mostra d’autunno ha avuto una grossa risonanza per via di un’idea che ha avuto il nostro Vice Presidente e Consigliere UBI Fabrizio Petruzzello: organizzare delle dimostrazioni di rappresentanti delle varie Scuole riconosciute UBI. L’invito è stato accolto positivamente da parte di cinque scuole, che hanno inviato dei rappresentanti veramente qualificati e con piante di altissimo livello. Il locale adibito alle dimostrazioni è stato affollatissimo sempre, ed è stato proprio piacevole vedere tanti nomi noti e tanti emergenti del bonsaismo italiano lavorare assieme e, perché no, ridere e scherzare! Siamo tutti amici davvero! I nomi: per Studio Botanico: Mario Pavone per Bonsai Creativo: Francesco Santini, Bruno Proietti Tocca e Michele Pacini.
Franco Barbagallo mentre riceve il Premio Associazione Culturale Roma Bonsai
Elisabetta Ruo premiata con una menzione di merito "miglior latifoglia" per il suo bonsai di azalea
Premio Bonsai & Suiseki magazine a Daniele Abbattista per il suo bonsai di Leccio
Il Premio Miglior Suiseki è stato vinto da Daniela Schifano per la sua elegante Pietra montagna "Canto antico"
Premio UBI - Olivastro Shi Zong Quan
per Progetto Futuro: Tommaso Triossi e Andrea Bianco per Bonsai Time: Fabrizio Zorzi e Carmelo Bonanno con Giorgio Castagneri per Bonsai Mediterraneo: Matteo Testa con Antonio Gesualdi. Inoltre nei due giorni si sono alternati altri personaggi: Franco Barbagallo che ha lavorato, con una tecnica spettacolare, il legno secco di un grande oli-
vo, con la collaborazione di Giuseppe Massa, Shi Zong Quan un pino nero, Vincenzo Dominizi un’erica. Tutti sono rimasti soddisfatti, sia per il clima amichevole, che per queste lezioni di grande bonsaismo italiano. Per me è stato davvero emozionante vivere quelle giornate così intense ed essere consapevole di partecipare ad un momento storico. Il bonsaismo italiano
Premio Ass. Cul. Roma Bonsai - Melograno Franco Barbagallo
non era più una frase fatta o un concetto astratto, era lì rappresentato da tante persone che esprimevano la parte migliore di un’arte antica, acquisita da noi italiani e portata verso un pubblico qualificato ed attento. La mostra ha avuto il patrocinio dell’Unione Bonsaisti Italiani ed è sempre un grande onore. Anche la Provincia di Roma ci ha concesso il suo patroci-
nio, quest’anno per la prima volta, riconoscendo i nostri sforzi a divulgare l’amore per la natura e la nostra collaborazione con la Città dei Ragazzi. Molte targhe sono state consegnate alle piante in mostra. Oltre al premio Presidente U.B.I. ed i premi dell’Associazione, sono state consegnate due targhe dal “Bonsai & Suiseki magazine”, che ha anche dato il
Premio Miglior latifoglia-menz. di merito - Azalea Elisabetta Ruo
1. Premio Miglior latifoglia - Sughera (Francesco Giammona) 2. Olivastro (Laura Monni) 3. Premio Miglior latifoglia - menz. di merito - Pino silvestre (Mario Pavone) 4. Premio Miglior conifera - Tasso (Roberto Raspanti) 5. Premio Miglior conifera - menz. di merito Cipresso (Gianni Troiani) 6. Le demo in contemporanea nella "casa delle rondini" 7. Demo Bonsai Creativo School 8. Demo Scuola Bonsai del Mediterraneo 9. Demo a cura di Franco Barbagallo
suo patrocinio, ed una targa è stata assegnata ad un bonsai in mostra dal Presidente dell’Associazione Umbria Bonsai di Foligno. Quest’anno per la prima volta è stata allestita una sala dedicata alle piante dei soci ed istituito un premio dedicato. Sono state esposte le piante dei soci più anziani già famose come quelle di Enrico Sallusti e di Ottavio Foschi, quelle dei soci più esperti co-
me Emilio Di Raimo, Fabrizio Bonafè, Cosimo Lo Parco e Daniele Abbattista. Ma anche i soci con meno esperienza hanno potuto presentare, con grande emozione, i loro bonsai. Una sala interamente dedicata ai suiseki, col passare degli anni abbiamo potuto notare un deciso miglioramento della qualità delle pietre e delle esposizioni. Bellissimi pezzi alcuni dei quali di recente sono stati presentati e
molti premiati alla Mostra dell’Associazione nazionale AIAS a Firenze. Un grande onore per l’associazione aver potuto accogliere i suiseki di Carlo Maria Galli, Carlo Scafuri, Antonio Marino e Napoli Bonsai Club, Giuseppe Cordone e Filippo Lanfranchi. A quest’ultimo è andata la targa del patrocinio del Bonsai & Suiseki magazine. Giudice della mostra e socio della nostra Associazio-
ne Fabrizio Buccini che ha presentato un suo suiseki particolarmente evocativo. Daniela Schifano ha esposto una pietra montagna che ha colpito tutti per la sua bellezza, ha presentato la pietra in una esposizione elegante, come sempre curata in ogni particolare e con un tavolo innovativo realizzato da Sergio Biagi. A Daniela il meritato premio al migliore suiseki della mostra. Bene dopo tutto questo discorso, lascio immaginare le
grandi piante presenti alla mostra! Sarebbero necessarie troppe pagine per pubblicare tutte le foto e quindi vi invito a venire il prossimo anno per ammirare dei veri capolavori dal vivo e per godere del clima amichevole che si respira sempre all’Associazione Roma Bonsai. Questi alcuni nomi degli espositori: Francesco Giammona, Franco Barbagallo, Mario Pavone, Roberto Raspanti, Shi Zong Quan (Ace), Antonio Conte, Andrea Be-
Particolare del secco del melograno di Franco Barbagallo
nevieri, Gianni Troiani, Vincenzo Dominizi, Claudio Tampucci, Giorgio Castagneri ed Elisabetta Ruo. Ma ancora tanti nomi ci sarebbero da dire, gli spazi espositivi erano quasi 60. Il mercatino, da molti anni ormai famoso per tutti i bonsaisti dell’Italia centrale, ha confermato la sua fama con la presenza di grandi nomi e di ottimo materiale: i vasi originali e di ottima fattura di Tiberio Gracco, lo stand di Bonsai Time come sempre fornitissimo, i prebonsai imperdibili provenienti dalla Sicilia di Vito, Paolo e Ottavio Miano, di Donato Maiorino e di Francesco Giammona. Le piante “nostrane” di Vincenzo Dominizi, quelle di Ace e di Fabrizio Buccini. Le pietre di Buccini e di Carlo Maria Galli. Le magliette di Elisabetta Ruo instancabile sostenitrice dell’aiuto italiano per il Giappone. Mi auguro che il nostro esempio possa essere apprezzato e seguito dalle Associazioni di bonsaisti sparse per l’Italia, conservando il clima di amicizia e solidarietà che si respira nelle nostre mostre. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Premio Miglior Suiseki Pietra Montagna "Canto antico" Daniela Schifano
Premio Miglior Suiseki - menz. di merito Pietra Montagna "Eneepah - L'isola miraggio" Carlo Scafuri
Simpatico particolare dell'esposizione di Elisabetta Ruo
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ono sempre stato convinto che le piccole Case editrici pubblicano i lavori più interessanti e meritevoli di attenzione e lettura. Il libro “Le icone di Hiroshima” rafforza la mia tesi. Lavoro eccellente e soprattutto originale quello di Annarita Curcio che, con una profonda ricerca, porta avanti una trattazione storica critica ed analitica su una delle barbarie più assurde del secolo trascorso. Il bombardamento di Hiroshima, questo olocausto perpetrato con impressionante e freddo calcolo matematico dagli Stati Uniti, costituisce un orrore che non ha avuto la pubblicità e l’esecrazione che meritava perché consumato da una Nazione che era uscita vittoriosa dal secondo conflitto mondiale. Lavoro portato avanti, ripeto, con rigore storico e con senso critico che analizza come l’America censurò ogni fonte di informazione e documentazione che potesse riguardare il lancio della bomba atomica e la barbarie che ne seguì e come, di contro,
per ben altri motivi, anche il Giappone fece di tutto per rimuovere queste atrocità dalla memoria collettiva. Una originalità di questo lavoro è la trattazione della fotografia come ricordo e l’immagine come icona. Questo è un libro per non dimenticare. Per non dimenticare il senso dell’onore e della sopportazione del Giappone, della sua dignità. Per non dimenticare l’orrore delle guerre e la barbarie perpetrata da vincitori e vinti in nome di una logica folle che coinvolge e macchia anche le Nazioni cosiddette civili e progredite. La storia è piena di olocausti (non furono soltanto quelli nazisti o comunisti). E quelli consumati dai vincitori sono spesso più atroci di quelli consumati dai vinti!
LE ICONE DI HIROSHIMA FOTOGRAFIE, STORIA E MEMORIA ANNARITA CURCIO
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onsiderata la mia amicizia ed i miei rapporti di lavoro redazionale con Antonio Ricchiari, potrei trovarmi un tantino imbarazzato nel volere parlare della sua ultima fatica, del suo lavoro pubblicato dai Crespi. Imbarazzato perché potrei sembrare di parte o comunque poco obiettivo, ma non è così. La valutazione di un lavoro di questa portata, di un lavoro scientifico e di tecniche avanzate va al di là di ogni considerazione emozionale. Aspettavo con curiosità l’uscita del libro, che peraltro era in ritardo rispetto alle previsioni di Antonio. Quando mi è arrivata la copia ho iniziato immediatamente a scorrere il volume che già, al primo impatto, mi è sembrato graficamente molto bello con una copertina davvero originale ed impattante. Gli argomenti sono naturalmente di grande attualità e vengono trattati con approfondimento che mi fanno pensare ai testi universitari. Si inizia con una visione analitica ed estetica della legna secca, per proseguire con una trattazione completa ed esaustiva sul legno delle piante: struttura e funzionamento, i legni di reazione, di compressione, studio della carie del legno per passare alla dendrochirurgia. Dal punto di vista scientifico nessuno aveva fino ad ora trattato così approfonditamente gli argomenti che è d’obbligo che ogni bonsaista conosca. Estremamente interessanti i paragrafi che riguardano l’interpretazione artistica della natura, la visione stilistica del bonsai contemporaneo, l’Estetica e il disegno del
bonsai. Quando si entra nel vivo delle tecniche anche le sequenze fotografiche risultano estremamente soddisfacenti e di grande aiuto. Eccezionale la seconda parte del libro che riguarda le tecniche di invecchiamento, l’uso del fuoco, la sabbiatura, le lavorazioni della legna secca, la preparazione della pianta. Originale il paragrafo che riguarda gli attrezzi per la legna secca ed il loro uso. Come sempre la parte dedicata all’Estetica, argomento sul quale Ricchiari insiste oramai da parecchi anni, è interessante ed arricchisce il bagaglio di conoscenze che ogni bonsaista dovrebbe possedere; in particolare raccomando la lettura di: Visione analitica e didattica sull’impiego della legna secca. Seguono le Tecniche di piegatura, uno Speciale concimazione: novità e sperimentazioni (scritto a quattro mani con Luca Bragazzi assieme ai paragrafi che parlano di: Miscele adeguate di terricci, Fitopatologia: come preparare la pianta alle lavorazioni e come intervenire). Concludono questo originale quanto “colto” lavoro due argomenti: Commenti di critica estetica su alcuni esemplari e per finire: caratteristiche macroscopiche fisiche del legno di alcuni alberi. Sono sicuro che non esista in giro negli altri Paesi un lavoro di siffatta natura e credo che gli altri bonsaisti apprezzeranno il lavoro di Antonio che continua nell’ottica di una maggiore professionalità anche degli appassionati. © RIPRODUZIONE RISERVATA
BONSAI TECNICHE AVANZATE
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i parla di bonsai d’avanguardia dimenticando che vi è pure una transavanguardia rappresentata da un discreto numero di bonsaisti che hanno presentato piante che non rispondono a quelle costanti che ancora le avanguardie storiche seguivano. Credo che la situazione di mercato odierna necessiti di una valutazione
dei rapporti tra creazione artistica e situazione socioeconomica, che appare più diretta (e pericolosa) rispetto all’immediato passato. Ho detto “pericolosa” senza volere svalutare la qualità di molte piante; anzi con la stessa parola “valore” si dovrebbe tenere conto non solo del valore estetico, ma di quello economico: il che avviene soprattutto a favore del secondo.
In altre parole: difficilmente possiamo scindere la valutazione di un Maestro da quella che è la sua quotazione sul mercato, che ovviamente dipende dal genere dei rapporti tra marketing e attività artistica. Il che non significa che il bonsai debba sempre corrispondere alla sua valorizzazione “venale”. Il che significa oltretutto che, come avviene per un quadro, l’alone (o l’aura) del
capolavoro può esistere anche se “sporcata” da una “sopravalutazione”. Non vorrei che si giudicasse il mio discorso eccessivamente polemico o, peggio ancora, banale, ma è soltanto la volontà di chiarezza che mi spinge a tenere conto di alcuni dati che un tempo non erano palesi: basterebbe verificare alcune quotazioni: mai applicate in passato.
Questo fatto, se da un lato può condurre a facili equivoci circa il limite entro cui considerare lo “status” di un esemplare bonsai, dall’altro ci permette di apprezzare alcune piante che mai prima d’oggi avevano trovato consenso e spazio nell’universo bonsaistico, e di tenere conto che l’originalità del progetto e non solo il “materiale” può essere la vera discriminante per la valutazione di una pianta. Ma al di là di quotazioni estreme, di strata-
gemmi valutativi aleatori, continuano per fortuna, e continueranno a popolare l’universo bonsaistico esemplari saggiamente e correttamente quotati. Credo che oggi dovremmo essere attenti e altrettanto pronti a biasimare tutto ciò che si tende a porre sul mercato con sovra quotazioni e con tentativi speculativi che altro non fanno che falsare e allarmare il mercato dei bonsai. La responsabilità di una corretta valutazione e quotazione è affidata “di pe-
so” al bonsaista: il mercato spesso e per tanti motivi che sono oggetto di analisi di marketing, tende ad accettare quotazioni che non rispondono alla reale valutazione. Niente di più catastrofico è, in qualsiasi campo, l’instaurarsi di un falso mercato e di falsi mercati. L’invito che andiamo continuamente ripetendo (anche ad orecchie sorde, noncuranti del danno procurato) è quello di una corretta valutazione del
mercato, di sagge valutazioni perché se applicate le regole di una sana compravendita e leale contrattazione, tutto questo porta popolarità e immagine al bonsaismo italiano e soprattutto incoraggia e favorisce questo nostro piccolo mercato, fonte onesta di giusto guadagno. Non è il commercio o il guadagno che ci scandalizzano, è il lucrare, la mira di improbabili facili introiti che ci allarmano.
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Ume... Essenza Wabi! In questo articolo Antonio Gesualdi si troverĂ alle prese con un anonimo materiale di Prunus mume proveniente dalla Cina, destinato a diventare albero da giardino, reinterpretato e valorizzato in chiave wabi al fine di creare un pregevole bonsai.
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omunemente chiamato Prunus mume, in Giappone assume il nome di Ume, il quale indica genericamente una pianta che si può considerare una forma intermedia tra un pruno ed un albicocco. È un piccolo albero alto da 4 a 6 m con corteccia di colore grigio verdastro. Le foglie sono decidue, alterne, a lembo ovale acuminato con bordi finemente dentellati, lunghe da 5 a 8 cm. Le foglie compaiono poco dopo la caduta dei petali dei fiori. Il fiore è formato da 5 petali, numerosi stami ed ha diametro che varia da 1 a 3 cm; esistono delle varietà ornamentali a fiore doppio. I fiori sono solitamente bianchi, anche se le piante da coltivazione orticola possono avere fiori rosa o rosso intenso; la fioritura precede la foliazione. I frutti sono delle drupe sferiche di circa 3 cm di diametro, con un solco dal picciolo alla punta, in qualche misura analoghe a quelle dell'albicocco. La buccia del frutto è verde quando il frutto è acerbo, passa al giallo a maturità a volte con delle sfumature rosse. La polpa a maturità è gialla. Il frutto non è edule così tal quale, ma viene lavorato in una sorta di salamoia, per fare un tipico prodotto della cucina Nipponica chiamata Umeboshi usato come condimento dal sapore salato-acido (foto a). Pertanto questo stupendo ed evocativo albero, con il passare dei secoli è divenuto uno dei simboli del Giappone, in particolare il fiore, che viene ritratto in maniera stilizzata in diversi stemmi araldici e nella iconografia popolare (foto b). Come non ricordare l’usanza tutta Nipponica di ritirare in casa bonsai di questa essenza, verso fine di-
cembre, nell’attesa della fioritura, che se avviene prima del fine anno, è simbolo di abbondanza e prosperità, in particolare per gli studenti. Questa meravigliosa essenza, mi ha sempre affascinato forse per il fatto di essere molto simile al nostro albicocco o forse perché per anni ho studiato alle falde del Vesuvio, ove esiste la maggior varietà di albicocchi esistente e dove è coltivato dappertutto. Per anni ho cercato un materiale degno di entrare nella mia collezione, quando presso un vivaio specializzato in bonsai alle porte di Roma, dove abitualmente tengo dei corsi, mi imbatto nella pianta che vi vado a presentare. Era da anni accantonata in un angolo presso l’ingresso del vivaio, che per altro ne possiede molte già in contenitore bonsai, ma purtroppo sinceramente nessuna di esse mi intrigava da farla mia. Decido di prendere questo albero di ume destinato a essere impiantato in qualche giardino, non prima però di chiedere qualche informazione riguardo la provenienza della stessa al venditore, il quale mi racconta che è una pianta proveniente da un impianto frutticolo nel sud-est della Cina e che al momento dell’espianto egli la recuperò per crearne materiale da avviare alla coltivazione bonsai. Portato l’albero a casa scelsi un contenitore adatto che si abbinasse molto bene all’idea che avevo in mente per questo particolarissimo materiale. Sono sincero! A una prima analisi, non diedi molto peso a cosa potessi creare con quest’ume; diciamo che lo presi più
1. Il prunus quando ancora era in vivaio, un anno prima dell’acquisto nel dicembre 2009
2. Particolare della legna secca
che altro per avere questa essenza in collezione, ma giunto in laboratorio e cominciando a pulire le vene che originariamente erano tutte collegate da porzioni di corteccia nascondendo la reale bellezza della pianta, mi resi conto che le vene erano già tubbolarizzate e che sotto la corteccia ormai morta tra un fascio vascolare e un altro c’era del legno già suberizzato che necessitava un restauro e un consolidamento. Con l’aiuto del mio assistente Tonino, mettemmo il prunus in contenitore bonsai, giacché anche il periodo era favorevole trovandoci in metà dicembre, dando alla pianta un’angolazione opportuna creando pertanto un prunus in stile fukinagasci, con ampie porzioni di legno secco e vene. L’operazione di invasatura, non comportò grosse problematiche anche perche mi trovavo a lavorare con una pianta ultra stabilizzata, infatti, nella mastella, si era formato un compatto e maturo pane radicale, pertanto potei tagliare il
3. Dicembre 2010. Il prunus in laboratorio
tutto con una lama e sagomarla al futuro vaso. I prunus, come tutte le rosacee, non danno mai grossi problemi in fatto di rinvaso, ma bisogna attuare l’operazione in pieno inverno quando la pianta è in dormienza, potremo dire in “anestesia totale” frase molto eloquente usata dai vivaisti. In quest’articolo che potrebbe sembrare una semplice cronistoria di un rinvaso, vorrei mostrarvi qualcosa d’innovativo, che ho scoperto per caso e sperimentato su varie essenze, concernente quello che è la tecnica di riconsolidamento del legno spugnoso, che a volte, come in questo caso, possiamo trovare su certi soggetti. Molto spesso si legge e si sente parlare di sostanze utilizzate per consolidare parti molli di legni: una delle sostanze più utilizzate è il paraloid, sostanza di sintesi chimica derivante dal petrolio, utilizzata anche da me, rendendomi conto subito che presenta diversi handicap di tipo tecnico...
5. Con l’aiuto di Tonino si posiziona l’albero correttamente in vaso con la nuova inclinazione. Per stabilizzare il rinvaso, si picchetta l’albero con dei legni, in basso è visibile tutta la zona lignea da risanare
4. Viene scelto quel che sarà il suo fronte definitivo
6. Llato destro, si intravedono le altre 3 vene che unendosi in apice alimentano la ramificazione
7. Si inizia il risanamento del legno asciugando il pezzo col fuoco.
8. Si passano più mani di olio di lino cotto, facendo attenzione ad impregnare ogni parte.
10. Dopo aver passato la fiamma per far "friggere" il legno, si rifinisce con una spazzola in PVC per asportare delicatamente parti di legno bruciato.
9. L’olio utilizzato.
mi spiego. Il paraloid è molto volatile e facilmente veicolabile nel legno molle ben asciutto, ove ha un forte potere consolidante con effetto plastico; le sue molecole, consolidando, plastificano il legno, rendendo la superficie esterna plasticosa e idrorepellente. Di conseguenza il liquido jin non riesce a impregnare il legno che risulta per anni plastificato e impermeabile. Paradossalmente l’impermeabilizzazione può essere un motivo di ancor maggior aumento di fenomeni di marcescenza in quelle parti dove non arriva a impregnare la resina, a causa della mancata traspirazione del legno. In antichità vi erano diversi prodotti utilizzati per risanare porte e infissi in legno, uno dei più importanti è l’olio di lino cotto. L’olio di lino, grazie alla sua alta percentuale di acido linoleico, è classificato come un olio siccativo, in particolare credo sia uno degli oli siccativi più forti in natura. Esso è estratto dai semi del lino appunto e subisce un trattamento termico per aumentarne il potere impregnante e siccativo. Non a caso la sua versione raffinata è utilizzata da centinaia di anni
come veicolante dei colori ad olio nelle belle arti; è’ proprio la presenza di questo olio che permette ai pigmenti di solidificare in un tempo relativamente breve mantenendoli stabili nel tempo. Prima dell’avvento degli impregnati e delle vernici polimeriche tutti i manufatti lignei, che dovevano stare esposti alle intemperie, venivano trattati a più e più mani con questo olio che lascia una patina esterna porosa in grado di assorbire qualsiasi altra vernice coprente. Mi sono chiesto perché non utilizzare le proprietà del olio di lino anche nel bonsai? Ho sperimentato a lungo questa tecnica su parti di legni di diverse essenze che richiedevano un consolidamento, sempre con ottimi risultati, ed è il caso anche del prunus presentato in queste pagine. Come prima operazione pulii le parti di legno più polverose e cadenti, poi asciugai il legno con un microbruciatore, per poi stendere più mani di olio di lino cotto, facendo bene attenzione che ogni parte fosse ben impregnata; una volta lasciato asciugare per qualche minuto, passai nuovamente il bruciatore “friggendo” letteralmente il legno, che già dopo pochi minuti risultò solido. Al termine della operazione dopo una leggera spazzolata passai tranquillamente il liquido jin in purezza nella maniera classica, cioè bagnando prima il pezzo, ottenendo un risultato del tutto identico cromaticamente e come aspetto alle parti non trattate con olio. Il processo di consolidamento del legno utilizzando olio di lino è molto più lento, infatti occorrono una diecina di giorni affinché l’olio impregni totalmente il legno e asciughi perfettamente, ma il risultato è enormemente più duraturo e naturale. Tornando alle questione più strettamente bonsaistiche, visto che mi trovavo ad operare in un periodo favorevole anche alla modellatura dei rami, diedi anche una prima impostazione a questo affascinante materiale. Ecco quindi che da un anonimo e accantonato tronco di prunus mume, è nato un nuovo ed importante bonsai, dal quale scaturisce tutta l’anima wabi tipica di questa essenza. Non rimane che alleggerire ancora dei punti sul secco e applicare un corretto mochikomi al fine di fare infittire ed impreziosire ulteriormente questo splendido ume. © RIPRODUZIONE RISERVATA
11. Dopo aver nebulizzato acqua si spennella il polisolfuro di calcio. Ecco il risultato finale della parte risanata.
14: Aprile 2011. “Guardando le canne la geisha triste danza leggiadra”
13: A lavorazione ultimata, fukinagasci di Prunus mume, “La Geisha Triste Sakurako�
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l Corniolo è un alberello dal piacevole aspetto che può raggiungere i 4-7 m di altezza. Ha il pregio di fiorire prestissimo coprendo i rami ancora spogli con una miriade di fiorellini gialli, e grazie a questa sua caratteristica è facilmente individuabile anche da lontano fra la macchia arbustiva, altrimenti più difficile da riconoscere per chi non ha una certa conoscenza delle piante. Colonizza i boschi di pianura e di collina dell’Italia centrale e settentrionale, privilegiando le zone calcaree dell’Europa centrale e sud-orientale. Prospera bene su terreni sciolti, argillosi e mode-
ratamente umidi. Il legno del corniolo è molto duro e pesante e la pianta può raggiungere una venerabile età. Le foglie sono caduche, opposte a due a due ai nodi dei rami, di forma ellittico-ovale con apice molto acuminato, lunghe 5-7 cm con margine intero e superficie lievemente tomentosa. I fiori, di colore giallo oro, hanno 4 petali e sono riuniti in corimbi semplici cinti da 4 brattee molto più brevi e di colore giallo-verdognolo; sono opposti e inseriti lungo i rami e compaiono molto precocemente, prima dell’emissione delle foglie, già in febbraio-marzo. Il frutto è una drupa ovale di colore rosso brillante lunga fino a due cm, edule, astringente e leggermente acidula anche a maturità raggiunta, ma veramente buona quando cade naturalmente dai rami. Il frutto è provvisto di un lungo picciolo simile alle ciliegie. 1. MARZO 1992, il Corniolo è stato espiantato dal luogo di crescita. La pianta, con la sua enorme zolla, era troppo pesante da trasportare e caricare nel furgoncino, così abbiamo tolto una gran quantità di terra e di sassi dalla zolla per facilitarci il compito. Ci vennero in aiuto due larghe assi di legno che resero meno pesante lo sforzo nel caricare la pianta. Fortunatamente l’apparato radicale è molto ricco di radici sottili, il che agevolerà sicuramente l’attecchimento della pianta. 2. ANALISI DEL CORNIOLO. La pianta è sicuramente secolare, poiché come si sa, il Corniolo è di crescita lenta e ci vogliono davvero molti anni prima che riesca a sviluppare un tronco così massiccio. Ecco perché è necessario studiare attentamente i suoi punti di forza al fine di esaltare le caratteristiche più interessanti.
ALLA RICERCA DELL'ESEMPLARE Il Corniolo fa parte di quelle specie arboree a lento sviluppo raggiungendo età plurisecolari. In esemplari annosi il tronco appare nodoso e talvolta gibboso, con la corteccia che tende a sfaldarsi mettendo a nudo ampie chiazze. La difficoltà maggiore che incontra il corniolo sta nello sviluppare un singolo tronco robusto con ramificazioni basse, privilegiando, invece, una forma arbustiva di grandi dimensioni. Il suo legno è durissimo specialmente se cresce in terreni aridi, mentre sviluppa senza troppe difficoltà lunghi rami sottili. Da queste realtà risulta molto difficile trovare in natura nell’ambiente Yamadori un Corniolo dal tronco annoso e con rami molto bassi e ben ramificati, cioè degli splendidi Araki, ma la fortuna volle che...
3. Rami e tronco rappresentano la caratteristica peculiare di questo Corniolo annoso. Dopo aver esaminato attentamente la pianta decido di eliminare una parte del tronco secondario perché era troppo cilindrico. Il legno del Corniolo, come già detto, è durissimo, ma con il seghetto elettrico ho potuto tagliare il tronco ed anche dei grossi rami senza difficoltà. - 4. Agosto 1993, il Corniolo ha reagito bene. E’ sorprendente come la pianta abbia reagito bene, segno tangibile che le varie operazioni sono state eseguite con la massima correttezza. - 5. L’applicazione del martinetto sul grosso ramo. - 6. I tiranti collegati tra i due tronchi ne hanno permesso l’avvicinamento. L’immagine non è chiara, ma si nota comunque il corniolo sottoposto a lavorazioni estreme. Non è trascorso molto tempo rispetto all’immagine precedente, epoca in cui decisi di intervenire sulla vegetazione sviluppatasi liberamente, ma soprattutto per eliminare i monconi delle grosse branche tagliate in precedenza snellendo nel contempo i tronchi dando loro conicità e sinuosità. Il disegno non è ancora decisamente soddisfacente e prima di intervenire ancora sull’apparato radicale saranno necessari non meno di due-tre anni, tempo necessario per permettere alla pianta di riprendersi da queste estreme lavorazioni, cicatrizzando bene i perimetri denudati per le grandi ferite.
7. La conicità del tronco parzialmente scortecciato è migliorata. L’idea è di simulare una roccia inglobata nel tronco. 8. Applicazione del liquido per jin.
9. Riduzione dell’apparato radicale, marzo 1996. L’apparato radicale del Corniolo è stato ridotto, migliorando nel contempo il Nebari. 10. AGOSTO 1998, il Corniolo visto nella livrea estiva appare sicuramente più compatto e massiccio e il disegno del Bonsai è a un buon livello. Il corniolo gode di ottima salute e il disegno è ulteriormente migliorato. Le cicatrizzazioni si fanno sempre più estese. Nel marzo di quell’anno erano comparsi anche alcuni fiorellini, il che faceva ben supporre che essi appariranno regolarmente sempre più numerosi anno dopo anno.
11. Febbraio 2007, viene anticipato il rinvaso prima dell’apertura delle gemme da fiore. Scelta fatta anche per partecipare con un Bonsai fiorito alla mostra nazionale dell’UBI (Unione Bonsaisti Italiani) che si terrà a fine mese a Fermo di Ascoli Piceno. Haina si appresta a liberare il terriccio dalle radici prima di intervenire con la spuntatura delle stesse.
12. La base è stata parzialmente liberata dal terriccio, operazione necessaria per poter rimodellare parte di grossi rami semi-interrati. Con l’ausilio dell’albero flessibile, procedo alla rifinitura delle parti morte utilizzando delle frese adatte, dopodiché andrà applicato il liquido per jin. - 13. Riduzione di una grossa radice tagliata con il seghetto; essendosi sviluppate sufficienti radichette vicino alla base del tronco è possibile accorciarla di molto. - 14. Il rinvaso è stato completato inserendo il corniolo in un vaso della stessa forma e fattura di quello precedente, ma decisamente più piccolo ed equilibrato. Ultimi ritocchi nella preparazione del “sottobosco” in attesa del grande incontro della mostra nazionale dell’UBI che si terrà a Fermo. - 15. Il Corniolo visto dal retro e ultimi ritocchi per la mostra. - 16. Vista dal fronte. La ricca ramificazione della pianta ricoperta da una miriade di gemme da fiore fa ben sperare in una pronta fioritura.
17. Eccolo infine nel Tokonoma espositivo all’interno della mostra dell’UBI (Fermo di Ascoli Piceno il 23, 24 e 25 febbraio 2007), selezionato fra i migliori Bonsai ammessi per la pubblicazione del prestigioso volume fotografico annuale. 18. Maggio 2011, alcune drupe di corniolo hanno già preso la consueta forma ovoidale. - 19. Siamo sempre nel mese di maggio del 2011. L’esplosione vegetativa primaverile è molto ricca di fogliame, questo è un momento delicato nel controllo della pianta poiché i “pericoli” sono sempre in agguato: in primis gli stress idrici che farebbero afflosciare il fogliame con la caduta dei frutticini e, in secondo luogo, i possibili attacchi degli afidi i quali sono molto ghiotti delle tenere foglioline. Infine un piccolo suggerimento: il Bonsai è una disciplina calma ma severa!!!
Q
uesto importante araki di roverella mi fu affidato qualche anno fa per una prima lavorazione. Ero preparato a trovarmi davanti una pianta di grandi dimensioni, ma la realtà andò ben oltre a quelle che erano le mie aspettative. Pesante, enorme, ingombrante… non riuscivo a collocarla in un idea di bonsai! Lo studio del materiale proseguì per qualche giorno; si provano a cambiare le angolazioni, la pianta viene inclinata, girata, scrutata e analizzata, il piede viene riportato alla luce dal terriccio in eccesso, ogni particolare di rilievo viene evidenziato, si studiano i tagli di raccordo... si parte! L’approccio manuale su un albero del
genere, non è propriamente “tradizionale”… tutto deve essere amplificato alle dimensioni della pianta: il pennellino diventa un pennellone, il seghetto viene usato al posto delle tronchesi, la motosega al posto del seghetto … Tutto diventa più faticoso: manipolare una ciotola di 80 cm di diametro con all’interno una sessantina di chili di buon legno di rovere e terriccio annesso è un bell’impegno, ma la voglia di cimentarsi, la voglia di fare bonsai ti fa andare sempre oltre l’ostacolo. Gli ultimi lavori sul tronco, dopo aver provveduto a raccordare un taglio posteriore, furono eseguiti su due monco-
1. La quercia gode di ottima salute: la ramificazione ha una densità incredibile, le foglie hanno dimensioni omogenee sulla totalità della ramificazione, gli internodi sono corti ed hanno la stessa distanza su tutta la lunghezza del getto. Non mi ricordo di aver mai messo mano su una pianta così equilibrata a livello di coltivazione. Le cure del proprietario hanno funzionato in maniera egregia… un protocollo di coltivazione invidiabile! 2. Un affettuoso saluto! Tanto per rendersi conto di quanto lavoro c’è da fare!!! 3, 4, 5. Preparare la ramificazione alla filatura… defogliare, defogliare e ancora defogliare!!! Scoprire a poco a poco la morfologia della ramificazione, immaginando già come distribuire le nuove vegetazioni… un’operazione preliminare che aiuta a conoscersi meglio!
ni di radice, ridotti con la sega al momento della raccolta. La vegetazione, previa selezione sistemica della ramificazione, fu avvolta e posizionata. Il primo step si concluse con un’accurata modellatura e con una piacevole riflessione: adesso riuscivo a vederla come bonsai: il tronco era “ uscito fuori “in tutta la sua sinuosità e in tuta la sua potenza, la sua proiezione nel vuoto catturava lo sguardo, la sua fine e fessurata corteccia raccontava di tempi antichi... ed è proprio nell’immediato post lavorazione che mia figlia Serena gli attribuì il nome che porta :” babbo, questa pianta sembra un elefante!” Mai nome fu più indovinato: osservando il tronco è innegabile la rassomiglianza alla forma di un elefante con la proboscide alzata. Purtroppo un guasto all’hard disk mi ha fatto perdere gli scatti di questo step. Maggio 2011 - Zoo ritorna sul tavolo del mio laboratorio. Rimango letteralmente sbalordito dalla forza e dalla qualità di vegetazione che la pianta esprime: il proprietario ha coltivato al pianta in maniera egregia, facendola arrivare pronta per un secondo step al massimo delle sue potenzialità: foglie aventi vigore omogeneo, internodi molto corti, ramificazione in equilibrio… non potevo chiedere di meglio! Avete mai visto quanto è grosso un vecchio elefante? La defogliazione richiede un’intera giornata di lavoro, sembra di non finire mai… in questo caso l’aiuto di Luca ( il ninja) è stato provvidenziale. Ogni passo insieme a questa quercia, ogni sessione di lavoro, mi vede sempre più affascinato e attratto da questo bonsai oversize, più lo imparo a conoscere e più lo apprezzo… inizio a pensare che forse è così anche per lui nei miei confronti!!! L’analisi della pianta dopo la defogliazione mi lascia molto soddisfatto: i rami principali hanno ben mantenuto le pieghe attribuite nella prima impostazione, la totalità dei tagli fatti sulla corteccia ha prodotto un buon callo cicatriziale, la qualità della ramificazione risulta notevolmente migliorata. Anche la filatura è stata un ottimo allenamento: in questa occasione mi sono avvalso della compagnia e del valido aiuto di Marco. In buona compagnia, scambiando quattro chiacchiere anche il lavoro più lungo scorre più piacevolmente. Ho modellato Zoo con un atteggiamento rispettoso, cercando di non forzare troppo sui rami e utilizzando dei tiranti per fermare con l’inclinazione dovuta i rami principali aventi pieghe già attribuite, avvolgendo solo dal secondo ordine di ramificazione in poi. In questa occasione si pone particolare attenzione nel creare, con la ramificazione, dei palchi che presentino volumi e profondità tali da guidare l’occhio alla scoperta dei punti focali che abbiamo in precedenza individuato; il verde diventa così una splendida cornice del tronco.
6, 7. La ramificazione prodotta rende pressochè invisibile la struttura interna della pianta…ci sarà molto da potare e tantissimo filo da stendere… si parte!
8. Il lavoro di filatura viene affrontato in maniera decisa, vista la mole della pianta, l’aiuto di Marco si è rilevato efficace . Ogni ramo viene avvolto, e la ramificazione aperta sommariamente; questa operazione ci permette già di individuare quelli che saranno i volumi e gli spazi che si potranno ottenere con ogni singolo ramo.
9, 10, 11. I rami vengono modellati seguendo e migliorando quelle che sono le tracce della modellatura precedente, ogni ramo viene suddiviso, accorciato, coniugato a quello vicino in un insieme che risulti armonico, morbido, dove le linee espresse dal tronco possano essere riconosciute nella ramficazione. - 12. "Zoo" al termine della modellatura. Questa è la foto che io definisco “per il piacere dell’occhio” ovvero quella scattata con la pianta un po’ più carica e con vegetazione un po’ più lunga del necessario. Mi aiuta ad immaginare le proporzioni che dovrebbe raggiungere ogni palco e ogni ramo. Dopo questo scatto l’attenzione si concentra su un’attenta e metodica potatura degli apici della ramificazione per ricreare sezioni e conicità nella struttura dei rami, oltre che per aumentare l’efficacia della defogliazione.
A modellatura ultimata si passa ulteriormente a rassegna il lavoro prodotto, ci sono ancora molte piccole sostituzioni di apice da fare… devo accorciare ancora i rami dove è possibile! Solo potando e facendo sostituzioni di apice al termine di ogni fase di spinta della pianta, si riesce, con lo scorrere del tempo ad ottenere una ottimale conicità della ramificazione costruita. La sessione di lavoro è appena terminata dopo la foto di rito accanto alla pianta, ma già il pensiero è rivolto a pianificare il prossimo step… sì, penso che Zoo si meriti un bel rinvaso la prossima primavera! Un sentito grazie a Luca e Marco. Quercus 'Zoo' collezione G. Muratori © RIPRODUZIONE RISERVATA
13. Al sole sui pancali… pronta ad esplodere di nuovo… (collezione G. Muratori)
“Se riuscissimo a far di noi il severo giudice di noi stessi? Perchè il suiseki (ed il mondo che rappresenta) non è la sintesi di un insieme di regolette, ma ARMONIA NATURALE e PROPORZIONE; Uno scenario prospettico ove ogni cosa ha il suo posto ed una sua giusta dimensione.” - Luciana Queirolo
A
bbiamo già scritto sulla Coscienza Visiva (vedi articolo di Felix Rivera) che aiuta il raccoglitore esperto ad individuare ciò che sta cercando, selezionando la pietra meritevole, isolandola da ciò che la circonda e che può disto-
gliere da lei l’attenzione: siano esse pietre od ambiente naturale. Nello specifico, lo sviluppo della “Coscienza Visiva” o “Esperienza Estetica” porta a distinguere, nella forma complessiva di una pietra (usando un termine azzardato:
“settaggio della vista”: prospettiva, assonometria etc. con o senza retinatura): asimmetria (hitaisho), proporzioni, flussi, linee di forza, variazioni di texture, colore… nella ricerca di un risultato complessivo di: EQUILIBRIO ed ARMONIA.
Equilibrio nella forma di un suiseki non vuol dire, infatti, ripetizione di elementi, o massa troppo squadrata o tonda od inscrivibile in un triangolo equilatero: questa sarebbe MONOTONIA, rigidità senza dinamismo. Primo: osservando la bellezza dei particolari della pietra; poi, il naturale collocamento di essi nel suo insieme; infine, l’armonia dell’immagine complessiva, si possono provare le stesse emozioni suscitate dalla contemplazione di uno splendido panorama.
SANMEN NO HOO IL “METODO DELLE TRE SUPERFICI” Sanmen = 3 superfici: Zengo = fronte – retro (Mikaeshi, il retro di un suiseki, Mitsuki, il suo fronte) Sayuu = sinistra – destra, Soko = cima – fondo. Principalmente legata alla classica forma della Toyama-ishi, potete leggerne una esaustiva spiegazione, sulle web-pages di Martin Pauli, articolo riportato in italiano ed inglese, anche sulla home-page AIAS. Noi, qui, ora... divertiamoci ad individuare il “Katte” (“Flusso dire-
zionale implicito di un suiseki, come determinato dalle relative caratteristiche prominenti”) di qualche pietra raccolta e, parzialmente, per voi pulita; onde leggervi ciò che c’è da leggere… goderne, oppure… oppure no. Nell’articolo dell’estate 2009 circa il posizionamento di una pietra nel suiban, ricordo, scrissi: “Se il flusso della pietra (KATTE) scende dal punto di forza, verso il lato opposto, là vi sarà il maggior spazio vuoto (area riposante per la vista)” ...“quell’indispensabile, insopprimibile spazio vuoto, senza il
quale non vi è atmosfera né armonia”. Sul ritornello di quel pensiero, vi rimando ad una pietra (foto 1) che potremmo definire “problematica”. A ben pensare (e qui cambio ragionamento, ma non argomento) io vedo il Flusso come una delle caratteristiche non marginali, che differenziano il modo di posizionare ed interpretare la pietra. In pietre Gongshi e Suiseki, vi è l’esempio più lampante: verticali le pietre cinesi più caratterizzanti, orizzontali le pietre di concezione giapponese. FLUSSO COME “ENERGIA”… Un flusso di energia ha forza sufficiente da spingere in alto la materia inerte, prima che essa ricada.
acqua nel torrente, seguendo il pendio sino a trovare il piano od il vuoto come dilatazione della spazio: supplendo alla eventuale mancanza della pietra con l’esposizione nel suiban o creando lo spazio nell’esposizione (ricorda: in un'esposizione affollata, il senso del vuoto-spazio viene annullato). Provo ad illustrarvi ciò che mi frulla in testa, giocando con una mia pietra cinese (foto 22-26): prima, mostrandola come l’autore, seguendo la propria cultura, ha scelto di posizionarla. Poi, come la utilizzerò nel futuro, penso, costruendole un daiza abbastanza classico e certamente meno predominante. …che ne pensate? Intanto… alla prossima!
FLUSSO NEL SENSO DI “ANDAMENTO FLUIDO ” Fluire come lava del vulcano, come
1. E’ decisamente una hidari-katte (una pietra che fluisce verso sinistra). Una pietra di Palombino con queste caratteristiche, non è facile da incontrare: sfugge alla naturale postura di una pietra paesaggio portante le cime nella parte mediana: non porta rotture, ma mentre il lato a sinistra degrada dolcemente, sul lato a destra si erge un altopiano. La parete laterale sulla destra, presenta alcune grotte, così pure una grande rientranza è sul fronte, obbligandoci ad interpretarla come pietra a roccia costiera o isola in vista ravvicinata. Mentre le due cime maggiori, occupando la parte mediana, indurrebbero ad uno stato di stasi o quiete, il flusso che scende alla nostra destra, attraversa senza pietà la pietra per tutta la sua larghezza: così decisamente discendente sino al limite estremo opposto, da stravolgere ogni nostra serenità ed equilibrio, trascinandoci in un leggero stato di malessere come se, inesorabilmente, potessimo scivolare ed essere inghiottiti in un mare pieno di insidie. Lo stesso, calmo flusso dalle cime principali, viene travolto e trascinato dalla forza del flusso che scende dalla compatta massa di destra. Sì, veramente, questa pietra avrà assoluta necessità di essere poggiata in un suiban ed essere riequilibrata là dove il respiro è mancante... la massa ad altipiano, allora, verso il bordo di destra e spazio-vuoto verso sinistra?
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2. Non credo che si possa, in questo modo, riequilibrare l’armonia nel suo insieme. 3. Al contrario di ogni classica “regola” che vuole la massa verso il bordo, immagino una alta roccia costiera che fronteggia il mare aperto; ricreando col “pieno del vuoto”, la triangolarità asimmetrica, dove mancante. 4. Mi perdonerà, il proprietario di questo schizzo di cui mi sono impadronita, presa così dalla fretta: mi pare corrisponda, nei livelli degradanti delle piccole valli, a quanto era mia intenzione farvi osservare attraverso le foto di un’altra mia pietra - paesaggio. Perché... perché in un paesaggio a catene di monti, dove il flusso degrada dall’alto verso il basso (= “Mikiri”: letteralmente: abbandonare, abbandonarsi) incontrando e traversando vallate, credo sia importante che esse siano a livelli decrescenti, tra loro: scendere con lo sguardo da 10 a 0 e poi risalire a 10 e poi riscendere a 0 più volte, affatica gli occhi e la mente che li guida, come affaticherebbe il nostro cammino nella realtà. Visualizzare un cammino difficile da portare a compimento per intero, potrebbe rappresentare una sfida, per il camminatore instancabile; un ben traducibile senso di affaticamento, per nulla rilassante, per l’osservatore esperto. 5, 6, 7. La vista dal retro evidenzia i livelli degradanti. Si è fatto chiaro: mettiamoci in cammino... “Furyu, vento che scorre.” “Come vento in movimento, può essere percepito, ma non si vede”.
8, 9. La cima è il punto di partenza; l’andamento della discesa si svolge lungo un arco convesso su cui il nostro sguardo agevolmente scorre, infine dirigendosi verso di noi osservatori, punto di arrivo finale. 10. Sempre dalla cima maggiore, un’altra cascata converge verso di noi più direttamente… 11. Lo spazio creato dalla direzione dei due flussi, si allarga idealmente frammettendosi tra noi e la montagna e dilagando verso sinistra. Un daiza non appariscente completerà questo suiseki importante.
12, 13, 14. Pietra di dimensione più modesta, montagna a tre cime con cascate. La rigidità dei picchi viene mitigata dalla dolcezza e curvatura, verso l’osservatore, delle rocce affioranti in basso. Al medesimo modo, una cascata totalmente frontale, mostra la sua rigidità se il flusso dell’acqua cade ”imbalsamata” a perpendicolo, senza ostacoli apparenti.
15. Una buona pietra cascata porta il flusso dell’acqua non frontalmente, ma in diagonale, permettendole di scendere a gradoni, sparire e riapparire, prima di venirci incontro; creando quel pizzico di mistero che è magia e poesia. 16. Sansui keijo-seki: Paesaggio di terra ed acqua 17. Una “Forra”, difficile da scoprire; deliziosi brividi, immergervisi nella calura estiva 18. Vista dall’alto, il suo corso scende a balzi. “Katte: flusso direzionale implicito di un suiseki… anche flusso dell’acqua di un torrente che non c’è, ma che tornerà ad essere e di nuovo a scomparire, nell’alternarsi eterno delle stagioni …..” - Luciana Queirolo
18. Quanto poco sia importante la grandezza di una pietra, per un osservatore allenato… quanta poesia ed armonia, in questo piccolo futuro suiseki! Non siete forse d’accordo? 19, 20. “Fiume rosso”: per me, un mondo completo di montagne, acqua, spazio, cielo. 21. La forma di tale rappresentazione, tende ad avere una base stretta, per poi esplodere in alto, espandendosi.
22, 23, 24. Con e senza lo shi-zuo 25, 26. Un Olimpo... sopra le nuvole!
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Il ginepro nel 2005
D
al 2005 questo ginepro itoigawa è entrato a far parte della mia collezione. Si tratta di una margotta di generose dimensioni, debitamente preparata e coltivata in un capiente vaso di plastica. Le dimensioni del tronco e il movimento della pianta, unite alla qualità della vegetazione sono stati i motivi che mi hanno fatto procedere all’acquisto. La scaglia si presenta fine e di un verde brillante e inoltre sono già presenti alcuni shari importanti, uno dei quali termina in un jin apicale Adoro i ginepri! Mi piacciono i colori, il tipo di scaglia, l’elasticità dei rami e la lavorabilità del legno secco. Gli ingredienti per divertirsi ci sono tutti! Come faccio sempre, preferisco coltivare per almeno un anno ogni nuovo arrivo… e così è stato. Preferisco infatti preparare personalmente la pianta alla prima lavorazione. A maggio 2006 il ginepro è sul mio tavolo di lavoro. Come sempre la prima fase è quella della pulizia: si parte dalla corteccia asportando le scaglie più grandi con la lama di un coltello per poi proseguire con spazzole di acciaio e ottone. Il colore della corteccia diventa di un bel marrone…liscia e pulita. In questa fase non mi curo della lavorazione del legno ma della sola evidenziazione delle vene secche. Il liquido jin termina quest’operazione. La pulizia continua sulla vegetazione: si accorciano i rami più
Particolare del tronco e dello shai presente
lunghi e si tolgono le scaglie deboli e ascellari. L’obiettivo è di selezionare solo la ramificazione più vigorosa. La pianta pulita si presenta subito diversa, mettendo in risalto pregi e difetti. Adesso l’analisi e la progettazione è molto più semplice. L’idea è di inclinare il ginepro verso sinistra e ruotarlo in avanti per avere una migliore proiezione del tronco verso l’osservatore. Si apre la vegetazione disponendo i rami lungo il tronco. Il risultato finale è una pianta inclinata e come tutti i bonsai di questo stile si può osservare la tipica disposizione dei rami: molto distesa sulla parte sinistra (la parte a favore dell’inclinazione) e molto compatta e attaccata al tronco nella parte destra (la parte opposta all’inclinazione). Dopo un anno di crescita pressoché libera, è arrivato il momento del rinvaso. Lo stato delle radici è ottimo e conferma che si tratta di una margotta. Un problema evidente è la disposizione delle radici. Gran parte di queste si trovano sul retro e per questo motivo non riesco a porre il ginepro con l’angolazione che vorrei. Pulisco il ceppo di radici eliminando quasi tutta la vecchia terra (akadama al 100%). Il nuovo terreno è composto da pomice, akadama e una piccola percentuale di lapillo vulcanico. Nel 2008, dopo un anno e mezzo dal rinvaso, comincio il lavoro sulla legna secca. Osservo la superficie
del legno: sono presenti segnali importanti che aiutano in questa lavorazione. Piccole fratture o crepe sono il punto di partenza per disegnare sul tronco nuovi canali e particolari. Prediligo l’utilizzo di attrezzi manuali, ma in questo caso sono ricorso all’uso di una piccola fresa per togliere legno dalle zone più difficili da raggiungere. Ad aprile del 2009 procedo alla seconda modellatura. Viene innanzitutto eliminato il jin apicale per poi continuare con la creazione di piccoli shari. Successivamente si passa alla filatura e stesura dei rami. Visto la minore inclinazione del tronco rispetto al primo step, i rami avranno un posizione meno distesa e più compatta e vicina al tronco. Le masse vegetative gli saranno disposte intorno quasi ad accarezzarlo. Per quanto riguarda la filatura, è estesa a tutta la ramificazione periferica in modo da ottenere un risultato finale molto preciso. È mia abitudine fare un piccolo anellino nella parte terminale del filo da collocare sotto il ciuffo. In questo modo posso alzare la vegetazione terminale ottenendo un maggiore volume e un profilo inferiore
più pulito. Con la pinzatura primaverile i palchi tendono a infoltirsi e a creare volumi vegetativi morbidi e compatti. Normalmente è sufficiente eliminare a forbice o con le dita il nuovo getto senza ricorrere a una pinzatura su tutte le punte. Così facendo si evita di arrestare la crescita della vegetazione. Diventa importante rifinire sempre i profili dei palchi, soprattutto quelli inferiori. Lo sguardo finale del bonsai, metterà in evidenza un gran quantità di piccoli palchi ben definiti. A questo proposito vorrei porre l’accento sull’importanza di dividere ogni palco in tanti piccoli sottopalchi. Così facendo l’albero apparirà molto più vecchio e definito. A gennaio del 2010 faccio un passo in avanti nella lavorazione del legno secco. In quest’ occasione utilizzo solo sgorbie e scalpelli. Le punte degli attrezzi entrano nel legno e tolgono materia. Il lavoro è lento ma preciso e naturale. Il vuoto e il legno si alternano disegnando ombre e linee nuove. Alla fine, con l’utilizzo di una fiamma e una spazzola, vengono levigate le superfici
La pianta dopo la fase di pulizia
Particolare del legno
Il fronte dopo la prima lavorazione
Particolare della vegetazione
Una prima avorazione del secco
Il tronco dopo la lavorazione sul legno e pulizia delle vene vive
2009. Prima del secondo step d'impostazione
Secondo step terminato.
Lato sinistro
legnose. Nella primavera del 2010 procedo a un secondo rinvaso. Il bonsai è ruotato di qualche grado in avanti e verso sinistra in modo da esaltare il movimento del Lato destro
Retro
tronco. La miscela del terreno è la stessa del primo rinvaso ma il vaso utilizzato è leggermente piÚ basso e largo del precedente. Arrivato a gennaio del 2011 sono pronto per la Particolare dei palchi
Particolare della filatura e degli anelli alla fine di ogni palco
t e d s m c
Lavorazione della legna secca
Con una precisa pinzatura si infittiscono i palchi
terza impostazione. La pianta si presenta in salute nel nuovo vaso e con la legna secca lavorata. Evito il più possibile l’utilizzo di fili di grosse dimensioni. La filatura in questi casi deve riposizionare solo la vegetazione terminale ricorrendo ai tiranti per lo spostamento dei rami primari e secondari. Si rifiniscono i profili, si compattano le masse, si entra sempre più nel dettaglio del palco.
Il lavoro è molto minuzioso, si lavora con forbici e fili sempre più sottili cercando di mantenere la naturalità della vegetazione. Un lavoro minuzioso…ma affascinante. Quando si arriva a una modellatura molto dettagliata, si gioca con piccoli spostamenti del verde. A differenza di una prima lavorazione, dobbiamo migliorare un qualcosa già buono e
definito. Si hanno a disposizione centinaia di rami, ognuno con un ciuffo di verde, ognuno da disporre nel migliore dei modi... o anche da eliminare. Un gigantesco puzzle dove i pezzi sono composti da tutti i rami... e noi non possiamo che cominciare a giocare! Š RIPRODUZIONE RISERVATA
Risultato finale
Prima della terza rimodellatura
BENTROVATI. In questo numero abbiamo il piacere di ospitare un artista del bonsai dal gusto particolarmente raffinato. Nicola Crivelli alias Kitora. Svizzero di Lugano, è uno dei più affermati rappresentanti della Scuola d'Arte Bonsai, di cui diventa istruttore nel 2006. Pratica la sua Bonsai-do da un ventennio e le sue creazioni sono ormai note a tutto il pubblico grazie ad uno stile inconfondibile. Si è recato più volte in Giappone per approfondire la sua conoscenza, prestando particolare attenzione all'allestimento. Assieme al bonsai pratica diverse discipline di origine nipponica come l'Aikido e lo Shodo. Ci sarebbe molto altro da dire sul nostro amico Nicola, ma preferisco che sia lui a raccontare. Buona lettura e buon bonsai e suiseki a tutti.
Benvenuto Nicola, devo confessarti che questa intervista la stavo immaginando da diverso tempo. Prima di entrare nel vivo, vuoi raccontarci qualcosa di te? Ciao Giuseppe. Trovo difficile parlare di me stesso, sono una persona abbastanza chiusa e forse posso dare un’impressione sbagliata, mi fa piacere poter conoscere nuovi amici del bonsai, quindi tranquilli, quando mi trovate in giro per le mostre, non abbiate paura a farvi riconoscere. Quando mi butto in un’avventura, mi ci dedico con anima e corpo, ho passato giornate della mia gioventù chino sui miei disegni, ora non mi stacco dai miei bonsai. In tutto quel che faccio e ho fatto, ho cercato di dare un anima. La via del Bonsai è lunga e tortuosa, ma con il giusto impegno i risultati prima o poi arrivano. Sta nascendo in questi giorni la mia scuola, e stanno arrivando anche i primi riconoscimenti a chi ha deciso di seguire la via di Kitora. Bene. Veniamo a noi. Come ti dicevo da un po' di tempo stavo preparando questa intervista. Il personaggio Nicola/Kitora mi ha da sempre affascinato per il suo modo di fare. Tanto per iniziare, potresti illuminarci sull'origine del nickname che ormai ti contraddistingue? Sì, oramai per tutti sono Kitora o Kit. Il mio nickname nasce quando nello shodo dovetti trovarmi un nome poetico da calligrafo da usare per firmare gli esercizi e gli esami da mandare in giappone. Il nome doveva essere composto da due kanji (i kanji sono i caratteri cinesi usati anche dai giapponesi per scrivere), i kanji vengono scelti per il loro significato, ma anche per la loro estetica. Il nome poetico viene scritto con il pennello come firma, generalmente nella forma gyosho (corsiva). In lavori più complessi, oltre alla firma si applica un sigillo, anche il sigillo è formato dai due caratteri che compongono il tuo nome da calligrafo. In genere il calligrafo si incide anche il sigillo, o meglio i sigilli, perchè diversi
saranno i sigilli da incidere con varie forme e dimensioni. Nella sigillografia si usa la forma antica, quella più pittografica, la forma che racconta l’origine del kanji. KI ad esempio viene rappresentato come il vapore del riso bollito. Ki si rappresenta con l’ideogramma del riso sormontato da delle striscie che rappresentano il vapore, Nell’ideogramma TORA è invece più facile riconoscere la figura di una tigre. Per il mio nome da calligrafo scelsi Ki che significa l’energia, lo spirito, forse uno dei kanji più belli, sia graficamente che per significato. Per il secondo carattere scelsi Tora la tigre nel mio oroscopo cinese 1962. Usavo già, comunque, una specie di tigre nella mia firma «logo» che usavo nei miei lavori grafici e pittorici, una specie di gatto stilizzato che formava il mio nome, che poi diventò il mio logo. Quando iniziai il mio percorso nel web, mi venne naturale usare il mio nome poetico di calligrafo come nickname Forse un'altra cosa da chiarire è il significato della Kitora no-do. Cosa rappresenta la via di Kitora? Sì, forse con un po’ di presunzione chiamai il mio sito web KITORA NO DO, la via di Kitora, la mia via, anche perchè il mio sito non trattava solo il bonsai. Il percorso, la via, vede come suo fine l’insegnamento, il trasmettere quello che si apprende. Io ho appreso la mia bonsai Do da vari Maestri, primo fra tutti Hideo Suzuki. Tu apprendi da un Maesto o più Maestri, poi rielabori e fai tuoi i suoi insegnamenti. All’inizio usavo spesso l’espressione «Suzuki dice questo, Suzuki dice quest’altro» ora il mio approccio è un po’ diverso, preferisco dire per me è così, qualcuno la vede così, altri così. Il fatto poi che la mia ricerca nel bonsai mi ha spinto a studiare altre discipline giapponesi, mi ha consolidato l’idea di usare un termine più ampio, che non fosse
solo la mia bonsai do, ma la via di Nicola Crivelli. Come ho avuto modo di accennare nella presentazione, oltre al bonsai, pratichi con assiduità lo Shodo e l'Aikido. Pensi che siano un importante completamento alla bonsai-do, o rappresentano solo un piacevole hobby? Ad un certo punto della mia bonsai Do ho sentito la necessità di esplorare nuove vie, nuovi Do. Fu sorprendente ritrovare in discipline molto diverse tra loro un comune filo rosso. Nelle discipline giapponesi che comprendono un DO, il fine ultimo è percorrere la strada. Si fanno belle calligrafie, bellissimi bonsai, ma questo non è il fine ultimo di percorrere una via. È stato anche interessante apprendere i vari metodi d’insegnamento usati dai vari Maestri, delle varie
discipline. Nell’Aikido ad esempio, non esiste un unico vero Aikido, il fondatore ha dato degli insegnamenti, gli allievi li hanno interpretati e rielaborati fondando molte scuole. A volte mi viene da ridere quando si parla di vero Bonsai, come se il bonsai fosse una sola cosa e si potesse costruire con una tabella. Dalle ultime notizie che ho, finora hai fatto ben quattro viaggi in Giappone. Cosa ti hanno lasciato queste visite? Tra tutti i maestri che hai conosciuto, chi ti è rimasto più impresso? Purtroppo l’utima volta che sono stato in giappone fu nel 2004, sette anni fa, chissà quante cose sono cambiate. La cosa che più colpisce visitando il mondo del bonsai in Giappone è l’applicazione del WABI SABI. Il Wabi Sabi è un concetto molto importante nel bonsai, un concetto che si scontra con la visione occidentale delle cose, io stesso a volte me ne dimentico. Nella visione occidentale quello che non è perfetto e si avvia sulla via del disfacelo, viene poco considerato. Quando si risana un oggetto antico di legno, una
porta, un mobile od un oggetto di uso contadino, sabbiandolo e riverniciandolo a copale, questo oggetto perde il wabi sabi. Nel bonsai è lo stesso, spesso il secco viene lavorato ad opera d’arte, fiammato, lucidato e sbiancato. La procedura potrà anche essere corretta, ed il lavoro ben fatto, ma da questo momento il secco dovrà invecchiare naturalmente ed acquistare la patina del wabi sabi. La patina del tempo, in giappone la si trova su tutti gli accessori usati nel bonsai. Una pianta vecchia verrà abbinata ad un vaso antico con una bella patina. Tante volte ho visto pulire e lucidare vasi, questo è un idea occidentale poco wabi sabi. Torniamo un attimo al Nicola privato, hai da sempre mostrato una vena artistica visto che i tuoi studi ti hanno portato prima a diplomarti al Centro Scolastico per le Industrie Artistiche, C.S.I.A. - Arti Decorative, e successivamente a frequentare il corso di perfezionamento per il Disegno Animato dell’Istituto Statale D’Arte di Urbino. Pensi che l'aver imboccato la via del bonsai sia stata una naturale conseguenza di questa tua propensione all'arte e al bello? Sì, ho avuto una formazione artistica, artigianale. La scuola che feci da ragazzo era impostata sul saggiare le varie forme artistiche, disegno dal vero, ceramica, falegnameria, incisione, cartapesta, scultura con creta, gesso e legno. Una scuola che apriva tante possibili vie da percorrere, c’è chi è diventato restauratore, chi scenografo, chi Artista. Io mi perfezionai sul disegno animato tradizionale, tanti disegni uno dietro l’altro che infine danno una sensazione di movimento. Un lavoro lungo, preciso e dietro le quinte. Mi piaceva l’idea dell’animare un disegno, nel senso di farlo muovere, ma anche nel senso di dargli un’anima, un lavoro comunque artigianale, nel senso positivo del termine. Poi le tecnologie evolsero, i disegni venivano inseriti in un computer, imparai la grafica tridimensionale, anche questo un mondo molto interessante, ma che mi costringeva a stare attaccato ad un computer per tutto il giorno; da qui il bisogno di tornare a lavorare con un materiale concreto, vivo, come una pianta, un bonsai. Il bonsai è sicuramente una forma d’arte, anche se
in giappone viene considerata un’arte artigianale. L’illustrazione, il disegno animato, la grafica televisiva, hanno certamente una componente artistica molto forte, ma comunque rientrano in una forma d’arte artigianale, arte applicata. Mi spaventa un po’ quando si cerca di dare al bonsai lo stesso valore artistico di un quadro o una scultura. Nel bonsai è certamente importante la componente artistica, ma è importante anche il naturale sviluppo della pianta, che ad un certo punto evolve per conto suo. Bonsai è un giusto mix di arte e botanica, se si eccede in un senso o nell’altro non è più bonsai, diventa una scultura o per il suo opposto arte topiaria. Andando avanti con le domande stavo per dimenticarne una molto importante, come e quando ti sei avvicinato all'arte del bonsai? Bella domanda, sentendo le storie dei bonsaisti, quasi tutti ricordano quando da bambino seminavano i fagioli a scuola o il seme di qualche pianta che a volte è ancora viva in giardino. Io ricordo che seminai sull’ovatta dei semi di mandarino, ma il vero innamoramento con gli alberi lo ebbi quando lessi Il Signore degli anelli. In questo libro J. R. R. Tolkien descrive con un modo molto evocativo il mondo vegetale della terra di mezzo. In realtà quando iniziai a fare bonsai io, c’era un grande boom del bonsai, in edicola si trovavano addirittura tre riviste dedicate al bonsai, anche in libreria diversi erano il libri che si potevano trovare sul tema del bonsai. Come detto, sei uno dei rappresentati più affermati della Scuola d'Arte bonsai. Questa scuola è nota per essere legata alla tradizionale via del bonsai, ti chiedo se è stata questa caratteristica ad affascinarti o c'è dell'altro. Certo, la nostra scuola si basa sugli insegnamenti dei maestri giapponessi e difatti per statuto l’insegnate dovrà rimanere sempre un giapponese. Senza togliere pregi ad altre scuole, ma penso che la scuola d’arte bonsai sia quella che tratta meglio il bonsai tradizionale. In un esempio pratico è l’unica scuola che insegna i vari stili nel bonsai. Anche se in qualsiasi pubblicazione dedicata al bonsai si trattono i vari stili, il vero studio degli stili è un’altra cosa. Gli stili nel bonsai non sono delle cose
strampalate che qualcuno si è svegliato la mattina ed ha detto che il 1° ramo deve essere così e perciò tutti lo dovranno fare così. Gli stili sono un accurato studio delle forme che si trovano in natura, naturalmente i giapponesi hanno studiato la loro natura e le loro essenze, i cinesi hanno degli stili che si adattano ai loro paesaggi. Noi dovremo pensare alle nostre montagme, ai nostri laghi ed al nostro mare (in Svizzera non abbiamo il mare, ma spesso le vacanze estive le passiamo al mare). Un altro fattore importante della scuola giapponese è il tempo, un bonsai non può essere costruito in un’impostazione, il mio maestro ribadiva che per definire la forma di un bonsai, sono necessarie almeno tre impostazioni. Un altro punto importante della scuola d’arte bonsai è l’allestimento, cosa che spesso non viene insegnato nelle scuole di impostazione occidentale. A proposito della tradizione nella via del bonsai e della moderna tendenza all'avanguardia, chiedo a te, di fare per noi una differenza tra questi due diversi modi di intendere il bonsai. Io penso che i due mondi, quello orientale e quello occidentale siano in continua relazione. Nello shodo ad esempio, che per anni veniva considerato solo una forma di bella scrittura, un grande cambiamento ci fu quando i calligrafi giapponesi incontrarono l’arte moderna occidentale, l’arte informale, ha influenzato molto i calligrafi giapponesi. Quelle calligrafie enormi e quasi astratte, che a noi sembrano tipicamente giapponesi, probabilmente non ci sarebbero state se alcuni calligrafi giapponesi non si fossero interessati ai movimenti artistici europei ed americani. Io penso che i giapponesi tengano d’occhio il bonsai e i gusti bonsaistici occidentali. Anche in Giappone non tutto il bonsai è tradizione. Il mio Maestro spiegando il percorso didattico della scuola, ci diceva che una volta appresi tutti gli stili, si doveva sviluppare uno stile personale, lui spronava noi occidentali a trovare una via bonsai occidentale, basata naturalmente sula scuola tradizionale, ma che si doveva adattare alle nostre essenze ed al nostro modo artistico di vedere il bonsai. Tornando allo shodo, il Maestro Nagayama diceva che gli occidentali sono molto più creativi dei giapponesi, questo è normale perchè
nelle nostre scuole d’arte si insegna a sperimentare le tecniche, cosa che non è così nell’arte tradizionale giapponese, dove prima c’è molta ripetizione e studio dei classici. Veniamo un attimo al tuo modo di lavorare. Ho negli occhi un tuo fantastico kaki che ha nella delicatezza e leggerezza i suoi punti forti. Sbaglio o sono queste le caratteristiche che maggiormente tendi a far risaltare nelle tue opere? Nel mio modo di lavorare, che penso derivi da quello tradizionale giapponese, è molto importante la tipicità dell’essenza, una latifoglia deve assomigliare ad una latifoglia, un pino ad un pino, uno shinpaku (juniperus chinensis) ad uno shinpaku. Perchè un kako non potrà avere una ramificazione troppo fitta? Perchè se i rami sono troppo fitti non ci sarà il posto per far sviluppare i frutti. I rami di un’essenza che fa frutti pesanti e penduli, dovranno aver una forma arcuata. Una latifoglia che non fa frutti (o meglio fa frutti leggeri) avrà invece i rami che spingono verso l’alto. Sono ragionamenti semplici da porsi che però frequentemente vengono dimenticati. Spesso si punta solo alla triangolarità della chioma e alla conicità del tronco, certamente anche queste sono cose importanti, ma non si applicano a tutte le essenze. Facendo una visita virtuale del tuo giardino si nota che tra tutte le presenti, due essenze ti attirano in maniera particolare, lo shinpaku e l'acero. Cosa ti ispira particolarmente lavorare queste essenze? In Giappone spesso ogni Maestro o produttore si specializza su un’essenza, ci sono specialisti sui momiji (acero palmato) sui pini neri ecc. Il Maestro Suzuki era appassionato di tutte le essenze e questo sicuramente me l’ha tramesso. Facendo una scuola con un maestro giapponese, si impara soprattutto a lavorare le essenze giapponesi, è assurdo chiede ad un giapponese come si imposta un olivo o un ginepro fenicio. Già parlando di faggi, una latifoglia tipica della mia zona, si riscontrano enormi differenze con la varietà giapponese, che per sua tipicità ha un portamento eretto formale, i nostri faggi sono più movimentati. Lo shinpaku è sicuramente una delle mie essenze preferite, è un’essenza ideale per un principiante, forte e
malleabile, permette anche errori nell’applicazione del filo e coltivazione, ed è per di più un’essenza abbastanza veloce, in pochi anni si può tranquillamente portare uno shinpaku in mostra senza problemi. Lavorare sulle latifoglie mi piace molto, anche se sono molto più lunghi i tempi di formazione per un bonsai di Momiji (acer palmatum). Un acero deve essere curato nei minimi dettagli, è molto importante la ramificazione, prima di avere un acero da mostra ne devono passare di anni. Penso infatti di non aver ancora portato un mio acero palmato in mostra, e comunque sarà molto difficile vincere un premio con un acero. Sono piante che si coltivano per piacere personale, per il colore in autunno, per la ramificazione in inverno, per le gemme nuove in primavera. Un momiji è indispensabile in un giardino bonsai. Rimanendo nel tuo giardino risalta facilmente che lo stile che prediligi è il bunjin. Sei riuscito a creare piante meravigliose utilizzando le essenze più disparate a significare che il bunjin è dentro di te. Quali sono le sensazioni che provi nel confrontarti con lo stile più completo e personale tra tutti? Ti sbagli il mio stile preferito è il kengai o Han Kengai (cascata o semi cascata). Poi in realtà mi piacciono tutti gli stili, ci sono degli stili che solo la nostra scuola ha saputo insegnare correttamente, uno di questi è l’ishizuki e naturalmente il bunjin. Nel costruire un ishizuki ci sono degli accorgimenti da seguire in modo che la composizione possa soppravvivere per molti anni su una roccia senza il rinvaso, vedo spesso perpetuare degli errori in ishizuki che precluderanno la sopravvivenza della composizione, o che comunque renderanno difficile la sua coltivazione. Lo stile Bun jin è uno stile molto intellettuale, e molto mal compreso, queste malcomprensioni le ho riscontrate anche tra i giapponesi. Quando iniziai a frequentare i forum, la mia missione sembrava fosse diventata far capire lo stile bunjin, ho redatto lunghe spiegazioni su come dovrebbe essere un vero bunjin. Devo ammettere che all’inizio non era uno stile che mi piacesse molto, forse non mi sentivo ancora pronto per questo stile, io difatti come detto sopra amo molto lo shinpaku, un’essenza poco bunjin, anche se snello uno shinpaku diventerà rara-
mente un vero bunjin. Anche se per motivi di semplificazione un tronco sottile viene definito bunjin, il vero bunjin è molto difficile da realizzare e da mantenere tale. Il tronco ed i rami devono rimanere sottili e questa non è cosa facile. Il wabi sabi è un concetto molto legato allo stile bunjin. In realtà di Bunjin ne ho pochi, ho molte piante snelle Un'altra cosa che mi ha molto colpito della tua bonsai-do è la cura che presti nell'allestimento del tokonoma. Molti bonsaisti invece trascurano le esposizioni. Tu quanto credi sia importante essere a conoscenza almeno dei fondamenti? L’allestimento del bonsai nel tokonoma la trovo una cosa molto importante, generalmente si punta ad insegnarlo quando uno studente ha già le basi del bonsai, io comunque preferisco accennare sin da subito, ai miei studenti, i rudimenti dell’allestimento. Sì, forse agli inizi per un principiante è più importante imparare come far sopravvivere la propria pianta, ma l’arte dell’allestimento è molto in relazione con la comprensione degli stili. Io dico che sin da subito, quando imposti una pianta dovresti già pensare al suo futuro collocamento nel tokonoma. Il movimento del tronco, la direzione dell’apice, sono cose che stabilisci sin da subito già nella prima impostazione. Lavorare senza pensare a come esporre la pianta, porterà a pianta ultimata a trovarsi con situazioni strane e difficilmente coreggibili. Nel bonsai tradizionale è molto importante il potere evocativo, il potere evocativo è in relazione allo stile nel quale imposterai una pianta, il potere evocativo è quello che la pianta riuscirà ad evocare negli spazi vuoti del tokonoma, il paesaggio che si riuscirà ad immaginare. Spesso i bonsai d’avanguardia sono poco evocativi, le loro forme artistiche si riscontrano poco in natura. Un bonsai snello in genere è più evocativo. Giusto per non farti mancare nulla, hai anche una discreta collezione di suiseki, pensi di dover ancora approfondire la conoscenza di quest'arte o sei a buon punto anche in questo caso? E, contemplare una pietra che sensazioni ti provoca? Mi piacciono molto i suiseki giapponesi, mi piace abbinarli ai bonsai, purtroppo la mia conoscenza del suiseki è limitata all’uso come ele-
mento d’accompagnamento in un bonsai. Quando sono in gita o in vacanza raccolgo spesso sassi dalla forma interessante, ma non si può parlare di suiseki, a volte li uso come supporti per kusamono o mini ishizuki. Voglio ancora tornare alla Scuola d'Arte, sul tuo sito un posto d'onore lo occupa Mr. Hideo Suzuki. Dobbiamo arguire che, tra tutti, occupa un posto particolare tra i Maestri che hai incontrato in questi anni? Sicuramente Hideo Suzuki è il mio Maestro, devo a lui l’incontro con il bonsai giapponese. Negli anni ho conosciuto molti altri maestri giapponesi, alcuni solo per un workshop, altri per più incontri. Da alcuni anni frequento dei seminari con il Maestro Fukano, esperto di shohin e di latifoglie, ho avuto l’occasione di fare dei workshop e di assistere un paio di volte il maestro Kobayashi, da tutti c’è da imparare. Con il Maestro Suzuki comunque ho condiviso otto anni della mia bonsai do e devo ringraziare lui per quello che sono ora. Devo confessarti che ho spulciato il tuo sito fino all'ultima foto. Tra tutte le gallerie che proponi ai visitatori una mi ha colpito particolarmente ed è quella relativa alla Shodo. Ho visto che l'impegno che metti è notevole. Con che spirito ti avvicini alla calligrafia? Lo shodo è stata un avventura che ho percorso con mia moglie, purtroppo in questo momento sono in pausa con lo shodo, anche se non escludo di ripartire in futuro. È stato per me, un ritorno ai pennelli ed all'inchiostro, materiali che lavorando con il computer, non usavo quasi più. Lo shodo se vogliamo è molto più artistico del bonsai, anche se per molti versi, come dicevo sopra, c’è un filo comune. Nello shodo è molto importante il vuoto e il ritmo, l’impaginazione, il non riempire il foglio bianco, concetti basilari anche nel bonsai. Forse praticare lo shodo mi ha riportato ad elaborare questi concetti molto importanti. Nello shodo con un solo pennello (in genere si usa lo stesso pennello per tutta la composizione calligrafica) e l’inchiostro nero, sulla carta di riso bianca, si riesce a creare un’infinità di grigi, di spessori di tratto. È una disciplina molto vicina alla grafica, chi ha una formazione grafica rie-
sce a comprendere più facilmente questa disciplina. Nello shodo si usa molto il KI, l’energia, si impara a leggere l’energia che il calligrafo mette nella sua opera, un’opera anche se ben eseguita, se non trasmette energia, KI, non è aprezzabile. Io, non so se ci sono riuscito, ma è questo concetto che ho cercato di portare nel bonsai, l’energia nella semplicità del tratto, nei vuoti e nei pieni, nell’essenzialità della forma. Visto che spesso hai messo in relazione i concetti di Shin-GyouSou del bonsai e delle esposizioni con lo Shodo, ti chiedo quanto ha contribuito la pratica di questa arte ad affinare le tue capacità di padroneggiare concetti molto più vicini alla mentalità orientale che alla nostra? Il concetto di Shin Gyou Sou penso siano molto radicati nella cultura giapponese. Ultimamente se ne fa un gran parlare e trovo che sia utile comprenderne il significato, anche perchè una volta capito il concetto, diventa molto facile fare molte scelte stilistiche che spesso vengono liquidate con il concetto di gusto personale. Saper classificare un vaso in uno di que-
sti tre gruppi facilita poi l’abbinamento pianta-vaso-tavolino-kakejiku Conoscendo la tua profonda conoscenza di tutto quanto riguarda il giappone, credo tu sia la persona giosta a rispondere ad un quesito che ho in mente da tempo: quanto ritieni sia importante conoscere la storia, la filosofia a la cultura giapponese per poter fare bene bonsai e suiseki? Io posso affermare che mi sono avvicinato al mondo giapponese, quando hanno incominciato ad arrivare in TV le prime serie animate giapponesi, l’impatto di questi disegni animati non fu all’inizio facile, chi ha la mia età ricorda sicuramente i dibattiti televisivi -Mazinga vs PinocchioIo in quegli anni mi stavo specializzando in disegno animato e devo dire che iniziai a seguirli con attenzione ed occhio critico. Efettivamente erano costruiti per un pubblico molto diverso dal nostro. Io trovo la cultura giapponese molto affascinante, con i suoi pro e contro. Se facciamo bon-sai trovo indispensabile cercare di comprendere questa cultura, se facciamo Penjin allora studiamo la cultura cinese, lo stesso vale per il suiseki.
Prima studiamo le origini poi mettiamoci del nostro. Poi sicuramente è anche un percorso personale Giusto qualche giorno fa, in occasione di una lezione alla quale ho assistito, un amico istruttore ebbe a dire che chi fa bonsai non “lavora le piante” ma “lavora con le piante”. Tu quanto sei daccordo con questa affermazione? Si mi trovo d’accordo, io aggiungerei che lavora se stesso. Siamo arrivati alla fine di questa intervista. Ti ringrazio per il tempo che ci hai concesso e augurandoti un futuro colmo di successi, ti chiedo un saluto per i nostri amici. Vorrei finire questa intervista con un pensiero del mio maestro Hideo Suzuki, lui ripeteva spesso scherzosamente che il bonsai è come un virus, se rimani infettatto non guarisci più. Perciò auguro a tutti di infettarsi di questo fantastico virus
E
ccoci qui, ci siamo, dopo una gestazione più lunga di quella umana, stavolta ci siamo… dal prossimo numero! E' arrivata la nostra rubrica di progettazione, i fantastici 4! Nata per caso e proposta per gioco ora è una realtà! Immagino che tutti voi abbiate presente il funzionamento 'classico' della rubrica di progetto; un esperto studia la pianta inviata dai lettori e ricrea 2 o 3 progetti possibili, evidenziando peculiarità e caratteristiche della pianta. L'idea, per cambiare e distinguerci un pò, sarebbe di invertire 'i numeri'; anziché avere un progettista che faccia 2 o 3 progetti per pianta, abbiamo scovato 4 progettisti che facciano un progetto ciascuno, i nostri fantastici 4! Approfitto per ringraziarli pubblicamente per aver accettato la collaborazione che è ovviamente gratuita e sarà un ulteriore impegno per loro già molto impegnati. Sono quattro grandi personaggi che sicuramente già conoscete e che conoscerete ancora di più seguendo la rubrica: Lorenzo Agnoletti, Nicola Crivelli, Roberto Raspanti, Francesco Santini. Da neofita qual sono ovviamente remo al mio mulino; l'idea non è di dare a qualcuno un progetto per la propria pianta, ma di permettere a tutti, anche ai neofiti, di capire come si osservano e studiano le piante per trovare le soluzioni migliori e di mettere in risalto le eventuali diverse visioni di ogni artista, partendo dal presupposto che non esiste un solo modo di "fare bonsai"! Un confronto non da poco, che aiuterebbe molti a crescere, compresi gli artisti stessi. Non sarà una competizione, ma un confronto costruttivo tra artisti diversi per formazione, opinioni, posizioni personali e filosofie. Ora tocca a voi lettori darci una mano; ci servono le vostre piante! Spediteci le foto, formato jpeg (dimensione minima 1200 x 800 pixel), una per ogni lato e una dall'alto, se poi sono di più ancora meglio! Dateci qualche indicazione sulla pianta, se ne siete a conoscenza, da quanto tempo è in vaso, l'origine (se raccolta, margotta, talea o semina), le dimensioni e l'essenza. Non possiamo garantire a tutti la pubblicazione; le foto inviate verranno visionate e selezione. Se ritenute idonee e sufficienti verranno utilizzate e pubblicate senza ulteriori comunicazioni così avrete la sorpresa di vederle direttamente sul magazine. Potete inviare le foto e le informazioni all'indirizzo: massimo.cotta@bonsaiandsuisekimagazine.eu Grazie a tutti quelli che invieranno le loro foto e grazie ai nostri... fantastici 4!!! © RIPRODUZIONE RISERVATA
Shunkaen Bonsai Museum - Curatore: Kunio Kobayashi
P
rima di decidere la collocazione dei bonsai, essi vanno valutati in base agli areali di provenienza. Gli areali o fasce climatiche da cui possono provenire le essenze impiegate per creare bonsai possono essere riassunte nel seguente schema: Temperata, Subtropicale, Tropicale, Equatoriale. I bonsai tropicali e subtropicali, tra cui Ficus, Serisse, Carmone e Sageretie, nel loro luogo di origine crescono all’aria aperta,
ma in quelle zone la temperatura non scende mai di sotto i dieci gradi. Quindi i bonsai tropicali e subtropicali, sono chiamati da interno, poiché possono tollerare periodi di permanenza più o meno lunghi all'interno, anche se in realtà non esistono specie vegetali legnose da interno. Nessuna pianta è nata per vivere in casa, mentre quelli temperati sono identificati come bonsai da esterno. La corretta collocazione dipende, da più fattori:
luce, temperatura, umidità e circolazione dell'aria… I bonsai vanno esposti alla luce, collocati sopra mensole, questo serve a salvaguardare da eventuali insetti e da piante infestanti, incrementa la circolazione dell'aria e permette di usufruire completamente la visione. Anche il vento è un elemento importante: una lieve brezza aiuta a tenere lontano malattie, parassiti, ecc. Riunendo gli alberi che
fanno parte alla stessa specie, si facilita la coltivazione. Alcune specie gradiscono l’ombra in estate, altre no: certe hanno bisogno di annaffiature più frequenti di altre, per questo è utile raggruppare le piante appartenenti alla stessa specie. Un errore è rappresentato dallo spostamento improvviso di un bonsai da una posizione stabilizzata ad un'altra. Spostamenti scorretti e improvvisi del bonsai possono causare la caduta delle gemme o dei fiori, dei frutti o delle foglie, l'avvizzimento, o addirittura la morte della pianta. Per la sua salute, un bonsai non dovrebbe restare all'interno più di poche ore alla volta. COLLOCAZIONE - BONSAI DA INTERNO Per i bonsai da interno è fondamentale ricostituire condizioni di vita molto simili a quelle naturali. Il rapporto tra luce, temperatura e umidità dell'aria deve assomigliare per quanto più è possibile a quello del luogo d'origine, solo così si potrà garantire una crescita sana. La temperatura invernale ideale, per queste specie tropicali, di giorno è compresa tra i 15 ed i 18°C. mentre di notte sarà compresa tra gli 8°C ed i 12°C. In nessun caso, la temperatura in casa dovrà sorpassare i 25°C. La luce del sole fornisce l'energia indispensabile alla fotosintesi clorofilliana tramite la quale la pianta sintetizza i composti che gli servono per
alimentarsi e respirare. Nelle abitazioni, i vetri, le tende, limitano la quantità di luce utile alle nostre piante. Importante cercare per la collocazione del bonsai uno spazio distante dai 70 ai 120 cm. da una finestra luminosa. Nel mantenimento di un bonsai da interno la mancanza di luce è una delle complicazioni che si manifesta più frequentemente. Oltre a ciò occorre vaporizzare la chioma con acqua, anche più volte al giorno poiché l’ambiente domestico a causa del riscaldamento, è molto secco e in più serve creare una zona umida sottostante ai vasi, questa può essere ottenuta, con un grosso vassoio contenente sabbia, o argilla espansa inumidita. E' opportuno anche che i bonsai da interno abbiano un’adeguata ventilazione, anche se sia bene evitare di esporli a correnti. Dalla primavera in poi nel periodo inizio maggio fine settembre questi tipi di piante potranno essere poste tranquillamente all’esterno in un luogo ben ventilato, ma al riparo dal sole diretto. COLLOCAZIONE - BONSAI DA ESTERNO La collocazione ideale per i bonsai da esterno è in un luogo ben ventilato e soleggiato. Le caducifoglie dovranno essere però riparate sotto una rete ombreggiante durante i mesi estivi più caldi, specialmente nelle regioni del sud, quando il sole essendo
1. Scorcio del giardino di Roberto Smiderle. Le shitakusa e gli shohin trovato riparo sotto le chiome dei bonsai di taglia più grande - 2. Riparo invernale degli esemplari del Maestro Shinji Suzuki
troppo forte, potrebbe bruciarne le foglie. Piante, come gli aceri, le azalee, i faggi, le cryptomerie, ecc. che mal sopportano il sole diretto devono essere protette da strutture ombreggianti. La sicurezza sulla buona esposizione del bonsai si ha quando innaffiando la pianta di sera, nella giornata successiva, essa risulti, ancora relativamente umida. Il bonsai dovrà essere ruotato di 180 gradi ogni 7-10 giorni per evitare che la parte meno esposta allunghi i nuovi germogli alla ricerca della luce. Una giusta ventilazione è fondamentale, per la salute dei bonsai che spesso per necessità di spazio sono riuniti sui bancali in modo troppo ravvicinato. Un eccessivo raggruppamento di bonsai facilita la diffusione delle crittogame. Quindi i posti moderatamente ventilati sono ideali per i bonsai. In inverno, il vento oltre alla disidratazione produce anche colpi di freddo che possono danneggiare la ramificazione sottile della chioma oltre a seccare le zolle. In questo periodo dell’anno conviene che le piante alloggiate all'esterno siano protette con barriere frangivento. In generale le conifere presentano maggiore resistenza al freddo e al caldo e richiedono una buona esposizione al sole e al
vento durante tutto l'anno. Inoltre, apprezzano la rugiada notturna, che tra l’altro è un fattore importante per la coltivazione di tutte le specie. Considerando le caratteristiche, si può affermare che la collocazione ideale per le conifere sia una zona del giardino o una terrazza ben esposta. Esse non gradiscono nemmeno la protezione di una tettoia, altrimenti non ricevono la rugiada notturna. Al contrario, le latifoglie non richiedono un'eccessiva esposizione al sole, ma gradiscono una posizione a mezz'ombra. Le specie di montagna abituate all’ombra (Azalea, ecc.) quando sono debilitati, assorbono acqua con difficoltà, pertanto l’esposizione al sole intenso potrebbe essergli letale. Viceversa, specie come le conifere (Pini ecc.) che si sviluppano dove la luce è abbondante, se deperiti ottengono giovamento da una collocazione al sole. Se le radici sono deboli, si consiglia di nebulizzare frequentemente il fogliame. Particolare attenzione occorre, invece, prestare in inverno al vento freddo e secco. Nel periodo invernale il motivo di sofferenza e le conseguenze negative per i bonsai sono dovute più facilmente dalla combinazione di bassa temperatura e vento secco. In inverno le piante sempreverdi so-
spendono la fotosintesi. L'acqua è richiesta in quantità limitata. Tuttavia dagli stomi continua l’evaporazione, mentre le radici alle basse temperature riducono l’attività di assorbimento. Se la terra del vaso gela, e non si sgela passate le undici della mattina la pianta non può assorbire I’ acqua e se in contemporanea spira un vento freddo e secco che fa traspirare acqua dalle foglie, l'albero comincia a presentare segnali di disidratazione e rischia persino la morte se la situazione si protrae per
due o tre giorni. La resistenza al freddo deriva dalla relazione con la latitudine e l’altitudine delle zone di origine delle specie bonsai, e la relazione con la profondità delle radici nelle zone di origine. La resistenza all'inverno di un bonsai diminuisce rispetto all'albero in natura, perché sviluppa un apparato radicale piatto e superficiale, che soffre il freddo. La parte della pianta più a rischio durante l’inverno è quella radica-
le e quindi sarà proprio quest’ultima a dover essere protetta dalle gelate notturne. Spesso è sufficiente isolare il vaso, sistemandolo all’interno di una cassetta in seguito ricoperta di aghi, foglie o segatura. È importante che anche d’inverno i bonsai da esterno debbano essere annaffiati possibilmente durante le ore più calde della giornata, in modo che il bonsai abbia il tempo di asciugare prima dell’arrivo della notte, momento in cui la temperatura si abbassa.
3, 4. Le specie dalle medesime esigenze vengono raggruppati e posizionati ai lati del giardino in base ai propri fabbisogni d'esposizione.
Hanno una scarsa resistenza al caldo oltre a quelle che vivono in zone umide e in zone fredde, anche le specie che in natura sviluppano radici profonde. Le piante che crescono su rilievi e versanti dei monti, solitamente, sopportano bene il caldo. In linea generale la fotosintesi si avvia a partire da una temperatura di circa 15°C e giunge al suo apice tra i 27°C e i 30°C. Quando la temperatura si alza oltre questo limite I‘attività di fotosintesi rallenta. L'attività di assorbimento si fa più intensa, cosi che il consumo (l’assorbimento) supera la produzione dei nutrienti. Però,
quando si superano i 35°C, anche l’assorbimento non è più possibile. Si arriva alla temperatura limite per la crescita. Con le alte temperature l'assorbimento dell’acqua e dei nutrienti per mezzo delle radici diviene inadeguato, ma continua la traspirazione dalle foglie; in questa condizione la pianta mostra sintomi da squilibrio, ed è possibile rilevare bruciature alle foglie. Occorre rammentare che l’acqua assorbita dalle radici oltre all’attività di fotosintesi, viene impiegata per la traspirazione tramite gli stomi, che come nell’uomo la sudorazione abbassa la
temperatura del corpo, così nei vegetali la traspirazione ha lo scopo di controllare la temperatura della pianta. In estate un sistema per conservare un certo grado di umidità attorno ai bonsai è quello di porre un vassoio, (migliore se scuro) pieno d’acqua sotto ogni vaso, evitando il contatto con l’acqua. Soprattutto i bonsai su roccia, e quelli che asciugano rapidamente, quelli che consumano molta acqua e quelli deboli, ottengono beneficio da questo micro ambiente.
in generale la sistemazione del bonsai dipende dalla stagione e dalla specie botanica
PRIMAVERA-ESTATE
AUTUNNO-INVERNO
PIENO SOLE Conifere: ginepri, pino silvestre, p. d'Aleppo, p. nero. Latifoglie: specie mediterranee quali olivo, rosmarino, buganvillea, phillirea e specie tropicali tra cui ficus, carmona, zelcova, serissa.
Esterno (Zone mediterranee): tutte le specie escluso le tropicali.
OMBREGGIANTE AL 50% Conifere: Pino mugo, P. cembro. P. rosso, P. pentaphilla, larice, tasso. Latifoglie: acero, faggio, erica, prunus.
Esterno (Regioni Settentionali e Prealpine): Larice, pino mugo, p. silvestre, ginepri (ad eccezione del phoenicea e dell'oxycedra). Serra fredda: piante mediterranee, querce, aceri, prunus.
Gli estratti umici, composti da acidi umici e acidi fulvici, come già enunciato su questa rivista nel mio articolo sugli acidi umici, sono due componenti con un’attività nei confronti dei vegetali assai diversa: la grande differenza sta proprio nella grandezza molecolare di entrambi.
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li acidi umici presentano un peso molecolare di gran lunga maggiore rispetto a quello riferito alla frazione fulvica, questa differenza impedisce materialmente alla frazione umica di entrare nei tessuti vegetali, per cui l’unica componente attiva capace di essere veicolata nel sistema di conduzione di un vegetale è rappresentata dalla frazione fulvica in quanto dotata di grandezza molecolare molto piccola capace di entrare nei vegetali avendo quindi un’attività di tipo fisiologica. Ricordata questa differenza, è bene affermare che gli estratti umici non sono da utilizzare per trattamenti per via fogliare, almeno che non vengano approntati prodotti dotati di sola componente fulvica, di cui, tra l'altro, ad oggi non ne esiste alcuna traccia, anche perché la percentuale fulvica è estremamente più bassa rispetto a quella umica, e il dato peggiora se si considera che la fonte di estrazione è rappresentata da ligniti e non da leonardite americana. Le affermazioni inerenti l’utilizzo fogliare presenti sulle modalità d’uso delle etichette, sono inesatte, in quanto proprio per la differenza su citata, il prodotto risulta essere di scarsa efficacia o totalmente nullo nel suo effetto. Oltre che per questa sostanziale “disparità d’effetto”, bisogna anche tener presente che gli estratti umici sono prodotti dalle loro fonti d’origine grazie a KOH, un estraente alcalino che resta nel prodotto finito e che è dotato di un valore Ph molto alto rispetto ai valori di pH più bassi presenti nella foglia. L’eccesso di pH, potrebbe manifestarsi con fenomeni di fitotossicità, quindi caustici, anche se ad oggi, non esiste casistica bonsaistica che ne attesti l’effetto negativo espletato per via fogliare. Ne risulta quindi, che i trattamenti al suolo che sfruttano l’apparato radicale, rappresentano la migliore strategia ammendante oggi esistente, ricordando anche che i benefici che ne derivano non sono espletati direttamente sulle radici, ma sul suolo e tramite chelazione dei micro-nutrienti e quindi poi sulle radici. Gli effetti-benefi-
ci sono apprezzabili nel medio/lungo periodo, ed ecco giustificati i trattamenti ogni 7-10gg che garantiscono tramite applicazioni costanti, risultati dopo circa 15gg. Ne risultano nulli quando i trattamenti sono sporadici. Va inoltre ricordato che tali effetti-benefici sono di gran lunga più apprezzabili su suoli poveri di Sostanza Organica (miscele ad uso bonsaistico) che su suoli ricchi (Terriccio Universale) dove peraltro i trattamenti risultano inutili. Nella pratica bonsaistica, le prove di utilizzo di estratti umici sul suolo, hanno confermato le teorie secondo le quali il metabolismo secondario delle piante è messo in maggior attività e di come, i trattamenti aerei siano da attuare con prodotti ad azione stimolante dotati di chelanti artificali quali LSA ad uso specifico fogliare. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Acidi umici disponibili nei diversi formati
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li scrittori - quelli veri, quelli grandi - hanno la capacità di ricreare continuamente la letteratura: plasmano generi impercettibilmente nuovi, seminano dubbi, piegano il significato delle parole sino a farlo coincidere con l'ombra di ciò che intendono narrare. Nel quadro appena descritto, credo che meriti una citazione Mishima o La visione del vuoto (Bompiani, pp. 111, € 6,20), breve ma denso saggio di Marguerite Yourcenar, nota al pubblico soprattutto per Le memorie di Adriano. Il sottotitolo potrebbe indurre a pensare che si tratti di un'elegia funebre o dell'ennesimo lavoro costruito attorno al perfetto centro vuoto dell'esistenza di Mishima, vale a dire il suicidio progettato tanto meticolosamente quanto mal riuscito. L'autrice riserva sì ampio spazio al tema, ma preferisce dare in particolar modo rilievo alla filosofia e alle opere dello scrittore, che non costituiscono semplici proiezioni biografiche o caratteriali su carta, quanto piuttosto (in molti ca-
si) importanti tasselli della letteratura giapponese del secondo dopoguerra. Quel che scaturisce dal racconto-essai è dunque un rapido ritratto a tutto tondo in cui Marguerite Yourcenar, sapientemente, non dimentica mai che Mishima . prima ancora di essere un romanziere, un drammaturgo, un intellettuale - è stato un uomo. Pensieroso, riservato, talvolta eccessivo persino nei gesti più quotidiani; un uomo che, nel suo biglietto d'addio, con una coerenza e una sincerità spesso incomprese, ebbe il coraggio di rivelare una delle più grandi e amari verità: «La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre». © RIPRODUZIONE RISERVATA
MISHIMA O LA VISIONE DEL VUOTO MARGUERITE YOURCENAR BOMPIANI € 6,20
Chawan tradizionale, elemento principe della cerimonia del tè
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o studio dell’estetica applicata al bonsai è materia didattica divenuta oramai insostituibile per ogni appassionato che pratica tale disciplina. Ma la conoscenza dei concetti di estetica non si possono limitare e deve allargarsi la concezione. Noi pronunciamo giudizi sul “bello” e sul “brutto”, spesso ignorando quanto labili e mutevoli siano I criteri su cui poggiano. E’ utile conoscere I modelli di bellezza che, da differenti tradizioni, convergono nel nostro tempo. Il bello continua anche oggi a sorprendere e a rinnovarsi, sfuggendo a qualsiasi definizione univoca e conclusiva. E’ nelle civiltà estremo-orientali e in particolare in quella giapponese, segnata dal buddhismo zen e nell’arte moderna occidentale (a partire da una determinate epoca), che si è affermata non solo la teoria e l’effettiva presenza delle armonie nascoste, ma anche la ricerca cosciente delle disarmnie, delle asimmetrie e disritmie prestabilite che, a dispetto delle apparenze, non implicano però nessun disordine. Nell’arte giapponese si pensa che la la simmetria e l'armonia perfette siano negate all’uomo e raggiunte soltanto dalla divinità. Si tende, di conseguenza, all’asimmetria, cercando un tratto squilibrante o una voluita imperfezione. E tutto ciò lo ritroviamo nele arti decorative, nella disposizione dei mobili e degli oggetti, nella calligrafia e nella danza, nella cerimonia del tè, nella pittura e nell’architettura di edifici e giardini e nel bonsai. Allarghiamo la nostra discussione parlando di ceramica. In Giappone le portate non sono servite esclusivamente in stoviglie di ceramica: il vetro è apprezzato per il senso di freschezza che trasmette durante l'afa estiva e il sushi è tradizionalmente disposto su un supporto di legno o su foglie di aspidistra, mentre la zuppa è quasi sempre versata in ciotole laccate. I manufatti di ceramica restano comunque quelli più utilizzati. Sono prodotti, con una sorprendente varietà di forme e colori, nelle fornaci disseminate nello Honshu e nell'isola meridionale di Kyushu ove si perpetua spesso una tradizione ancestrale. Prima della invasione della plastica e della ristorazione rapida, tutti i giapponesi erano abituati al contatto quotidiano con la ceramica, materiale per il quale provano un'attrazione che definirei innata. Indipendentemente dal valore economico ed estetico di alcuni pezzi considerati vere e proprie opere d'arte, gli oggetti in ceramica, per la loro stessa origine, sono funzionali e concepiti, alla stregua di molti altri, per essere manipolati e usati facilmente piuttosto che per sedurre grazie alla loro sola bellezza. Agli occhi di un esperto l'aspetto esteriore della ceramica riveste un'estrema importanza. Ma prima di giudicare un pezzo, egli sa che non dovrà apprezzare solo il peso, la foggia, la composizione della superficie e le sensazioni legate alla sua manipolazione, ma anche tentare, a un livello superiore, di penetrare nell’animo del vasaio, artefice della stupefacente metamorfosi di un blocco d'argilla in oggetto artistico. Purtroppo oggi numerosi manufatti sono considerati così preziosi da essere custoditi nei musei, dove soltanto agli specialisti è permesso toccarli. Rinchiusi nelle vetrine illuminate dalla luce artificiale, sembrano condannati a una morte inesorabile. Soprattutto gli oggetti legati alla cerimonia del tè: indipendentemente dalla loro straordinaria bellezza, l’osservatore avverte l'irrefrenabile desiderio di usarli ancora una volta (con il rischio di danneggiarli) per riportarli a nuova vita. Per fortuna la maggior parte delle ceramiche ha un destino più concreto. Perfino in un'epoca come la nostra, ove tutto è fabbricato meccanicamente, esse sono
ancora lavorate a mano, usate con vivo piacere e molto apprezzate. E poiché quasi tutti i giapponesi hanno una particolare predilezione per tali manufatti, la produzione raggiunge livelli ragguardevoli: sono decine di migliaia i vasai disseminati nell'arcipelago nipponico. Senza contare i numerosi operai delle grandi imprese industriali, di fama internazionale, che producono all'ingrosso piatti, tazze da caffè e altri pezzi di ispirazione occidentale destinati sia al mercato locale sia a quello internazionale. Oltre alle stoviglie per la tavola esiste un'ampia gamma di oggetti in ceramica: dalle grandi giare per la conservazione degli alimenti, ai vasi per piante e fiori, senza contare accessori più insoliti come le tegole, le piastrelle per il bagno. Con lo sviluppo tecnologico sono apparsi sul mercato e divenuti di uso commune anche coltelli da cucina in ceramica che non vanno più affilati o pezzi di motore per
autovetture. Mentre numerosi aspetti della cultura giapponese sono stati notevolmente influenzati dal continente asiatico o perfino mutuati tali e quali, la ceramica si è sviluppata essenzialmente in modo autonomo e in maniera specifica in ogni isola. Ciò vale soprattutto per gli oggetti destinati al consumatore comune. Laddove emerge però un forte condizionamento della Cina o della Corea, e in particolare nei pezzi fabbricati per la nobiltà o il clero, va precisato che in tempi molto brevi un processo di "nipponizzazione" ha conferito alle ceramiche locali tratti assai diversi dai modelli originari. Le ceramiche del Giappone possono essere distinte in due categorie principali: le raffinate porcellane ispirate ai manufatti importati dalla Cina e i semplici grès di fabbricazione locale ricoperti da una vetrina naturale alla cenere. Per quanto
Alcune ceramiche di Hamanaka Gesson, vasaio che utlizza tecniche di produzione artigianale. Le sue creazioni sono per lo pi첫 vasi o semplici completamenti d'arredo di vita quotidiana. La casa di Hamanaka riflette la sua raffinatezza tipicamente giapponese.
Preziose ceramiche antiche
Un Maestro vasaio durante la modellutura di un vaso al tornio
sorprendente, questi due tipi di ceramica si fondono e si completano mirabilmente nella presentazione dei pasti, soprattutto quando sono scelti con cura e raffinatezza. I pezzi destinati all'uso quotidiano spiccano soprattutto per la loro sobria bellezza, frutto di un delicato connubio fra l'argilla e le invetriature naturali. Le fogge sono piacevolmente discrete e funzionali e i colori sono in armonia con le tinte presenti in natura. Le imperfezioni della forma o della vetrina sono considerate in Giappone particolarità interessanti e perfino i pezzi intaccati o rotti, che in altri paesi verrebbero scartati, vengono di solito riparati con lacca mescolata a polvere d'oro [a fronte]. Il visitatore occidentale rimane inizialmente perplesso di fronte alle vetrine asimmetriche e irregolari delle ceramiche giapponesi, così distanti dagli ideali estetici della tradizione occidentale, ma i suoi occhi si abitueranno presto a una bellezza che affascina proprio per la sua dimensione umana. Tale bellezza non si spiega né con la filosofia né con l'analisi intellettuale: è immanente, discreta ed evidente. Secondo la comune tradizione l'apprendistato del vasaio avviene presso un maestro. In Giappone tale formazione consiste in una ripetizione e imitazione costante dei gesti del maestro e non tanto in un insegnamento progressivo. I compiti sono dapprima umili, difficili e al contempo elementari: raccogliere la legna, attizzare il fuoco nel forno e plasmare l'argilla per
liberarla dalle bolle d'aria. L’apprendista deve sapere svolgere alla perfezione questi compiti fondamentali prima di ottenere l'autorizzazione a foggiare la sua prima ceramica. Possono trascorrere diversi anni, durante i quali fabbricherà sempre il medesimo oggetto – una piccola ciotola per il riso o una coppa per il sakè – prima che, assimilata una certa competenza tecnica, ogni suo gesto diventi naturale e perfetto. Vedete come il concetto di apprendistato e di rapporto maewstroallievo è commune a tutte le arti, bonsai compreso? Soltanto quando l’allievo avrà raggiunto lo stadio in cui la modellatura dell'argilla sarà interamente subordinata alla sua volontà verrà considerato pronto per sperimentare le forme partorite dalla sua immaginazione. Gli appassionati d'antiquariato tentano qualche volta di imboccare una scorciatoia e di apprendere i rudimenti dell'arte del vasaio frequentando corsi di artigianato in città, ma i risultati sono raramente all'altezza, anche perché quasi tutti gli oggetti di un certo pregio vengono prodotti nelle fornaci delle zone rurali. I centri di produzione della ceramica si sono sviluppati in regioni ricche di legna e di giacimenti di argilla che vantano peraltro i paesaggi più belli del Giappone. Molti artigiani perpetuano una tradizione familiare, iniziata molti secoli addietro da antenati che si sono dedicati in quel medesimo luogo alla fabbricazione di ceramiche. In questa eredità va cercata la spiegazio-
ne del legame viscerale che unisce il vasaio alla sua professione. Pur conducendo un'esistenza tutt'altro che facile, il miracolo della trasformazione dell'argilla è decisamente una gratificazione invidiabile. Prima o poi i ceramisti dotati di particolare talento espongono le loro creazioni. Con un po' di fortuna e di riconoscimenti, una volta raggiunta una certa fama possono aumentare le quotazioni. I migliori godono spesso dello status di artista stimato, conoscono gli onori e la gloria, non solo in Giappone ma anche in quei paesi dove vivono gli appassionati dell'artigianato contemporaneo di alto livello. I collezionisti attendono pazientemente ogni nuova esposizione delle ultime produzioni, lavori che possono raggiungere prezzi elevatissimi. Durante l'anno gallerie d'arte e grandi magazzini allestiscono molteplici mostre di ceramica: vi è quindi molto da vedere e, come per la pittura e le altre forme d'arte, ci sono sempre degli acquirenti in cerca di nuovi talenti da scoprire. Esiste poi tutta una serie di opere e riviste consacrate all'arte della ceramica antica e moderna. Contrariamente ad altri settori dell'artigianato destinati all'estinzione, i vasai e la ceramica giapponese hanno una notevole vitalità a garanzia della loro futura sopravvivenza. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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batteri hanno forma bastoncellare con dimensioni comprese tra 0,5-1 micrometri di larghezza e 1-5 micrometri di lunghezza. Si distinguono in Gram + e Gram – in base alla tecnica di colorazione proposta dal biologo danese Christian Gram (foto 1) durante le fasi di studio in laboratorio. I batteri fitopatogeni appartengono per la grande maggioranza alla categoria Gram – (foto 2, 3) con una struttura più complessa rispetto ai Gram +. Le loro caratteristiche sono: - Termofilia: l’Optimum di temperatura si attesta tra 25-30 °C, con cessazione dell’attività riproduttiva e patogena al di sotto dei 15° e dai 33° ai 40 °C. - Idrofilia: esigenze abbondanti di acqua sia in termini di idratazione strutturale che di Ur atmosferica. - Mancanza di attività diretta penetrativa nell’ospite. Necessitano di vettori o eventi traumatici che ne possano agevolare la penetrazione.
- Predilezione di ambienti vitali subalcalini, a differenza dei funghi che prediligono ambienti acidi. - Formazione di aggregati mucillaginosi, che ostacolano la diffusione anemofila (vento). - Assenza di strutture di difesa. Nonostante le numerose restrizioni alla loro diffusione, i batteri, nel momento in cui trovano le condizioni favorevoli al loro sviluppo, possono rappresentare l’avvio di malattie altamente distruttive e di difficile contenimento, grazie all’elevata capacità di riprodursi. Ne consegue che l’unico metodo di controllo è la: PREVENZIONE. La cellula batterica è costituita esternamente da una capsula che ha la funzione di preservare l’interno dalla disidratazione. La principale secrezione caratterizzante i batteri sono gli EPS. Acronimo di EsoPoliSaccaridi, caratterizzano la virulenza del batterio in base alla quantità prodotta e all’intensità del
colore, che presenta tonalità dall’arancio sino al rosso intensobordeaux, e viene emessa nei pressi di ferite non rimarginate e infettate appunto da batteri. Spesso la manifestazione patologica in Prunus spp. è rappresentata dalla comune “gomma delle rosacee” del medesimo colore e nei cipressi, dal “cancro del cipresso” storica patologia tristemente nota in Toscana. IL PROCESSO INFETTIVO Prima fase: Epifitica I batteri risiedono sulla superficie degli organi aerei; rami, foglie, piccioli, anfratti della corteccia, stomi, peli fogliari e nel momento in cui le condizioni, nella fattispecie T° e Ur aumentano, inizia la loro moltiplicazione. Seconda fase: Penetrazione Attraverso stomi, lenticelle o meglio ferite (Micro e Macro), riescono
a entrare all’interno del vegetale, soprattutto tramite bagnatura delle parti (pioggia, irrigazione ecc.) Terza fase: Incubazione e manifestazione dei sintomi Il primo passo è la moltiplicazione In Situ, ovvero nei pressi della zona di penetrazione. Quando il numero di cellule batteriche sono sufficenti (in base al tipo), si originano infezioni di due tipi: intercellulare e intravascolare. La prima origina marciumi localizzati dei tessuti, necrosi e più comunemente ipertrofie (rogna dell’Olivo, cancro dell’Olmo). La seconda provoca marcescenze più diffuse su tutto l’ospite. Nelle infezioni di tipo intercellulare i batteri non uccidono le cellule dell’ospite, ma alterano la fisiologia legata alla produzione di ormoni, e quindi della crescita. L’effetto è uno sviluppo spropositato di cellule e tessuti, che disorientati, provocano escrescenze tumorali altamente infettive (es.: rogna dell’Olivo). In Olea Europaea queste malformazioni strutturali sono provocati da Pseudomonas Syringae subsp. Savastanoi che producono di-
rettamente ac. indolacetico (auxine) e citochinine. SOPRAVVIVENZA E DIFFUSIONE I batteri, possono rimanere latenti in uno stato ipobiotico per settimane o mesi e risvegliare la loro azione deleteria quando le condizioni (acqua) lo consentono. La loro diffusione in ambito bonsaistico è dettata dalle scarsissime conoscenze del patogeno e dalle inesistenti forme di pulizia e sterilizzazione dell’attrezzatura*. Fonte ad oggi, considerata come la principale forma di infezione di esemplari sani. CONTROLLO Gli unici prodotti ad azione batteriostatica sono quelli a base rameica, che esercitano un controllo diretto sulla popolazione batterica epigea, riducendone l’effetto penetrativo. Una volta instaurato il processo infettivo, il controllo è molto difficoltoso e mai risolutivo. Prodotti battericidi sono ad oggi non ancora efficaci per un controllo totale delle batteriosi. Uno dei metodi di controllo di batteriosi su Olea Europaea e Olea Oleaster, consiste
nell’asportazione dei cancri rameali con tronchesi affilate, a cui segue una bruciatura con cannello di precisione della ferita. Dopo la spazzolatura della parte trattata con il fuoco, si prepara una poltiglia molto concentrata di acqua (qualche goccia) e idrossido di rame (circa 5gr) che viene spennellata sulla ferita. Tale trattamento ha il solo scopo di arginare e rallentare la nuova formazione di escrescenze tumorali. Se a questo aggiugiamo la riduzione delle concimazioni azotate primaverili, l’effetto è ancora più efficace. A questa pratica segue la pulizia e sterilizzazione dell’attrezzo utilizzato. Anche la potatura riveste un ruolo importantissimo: esemplari già affetti non dovrebbero essere mai potati nei periodi primaverile-estivo, ma sempre in autunno-inverno, periodo in cui l’attività batterica è ferma per i rigori dell’inverno, anche in questo caso si ricorda la protezione dei tagli con mastice cicatrizzante cosmetico senza aggiunta di ormoni.
* "Gli attrezzi come veicolo di malattie. I vettori antropici di trasmissione" - Luca Bragazzi (BSM anno II n. 3)
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