URBANO
Il Magazine di
N. 1 – ottobre 2020
MILANO 100 ANNI
URBANO N. 1
OTTOBRE 2020
Urbano è una pubblicazione di Borio Mangiarotti S.P.A. Via Lesmi 11, 20123 Milano (MI) boriomangiarotti.eu AMMINISTRATORE DELEGATO Edoardo De Albertis DIRETTORE RESPONSABILE Serena Scarpello CREATIVE DIRECTOR Tommaso Garner ART DIRECTOR Leonardo Pertile EDITOR Alessandro Benetti HANNO COLLABORATO Sonia Calzoni Paolo Dell’Elce Luca Molinari Davide Mosca Enrico Ratto Giuseppe Sala Valentina Silvestrini PRODUCTION MANAGER Marta Stella Alessandra Pivato PROJECT MANAGER Simona Anelli EDITORE Studio Editoriale Srl via Garofalo, 31, 20133 Milano (MI) P.IVA 07160780966
FOTOGRAFIE Filippo Bamberghi DSL Studio Michele Nastasi Paolo Rosselli Francesca Stella
Un progetto a cura di MoSt more-studio.it
Le immagini pubblicate sono in parte di produzione personale e in parte provenienti dall’archivio Borio Mangiarotti S.P.A., da quello dei progettisti citati o dal web (quando indicato come riutilizzabili). Testata in fase di registrazione presso il Tribunale di Milano.
URBANO
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SOMMARIO
EDITORIALI
MILANO 10✕10
TOOLBOX
MILANO 100 ANNI
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Un secolo di Borio Mangiarotti di Edoardo De Albertis Storie di persone e cantieri di Sonia Calzoni Da dove riparte Milano di Giuseppe Sala Milano e le sue visioni urbane per il futuro di Luca Molinari
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Milano anno per anno La città che cambia Dove si è fatta la cultura di Davide Mosca La vita dentro casa Progettare un secolo Un cantiere costante Di cosa è fatta la città Elogio a una Milano senza tempo 100 anni. 10 luoghi. Milano di Enrico Ratto Tutti gli angoli della città
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Un futuro di sfide e progettualità di Mario Cucinella La cultura dell’abitare di Paolo Dell'Elce Le riviste manifesto di Serena Scarpello Affordable Housing di Valentina Silvestrini Un secolo di storia Il paesaggio svelato
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UN SECOLO DI BORIO MANGIAROTTI Foto: Imagoeconomica
URBANO
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di Edoardo De Albertis CEO Borio Mangiarotti S.P.A.
È
EDITORIALE
con orgoglio ed emozione che mi trovo oggi a festeggiare i cento anni della nostra società. Orgoglio perché di cose ne abbiamo fatte veramente tante. Il territorio nazionale, ed in particolare la città di Milano, sono costellati di nostre realizzazioni piccole e grandi. Già a partire dagli Anni ’20 comincia a delinearsi quella che sarà una costante caratteristica nella metodologia di intervento dellʼimpresa: la correttezza e la qualità esecutiva dei manufatti a lei affidati. Caratteristiche che contribuiscono a creare un particolare rapporto di fiducia tra committente, progettista e costruttore, testimoniato dalle collaborazioni durevoli e ricorrenti con clienti di prestigio e con alcuni dei più interessanti architetti del periodo. Importanti sono anche i rapporti con gli Enti Pubblici e in particolare con lo IACP di Milano per cui l'impresa realizza numerosi quartieri. Accanto allʼedilizia civile comincia a svilupparsi il settore industriale con importanti realizzazioni in tutta Italia per la Breda, la Pirelli, la CGE, la Cokapuania, la Banca Commerciale Italiana e la Montecatini. Degni di nota sono anche gli interventi nell’edilizia religiosa di inizio Anni ’60 per la costruzione di nuove chiese e case parrocchiali a Milano promossi dal Cardinal Montini. Dopo la metà del decennio cresce il numero delle commesse civili con la costruzione di nuovi fabbricati di abitazione nella trama del tessuto cittadino. L’impresa sperimenta, tra le prime, l’applicazione della legge 865 in diritto di superficie nel quartiere “Le Azalee” a Gallarate, e continua successivamente (legge 457) in diverse situazioni ubicate prevalentemente nell’hinterland milanese. A partire dalla metà degli Anni ’80 cambia il nostro modello di business di riferimento: da impresa di costruzioni in conto terzi a promotore costruttore (developer) che investe, realizza e propone al mercato direttamente i propri immobili residenziali. La società è oggi uno dei protagonisti del panorama immobiliare milanese, intrattiene rapporti con i maggiori partner nazionali ed internazionali e ha avviato importanti progetti di riqualificazione urbana quali il PII di Via Parri, SeiMilano, la riqualificazione del Portafoglio di immobili denominato “Sforzesco” e il parcheggio di Sant’Ambrogio con la sistemazione superficiale della storica piazza. Determinante nel percorso di crescita dell’azienda, l’alleanza con Värde Partners, società di investimento alternativo globale, culminata nel maggio 2019 con l’acquisizione del 20% di Borio Mangiarotti attraverso un aumento di capitale riservato con sovrapprezzo. L’ingresso di Värde sancisce un rapporto iniziato nel 2015 che ha portato alla realizzazione di numerosi interventi di successo ed instaurato fra le due realtà un rapporto di reciproca fiducia, piena partnership e condivisione di valori. Emozione perché Borio Mangiarotti per noi rappresenta più di
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una semplice impresa di costruzioni, è infatti più propriamente la storia di una famiglia e di una comunità di persone e di affetti unite da una comune missione. Ripercorrendo le sue vicende e le sue realizzazioni, si rivivono parti della storia del nostro Paese e della città di Milano. A partire dal bisnonno, Carlo Mangiarotti, imprenditore pioneristico che ha avuto il coraggio di credere in questa impresa e di far crescere l’azienda fino a farla diventare, durante la ricostruzione postbellica, una realtà affermata e riconosciuta a livello nazionale. Proseguendo con nonno Dado che, con la sua instancabile dedizione al lavoro ed innata simpatia, è stato il collante umano dell’azienda per molti anni. E nonna Renata, presenza fondamentale per la famiglia e solido punto di riferimento nei momenti di difficoltà affrontati. Fino all’indimenticato ed indimenticabile papà Claudio, uomo di un’intelligenza unica per cui una stretta di mano valeva più di cento contratti, che con il suo visionario e costante impegno istituzionale e sociale ha contribuito in maniera determinante allo sviluppo ed al progresso di questa città. Per terminare con l’attuale quarta generazione: Marta, Regina, Jacopo ed io, la cui pagina professionale è ancora tutta da scrivere ma che certamente è legata dallo stesso affetto e marchiata dallo stesso fuoco sacro per l’impresa dei grandi predecessori. La famiglia è ovviamente centrale in quanto definisce la linea strategica ed investe nell’attività d’impresa, ma un ringraziamento particolare va a tutti i colleghi, passati e presenti, senza il cui straordinario impegno quotidiano tutto questo non sarebbe stato possibile. Eligio, Ernesto, Mino, Paola, Tiziana, solo per citare i più storici colleghi, anche se sarebbe doveroso menzionarli tutti uno ad uno, grazie, voi siete Borio Mangiarotti! Se non si fa parte di questa realtà non si può comprendere fino in fondo cosa rappresenti il legame intrinseco fra persone, lavoro, sentimenti, manufatti realizzati che qui dentro si respira quotidianamente. Legame che sa di tradizione ed esperienza, ma con una forte spinta propulsiva verso il futuro. Questo è il primo capitolo, ma abbiamo ancora voglia di scrivere e raccontarci, perché, citando papà Claudio, abbiamo una sola missione: «Andare sempre avanti…»
STORIE DI PERSONE E Foto: Paolo Rosselli
URBANO
CANTIERI 6
di Sonia Calzoni Architetto
E
EDITORIALE
ntrando negli uffici milanesi di Borio Mangiarotti si notano appese alle pareti due fotografie che sono la testimonianza e il simbolo degli anni di attività dell’impresa di costruzioni e dei mutamenti che sono avvenuti. Sono due scatti emblematici dove, nel 1937 e più tardi nel 2012, sono ritratte all’interno di un cantiere le persone che hanno fatto parte di quello specifico mondo delle costruzioni, contribuendo alla ripresa, allo sviluppo, all’innovazione e alla crescita del nostro Paese. Sono infinite le cose che ci colpiscono: volti, sguardi, gesti, abbigliamento, posture, ma anche luoghi, contesto, tecniche di lavorazione ed organizzazione del cantiere. E ancora luci, colori o assenza di colore. Come non essere affascinati dalla disposizione su più livelli della fotografia del ’900 dove tutti, operai compresi, sono vestiti per una importante occasione, orgogliosi di far parte di una grande e bella impresa, disposti coralmente intorno all’Ingegner Mangiarotti e alla parte dirigente. E quanti giovanissimi uomini, i cosiddetti magütt… ovviamente nessuna presenza femminile. Si percepiscono la sorpresa e il tono divertito per l’avvenimento, di certo un’occasione rara per l’epoca. Molti sono disposti lungo i ponteggi, a quei tempi ancora in legno, mentre alle loro spalle è visibile la nuova costruzione in fase di realizzazione di viale Sabotino/Ripamonti a Milano, le pareti in laterizio, alcune parti in cemento armato, i falsi telai che incorniciano le aperture. Da sempre l’opera del costruire, vedere un’idea trasformarsi in materia, forma, volume, studiarne i dettagli, approfondire le tecniche di gestione ed organizzazione del cantiere è fonte di soddisfazione ed orgoglio; impossibile non esserne coinvolti a qualsiasi livello si stia operando. Nel 2012 l’immagine realizzata da Paolo Rosselli coglie un altro momento particolare: tutti i protagonisti di Borio Mangiarotti sono radunati all’interno del grande scavo per la realizzazione del parcheggio a fianco della basilica di Sant’Ambrogio a Milano. La disposizione delle persone è su un piano orizzontale sul fondo dello scavo; uomini e donne ravvicinati in una fredda e luminosa giornata d’inverno. Alle loro spalle la imponente presenza della macchina escavatrice: potente “mostro tecnologico”, azionato da un unico operatore, che oggi permette la realizzazione di grandi opere in tempi contenuti. Al centro Renata Mangiarotti De Albertis e il marito Edoardo De Albertis, ma anche il figlio Claudio e i nipoti Edoardo, Regina, Jacopo e Marta perché l’impresa si è da sempre sviluppata nel solco della conduzione familiare, frutto di coesione di intenti, totale dedizione al lavoro, spiccate doti intellettuali e capacità organizzative. Evidente che le due immagini non sono soltanto lo specchio di momenti storici molto differenti tra loro ma sono anche la testimonianza del continuo lavoro di aggiornamento, della capacità
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di sapersi rinnovare in un mondo spesso complesso e difficile in continua evoluzione, dove sono mutate le regole e le priorità, dove l’incertezza sul futuro ha richiesto scelte precise, cambiamenti improvvisi e una continua riflessione sulla strada intrapresa. Negli anni il modo di lavorare si è rivoluzionato, lo staff tecnico è cresciuto nella sua componente organizzativa e gestionale con figure professionali in grado di affrontare le nuove sfide tecnologiche in cui occorre individuare e risolvere le questioni economiche e finanziarie, comunicare con efficacia e precisione il proprio orientamento di politica industriale, avvalersi della collaborazione di architetti ed ingegneri per ricercare soluzioni consapevoli, innovative e al passo con i tempi e le richieste del mercato. Le sfide odierne sono dovute a numerose problematiche, tra le tante quelle della sicurezza strutturale e antisismica, energetica ed ambientale, che hanno assunto un tale livello di complessità da richiedere un approccio multidisciplinare e strategico. Oggi le imprese che hanno attraversato un lungo e tormentato periodo storico sono sicuramente portatrici di un patrimonio culturale unico, in grado quindi di “salvare la memoria” per affrontare l’incredibile e disorientante accelerazione dei cambiamenti a cui è sottoposto il nostro mondo e per poterlo ascoltare e comprendere. Sappiamo che non è una sfida da poco.
DA
DOVE
RIPARTE MILANO Foto: Alessandro Furchino Capria
URBANO
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di Giuseppe Sala Sindaco di Milano
A
EDITORIALE
lcuni anni fa ho affidato a un libro alcune riflessioni sulle prospettive che la contemporaneità offre alle grandi metropoli del mondo, alle loro energie, alle loro potenzialità, alla loro resilienza. Non avrei mai immaginato che pochi anni dopo quel modello sarebbe stato messo così a dura prova dall’emergenza sanitaria che ha investito il pianeta. Il Covid -19 ha colpito in modo devastante le grandi città del mondo: essere luoghi di incontro, di confronto, di concentrazione delle risorse e delle idee ha reso di fatto le città più esposte alla diffusione del contagio. La necessità di avviare una ripresa su basi nuove dopo la fase più acuta dell’epidemia evidenzia ancora il ruolo delle città come centri propulsori dello sviluppo economico civile e sociale, come luoghi del cambiamento e della progettazione del futuro. Sono infatti proprio le città ad essere chiamate a guidare la ripartenza e disegnare una nuova normalità, correggendo le contraddizioni del passato e mettendo a frutto la lezione di questi mesi difficili e drammatici. Milano naturalmente non fa eccezione. Conosciamo bene i fattori che sostengono la dinamicità della nostra città: la propensione all’innovazione, sostenuta da una rete straordinaria di Università, accademie, centri di ricerca pubblici e privati; un tessuto economico vivace che nasce da una tradizione solida e antica; una società aperta e solidale in cui il senso di appartenenza non si è mai tradotto in chiusura, ma ha anzi fatto da calamita per competenze e professionalità. Naturalmente nessuno si illude di poter ripercorrere pedissequamente e acriticamente le strade del passato: la crisi che stiamo vivendo ha accelerato processi che erano già in corso e, allo stesso tempo, ha dato il via a dinamiche economiche e sociali innovative e talvolta contraddittorie. Pensiamo a temi complessi come quello della mobilità, della riorganizzazione dei processi produttivi, delle nuove forme di lavoro, della ridefinizione dei tempi della città, dello svolgersi della vita sociale e lavorativa in forme diverse da quella cui eravamo abituati, del ricorso sempre più capillare alle nuove tecnologie nella vita quotidiana. Sono dinamiche che la politica, il mondo dell’impresa, il mondo della ricerca devono comprendere e governare, inserendole in un progetto complessivo di rinascita. Come sindaco di Milano credo che lo sviluppo futuro della nostra città debba ispirarsi ad alcune priorità ben definite come la questione ambientale, la crescita sostenibile e solidale e l’apertura internazionale. In questo quadro d’insieme le trasformazioni urbanistiche e la valorizzazione del nostro patrimonio immobiliare pubblico e privato sono e continueranno a rappresentare un elemento chiave dello sviluppo complessivo del territorio. La consolidata tradizione di cooperazione tra regia pubblica e interventi privati, che in questi anni ha dimostrato di saper ben coniugare sviluppo e bene comune, dovrà tradursi nella concretizzazione di una visione strategica della città che persegue l’obiettivo
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della trasformazione ecologica, della sostenibilità, della giustizia sociale, della qualità della vita della comunità, dell’attrattività complessiva della città. Il Comune continuerà a fare la sua parte, proseguendo l’azione di semplificazione e di automazione della burocrazia, unificando sportelli e uffici, riducendo il più possibile il numero degli adempimenti. Ma non solo. Le linee guida, che emergono nei documenti di pianificazione e governo del territorio e che il Comune si impegna a promuovere anche negli anni a venire, rappresentano altrettante opportunità ed occasioni per tutte le realtà della filiera edilizia: evitare il consumo di suolo favorendo bonifiche e rigenerazione urbana; tutelare le aree libere e renderle fruibili per la qualità della vita con verde e spazi pubblici di qualità; abbattere l’inquinamento riducendo al minimo l’impatto ecologico di cantieri ed edifici e favorendo l’edilizia innovativa; promuovere l’innovazione, la digitalizzazione e l’adozione estensiva di modelli di building information modelling capaci di mettere a sistema tutto il percorso di vita del cantiere, dal bando all’esecuzione, ai controlli. Milano è oggi un modello internazionale di trasformazione urbana. Qui sono stati realizzati interventi che hanno cambiato lo skyline e hanno promosso concretamente la qualità della vita, del lavoro, delle relazioni. Milano è cambiata molto in questi anni con scelte premiate dai milanesi e da chi nel mondo oggi guarda a Milano con ammirazione. Ora si tratta di continuare questo lavoro coinvolgendo tutta la città: Milano se lo merita, lo meritano tutti i suoi quartieri, le periferie, gli scali ferroviari, le tante aree da rigenerare e riqualificare, le aree verdi che dovranno espandersi e diventare un tratto distintivo del paesaggio urbano di domani. La qualità non può più essere appannaggio solo del centro o di pochi quartieri alla moda, ma deve arrivare ovunque. Sappiamo che non ci potrà essere il Bosco Verticale dappertutto, ma dappertutto ci devono essere qualità, bellezza e piacere di vivere. È una sfida affascinate che riguarda tutti. Una sfida impegnativa, ma anche una opportunità preziosa per tanti grandi costruttori che – come Borio Mangiarotti che proprio quest’anno celebra un secolo di attività nel settore edilizio – hanno plasmato l’immagine fisica della nostra città, che con il loro lavoro hanno contribuito a definire un’identità cittadina improntata alla ricerca dell’eleganza, del gusto e dell’innovazione.
MILANO E LE VISIONI URBANE PER IL FUTURO URBANO
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di Luca Molinari Università degli Studi di Napoli
I
EDITORIALE
n questo ultimo biennio Milano ha dato chiari segnali di voler imprimere un’ulteriore svolta nella propria politica urbana puntando su alcuni elementi chiave come una sostenibilità diffusa, un lavoro attento sulle fasce periferiche, la revisione del piano infrastrutturale e un aumento decisivo di una qualità urbana diffusa, dimostrando di essere uno dei laboratori urbani più interessanti sulla scena continentale. Ma è indubbio che quello che è avvenuto nei primi mesi del 2020 nel nostro territorio e nel mondo intero non possa fare altro che aumentare la determinazione a lavorare su modelli capaci di segnare con maggiore radicalità il carattere di Milano per i prossimi decenni. Perché la sfida per le metropoli avanzate ed ambiziose di individuare obbiettivi utili per le nostre comunità future non può limitarsi ad operazioni di ritocco e piccolo cabotaggio, ma deve essere capace di rispondere alle aspettative urgenti che un mondo in profonda metamorfosi sta vivendo, generando desideri ed aspettative che non possono essere disattese. Nel caso di Milano le Olimpiadi Invernali del 2026 rappresentano un altro motore di prospettiva fondamentale per dare alle politiche urbane una prospettiva lunga ed insieme una visione culturale innovativa. Guardando alla capitale lombarda e confrontando le sue sfide con i caratteri strategici di altre grandi città nel mondo, possiamo identificare una serie di elementi comuni che rappresentano lo scenario entro cui muoversi e concentrare le energie necessarie al cambiamento, mantenendo sullo sfondo l’Agenda 2030 e i suoi imprescindibili diciassette punti per uno sviluppo sostenibile e solidale del Pianeta. Uno dei nodi centrali per Milano, come per molte città postindustriali, è quello della riforma radicale dei suoi nodi infrastrutturali, rappresentata dagli scali ferroviari o da centri di collegamento ferro/terra prossimi al centro cittadino e con un grande valore strategico. In una prospettiva che tenderà a ridurre progressivamente il traffico su gomma lavorando a un’offerta delle reti di mobilità e spostamento sempre più interfacciate e flessibili tra di loro, la scommessa degli ex scali ferroviari e delle loro stazioni acquisirà un valore strategico e simbolico sempre più rilevante per il futuro delle città. Una serie di esperienze parallele in fase di attuazione tra Stati Uniti e Nord Europa ci dice che la prospettiva va nella direzione di una densificazione degli interventi architettonici possibilmente in altezza o nel riuso del patrimonio esistente, per dare più spazio possibile a polmoni verdi che abbiano la possibilità di accogliere funzioni sociali leggere e diversificate nell’uso. Non si tratta di replicare il modello di Central Park, ma d’immaginare infrastrutture paesaggistiche complesse in cui al tempo libero e alla cura del corpo si possano integrare aree per startup, spazi per la formazione, centri
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comunitari ed aree a destinazione agricola e produttiva locale. Il modello da superare definitivamente è quello di una metropoli costruita per funzioni separate tra di loro nel tempo e nello spazio d’uso. Il modello a cui tendere, invece, è quello di tipo ibrido, flessibile, aperto all’uso di comunità fluide differenti nei diversi tempi della giornata e delle stagioni. Questo vuole dire ripensare le scuole, gli impianti per lo sport e la salute, le istituzioni culturali e commerciali come se fossero tutte parti di una visione unica, circolare, aperta e sostenibile che riduca gli sprechi di spazio ed energie per lavorare in maniera intelligente sulle risorse che già esistono nelle nostre città. Il modello di rigenerazione ecologica di una metropoli parte da questa prospettiva, puntando al superamento della visione duale tra città di pietra e quella vegetale e guardando a modelli di sostenibilità diffusa. Uno dei grandi temi che le città si troveranno ad affrontare è il ripensamento radicale del proprio patrimonio immobiliare della fascia periferica, costruito negli Anni ’70 con l’uso pesante della prefabbricazione e oggi fortemente energivoro. Le crisi sociali di questi ultimi anni ci dicono che le periferie sono un laboratorio obbligato per quelle amministrazioni che vorranno fare crescere in maniera equa e solidale tutta la propria comunità, evitando così conflitti e rotture sociali drammatiche. Le grandi metropoli lavoreranno sempre più non per allargare a dismisura i propri confini quanto per ripensare il patrimonio edilizio esistente, lavorando per densificazioni e sostituzioni edilizie, mentre sarà interessante vedere la possibilità di ripensare il proprio territorio metropolitano vasto rafforzando le connessioni leggere, un sistema ambientale diffuso e una rete di servizi, formazione e commercio più capillare con funzioni ed usi diversificati capaci di generare micro-centralità riconoscibili diffuse nel territorio. La sfida di una sostenibilità sociale, ecologica ed energetica diffusa, il ripensamento della mobilità e dei suoi snodi, la lotta alle disuguaglianze, la possibilità di ripensare nell’uso quotidiano il patrimonio pubblico esistente e il rinnovamento qualitativo e ambientale del patrimonio residenziale rappresentano per Milano una sfida progettuale e politica fondamentale perché si possa definitivamente completare quella lenta metamorfosi che, da città industriale, la porterà ad essere uno dei centri evoluti del sistema urbano europeo.
MI LAN O
Crescita e contrazione, inurbamento e suburbanizzazione, costruzione e distruzione: nell’ultimo secolo le trasformazioni di Milano, come quelle di tutti i grandi centri urbani del mondo occidentale, hanno seguito un percorso per nulla lineare. Attraverso una selezione di dieci macrotemi – gli eventi, le mappe, gli artisti, gli interni, i progettisti, i cantieri, i materiali, le riviste, i luoghi e i palazzi – analizzati nei dieci decenni passati fino ad arrivare ai giorni nostri, abbiamo raccontato la crescita di una città simbolo di evoluzione e bellezza.
URBANO
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TIMELINE Milano anno per anno
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MAPPE La città che cambia
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CULTURA Dove si è fatta la cultura
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INTERNI La vita dentro casa
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PROGETTISTI Progettare un secolo
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✕ MILANO 10✕10
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10 CANTIERI Un cantiere costante
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MATERIALI Di cosa è fatta la città
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RIVISTE Elogio a una Milano senza tempo
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LUOGHI 100 anni. 10 luoghi. Milano
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PALAZZI Tutti gli angoli della città
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1920–2020
MILANO ANNO PER ANNO
1922
Giovanni Muzio Ca’ Brutta → Nell’allora via Principe Eugenio, oggi via Turati, Giovanni Muzio completa un complesso di edifici per abitazioni ad alta densità, che attira critiche feroci da parte dell’opinione pubblica, tanto da guadagnare l’epiteto di Ca’ Brutta.
1924
1926
Autostrada Milano-Laghi → Il 21 settembre, dopo appena quindici mesi di lavori, viene aperto al traffico il primo tratto dell’autostrada Milano-Laghi, tra Milano e Varese, considerata da molti storici delle infrastrutture come la prima autostrada del mondo.
1927 Città degli Studi
Alberto Cugini e Ulisse Stacchini Stadio di San Siro ↓ Il 19 settembre una partita amichevole tra Milan e Inter segna l’inaugurazione dello stadio di San Siro, costruito in poco più di un anno dall’ingegner Alberto Cugini e dall’architetto Ulisse Stacchini.
Nell’area conosciuta come Cascine Doppie, l’attuale piazza Leonardo da Vinci, apre agli studenti il primo nucleo della Città degli Studi.
1928
1933
Idroscalo ← Cominciano i lavori per la realizzazione del bacino dell’Idroscalo, lungo 2.500 metri e largo tra i 350 e i 400 metri, immaginato fin dal principio come infrastruttura per i trasporti e come spazio ludico.
1929 Navigli
A partire dal 16 marzo, e in poco più di un anno di lavori, viene completamente interrata la cerchia interna dei Navigli, il cui tracciato corrispondeva alle antiche mura medievali della città.
1930
1931
Piero Portaluppi Planetario → Piero Portaluppi completa il padiglione del Planetario, finanziato grazie alla partecipazione della famiglia dell’editore Hoepli, e realizzato all’interno dei Giardini Pubblici di Porta Venezia.
Stazione Centrale ↙ Dopo quasi vent’anni di lavori, si inaugura la nuova Stazione Centrale, complesso monumentale affacciato verso la città con un fronte di 207 metri di larghezza, interamente rivestito in marmo e pietra del Carso.
Giovanni Muzio Palazzo dell’Arte
Dopo quattro edizioni tenutesi a Monza, la V Triennale è la prima a svolgersi a Milano, nel Palazzo dell’Arte completato in quell’anno da Giovanni Muzio, e tuttora sede della Triennale di Milano.
1935
Luigi Lorenzo Secchi Piscina “Roberto Cozzi” ← Apre al pubblico la piscina “Roberto Cozzi” di viale Tunisia, dell’ingegner Luigi Lorenzo Secchi, esempio monumentale di edilizia pubblica, la cui vasca olimpionica è circondata da tribune che possono ospitare fino a 4mila spettatori.
URBANO
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1936
Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri Casa Rustici ← All’angolo tra corso Sempione e via Procaccini si concludono i lavori per casa Rustici, edificio residenziale capolavoro del razionalismo italiano, progettato da Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri.
1936
Gianluigi Giordani Aeroporto di Milano Linate Su progetto di Gianluigi Giordani, cominciano i lavori per la costruzione dell’hangar principale dell’aeroporto di Linate, composto da un’unica campata di 235 metri di larghezza, ed aperto al traffico aereo civile nel 1938.
1938
1939
Franco Albini Quartiere Fabio Filzi
Ospedale Maggiore di Niguarda → Le attività dell’antico Ospedale Sforzesco, da tempo inadeguato alle esigenze della città, si trasferiscono nel nuovo Ospedale Maggiore di Niguarda, esteso su un’area di 33 ettari alla periferia nord della città.
Franco Albini, Renato Camus e Giancarlo Palanti completano il quartiere Fabio Filzi, esito di un concorso bandito dall’IFCP - Istituto Fascista Case Popolari, ed ispirato ai criteri più aggiornati del razionalismo europeo.
1943
Bombardamenti aerei ← Nella notte tra il 12 e il 13 agosto, Milano è l’obiettivo del più pesante bombardamento subito da una città italiana durante la Seconda guerra mondiale, parte di una lunga serie di raid che danneggiano o distruggono il 60% del patrimonio immobiliare cittadino.
1940
Giuseppe Pagano Università Commerciale Luigi Bocconi L’Università Commerciale Luigi Bocconi inaugura la nuova sede di via Sarfatti, che è il più significativo tra i progetti realizzati da Giuseppe Pagano.
1945
1946
Bastioni e Monte Stella
B.B.P.R. Monumento ai caduti nei campi di concentramento
Si finalizzano le demolizioni degli ultimi tratti esistenti delle mura spagnole di Milano, i cosiddetti “bastioni”, risalenti al XVI secolo, le cui I B.B.P.R. realizzano una prima versione macerie andranno ad aggiungersi a quelle dei del Monumento ai caduti nei campi di bombardamenti nella costruzione del Monte Stella. concentramento, all’ingresso del Cimitero Monumentale.
1947
Palazzo Reale Sala delle Cariatidi ↑ Viene completata la copertura e la messa in sicurezza della Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale, che non sarà ricostruita com’era prima dei bombardamenti, ma conservata nel suo stato semi-distrutto come monito delle devastazioni della guerra.
1947
1949
QT8 - Quartiere Triennale 8°
Ambrogio Annoni Ca’ Granda ← Sotto il coordinamento di Ambrogio Annoni, Amerigo Belloni, Liliana Grassi e Piero Portaluppi comincia la ricomposizione per anastilosi dell’intero cortile del Richini della Ca’ Granda, gravemente danneggiata dalle bombe della guerra.
Comincia la costruzione del QT8 - Quartiere Triennale 8°, insediamento sperimentale alla periferia nord-ovest della città, previsto in origine per 18mila abitanti.
1952
San Giovanni in Conca ← S’interrompono i contestati lavori di demolizione della chiesa di San Giovanni in Conca in piazza Missori, preludio all’abbandono del progetto di prosecuzione della “racchetta” a percorrenza veloce che avrebbe dovuto attraversare il centro storico di Milano da piazza Missori a corso Magenta.
MILANO 10✕10
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1952
1955
Metanopoli → A San Donato, periferia sud di Milano, Enrico Mattei dà il via alla costruzione di Metanopoli, concepita come una città ideale riservata ai dipendenti dell’ENI, che potevano qui disporre di una quantità di verde pro-capite venti volte superiore alla media del capoluogo lombardo.
Corso Europa
Nell’ambito degli sventramenti del centro storico già previsti dal piano Albertini del 1934, viene completata l’apertura di corso Europa, asse di collegamento tra piazza San Babila e via Larga.
1957
Piero Bottoni Casa d’abitazione ↓ La casa d’abitazione progettata da Piero Bottoni in corso Sempione sorge come unico frammento realizzato del progetto urbano corale “Milano Verde”, che immaginava un quartiere di edilizia residenziale intensiva per 45mila abitanti nel nordovest di Milano.
1957
Vittoriano Viganò Istituto Marchiondi Spagliardi L’Istituto Marchiondi Spagliardi si trasferisce dalla sede storica di via Quadronno, bombardata durante la guerra, nel nuovo edificio progettato da Vittoriano Viganò, considerato come una delle massime espressioni dell’architettura brutalista italiana.
1961
1963
Luigi Caccia Dominioni realizza l’edificio per abitazioni di piazza Carbonari, uno dei risultati più riusciti della sua ricerca sul condominio borghese, tema di riflessione fondamentale per l’architettura milanese del boom economico.
Echi delle ricerche di grandi architetti internazionali come Eero Saarinen e Kenzo Tange risuonano nella tensostruttura della Piscina Comunale Coperta “Solari”, costruita nel parco omonimo da Arrigo Arrighetti, all’epoca direttore dell’Ufficio urbanistico del Comune di Milano.
Luigi Caccia Dominioni Edificio per abitazioni
1956
Luigi Mattioni Torre Breda → Luigi Mattioni, Eugenio ed Ermenegildo Soncini completano la Torre Breda di piazza della Repubblica che, con i suoi 116 metri, resta per qualche anno il più alto edificio al mondo con struttura in cemento armato.
1958
1960
B.B.P.R. Torre Velasca → In pieno centro storico di Milano, a pochi passi dal Duomo, si concludono i cantieri della Torre Velasca dei B.B.P.R., edificio alto contemporaneo che comprende più di 800 unità immobiliari, tra appartamenti ed uffici.
Gio Ponti “Pirellone” ↘ La Pirelli trasferisce i suoi uffici nel celebre grattacielo “Pirellone” di piazza Duca d’Aosta che, con i suoi 127 metri, rimane fino al 1966 l’edificio più alto di tutta l’Unione Europea.
Arrigo Arrighetti Piscina “Solari”
1964
Linea 1 della metropolitana milanese ← Dopo sette anni di lavori, il primo novembre inaugura la linea 1 della metropolitana milanese, che si estende su 12,5 km tra le stazioni di Lotto e Sesto Marelli.
1965
1968
Viene completata la sequenza di cavalcavia automobilistici progettati da Silvano Zorzi lungo il tratto nord-occidentale della circonvallazione esterna, che copre una distanza di quasi 1,5 km tra piazzale Lotto e piazzale Lugano.
Vengono completati i circa 30 km della Tangenziale Ovest di Milano, il primo tassello del sistema delle tangenziali milanesi.
Silvano Zorzi Cavalcavia urbani
URBANO
Tangenziale Ovest
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1969
Naviglio della Martesana → Prosegue l’interramento dei Navigli, con il completamento della copertura della Martesana di via Melchiorre Gioia, tra il Ponte delle Gabelle e la Cassina de’ Pomm.
1970 Parco Forlanini
Un’ampia porzione di territorio agricolo a nord di viale Forlanini, nei pressi dell’aeroporto di Linate, viene sottratta allo sviluppo immobiliare e trasformata nel primo embrione dell’attuale Parco Forlanini.
1978
1972
1972
Guido Canella, Michele Achilli e Daniele Brigidini aprono i cantieri del centro parrocchiale e dei servizi al villaggio INCIS di Pieve Emanuele, primo esempio di architettura pensata per l’“hinterland” della città, come inteso da Canella.
Le proteste di numerose associazioni per la protezione del patrimonio storico e degli abitanti del quartiere Garibaldi ottengono l’interruzione dei lavori di demolizione degli edifici antichi del corso omonimo, prevista in concomitanza con il prolungamento della linea 2 della metropolitana.
Guido Canella Centro parrocchiale e dei servizi
1973
1975
Aldo Rossi Unità residenziale → All’interno del complesso “Monte Amiata”, nel quartiere Gallaratese, Aldo Rossi porta a termine l’unità residenziale che è uno dei suoi edifici più rappresentativi.
1979
Linea 2 della metropolitana milanese
Oscar Niemeyer Palazzo Mondadori → Oscar Niemeyer completa il Palazzo Mondadori di Segrate, che l’editore Arnoldo Mondadori vuole apertamente ispirato alla sede del Ministero degli affari esteri di Brasilia.
Marco Zanuso Nuovo Piccolo Teatro
La linea 2 della metropolitana milanese, attiva fin dal 1969, è prolungata fino a Cadorna, dove viene completato l’interscambio fondamentale con la linea 1 e con il sistema ferroviario regionale.
1980
1981
Corso Vittorio Emanuele → Corso Vittorio Emanuele è la prima via di Milano ad essere interamente pedonalizzata, con un intervento che sarà reso definitivo attraverso il ridisegno completo della sua sezione stradale, terminato nel 1989.
Lungo Foro Bonaparte, nell’area precedentemente occupata da un istituto tecnico, cominciano i lavori per il Nuovo Piccolo Teatro progettato da Marco Zanuso, che sarà completato solo vent’anni più tardi.
Su commissione della Regione Lombardia, Angelo Mangiarotti progetta le stazioni del Passante Ferroviario di Repubblica e Porta Venezia, che saranno completate e apriranno al pubblico nel decennio successivo.
Cominciano i lavori per la realizzazione della linea M3 della metropolitana milanese, la cui prima tratta, tra le stazioni di Centrale FS e Duomo, è aperta al pubblico in occasione del campionato mondiale di calcio del 1990.
Roberto Gabetti e Aimaro Isola Palazzo per uffici ENI ← La costruzione di Metanopoli prosegue con l’apertura dei cantieri del suo edificio più iconico, il quinto palazzo per uffici ENI di Roberto Gabetti e Aimaro Isola, grande volume vetrato, terrazzato, e sormontato da giardini pensili.
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1982
Angelo Mangiarotti Stazioni del Passante Ferroviario
Linea 3 della metropolitana milanese
1985
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Quartiere Garibaldi
1986
Stadio Giuseppe Meazza ↑→ Si aprono i cantieri per la realizzazione del terzo anello dello Stadio Giuseppe Meazza, che ne amplierà la capienza fino a più di 87mila posti, e che sarà inaugurato in occasione del campionato mondiale di calcio del 1990.
1988
1989
Antonio Citterio Headquarters Esprit de Corps
Laura Lazzari, Giancarlo Perotta Torri Garibaldi ← Al fabbricato viaggiatori della stazione di Porta Garibaldi, edificio modernista progettato negli Anni ’60 da Eugenio Gentili Tedeschi, Giulio Minoletti ed altri, si affiancano le due imponenti torri per uffici dello Studio LazzariPerotta, che diventano rapidamente icone della Milano postmoderna.
La compagnia Esprit de Corps si trasferisce nel nuovo headquarters, progettato da Antonio Citterio e Terry Dwan nei pressi della stazione di Porta Genova, uno dei primi esempi della riconversione post-industriale di questo quartiere della città.
1990
Parco Agricolo Sud ↑ Viene istituito il Parco Agricolo Sud, esteso su di una superficie di più di 46mila ettari, con lo scopo di proteggere e valorizzare l’economia agricola del Sud Milano, a cui ad oggi contribuiscono più di 1.400 aziende.
1990
Aldo Rossi Monumento a Sandro Pertini → Nell’ambito dei lavori di superficie connessi alla realizzazione della linea 3 della metropolitana milanese, viene inaugurato il Monumento a Sandro Pertini di piazza Croce Rossa, disegnato da Aldo Rossi.
1991
1993
Vittorio Gregotti Milano Bicocca ↘ Vittorio Gregotti dà il via ai cantieri della più ambiziosa riconversione di un’area exindustriale nella storia dell’urbanistica italiana: la trasformazione degli stabilimenti Pirelli nel quartiere di Milano Bicocca.
1997
P.A.C., Padiglione di Arte Contemporanea
1997
Il 27 luglio un attentato dinamitardo in via Palestro danneggia gravemente le strutture del P.A.C., il Padiglione di Arte Contemporanea portato a termine da Ignazio Gardella nel 1951.
Gae Aulenti Piazzale Cadorna ← Si aprono i cantieri per la riqualificazione di piazzale Cadorna e della stazione che vi si affaccia, secondo il progetto di Gae Aulenti, che comprende anche la monumentale scultura "Needle, Thread and knot"di Claes Oldenburg e Coosje Bruggen.
2003
Passante Ferroviario Dopo 13 anni dall’inizio dei lavori, apre ai treni la prima tratta sotterranea del Passante Ferroviario di Milano, tra le stazioni di Milano Bovisa e Milano Porta Venezia, le cui ramificazioni nella città metropolitana sono tuttora in evoluzione.
1999
Vico Magistretti Deposito ATM ↘ Vico Magistretti completa il grande deposito ATM di Famagosta che, grazie ai suoi lucernari sovradimensionati, si trasforma in un landmark che segnala l’ingresso di Milano per chi proviene da sud.
2003
Pei Coob Freed & Partners Nuova Sede della Regione Lombardia → Si aprono i cantieri per la Nuova Sede della Regione Lombardia di Pei Cobb Freed & Partners, Caputo Partnership e Sistema Duemila, il primo di molti grattacieli che sorgeranno nell’area dell’ex-centro direzionale nei quindici anni successivi.
Massimiliano e Doriana Fuksas Nuovo polo fieristico di Milano-Rho → Massimiliano e Doriana Fuksas cominciano i lavori per i padiglioni del nuovo polo fieristico di Rho Fiera, connessi da una spina centrale percorribile su due livelli che diventa l’elemento caratterizzante di tutto il complesso.
2004
Gino Valle Quartiere del Portello Si conclude la demolizione pressoché completa degli stabilimenti dell’Alfa Romeo al Portello, sulla cui area, di più di 26 ettari, sorgerà il quartiere polifunzionale di cui Gino Valle progetta il masterplan d’insieme.
URBANO
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2004
2005
Porta Nuova ← Il 26 settembre, una grande cerimonia celebra l’inizio dei lavori nell’area di Porta Nuova, suddivisa in tre settori d’intervento: Porta Nuova Varesine, Porta Nuova Garibaldi e Porta Nuova Isola, per un totale di circa 34 ettari.
Mario Botta Teatro alla Scala
L’architetto ticinese Mario Botta consegna il controverso progetto per il Teatro alla Scala, che comporta il restauro conservativo delle strutture storiche e l’aggiunta di due volumi: un cilindro per gli spazi di servizio e il parallelepipedo della nuova torre scenica.
2007
City Life → Cominciano le demolizioni della quasi totalità degli edifici della storica Fiera Campionaria di piazza Giulio Cesare, nel cui recinto sorge nel decennio successivo il quartiere di City Life.
2008
2012
Grafton Architects Nuova Sede dell’Università Commerciale Luigi Bocconi ↘ Le architette irlandesi Grafton Architects completano il progetto per la Nuova Sede dell’Università Commerciale Luigi Bocconi di viale Bligny, che nel 2009 si posiziona tra i cinque finalisti del prestigioso Mies van der Rohe Award.
2012
Linea 4 della metropolitana milanese Nella prima metà dell’anno cominciano i lavori per la linea 4 della metropolitana milanese, tuttora in costruzione, e destinata a pieno regime a trasportare fino a 28mila persone per direzione di servizio, sull’asse est-ovest che collega le stazioni di Linate Aeroporto e San Cristoforo FS.
Cesar Pelli Torre Unicredit ↑ Inaugurata il 14 dicembre, la Torre Unicredit dall’architetto statunitense Cesar Pelli diventa l’edificio più alto d’Italia, grazie ai 231 metri raggiunti dalla sua guglia a spirale.
2014
Boeri Studio Bosco Verticale → Vengono inaugurate le due torri del Bosco Verticale progettato da Boeri Studio, che nel 2015 è riconosciuto dal Council of Tall Buildings and Urban Habitat come il «grattacielo più bello ed innovativo del mondo».
2015
Expo 2015 ← Il primo maggio inaugura Expo 2015, le cui strutture si distribuiscono su un’area di 110 ettari all’ingresso nordoccidentale della città, dove nei sei mesi di apertura si recano più di 22 milioni di visitatori.
2015
Linea 5 della metropolitana milanese
2019
Inside-Outside Parco BAM – Biblioteca degli Alberi ↑ Il 27 ottobre apre al pubblico il Parco BAM Biblioteca degli Alberi, progettato dallo studio olandese Inside-Outside ed esteso su più di 9 ettari, che ne fanno il terzo spazio verde di Milano per dimensione, dopo Parco Sempione e Giardini Pubblici Indro Montanelli.
Il 14 novembre, l’apertura della stazione Tre Torri segna il completamento dei primi 12,9 km della linea 5 della metropolitana milanese, tra le stazioni di Bignami e San Siro Stadio.
2019
OMA e Laboratorio Permanente Scali ferroviari
Comune di Milano Progetto Piazze Aperte
← Il team composto da OMA - Office for Metropolitan Architecture e Laboratorio Permanente vince il concorso internazionale ad inviti per l’elaborazione di una visione strategica per gli scali ferroviari Farini e San Cristoforo.
Il Comune di Milano promuove il progetto Piazze Aperte, che prevede la trasformazione di numerosi spazi urbani attraverso gli strumenti leggeri dell’“urbanistica tattica”.
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2018
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LE MAPPE. LA CITTÀ CHE CAMBIA
URBANO
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Le dieci mappe di Milano riprodotte in queste pagine sono molto lontane tra loro per tema e resa grafica, sono prodotte da diversi autori, per diversi committenti e in vista di obiettivi specifici. Non si tratta di una collezione di piani urbanistici ed infrastrutturali, ma piuttosto di una raccolta di visioni della città e per la città, accomunate dallo stesso punto di vista, zenitale, e dalla stessa modalità di rappresentazione, il disegno. In questo quadro, la funzione di ciascuna mappa è innanzitutto quella di mettere in evidenza un tema, che è stato centrale nel dibattito sulla città in ogni decennio: dall’urgenza dell’espansione urbana testimoniata dallo Schema della rete stradale del Piano Albertini (1934), alla nuova scala di progetto proposta dal Piano Intercomunale Milanese (1963), dall’importanza del potenziamento del trasporto pubblico visualizzata dalla Mappa della rete metropolitana milanese degli Anni ’70, alla questione della sostenibilità che ispira il Progetto Milano Raggi Verdi (2008). La complessità della città emerge in filigrana da queste letture sintetiche, selettive, che nel loro insieme chiariscono le grandi direzioni di cent’anni di sviluppo urbano di Milano.
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PIANTA DI MILANO QUADRO D’INSIEME Touring Club Italiano 1927–1928
← Fonte: Archivio Storico Touring Club Italiano
Pur nella sua grafica estremamente stilizzata, il quadro d’insieme di una mappa del Touring Club Italiano della fine degli Anni ’20 fornisce un interessante fermo-immagine sulla città prima delle grandi trasformazioni e distruzioni dei decenni successivi, dagli sventramenti fascisti ai bombardamenti. Il centro storico è relativamente compatto. Il “piccone risanatore”, ad esempio, non ha ancora toccato i quartieri popolari del Verziere e del Bottonuto, a sud del Duomo, che si trasformeranno in largo Augusto, via Verziere, via Albricci e piazza Diaz. A causa delle campiture piene della carta, anche la maglia stradale regolare della città moderna, impostata nei suoi caratteri generali dal Piano Beruto negli Anni ’80 dell’Ottocento, sembra qui più densa e conclusa di quanto non lo fosse nella realtà. I grandi vuoti degli scali merci sono connessi da un anello ferroviario continuo, che conoscerà fortune alterne. Il tratto che corrisponde all’attuale viale Tunisia, ad esempio, sarà soppresso poco dopo, ma “ricomparirà” come passante ferroviario sotterraneo negli Anni ’90 del Novecento. Il Parco Sempione, i Giardini Pubblici e l’area della Fiera Campionaria spiccano già nel tessuto urbano come tre grandi recinti, spazi pubblici organizzati secondo regole proprie.
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PIANO ALBERTINI SCHEMA DELLA RETE STRADALE Cesare Albertini 1934
← Fonte: Urbanistica 18-19, 1956
Il Piano Albertini, che prende il nome dal suo redattore Cesare Albertini, direttore dell’ufficio tecnico comunale, traghetta l’urbanistica milanese dall’esperienza ottocentesca del Piano Beruto ai tentativi di pianificazione postbellica degli Anni ’50. Del primo Piano Regolatore della città, redatto dall’ingegner Cesare Beruto tra il 1885 e il 1889, prosegue in maniera apparentemente acritica il reticolo stradale, che arriva a saturare l’intera superficie del comune, ampliatasi nel 1923 con l’annessione di undici municipalità limitrofe. Alla ricostruzione e agli anni del boom lascia in eredità il tracciamento di alcuni importanti assi viari nel centro storico. In particolare, tra le proposte più controverse contenute nel Piano Albertini, vi è l’apertura della famigerata “Racchetta” a percorrenza veloce, che avrebbe dovuto collegare largo Augusto con corso Magenta, distruggendo gran parte del cuore della città. Il progetto fu definitivamente accantonato, e le relative demolizioni sospese, solo negli Anni ’50, in corrispondenza di piazza Missori. I ruderi della chiesa di San Giovanni in Conca, che affacciano ancora sulla piazza, sono il risultato non dei bombardamenti bellici, ma dell’interruzione, subitanea quanto intempestiva, della distruzione programmata dell’edificio.
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PIANO A.R. Franco Albini, Piero Bottoni, Ignazio Gardella, Ernesto Nathan Rogers e altri 1944–1945
← Fonte: Archivio Piero Bottoni, DASTU, Politecnico di Milano
Milano non è ancora uscita dalla guerra quando i principali esponenti della cultura architettonica ed urbanistica della città elaborano il Piano A.R., pubblicato nel 1945 su Casabella e su Rinascita, e che resterà allo stadio di proposta. Tra gli Architetti Riuniti a cui fa riferimento l’acronimo, ci sono anche Franco Albini, Lodovico Belgiojoso, Piero Bottoni, Ignazio Gardella, Giancarlo Palanti, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers. Dalle loro riflessioni scaturisce una proposta anticipatrice dei temi che saranno al centro del dibattito sul capoluogo lombardo nei decenni successivi: la possibile collocazione del centro direzionale, la relazione della città con il sistema delle infrastrutture regionali e gli aeroporti, il suo rapporto con le aree verdi extra-urbane. L’elemento più rivoluzionario del Piano A.R., però, riguarda il momento cruciale della ricostruzione, all’epoca incipiente. Gli estensori del piano propongono esplicitamente di ripensare l’istituto della proprietà fondiaria privata. L’obiettivo è quello di sottrarre le aree bombardate alle pressioni della speculazione, per farne il punto di partenza di un ripensamento radicale della forma della città, del rapporto tra i suoi vuoti e i suoi pieni, tra spazi pubblici e costruzioni.
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PIANO REGOLATORE GENERALE SCHEMA TERRITORIALE 1953
← Fonte: Centro Studi PIM
Agli inizi degli Anni ’50, Milano, ancor più di tante altre grandi città italiane, attraversa una fase di crescita rapidissima, una “rinascita” economica e sociale che si traduce nella trasformazione repentina delle sue strutture materiali. La ricostruzione o sostituzione degli edifici distrutti dalla guerra nella città consolidata, così come l’espansione delle nuove periferie residenziali e produttive, proseguono a ritmo frenetico. Il P.R.G. - Piano Regolatore Generale, approvato nel 1953, è redatto in questo clima di urgenza, mentre la questione della pianificazione acquista una centralità sempre maggiore nel dibattito nazionale. La versione finale del piano è un compromesso, non del tutto soddisfacente, tra istanze contrapposte. Da un lato, promuove l’applicazione di molti principi derivati dalla cultura urbanistica più avanzata dell’epoca (ad esempio la zonizzazione funzionale) e impone di destinare alcune delle ultime aree libere all’interno dei confini municipali a parco pubblico (compaiono per la prima volta in questo documento, ad esempio, il Parco delle Basiliche, il Parco Forlanini e il Parco di Trenno). Al tempo stesso, le pressioni della speculazione privata deformano ed impoveriscono diverse istanze coraggiose, ad esempio quella legata al decentramento: così, il Centro Direzionale, inizialmente concepito come polo di una Milano policentrica, trasla a ridosso dei Bastioni e si trasforma in un’estensione, senza soluzione di continuità, della città storica.
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P.I.M. PIANO INTERCOMUNALE MILANESE Giancarlo De Carlo, Silvano Tintori, Alessandro Tutino 1963
← Fonte: Centro Studi PIM
Il P.I.M. - Piano Intercomunale Milanese non sfociò mai in un documento attuativo, eppure riveste una grandissima importanza nella storia della pianificazione urbana, non solo del capoluogo lombardo. Il piano nasce nei primi Anni ’60 dall’associazione volontaria di trentacinque comuni, poi diventati novantasette nel 1968. Per la prima volta, un gruppo di municipalità indipendenti sul piano amministrativo, tutte gravitanti geograficamente, culturalmente e funzionalmente attorno a Milano, immaginano di poter pianificare congiuntamente lo sviluppo del proprio territorio. Al Piano Intercomunale Milanese, il cui primo schema è ricordato per la caratteristica conformazione a turbina, si devono tra le altre cose la prima ipotesi di un sistema ferroviario metropolitano (che diventerà, molti anni dopo, il Passante Ferroviario) e la localizzazione dei grandi parchi extra-urbani di Milano: dal Parco Nord al Parco Agricolo Sud, dal Parco delle Groane al Parco di Monza. In ogni caso, ben al di là delle sue ricadute sul territorio, il Piano Intercomunale Milanese merita di essere ricordato per la sua capacità di ridefinire la scala di riferimento della disciplina: dagli Anni ’60, Milano amplia lo sguardo e si lega finalmente in una relazione inscindibile con la sua regione.
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MAPPA DELLA RETE METROPOLITANA MILANESE SECONDO PROGETTO UFFICIALE ANNI ’70
Tra le grandi città del mondo, Milano non è stata tempestiva nel dotarsi di una rete di trasporti sotterranei su rotaia. Basti pensare che più di un secolo intercorre tra l’apertura, nel 1863, della prima tratta della metropolitana londinese (all’epoca a cielo aperto e a vapore) e l’inaugurazione della linea 1 della metropolitana milanese, nel 1964. La linea 2 segue nel 1969, la linea 3 solo nel 1990, la linea 5 addirittura nel 2015, mentre i lavori della linea 4 ritardano fino a farne slittare l’apertura prevista al 2022. Un diagramma schematico del secondo progetto ufficiale della rete, che risale agli Anni ’70, mostra le prime due linee come realizzate, mentre il tracciato blu e quello nero ipotizzano percorsi che saranno più o meno profondamente rivisti negli anni successivi. Se non spicca nelle classifiche mondiali né per la lunghezza complessiva (appena più di 100 km nel 2020), né per il numero di fermate (113 in attività nello stesso anno), la metropolitana milanese è conosciuta in tutto il mondo per la qualità del progetto architettonico e grafico delle sue prime stazioni. Nel 1964, la loro concezione valse a Franco Albini, Franca Helg e al graphic designer Bob Noorda il prestigioso premio Compasso d’Oro, assegnato dall’ADI - Associazione per il disegno industriale.
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DOCUMENTO DIRETTORE DELLE AREE INDUSTRIALI DISMESSE Comune di Milano 1988
← Fonte: Centro Studi PIM
L’inizio della riconversione terziaria delle due maggiori città industriali d’Italia, Torino e Milano, viene convenzionalmente identificato con l’attivazione di due grandi progetti: la ristrutturazione del Lingotto torinese in polo multifunzionale, progettata dallo studio di Renzo Piano, e la trasformazione degli stabilimenti Pirelli nel quartiere di Milano Bicocca, assegnata su concorso a Vittorio Gregotti nel 1985. Negli Anni ’80, la questione delle “aree dismesse” è il tema principale della pianificazione urbana alla scala nazionale. A Milano, quello della Bicocca non è che uno dei tasselli più estesi ed evidenti di una costellazione di recinti ex-produttivi ormai sottoutilizzati o abbandonati, tra cui spiccano anche la ex Montedison e Redaelli a Rogoredo e l’ex Magneti Marelli verso Sesto San Giovanni. Il documento direttore delle aree industriali dismesse, finalizzato con un certo ritardo nel 1988, si configura come un’indispensabile mappatura di questo patrimonio urbano, fatto di archeologie moderne da preservare ma soprattutto di potenziali vuoti in cui costruire le infrastrutture necessarie ai futuri sviluppi della città.
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PROPOSTA DI PIANO DIRETTORE TERRITORIALE DELL’AREA MILANESE 1990
← Fonte: Centro Studi PIM
All’inizio degli Anni ’90, tutti gli attori coinvolti nella costruzione della città sono concordi nel considerare definitivamente obsoleto il Piano Regolatore vigente. Così, da un lato i principali progetti di sviluppo immobiliare si determinano come “eccezioni” rispetto a quest’ultimo, avvalendosi di un nuovo strumento normativo, il P.I.I. - Piano Integrato d’Intervento, introdotto nel 1992. Contemporaneamente, non s’interrompono gli sforzi per delineare una nuova immagine complessiva dell’area metropolitana, ormai irreversibilmente proiettata dalla tradizionale scala urbana a quella regionale. Dal documento di sintesi della Proposta di piano direttore territoriale dell’area milanese emergono le molte centralità che dovrebbero confrontarsi con quella della città storica e costituirsi come poli attrattivi al di fuori di essa. Al tempo stesso, e forse in maniera ancor più evidente, risaltano le geografie della pianura in cui sorge Milano: i parchi fluviali del Ticino e dell’Adda, i due corsi d’acqua che non l’attraversano ma che la irrigano da secoli grazie al sistema dei Navigli; i sistemi verdi che attraversano in direzione nord-sud l’urbanizzazione intensa della Brianza; infine, le aree della pianura asciutta, a nord, e di quella irrigua, a sud.
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PROGETTO MILANO RAGGI VERDI Curatore: LAND - Andreas Kipar 2008
← Fonte: LAND, studio internazionale di architettura del paesaggio
Nel 2008 AIM - Associazione Interessi Metropolitani e LAND, lo studio di architettura del paesaggio fondato da Andreas Kipar e Giovanni Sala, propongono al Comune di Milano un progetto che è soprattutto una nuova immagine per l’area metropolitana. La mappa dei così detti “raggi verdi”, poi adottata dall’amministrazione come visione di riferimento, si basa in primo luogo sul censimento di tutte le aree e gli elementi verdi già esistenti in città, dai parchi urbani a quelli regionali fino ai viali alberati. Questo patrimonio è ricondotto ad uno schema composto da otto sistemi radiali, concepiti come sequenze continue di parchi, spazi pedonali e ciclabili. Tutti hanno origine nel centro di Milano e si ramificano verso l’area metropolitana, fino ad incontrare un anello verde che, teoricamente, potrebbe ospitare un percorso ciclabile anulare di 72 km. Il progetto Milano Raggi Verdi ha il merito di aver proposto e visualizzato per la prima volta il verde come elemento strutturante all’interno della città, e di aver dato un impulso notevole al dibattito sugli aspetti di sostenibilità ambientale dello sviluppo urbano.
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MAPPA DELLE CASCINE MILANESI Comune di Milano 2015
← Fonte: Ufficio stampa Comune di Milano Mappa aggiornata del 2020
L’Esposizione Universale del 2015, dedicata al tema Feeding the Planet, è stata il grande evento milanese degli anni 2010. Da un lato, Expo ha funzionato come volano per avviare o accelerare la trasformazione di molte aree urbane, tra cui i poli ad alta densità di City Life e Porta Nuova, oltre che lo spazio pubblico della Darsena. Al tempo stesso, è stata anche l’occasione per ribadire e potenziare, soprattutto sul piano culturale, il legame di Milano con il suo territorio, e in particolare con le grandi superfici agricole a sud del centro cittadino. La mappa realizzata proprio nel 2015 dal Comune e dal Touring Club Italiano, e poi aggiornata a più riprese negli anni successivi, mette in evidenza la presenza, all’interno dei confini amministrativi di Milano, di ben trenta cascine ancora in attività, per la maggior parte localizzate nel Parco Agricolo Sud. Tra le pieghe di questa rappresentazione semplificata, a chiara vocazione turistica, si riscopre la configurazione peculiare del territorio milanese: a nord, le alte pianure asciutte, i territori della Rivoluzione Industriale che cominciò qui prima che in qualsiasi altra parte d’Italia; a sud, le basse pianure irrigue, che l’acqua delle risorgive rende fertili e adatte alle coltivazioni intensive.
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DOVE ↓ SI È FATTA di Davide Mosca
Da Totò ad Andrea Pinketts, attraversando balere, filovie e parchi: Milano è stata il luogo preferito di molti artisti che ne hanno fatto la scenografia preferita delle loro opere (e della loro vita).
LA ↙ CULTURA URBANO
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Totò Peppino e la malafemmina
Il film del 1956 è immediatamente diventato icona di quell’idea di Nord che si aveva nelle zone meridionali d’Italia: freddo (in tutti i sensi), nebbioso, dove si parla una lingua incomprensibile. Totò e Peppino infatti ci arrivano vestiti da cosacchi, nonostante la sfavillante primavera.
2 Rocco e i suoi fratelli
La storia di emigrazione e di realizzazione negli anni del boom economico italiano racconta l’intreccio tra i cambiamenti sociali della città e dei personaggi, tra cui spiccano un venticinquenne Alain Delon e Claudia Cardinale, al primo lavoro con il regista Luchino Visconti, che li dirigerà entrambi anche ne “Il Gattopardo” del 1963.
Totò 1
3 Dino Buzzati
2
1. Piazza 24 Maggio
3
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M
ilano è la città di chi arriva. Ci arrivano Totò e Peppino alla ricerca della malafemmina, e del nipote malandrino, nel quasi omonimo film del 1956. Ci arrivano vestiti da cosacchi, nonostante la sfavillante primavera, convinti di ritrovarsi in una metropoli dal clima russo e dai modi tedeschi, una città dove la nebbia c’è anche se non si vede e le persone non parlano l’italiano nonostante lo siano. La celebre domanda all’ignaro vigile «Excuse me… bittescèn, noyo volevàn savuàr l’indiriss… ja», rivela tra le righe l’idea, più o meno inconsapevole ma consolidata, dell’internazionalismo del capoluogo lombardo. La risposta del vigile sarà però in meneghino, ulteriore segno di contraddizione. A Milano, e più precisamente alla Bovisa, ci arrivano pure Rocco e i suoi fratelli, nel film del 1960 di Luchino Visconti. Alla morte del padre, quattro fratelli lucani insieme alla madre si trasferiscono al Nord per ricongiungersi con il fratello maggiore ed iniziare una nuova vita. Qualcuno la troverà, qualcuno la perderà. Storia di emigrazione e di realizzazione negli anni del boom economico, racconta l’intreccio tra i cambiamenti sociali della città e quelli psicologici dei personaggi. Due dei fratelli si innamorano della stessa donna e per una serie di ragioni finiscono entrambi per intraprendere la carriera pugilistica, seppure con risultati diversi, e per incrociare i guantoni anche nella vita. Buona parte delle riprese si svolse nella palestra di via Bellezza, oggi sede dell’Arci Bellezza, a due passi dall’università Bocconi e dal parco Ravizza. Il locale è una delle isole più significative di quell’arcipelago meneghino di ritrovi popolari – di cui fanno parte per esempio il Circolo Ex combattenti e reduci di Porta Volta, la Bocciofila di Villapizzone, la Balera dell’Ortica, Sala Venezia presso l’omonima porta, la Trattoria da Lina Orsolina dietro Conca del Naviglio – che rappresentano il crocevia dei milanesi di ogni estrazione sociale, dove il pensionato balla con la regista acclamata, o l’aspirante scrittore siede al tavolo con chi possiede la casa editrice. Il film di Visconti si ispirò ai racconti di Giovanni Testori, autore che dedicò al capoluogo lombardo un intero ciclo di opere, I segreti di Milano, composto da Il ponte della Ghisolfa, La Gilda del Mac Mahon, La Maria Brasca, L’Arialda e Il Fabbricone,
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L’architetto Antonio Dorigo è il protagonista di “Un amore” (1959), romanzo capitale di Dino Buzzati. Al centro, il monologo interiore del protagonista, incapace di entrare in confidenza con le donne. Qui Milano diventa ambientazione viva, e aiuta a rendere ancora più concrete le emozioni e la psicologia, grazie al suo essere scenario di una borghesia nel pieno del suo boom, a metà tra fascino ed orrido.
4 Andrea Pinketts
Milanesissimo, caricatura bella e cantore della Milano notturna, Andrea Pinketts era un amante di Milano, delle sue strade, che ogni giorno percorreva per chilometri a piedi, ha qui ambientato molti dei suoi romanzi noir dove il protagonista, Lazzaro Santandrea, è il suo alter ego.
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ciclo a cui si può ascrivere anche il postumo Nebbia al Giambellino. Fu un cantore delle periferie, lui che proveniva da Novate Milanese, parte di quella cintura di comuni popolosi, spesso dai nomi bizzarri, che stringe da ogni parte Milano, città concentrica per eccellenza, con la cerchia dei bastioni, le tre circonvallazioni, le tangenziali e appunto l’hinterland, da cui in qualche modo si arrivava in centro, mentre nelle periferie si rimaneva, almeno in quegli anni. Sono state le mie prime zone milanesi, vivevo a due passi da MacMahon – perché a Milano i nomi vorranno pure gli articoli ma non i toponimi –, prendevo il pigro e sferragliante tram 1 per il centro, andavo a correre al parco di Quarto Oggiaro o al Trenno, passeggiavo all’ombra del gasometro, frequentavo la Triennale Bovisa che, nata per riqualificare Villapizzone, resistette appena una manciata d’anni, prima di diventare uno spiazzo abbandonato da riqualificare a sua volta. Le persone del quartiere mi raccontavano delle retate della polizia e degli anni duri del passato, gli stessi in cui Ferdinando di Leo girò la Trilogia del milieu, tra cui spicca Milano Calibro 9 (1972), film di genere noir, o polizziottesco, a cui si ispirò niente meno che Quentin Tarantino. A sua volta Di Leo aveva attinto a piene mani dai libri di Giorgio Scerbanenco, tra i più milanesi degli scrittori non milanesi, lui che era nato a Kiev e che in città c’era arrivato per lavorare e lavorare sodo, in perfetto stile locale. Per ben altri motivi in città ci arriva il protagonista della Vita agra, che lascia moglie e figlioletto in Toscana e si trasferisce nel capoluogo meneghino per far esplodere un grattacielo, e vendicare così i minatori morti in un incidente causato dalla scarsa sicurezza sul lavoro e dall’ansia di profitto dei padroni lombardi. Desisterà e finirà per muoversi in bilico tra il desiderio di far saltare il sistema e quello di integrarsi. L’odio si mischia fatalmente all’amore, come quando esplorando Brera non può che definirla con trasporto una piccola Montmartre. Aveva seguito gli stessi passi l’autore del romanzo, il toscano Luciano Bianciardi: «Anziché mandarmi via da Milano a calci in culo, come meritavo, mi invitano a casa loro», ebbe a dire una volta, per sottolineare un certo potere di Milano di tenere legati a sé perfino i più critici, contraddizione nella contraddizione. La chiusura del cerchio è ancora più evidente nell’omonimo film (1964) di Carlo Lizzani, in cui Ugo Tognazzi finisce per far carriera proprio in quel “Torracchione” che era venuto a far esplodere. Sempre a Brera aveva scelto di abitare la piemontese Lalla Romana, che ambienta nei noti quartieri milanesi parti del suo Le parole tra noi leggere, premio Strega 1969, in cui racconta del rapporto travagliato con il figlio, per cui Cuneo rappresenta gli anni della libertà e Milano il mondo degli adulti, con tutti i suoi inevitabili conflitti. A Milano c’era arrivato pure il siciliano Elio Vittorini, che gli dedicò Uomini e no, romanzo ambientato nella città occupata dai nazisti, prima opera a raccontare la Resistenza italiana. «L’inverno del ’44 è stato a Milano il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo; nebbia quasi mai, neve mai, pioggia non più da novembre, e non una nuvola per mesi; tutto il giorno il sole. Spuntava il giorno e spuntava il sole; cadeva il giorno e se ne andava il sole. Il libraio ambulante di Porta Venezia diceva: “Questo è l’inverno più mite che abbiamo avuto da un quarto di secolo. È dal 1908 che non avevamo un inverno così mite”». A questo incipit fa eco un passo di Un amore, romanzo capitale di Dino Buzzati, un altro che a Milano c’era arrivato: «Era una delle tante giornate grigie di Milano però senza la pioggia, con quel cielo incomprensibile che non si capiva se fossero nubi o soltanto nebbia al di là della quale il sole, forse». Al di là delle ossessioni meteorologiche di registi e scrittori piovuti a Milano, in quasi tutte le opere più significative restano sempre centrali i conflitti verso i valori, o disvalori, che la metropoli incarna più di ogni altra città italiana, e con cui è impossibile non fare i conti. Città di cerchi, di pendolarismi perpetui, di periferie, Milano è perno di continui movimenti centripeti e centrifughi. Dalle periferie al Duomo si muove anche la linea narrativa di Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica, ma con unʼulteriore tappa finale, giacché nell’ultima scena i protagonisti spiccano il volo dal sagrato in sella alle scope rubate ai netturbini. L’idea fu poi presa in prestito da Spielberg per ET e da Rowling per Harry Potter, per non parlare di Garcia Marquez che giurava di aver attinto da questa pellicola il realismo magico che l’ha poi reso celebre. Sulla direttiva opposta si muove invece Jeanne Moreau – nella Notte (1961) di Antonioni – che nei suoi vagabondaggi esistenziali ed estatici punta verso la periferia,
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5 Elio Vittorini
Siciliano, cosmopolita, con l’America nel cuore (è grazie a lui, oltre a Fernanda Pivano e Cesare Pavese se si è iniziato a leggere gli americani in Italia), Elio Vittorini ambienta a Milano il suo romanzo della resistenza, “Uomini e no”, il primo a raccontarla nel 1945.
6 Giovanni Testori
Il film di Visconti “Rocco e i suoi fratelli” si ispirò ai racconti di Giovanni Testori, autore che dedicò al capoluogo lombardo un intero ciclo di opere, “I segreti di Milano”, composto da cinque romanzi.
7 Alda Merini
Alla poetessa dei Navigli Milano non poteva che intitolare il ponte sul Naviglio Grande, poco distante dalla sua abitazione, in via Magolfa, che oggi è diventata lo Spazio Alda Merini, che è possibile visitare per immergersi nella forza della vita della poetessa.
8 Milano Calibro 9
Non tutte le zone di Milano hanno vissuto soltanto momenti luminosi. La periferia spesso è stata scenario di degrado e lotte sociali. In queste zone, negli Anni ’70 trova terreno fertile infatti il genere del noir o del poliziottesco di Ferdinando di Leo, che alla Bovisa girò la “Trilogia del milieu”, tra cui spicca “Milano Calibro 9” (1972).
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attraversando una città straniante di specchi, acciai, cantieri, dove l’architettura è in diretto e continuo rapporto con la psiche dei personaggi, in un susseguirsi di memorabili inquadrature figlie delle opere di De Chirico e Sironi, altri due che a Milano c’erano arrivati. Di movimenti cittadini era espertissimo Andrea Pinketts, che in città invece c’era nato e di cui «conosceva i nomi di tutte le vie», e che ogni giorno la percorreva per chilometri a piedi, facendo tappa in vari ritrovi lungo il tragitto, con meta finale il suo amato Trottoir, anche quando il Trottoir si spostò in Darsena, poco distante dalla casa di Alda Merini, la poetessa dei Navigli, di cui il nostro era stato amico e di cui mi parlava volentieri, ogni sera alle sei, perché come ogni vero avventuriero era abitudinario. Sempre di movimenti è fotografo Uliano Lucas, che ha ritratto la Milano delle periferie, degli scontri sociali, dell’immigrazione, ma anche la città dei ritrovi intellettuali, come il bar Jamaica. Ed è forse nei locali che si perpetua ancora oggi la leggenda narrativa di Milano. Una dozzina di anni fa lavoravo al Saggiatore, in via Melzo. Un paio di portoni accanto si aprivano le due vetrine del bar Picchio, che Picchio non s’era mai chiamato, lo si chiamava così per la marca del caffè che serviva, e alla fine anche i proprietari si erano abituati a quella metonimia. A un’altra cosa si abituarono poi, alla trasformazione e al successo del proprio bar. All’epoca era famoso per il pranzo, la focaccia pugliese, le mozzarelle in carrozza e altre caloriche leccornie. Aprivano la mattina presto e chiudevano prima di cena, un grande biliardo inutilizzato si portava via una buona porzione del locale, gli arredi risalivano agli Anni ’60. Una sera, alla festa natalizia della casa editrice, finì il vino, e finì che lo comprammo al Picchio che restò aperto oltre il consueto orario ritrovandosi sommerso da una fiumana di persone. Da quel giorno non chiuse più la sera, diventando uno dei locali più affollati della città, capace di riempire l’intera via. C’è almeno un’altra dozzina di leggende su come è nata la favola del Picchio, altrettanto vere, come solo le leggende lo sono, e almeno due o tre provengono da scrittori o sceneggiatori, e allora non finirà presto in qualche opera? Di leggende e molto altro è zeppa l’Adalgisa di Gadda, forse la più importante delle eccezioni, perché il Gran lombardo a Milano c’era nato. A pareggiare i conti resta che il suo romanzo più famoso è invece dedicato a Roma, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, e che l’Adalgisa risale agli anni precedenti la Seconda guerra mondiale, forse il vero spartiacque per la mitopoiesi cittadina, che da quel momento in avanti sembra diventare appannaggio dei milanesi acquisiti. L’Adalgisa rappresenta invece la Milano del primo Novecento nella sua totalità, un mosaico di frammenti narrativi che scandagliano ogni aspetto, in particolare le donne, vera anima della città. «La forma di una città cambia più presto, ahimé!, che il cuore di un mortale», scrisse Baudelaire citato da Gadda. E noi non ci stanchiamo mai di raccontarlo. ●
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9 Giorgio De Chirico
Dopo la nascita in Grecia e aver frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Firenze e Monaco di Baviera, Giorgio de Chirico raggiunge nel 1909 la famiglia a Milano, per poi spostarsi a Parigi dove conoscerà Picasso e Ferrara, dove darà il via alla sua rivoluzione pittorica vera e propria.
10 La Notte
Nuova borghesia, boom economico, architetture affilate sono la scenografia del film che fa da tassello intermedio a quella che viene comunemente definita la “Trilogia dell’incomunicabilità” di Michelangelo Antonioni. Ne “La Notte” (1961) Milano viene attraversata in poco più di ventiquattro ore dallo scrittore Marcello Mastroianni, diviso tra due donne, la moglie Lidia (Jeanne Moreau) e la giovane e misteriosa Valentina (Monica Vitti).
11 Miracolo a Milano
Di povertà e di voglia di uscire dal duro secondo Dopoguerra si parla in uno dei film che hanno segnato il distacco del regista dal Neorealismo italiano: “Miracolo a Milano” (1951). Il film di Vittorio De Sica, girato vicino a Lambrate, mescola fortuna e disperazione, realismo e fantasia quasi a riprendere Frank Capra e anticipare Steven Spielberg.
Mentre si moltiplicano in tutta Milano i parchi, le pedonalizzazioni e le nuove piazze, temporanee o permanenti, sfuma rapidamente nell’immaginario collettivo la percezione, un tempo radicata, del capoluogo lombardo come città priva di spazi pubblici. È vero, d’altra parte, che Milano ha una lunga tradizione di costruzione di interni di qualità, nati anche per sopperire alle mancanze di un contesto urbano più funzionale che confortevole. Sono interni in senso lato i cortili in cui si svolgeva la vita collettiva delle grandi
GLI INTERNI. LA VITA DENTRO CASA
case operaie di ringhiera; e lo sono anche le fastose portinerie ed ingressi a cui Taschen ha recentemente dedicato una preziosa pubblicazione (Karl Kolbitz, Ingressi di Milano, 2017). Nel corso del XX secolo e fino ad oggi, l’abitazione borghese e alto borghese è stata uno dei temi ricorrenti nella progettazione degli interni di Milano. La breve raccolta presentata in queste pagine racconta le evoluzioni, le varianti, le convenzioni e le stravaganze che hanno segnato la storia della casa milanese negli ultimi cent’anni.
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Anni ’20 Casa della Meridiana Via Marchiondi 3, Milano 1925–1926 Progetto: Giuseppe De Finetti Sono destinati alla borghesia benestante i cinque appartamenti della Casa della Meridiana, progettata da Giuseppe De Finetti all'interno di un antico giardino in zona Porta Romana. Nell’articolazione dei volumi e degli spazi interni dell’edificio si nota l'influenza di Adolf Loos, il maestro austriaco di De Finetti; nelle sue decorazioni, scarne e di ascendenza classica, quella dello “stile Novecento” in voga a Milano all’epoca. Non esiste un vano scale: si accede ad ogni appartamento direttamente dall'ascensore.
→ Fonte: Triennale Milano - Archivio Fotografico
Anni ’30 Casa Corbellini-Wasserman Viale Lombardia 17, Milano 1934–1936 Progetto: Piero Portaluppi Negli Anni ’30, Piero Portaluppi si fa portavoce a Milano di un gusto eclettico, che integra accenti déco e razionalisti. Lo testimoniano gli interni che realizza per l’alta borghesia della città: tra i tanti, la Casa Crespi di corso Venezia (1927–1930), la Casa Radici-Di Stefano di via Jan (1929–1931) e la casa Corbellini-Wasserman di viale Lombardia. Qui, nell’immobile d’affitto s’incastona la residenza signorile dei committenti, sconfinato appartamento su due piani ricco di marmi pregiati ed arredi disegnati su misura.
→ Foto: Antonio Paoletti. Fondazione Piero Portaluppi, Milano
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Anni ’40 Casa Albini Via De Togni, Milano 1940 Progetto: Franco Albini L’appartamento progettato da Franco Albini per la sua famiglia raggiunge la configurazione che mostrano le fotografie d’epoca poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Secondo un approccio tipico del razionalismo italiano, Albini crede nel dialogo tra storia e modernità: tra le tele antiche, variamente intelaiate e sospese, spicca l’audace tensostruttura della libreria del soggiorno. La leggenda vuole che lo stesso Albini raccontasse divertito del crollo improvviso dello scaffale, appena assemblato.
← Fonte: Fondazione Franco Albini
Anni ’50 Appartamento Minoletti Corso di Porta Romana, Milano 1959 Progetto: Giulio Minoletti Giulio Minoletti e Ignazio Gardella furono per lungo tempo vicini di casa, nei due condomini adiacenti che progettarono nell’antico Giardino d’Arcadia, in zona Porta Romana. L’appartamento di Minoletti è concepito come una lussuosa “villa sul tetto”, su due livelli, ricavata all’interno delle falde in pendenza imposte dal regolamento edilizio. Il lusso, qui, non è solo quello dei marmi, delle impiallacciature in noce, degli arredi d’autore. In piena Milano, le terrazze di casa Minoletti sono uno spazio panoramico, verdeggiante, persino dotato di una piccola piscina, un buen retiro urbano ma lontanissimo dalla città.
← Fonte: Mendrisio, Archivio del Moderno, Fondo Minoletti
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Anni ’60 Casa Blu Milano 1967–1972 Progetto: Nanda Vigo Accardi, Baj, Cascella, Dorazio, Fontana, Pomodoro, Schifano: sono gli autori di alcune delle opere esposte all’interno della Casa Blu di Nanda Vigo. Artista e designer, nella seconda metà degli Anni ’60 Vigo realizza a Milano una sorprendente sequenza di appartamenti monocromatici (blu, ma anche bianco, giallo, nero). Sono spazi domestici sperimentali, introversi, onirici, i cui confini sono smaterializzati dal colore e dalla luce. Solo quella artificiale, però, perché tutte le finestre sono oscurate, e la città dimenticata.
→ Fonte: Archivio Nanda Vigo
Anni ’70 Appartamento Aulenti Via Fiori Oscuri, Milano 1974 Progetto: Gae Aulenti Negli Anni ’70, Gae Aulenti ristruttura per sé stessa un appartamento in un palazzo settecentesco di via Fiori Oscuri, all’ombra dell’Accademia di Brera. La casa si organizza attorno alla grande zona giorno a doppia altezza, attraversata da una passerella in quota. Nel tempo, l’architetta friulana arricchisce questo spazio di un’ampia collezione di pezzi di design ed opere d’arte, oltre che di molti oggetti da lei disegnati. In questo ambiente di gusto eclettico ha sede oggi l’Archivio Gae Aulenti.
→ Foto: Santi Caleca
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Anni ’80 Casa Insinga Milano 1987–1989 Progetto: Umberto Riva Secondo Gabriele Neri, negli interni di Umberto Riva «i muri perimetrali offrono dei suggerimenti e diventano gli interlocutori di un dialogo spesso acceso, a volte conciliante, raramente acritico». Da questa conversazione derivano le geometrie complesse degli appartamenti progettati da Riva, percorsi da linee curve o spezzate, arricchiti da angoli acuti e da sporgenze e rientranze inattese, disponibili ad essere interpretate dagli abitanti. Casa Insinga, a Milano, è uno degli esempi più compiuti di questo approccio.
← Foto: Francesco Radino
Anni ’90 Casa di libri Milano 1993 Progetto: Rosanna Monzini «È facile farsi una casa con dentro una biblioteca. Ma una biblioteca con dentro una casa?». L’ha realizzata Rosanna Monzini a Milano, almeno secondo Marianna Contafiaba, che nel 1993 pone questa domanda ai lettori di Abitare. Su richiesta di committenti “bibliomani”, Monzini trasforma la soffitta di una casa di ringhiera in un appartamento che ruota attorno ad «un grande locale pieno di libri». I ballatoi, le scalette di ferro, i patii in quota e tutte le stanze sono pensati innanzitutto come luoghi ideali dove passeggiare o riposarsi, sempre con un volume in mano.
← Fonte: Studio Monzini-Raboni
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Anni 2000 Appartamento privato Milano 2006–2007 Progetto: Piero Lissoni / Lissoni Associati A metà degli Anni 2000 Lissoni Associati, lo studio di Piero Lissoni, progetta un grande appartamento nel cuore di Milano. Vi si mescolano soluzioni di chiaro stampo minimalista, ad esempio l’utilizzo insistito del bianco quale fondale uniforme di tutti gli ambienti, e sperimentazioni più audaci e quasi illusionistiche. In particolare, la libreria dell’ingresso e altri arredi e partizioni su misura, realizzati in lastre di vetro trasparente, sono diaframmi eterei che smaterializzano i confini reali dello spazio interno.
→ Foto: Tommaso Sartori
Anni 2010 Appartamento a Milano Jenner Milano 2017 Progetto: Dimore Studio È “senza censure” l’estetica degli interni di Dimore Studio, nelle parole dei suoi fondatori Emiliano Salci e Britt Moran. Nell’appartamento a Milano Jenner, come in tanti altri progetti, le atmosfere dei diversi ambienti si costruiscono più per addizione che per sottrazione, con la curiosità eclettica del collezionista, senza vincoli imposti a priori. Oggetti vintage e contemporanei, superfici antiche e di nuova realizzazione si fondono in ambienti esuberanti, dove la coordinata del tempo perde importanza a favore di quella del gusto.
→ Foto: Andrea Ferrari
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PROGET↗ TARE UN
In un secolo di storia, la biografia di Borio Mangiarotti ha incrociato le carriere dei progettisti che hanno disegnato la Milano moderna e contemporanea. Attraverso sodalizi duraturi o collaborazioni puntuali, l’impresa si è confrontata con le tipologie, i programmi e gli stili architettonici che si sono via via affermati in una città spesso all’avanguardia della disciplina. Così ha contribuito alla realizzazione di alcuni riconosciuti “capolavori” dell’architettura milanese: dal Palazzo Civita di Gigiotti Zanini (1933–1934) alla Chiesa dei SS. Giovanni Battista e Paolo di Figini Pollini (1964).
↓ SECOLO
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Anni ’20 Gigiotti Zanini
Pittore e architetto di origini trentine, Gigiotti Zanini non è il più conosciuto né il più prolifico tra i progettisti attivi a Milano tra le due guerre, ma le sue opere hanno ormai trovato un posto stabile, e meritato, nelle storie dell’architettura del XX secolo. Dagli edifici di Zanini, come da quelli coevi di Giuseppe De Finetti e Giovanni Muzio, traspare la volontà di “ritorno all’ordine” fatta propria dal movimento Novecentista, a cui erano tutti vicini. L’impaginato “ordinato” delle facciate di Zanini s’ispira alla tradizione dell’architettura classica, i cui stilemi, decontestualizzati e semplificati, sono assemblati secondo sequenze inedite sulla superficie dei prospetti. È soprattutto la coerenza di questo linguaggio ad accomunare tra di loro due edifici residenziali altrimenti molto diversi per localizzazione, committenza e scelte materiche come la Casa economica in via Pellegrino Rossi (1927) e il Palazzo Civita in piazza Duse (1933–1934). Sono due degli episodi più noti del periodo novecentista dell’architettura milanese che, seppur breve e definitivamente archiviato ben prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, riesce a connotare in maniera duratura il paesaggio urbano del capoluogo lombardo.
L’Hotel Touring in via Tarchetti (1923–1926), la Casa della Meridiana in via Marchiondi (1924–1925) e la Casa in via San Calimero (1929–1930) sono i più conosciuti dei non moltissimi edifici realizzati da Giuseppe De Finetti a Milano nei decenni compresi tra le due guerre mondiali. A discapito delle poche volumetrie costruite, però, De Finetti occupa una posizione centrale nel dibattito sull’architettura e l’urbanistica milanese dell’epoca. Nel 1927, partecipa con un gruppo di colleghi (tra i quali Giovanni Muzio e Gio Ponti) al concorso per il Piano Regolatore di Milano. La proposta Forma urbis Mediolani, pur scartata dalla giuria, risulta ancora oggi attuale nei suoi principi fondamentali: la lettura della città in relazione con il suo territorio; il rifiuto di una modalità di crescita radiocentrica; la ricerca di un’alternativa, almeno parziale, ai molti sventramenti paventati per il centro storico in un momento di forte crescita urbana. Questi ed altri temi s’incrociano nei moltissimi scritti di De Finetti su Milano, che nel 1969 sono stati raccolti nella colossale antologia Milano: costruzione di una città, a cura di Giovanni Cislaghi, Mara De Benedetti e Pier Giorgio Marabelli.
Anni ’30 Giuseppe De Finetti
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Anni ’40 Studio Ing. Giuseppe Casalis (Arch. Pietro Lingeri e altri)
Le opere milanesi più conosciute di Pietro Lingeri sono quelle realizzate nel periodo tra le due guerre in associazione con Giuseppe Terragni (1904–1943), tra i principali esponenti del razionalismo italiano. In particolare, nel corso degli Anni ’30 il duo costruisce una serie di edifici di abitazione, tra cui le Case Ghiringhelli, Toninello, Lavezzari e soprattutto la celebre Casa Rustici in corso Sempione (1933–1935), che stupisce per l’inusuale trattamento della facciata su strada, come superficie permeabile definita da una sequenza di balconate a ponte. Sciolto il sodalizio con Terragni, che muore nel 1943, nell’immediato Dopoguerra Lingeri progetta con Giuseppe Casalis, Sandro Tibaldi e Umberto Busca il nuovo Palazzo per uffici De Angeli Frua in via Paleocapa, i cui cantieri si avviano già nel 1947. Si tratta di uno dei primi edifici terziari della Milano postbellica. La costruzione del complesso segue un iter molto sfortunato, che comporta un sostanziale ridimensionamento della proposta iniziale e la prosecuzione del cantiere per quasi vent’anni, fino al suo completamento nel 1966. D’altra parte, il suo interesse sul piano costruttivo e la sua qualità architettonica sono tali che nel 1954 Piero Bottoni decide d’includerlo, pur allo stato di sola struttura incompiuta, nella sua celebre Antologia di edifici moderni di Milano. Lingeri prosegue la sua carriera fino all’inizio degli Anni ’60, realizzando molti edifici di abitazione borghesi nei quartieri centrali di Milano, e partecipando in parallelo a numerose operazioni del piano INA Casa.
Progettista prolifico quanto potente, Giovanni Muzio attraversa da protagonista almeno sessant’anni di architettura milanese. Rappresentante di spicco del movimento novecentista tra gli Anni ’20 e ’30, nei decenni successivi è in grado di aggiornare in maniera convincente il proprio repertorio linguistico, restando sempre fedele ad una visione di fondo della modernità basata sul dialogo con la tradizione. Tra i molti incarichi ricevuti (dal Palazzo dell’Arte, inaugurato nel 1935, al Monastero dell’Angelicum, del 1939–1942, fino alla Torre Turati in piazza della Repubblica, terminata nel 1968) spiccano, per la loro estensione e monumentalità, i tanti isolati residenziali. La Ca’ Brutta in via Turati (1919–1922), le Case Bonaiti e Malugani in piazza della Repubblica (1935–1936) e l’isolato INA in via Andrea Doria (1964–1967) s’inseriscono in un percorso ininterrotto e coerente di ricerca tipologica, che vuole definire un compromesso positivo tra le esigenze di densità dettate dalla promozione immobiliare e la necessaria qualità degli spazi privati e pubblici della città.
Anni ’50 Giovanni Muzio
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Anni ’60 Luigi Figini Gino Pollini
Luigi Figini e Gino Pollini sono tra i capifila del Movimento Moderno italiano. Nel 1926 partecipano alla formazione del Gruppo 7, un collettivo di altrettanti architetti che s’impegna in un processo d’importazione e di traduzione critica delle istanze del razionalismo europeo, e in particolare del pensiero di Le Corbusier. Le pressioni crescenti del regime fascista, sempre più diffidente verso le posizioni avanguardistiche del gruppo, ne determinano lo scioglimento prematuro dopo un solo lustro. Figini e Pollini proseguono la loro attività da progettisti, in particolare nel capoluogo lombardo. Si deve a loro, ad esempio, uno dei simboli della Milano moderna, come il Palazzo per abitazioni ed uffici in via Broletto (1947–1948), saggio audace e sensibile d’inserimento di un’opera moderna in pieno centro storico. Già alla metà degli Anni ’50, e più intensamente nel decennio successivo, Figini e Pollini si avvicinano ad un linguaggio ed a scelte materiche più propriamente brutaliste: testimoniano questa svolta, ad esempio, l’Edificio per albergo ed abitazioni in Largo Augusto (1961–1965) e la Chiesa dei SS. Giovanni Battista e Paolo alla Bovisa (1964).
Anni ’70 Maria Rosa Zibetti Ribaldone
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Poco o nulla è stato scritto sull’opera di Maria Rosa Zibetti Ribaldone, architetta lombarda ancora attiva con lo studio che guida a Gallarate insieme al figlio Stefano Ribaldone. Della sua produzione è stata per il momento riscoperta solo la piccola quanto spettacolare chiesa di San Paolo Apostolo (1968–1973, con Benvenuto Villa), alla periferia della cittadina del Varesotto. Gli spazi dell’aula sacra e delle sue pertinenze sono definiti attraverso la giustapposizione e l’intersezione di gusci morbidamente ricurvi di cemento a vista. In questo caso, l’approccio plastico all’oggetto architettonico avvicina la ricerca di Zibetti Ribaldone a quella di altri progettisti atipici nel panorama della tarda modernità italiana, da Mario Galvagni (1928–2020) a Vittorio Giorgini (1926– 2010) a Carlo Moretti (1931), ma anche ad un maestro riconosciuto come Giovanni Michelucci (1891–1990). Al contrario, nel quartiere “Le Azalee” (1978–1980), sempre a Gallarate, geometrie rigorose e spoglie, d’ispirazione brutalista, connotano un intervento interessante soprattutto per la ricerca sulla singola unità abitativa, sull’ottimizzazione e la qualità dei suoi spazi.
Anni ’80 Studio associato G. Bentivoglio e G. Brighi Foto: Michele Nastasi
Anni ’90 Arch. Guido Veneziani Studio EKOS
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Lo studio associato di Giancarlo Bentivoglio e Guido Brighi, con sede a Milano, si occupa della realizzazione d’interni per residenze, uffici e negozi, oltre che di progettazione architettonica. Il loro progetto più noto è l’edificio residenziale completato in via Arena all’inizio degli Anni ’90. Nel contesto delicato del quartiere di Porta Ticinese, il complesso si segnala per l’interessante soluzione delle finestre ad angolo, schermate da persiane a pacchetto in legno, oltre che per la complessiva eleganza nella composizione dei volumi. Bentivoglio e Brighi proseguono la tradizione architettonica tipicamente milanese del condominio borghese, con un’opera in cui risuonano echi dei migliori progetti di maestri del ’900 come Vico Magistretti (1920–2006), Angelo Mangiarotti (1921–2012) e Bruno Morassutti (1920–2008).
Tra gli Anni ’50 e ’60, Guido Veneziani collabora con un maestro dell’architettura milanese come Vico Magistretti per uno dei suoi migliori progetti, la Casa in via Leopardi. Successivamente fonda lo Studio EKOS, attivo a Milano negli Anni ’80. Tra le principali realizzazioni di quel decennio, spicca il Mercato ittico e floricolo in via Cesare Lombroso (1989–1992), rappresentativo del linguaggio architettonico postmoderno tipico dell’epoca.
Anna Giorgi and Partners è lo studio fondato da Anna Giorgi e Andrea Beretti, con sede a Milano, città nella quale ha realizzato la maggior parte dei suoi incarichi. L’intervento più visibile e prestigioso, per la posizione strategica e la qualità del contesto, è certamente la realizzazione del parcheggio sotterraneo e la riqualificazione dello spazio pubblico in piazza Sant’Ambrogio (2013). Anna Giorgi and Partners, inoltre, ha collaborato con Antonio Citterio e Patricia Viel per la costruzione dell’imponente complesso residenziale in via Lomazzo (2011) dominato da un volume a torre, arretrato e ruotato rispetto al suo basamento allineato alla cortina storica della via. Tra i progetti dello studio si contano anche l’edificio per abitazioni in via Cefalù, al quartiere Gallaratese, e numerose ristrutturazioni di immobili di prestigio nel centro storico di Milano, da Foro Bonaparte a via De Togni.
Anni 2000 Studio Anna Giorgi and Partners Anni 2010 Sonia Calzoni, Calzoni Architetti Foto: Filippo Bamberghi
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Attivo a Milano da tre decenni, Calzoni Architetti, lo studio di progettazione fondato da Sonia Calzoni, ha dato un contributo notevole alla costruzione del paesaggio della città contemporanea. Al suo attivo ha un portfolio di realizzazioni molto variegato per scala e programma. Negli anni, Calzoni Architetti si è occupato di allestimenti, ad esempio per la mostra Luigi Ghirri. Il paesaggio dell’architettura alla Triennale di Milano (2018, a cura di Michele Nastasi) e di progetti d’interni, tra cui la “Soglia Magica” all’ingresso del terminal 1 dell’aeroporto di Malpensa (2010, con Pierluigi Nicolin) ed il padiglione Cova Garden nel cortile della storica pasticceria Cova (2019), ma l’attività dello studio si è concentrata soprattutto alla scala dell’edificio. L’“Arsenale” in via Tortona (2010), riconversione ed ampliamento di un capannone esistente, è tra le sue realizzazioni più iconiche e più riuscite. Più recentemente Calzoni Architetti ha completato il centro “The Hub” per la Comunità Nuova-Don Gino Rigoldi in via Parri (2013–2016). Oggi sono nel team che ha vinto il concorso per il restauro delle Torri dell’Eur a Roma.
UN CANTIERE → ← COSTANTE 100 anni di attività. 100 anni di costruzioni, di progettazioni, di sfide. Un racconto che parte dalle origini, dai cantieri di Borio Mangiarotti, e che si sviluppa attraverso l’evoluzione delle costruzioni, dei metodi, delle tecnologie e dei materiali.
← Anni ’20 Ristrutturazione del Majestic Hotel Diana, viale Piave, Milano Progetto: Arch. Giuseppe De Finetti 1926–1930
Nato come piscina comunale per l’alta borghesia milanese, la struttura viene trasformata nell’Hotel Diana nel 1909–1910 grazie al progetto dell’ingegnere Achille Manfredini. Nel 1926 inizia un’importante opera di ristrutturazione a cura dell’architetto Giuseppe De Finetti che durerà fino al 1930: in particolare i lavori interessano gli impianti tecnici, sanitari e idraulici, le camere, le sale di ricevimento e soggiorno. Di notevole rilevanza è la riforma del sistema dei saloni al piano terra, nei quali, oltre alle nuove decorazioni, viene aggiunta una nuova sala semicircolare ampiamente finestrata e rivolta verso il giardino.
Testi tratti da Borio Mangiarotti 1920-2015, a cura di Raffaella Poletti, 2014
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↑ Anni ’30 Stabilimento A. Tonolli & C., Paderno Dugnano Progetto: Ing. Aldo Gianni 1938–1941 Durante gli Anni ’30 viene costruito lo stabilimento Tonolli, progettato dall’ingegnere Aldo Gianni. La struttura comprende un fabbricato per gli uffici e gli alloggi dei lavoratori, una strada e un piazzale da cui si accede e un rifugio antiaereo. Rappresenta uno dei primi esempi di edilizia con componenti prefabbricate, che vengono utilizzate per la copertura di capannoni a ventuno, dodici e otto capriate. Questi pezzi sono creati armando e gettando il calcestruzzo all’interno di casseformi sovrapposte che permettevano di produrre tre o quattro capriate per volta, che venivano successivamente disarmate e poi montate attraverso delle gru poste al piano di copertura.
↙ Anni ’40 Tre gruppi di fabbricati industriali nello stabilimento Pirelli alla Bicocca, Sesto San Giovanni, Milano Progetto: Ufficio Tecnico Pirelli 1939–1945 All’alba degli Anni ’40 Pirelli inizia la costruzione di tre grandi reparti in Bicocca, ancora oggi presenti nonostante le molteplici modifiche apportate allo stabilimento nel corso del tempo. In particolare, il primo ad essere costruito è il fabbricato 143, verso viale Fulvio Testi, mentre il più esteso è il 157, caratterizzato da ampie vetrate con lunghe sequenze di aperture rettangolari alte 15 metri. Come gran parte delle costruzioni della “cittadella” Bicocca anche questi gruppi sono strutturati con travi e pilastri in cemento armato e copertura a capriate. Dopo la guerra vengono fatti ulteriori lavori. Nel 1945 vengono sistemate la cucina e il refettorio degli operai nel fabbricato 105 e, nel 1952, nel corpo centrale è stato completato il reparto 43 e il sistema fognario del reparto 11.
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↑ Anni ’50 Edifici INA-Casa e IACP nel quartiere Baggio II, via Forze Armate 202/2, Milano Progetto: Arch. Ezio Cerutti, Ing. Aldo Putelli, Studio Sociale di Architettura 1951–1952 Baggio II è un quartiere realizzato per far fronte alla grande domanda di case dovuta ai flussi migratori postbellici e rappresenta il primo esempio di quartiere autosufficiente. Al progetto, realizzato congiuntamente da INA-Casa e IACP Milano, hanno lavorato professionisti già esperti nella realizzazione di case popolari. Le costruzioni sono caratterizzate, da un lato, da una “lottizzazione razionale”, con gli edifici sorti intorno ad aree verdi come gli asili, le scuole, la parrocchia; dall’altro lato si riscontra una certa “umanizzazione” dei tratti sterili tipici dei quartieri popolari, grazie all’introduzione di alcuni elementi come tetti, cornici aggettanti, grondaie, finestre verticali. Un progetto rilevante anche per l’introduzione e la sperimentazione di nuovi sistemi industriali quali: i blocchi brevetto ABRO per murature perimetrali e di colmo in calcestruzzo, i solai SAPAL, le scale in graniglia prefabbricate e, nel settore dell’impiantistica, i blocchi idrico-sanitari brevetto Togni per bagni e cucine.
↑ Anni ’60 Autosilo, via Santa Sofia 8-10, Milano Progetto: Ing. Giuseppe Invitti 1967–1968 Progettato dall’ingegnere Giuseppe Invitti, l’autosilo, ubicato in un cortile interno di via Santa Sofia, è costituito da una grande vasca di 1.700 mq di superficie e di 23 metri di profondità. Si tratta di un’opera di enorme complessità: 350 posti macchina, servizio automatico di smistamento delle vetture mediante torri scorrenti su binari, rampe di accesso e di uscita, un salone di servizio, spazi per uffici, per i servizi e per una centrale elettrica. L’autosilo è realizzato con paratie sistema SICOS e solettone di fondo in cemento armato entro cui si inseriscono le strutture di pareti e solette. Queste delineano in orizzontale e in verticale gli spazi per i box e sono staticamente solidali con l’involucro esterno, ma da esso separate mediante un intercapedine perimetrale contenente scalette di ferro e ripiani pedonabili muniti di griglie per l’aerazione.
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Foto: Michele Nastasi
↑ Anni ’70 Quartiere residenziale “Le Azalee”, Cajello, Gallarate (Varese) Progetto: Arch. Maria Rosa Zibetti Ribaldone, Arch. Enrico Langini, Ing. Giovanni Moglia 1978–1980 Primo esempio di edilizia convenzionata in diritto di superficie con concessione per 99 anni (legge 865 del 22 ottobre 1971), il quartiere (40.269 mq) si sviluppa tra numerosi percorsi pedonali, comode vie di accesso per le vetture, box sotterranei e una ricca varietà di servizi essenziali che spaziano dai negozi al verde attrezzato. Gli edifici, a impianto rettilineo, sono raggruppati a incroci ortogonali, con un’area centrale alberata e attorniata da porticati che consentono di passare da un palazzo all’altro attraverso un percorso pedonale coperto. All’interno dell’area sono presenti 323 alloggi di diverse tipologie con dimensioni che variano da 45 mq a 110 mq. Ogni appartamento dispone inoltre di un doppio affaccio e di balconi che vivacizzano l’aspetto del quartiere.
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← Anni ’80 Ristrutturazione e nuovo edificio residenziale, via Arena, angolo via Panzeri, Milano Progetto: Architetti Gianemilio e Piero Monti 1986 Ubicato in una zona centrale della città, l’edificio tra via Arena e via Panzeri è sottoposto, negli Anni ’80, a un’importante ristrutturazione basata sul progetto dello studio G.P.A. Monti. Nonostante lo stato di profondo decadimento in cui versa l’edificio a causa dell’incuria e di alcuni interventi fatti, il palazzo presenta interessanti elementi architettonico-ambientali che sono stati recuperati e valorizzati grazie a questo intervento: ne sono un esempio le colonne di granito che caratterizzano il porticato sul cortile interno, tipiche di molte abitazioni milanesi, che sono state recuperate dai progettisti mantenendo intatta la loro identità ma aggiungendo un tocco di modernità.
→ Anni ’90 Costruzione di autorimesse interrate su tre piani, via Mascagni, Milano Progetto: Studio di Architettura EKOS, Arch. G. Veneziani & C. S.r.l 1991–1994 Sono anni in cui l’azienda diversifica la propria attività cimentandosi nella costruzione di numerosi parcheggi sotterranei, un’attività che prevede uno studio approfondito di soluzioni tecnologiche sempre più complesse soprattutto dal punto di vista della logistica di cantiere e della viabilità provvisoria di superficie. Il primo progetto è il parcheggio in via Mascagni, un’autorimessa di tre piani con una capienza di 900 posti auto.
Foto: Michele Nastasi
↑ Anni 2000 Villaggio Barona, via E. Ponti/via B. Zumbini/via I. Svevo, Milano Progetto: Arch. Pier Luigi Saccheri 2002–2008 Committente: Fondazione Attilio e Teresa Cassoni Il Villaggio Barona rappresenta il primo progetto di housing sociale a Milano: un nuovo modo di concepire e strutturare gli spazi comuni e quelli privati, in cui tutto è guidato dalla funzione sociale. All’interno del Villaggio convivono varie realtà: edifici per la residenza sociale, organizzati su due strutture allineate per un totale di 82 appartamenti di diverse metrature, una galleria commerciale coperta, giardini e parchi di quartiere, una palestra, un ristorante, un auditorium, una biblioteca e un anfiteatro. Oltre a queste è presente anche un pensionato sociale integrato suddiviso in cinque nuclei indipendenti adatti ad ospitare dalle venti alle trenta persone in camere doppie e singole, con spazi comuni come ad esempio la sala lettura e tv, liberamente fruibili dagli ospiti.
↘ Anni 2010 Complesso residenziale Miwest, via F. Parri, Milano Progetto: Arch. Gilberto Arnaboldi 2010-2013 + Complesso residenziale Parri Sud, via Parri, Milano Progetto: Susanna Rosellini 2011–2015 Su via Parri, due sono gli interventi realizzati: uno a nord e uno a sud. L’intervento a nord comprende la realizzazione di edifici residenziali a sette piani e di parchi collegati tra loro. Il progetto prevede la costruzione di tre blocchi distinti ma uniti dallo stesso stile architettonico. Ogni blocco comprende residenze convenzionate, spazi per le auto e spesso al piano terra, oltre agli ingressi, sono presenti unità abitative con terrazzo o giardino di proprietà. Le facciate degli edifici sono di color sabbia con un elemento verticale di colore grigio che ospita i balconi e che uniforma i tre blocchi e le varie tipologie. Il progetto a sud di via Parri prevede due diverse linee di sviluppo. Sul fronte nord, troviamo edifici in linea aggregati, che formano un unico prospetto curvilineo. Questi palazzi sono caratterizzati da sette piani abitabili e un piano sottotetto arretrato. Sul fronte sud troviamo invece la realizzazione di edifici a pianta quadrata e di sei piani abitabili ma sfalsati tra di loro, diversamente da quelli del progetto a nord che sono compatti.
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Foto: Michele Nastasi
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A Milano viene spesso rimproverata la tendenza a ricostruirsi incessantemente su sé stessa, distruggendo le tracce della propria storia, aggiornandosi per restare al passo con la contemporaneità di ogni epoca. Nel corso di tutto il ’900 e fino ad oggi, questa urgenza culturale all’aggiornamento continuo, ma anche le più prosaiche pressioni del mercato delle costruzioni, hanno determinato trasformazioni profonde, spesso puntuali e non coordinate da alcuna volontà di pianificazione, fin nel cuore della città, in quel centro storico che, secondo molti, semplicemente non esiste più.
I MATERIALI. DI COSA È FATTA LA CITTÀ
Foto di DSL Studio
Così, oggi, gli appassionati del capoluogo lombardo ne lodano la varietà, mentre i detrattori ne criticano la mancanza di coerenza. Milano, però, non è (solo) una città di frammenti. Uno sguardo attento non può non riconoscere, nel suo paesaggio urbano multiforme, delle “campiture”, più o meno dense e variamente distribuite. Nel corso di un secolo, le evoluzioni tecnologiche e di gusto hanno determinato la fortuna e il declino di numerosi rivestimenti di facciata, che un esercizio un po’ azzardato può elevare ad espressione di un intero decennio della storia di Milano.
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Anni ’20
MARMO E TRAVERTINO
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La facciata di Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa milanese, iniziata nel 1928, è interamente ricoperta di travertino e incombe su piazza degli Affari come una colossale quinta pressoché mono-materica. Tra gli Anni ’20 e gli Anni ’30, la città si arricchisce di numerosi edifici pubblici ed istituzionali configurati come maestosi monoblocchi di pietre pregiate, dove il rivestimento si fa portavoce dell’importanza della funzione e dell’autorità politica che li ha commissionati. Tra tutti, basti ricordare la Stazione Centrale di Ulisse Stacchini, in cantiere per tutti gli Anni ’20, e qualche anno dopo l’Ospedale Ca’ Granda di Giulio Carlo Arata e altri, oltre al Palazzo di Giustizia di Marcello Piacentini, entrambi cominciati nel 1932.
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Anni ’30
CEPPO DI GRÉ
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Pur con molte eccezioni, un unico materiale accomuna i solidi basamenti di moltissimi edifici per abitazione borghesi e alto borghesi di Milano, tra le due guerre: il ceppo di Gré, pietra estratta dalle colline della località omonima della Bergamasca. Porosa ma solidissima, la sua tonalità grigio-azzurra e la sua texture irregolare sono una presenza costante nel paesaggio “ad altezza d’uomo” di molte vie milanesi, ad esempio lungo l’asse di viale Tunisia, che si completa proprio durante gli Anni ’30, in seguito alla demolizione del cavalcavia ferroviario che lo percorreva. Meno comunemente, il ceppo di Gré risale lungo un’intera facciata: succede, ad esempio, nell’insolito e sperimentale edificio per abitazioni in via Carducci di Rino Ferrini (1934).
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Anni ’40
MATTONE
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Il mattone non compare certo nel paesaggio urbano di Milano negli Anni ’40. Al contrario, si tratta di uno dei materiali per eccellenza della tradizione costruttiva lombarda, che definiscono l’aspetto della città e dei suoi dintorni nei secoli. Basti pensare a monumenti antichi come il Castello Sforzesco e la Ca’ Granda, ma anche ad architetture ordinarie come le cascine del contado lombardo. Nel corso del ’900 il mattone ritorna in auge a più riprese, grazie a diverse generazioni di architetti interessati a stabilire un rapporto di continuità con la storia. Tra gli Anni ’30 e ’40, il progettista principale della Milano di mattoni è Giovanni Muzio, protagonista della stagione novecentista. Edifici come il Palazzo dell’Arte (1935) e il Monastero dell’Angelicum (1939–1942), lontani dall’avanguardia razionalista della loro epoca, sono esperimenti di una modernità alternativa, costruita in mattoni.
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Anni ’50
MOSAICO
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Sulle macerie del centro storico di Milano, già alla fine degli Anni ’40 comincia a crescere (anche) la città borghese degli edifici per abitazione. Sono architetture talvolta d’autore, più spesso opera di valenti professionisti che la storia non ha ancora riscoperto. Sempre, o quasi, le loro facciate sono rivestite in mosaico ceramico. Tra i muri sbrecciati, nei vuoti di un tessuto urbano antico molto malconcio, s’innalzano nuovi, limpidi volumi ricoperti da una trama finissima e regolare di “tesserine”. I mosaici di Milano, che si diffondono ben oltre la cerchia dei Bastioni spagnoli, costruiscono un paesaggio urbano in cui si alternano episodi bianchissimi (si pensi alle monolitiche case-albergo di Luigi Moretti) e sperimentazioni cromatiche inedite. Nel Dopoguerra e per tutti gli Anni ’50, il capoluogo lombardo si tinge anche di verdino, rosino, azzurrino, blu acceso e rosso carminio.
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Anni ’60
CLINKER
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Capita che, nell’immaginario collettivo di architetti e cultori della disciplina, un materiale da costruzione finisca per identificarsi univocamente con un’epoca, un luogo, o un progettista. Succede più raramente, invece, che si verifichino tutte queste tre corrispondenze. È il caso del clinker, che la storia dei rivestimenti architettonici ha ormai associato indissolubilmente agli Anni ’50 e poi ’60, a Milano, e a Luigi Caccia Dominioni. Certamente, anche Ignazio Gardella, Gustavo e Vito Latis e tanti altri hanno avvolto i loro edifici in questo solido derivato del laterizio, molto apprezzato all’epoca per la sua elevata resistenza meccanica, garantita dalla cottura ad altissime temperature. Eppure, i veri protagonisti della “Milano d’argilla” (come l’ha definita Maria Vittoria Capitanucci) sono i grandi condomini del Caccia, dove il caratteristico chiaroscuro lucido, brillante del clinker si combina con il tipico impaginato di facciata, irregolare ed elegantissimo.
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Anni ’70
CEMENTO A VISTA
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Gli echi di una sensibilità brutalista in architettura giungono a Milano già negli Anni ’50 – Vittoriano Viganò, ad esempio, completa l’Istituto Marchiondi Spagliardi di Baggio già nel 1957 – e poi nel decennio successivo. Nel 1960 Luigi Figini e Gino Pollini aprono i cantieri dell’edificio per albergo e abitazioni di Largo Augusto. Nel 1962 Vittorio Gregotti, Ludovico Meneghetti e Giotto Stoppino cominciano a lavorare ai tre progetti di case d’abitazione per la cooperativa “Un tetto”, che dimostrano le potenzialità dell’utilizzo dei pannelli prefabbricati in cemento a vista. Solo all’inizio degli Anni ’70, però, l’architettura milanese si scopre davvero pronta a spogliarsi dei suoi rivestimenti, e ad esibire un po’ dappertutto severi, rigorosi prospetti in calcestruzzo, nel suo centro storico ma soprattutto nelle sue sempre più sconfinate periferie.
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Anni ’80
PANNELLI METALLICI
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Gli Anni tra i ’70 e gli ’80 sono il periodo in cui s’inaugura un processo di diversificazione dei materiali del paesaggio urbano milanese, proseguito ed ampliatosi fino ad oggi. In quest’epoca si affaccia sul mercato delle costruzioni, e compare nelle vie della città, una varietà di pannellature di diversi materiali, dalla resina plastica al metallo. I prospetti, rivestiti da sequenze regolari di unità prefabbricate, si fanno chiaramente modulari, ad esempio nella Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi di Vittore Ceretti (1983–1985). La promessa è quella di una manutenzione facilitata dalla possibilità di sostituire la singola lastra; la realtà, invece, dimostra spesso un invecchiamento precoce dell’intera facciata.
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Anni ’90
VETRO RIFLETTENTE
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Il fallimento del Centro Direzionale, previsto dal Piano Regolatore del 1953, lascia Milano orfana di una downtown degna di questo nome. Negli Anni ’80, sulla scia di una ritrovata attrattività finanziaria, si avviano in città grandi cantieri di edifici per uffici. Tra rivolgimenti economici e rallentamenti vari, è solo all’inizio del decennio successivo che si possono verificare gli esiti di questo piccolo boom immobiliare. Edifici come le torri delle Ferrovie dello Stato alla Stazione di Porta Garibaldi dello Studio Lazzari-Perotta, completate nel 1990, e il Procaccini Center di Rolando Gantes e Roberto Morisi, completato nel 1994, sono solo gli episodi più visibili di un’onda lunga di architetture terziarie di vetro riflettente, frammenti nati già obsoleti di una città degli affari presto travolta dagli eventi.
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Anni 2000
VEGETAZIONE
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Nel decennio in cui il dibattito sull’architettura sostenibile diventa definitivamente mainstream, a Milano comincia la costruzione di un edificio sperimentale e controverso, che si definisce innanzitutto a partire dalla sua componente vegetale. La moltiplicazione di mini-giardini pensili del Bosco Verticale di Stefano Boeri, iniziato nel 2009 e completato nel 2014, fornisce all’architettura milanese un esempio concreto, e indubbiamente impressionante, di come il verde può trasformarsi in un vero e proprio materiale di progetto, oltre che in strumento di promozione immobiliare. Da allora, sprazzi e superfici di vegetazione più o meno rigogliosa s’insinuano sui prospetti, sui terrazzi, nelle logge e sulle coperture di molti nuovi complessi, soprattutto residenziali. Talvolta negli edifici in carne ed ossa, altre volte solo nei render seducenti che li prefigurano.
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Anni 2010
ALLUMINIO ANODIZZATO
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Inaugurata nel 2019, l’estensione del Campus Bocconi, progettata dallo studio giapponese SANAA, si inserisce nel paesaggio urbano milanese come un insieme di oggetti “anomali”, dall’estetica aliena, per niente tipica. I prospetti sono interamente rivestiti, o forse nascosti, da una doppia pelle integrale in pannelli grigliati di alluminio anodizzato. Il progetto di SANAA è l’esempio più recente, e probabilmente il più riuscito, di una generazione di architetture a vocazione globale e a forte componente tecnologica, che su questa scala è stata inaugurata a Milano un decennio prima dal Maciachini Center di Sauerbruch Hutton (2006–2010). Nel paesaggio urbano si presentano non come una composizione di pieni e di vuoti, di tamponamenti e aperture, ma come superfici equipotenziali, di materiali, colori, texture ogni volta diverse.
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Dieci riviste, dieci numeri monografici su Milano, dieci riflessioni sulla città distribuite lungo dieci decenni. La selezione proposta in queste pagine include una buona parte delle più importanti pubblicazioni specialistiche di architettura ed urbanistica italiane dell’ultimo secolo (Metron, Urbanistica, Casabella, Abitare, Hinterland, Lotus, Domus), a cui si affiancano i dossier di alcune riviste a vocazione più spiccatamente
LE RIVISTE. ELOGIO A UNA MILANO SENZA TEMPO
turistica (Le cento città d’Italia illustrate, Bell’Italia) o tecnica (Azienda Tranviaria Municipale di Milano). Si costruisce così una raccolta di racconti molto diversi tra loro, tematizzati secondo gli interessi di ciascuna testata, e narrati con il registro che le è proprio. Milano si moltiplica in dieci fermo immagine, che immortalano altrettanti momenti significativi della sua storia architettonica ed urbana. Nel tempo si modificano non solo le strutture materiali della città, ma anche lo sguardo che le osserva e i progetti culturali che si costruiscono attorno ad esse.
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“Non fu interrogato il volo degli uccelli, non furono chiamati i semidei a porre la prima pietra della città, non s’inventarono favole meravigliose, per nobilitare le origini di Milano. Una tribù raminga si fermò in mezzo a questa pianura (…). Mittaland è la città di mezzo, è il centro dove convenivano tutte le tribù, dove si tenevano le corti druidiche, e si radunavano i soldati in difesa del suolo. La fortuna che presiedette al suo sorgere le creò innumerevoli e potenti nemici: ma, appunto perché è un centro naturale di vita, Milano risorge sempre e più vigorosa dalle sue rovine”. Dall’introduzione
Milano, la grande città industriale Dopo due fascicoli dedicati a Roma, la terza uscita de Le cento città d’Italia illustrate è consacrata a Milano. La struttura del numerò è quella che diventerà tipica di tutta la collezione. La storia della città, dalla fondazione ai giorni nostri, è ricostruita attraverso testi sintetici e di registro divulgativo. La scansione in brevi paragrafi facilita la lettura e mette in evidenza le tematiche trattate. Ben 47 immagini accompagnano la descrizione scritta, molte delle quali realizzate dalla celebre società fotografica fiorentina dei Fratelli Alinari. Le fotografie sono disposte all’interno del testo o raggruppate in pagine di sole immagini, ciascuna dedicata ad un monumento o ad una tipologia di edifici: il Duomo, la Galleria Vittorio Emanuele, le chiese, i palazzi nobiliari. La seconda di copertina è occupata da quello che all’epoca doveva certamente risultare il contenuto di maggior effetto: due viste aeree, di piazza del Duomo e dell’area dell’Arco della Pace, che offrono un punto di vista della città al tempo sconosciuto ai più.
“Dopo la Grande Guerra, Milano si è accresciuta enormemente, anche per i profughi del Veneto, dei quali molti nella città presero stabile dimora. Le sue caratteristiche di centro commerciale e industriale presso le vie delle Alpi, di metropoli signoreggiante la plaga più fertile e più piana d’Italia, portano in lei un rapido e continuo sviluppo. La popolazione, coi nuovi comuni aggregati nella periferia, ha raggiunto la cifra di 854 mila abitanti (1923), ed erano solo 300 mila nel 1881. Quartieri nuovi sono sorti e vanno sorgendo molto al di là della vecchia cerchia dei Bastioni, e fabbriche numerosissime occupano migliaia e migliaia di operai. Le molte provvidenze si accompagnano a questo incessante progredire; si innalzano nuovi edifici (meravigliosi per bellezza e modernità quelli della ‘Città degli Studi’), e ogni manifestazione di coltura, di assistenza trova un terreno adatto, una ricchezza sempre soccorrevole. Il carattere della cittadinanza, espansivo, lavoratore, tenace e spesso geniale, ha una propria vivacità che lo porta a seguire, con intenso interesse, tutto quanto concerne lo sport, la politica, il teatro e l’arte”. Dal paragrafo conclusivo Milano dopo la Grande Guerra
Le cento città d’Italia illustrate, n. 3 Milano la grande città industriale 1924
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Le Cento Città Illustrate Si deve al filosofo e politico Carlo Cattaneo la descrizione ottocentesca dell’Italia come Paese delle “cento città”. Negli Anni ’20 del ’900, l’editore milanese Sonzogno riprende questa fortunata definizione come titolo di uno dei suoi progetti editoriali più ambiziosi e di successo: Le cento città d’Italia illustrate. La collezione si compone in realtà di circa 300 fascicoli, pubblicati tra il 1924 e il 1929 e dedicati a descrivere non solo singoli centri urbani, ma anche regioni e paesaggi della penisola (laghi, monti, vallate). La principale novità de Le cento città d’Italia illustrate è l’importanza data all’immagine fotografica, decisamente inusuale per l’epoca, soprattutto nell’ambito di una pubblicazione economica, destinata al grande pubblico. L’insieme delle immagini della raccolta costituisce una delle prime ricognizioni fotografiche d’insieme sul territorio nazionale. In ogni fascicolo, brevi testi ricostruiscono la storia urbanistica e architettonica, ma anche politica, economica e sociale della città presentata. Spesso, un sottotitolo sintetizza in poche parole la caratteristica saliente di ciascuna: “Torino è La regale città sabauda”, “Napoli è La metropoli del mezzogiorno”, “Milano è La grande città industriale”.
“Sarebbe inutile accennare all’importanza del problema che tutti riconoscono di vitale interesse, comunque ci sia concesso di ricordare che più di una volta si è parlato in altri articoli comparsi in questa rivista della assillante preoccupazione dei tecnici dei trasporti di raggiungere la massima precisione e sicurezza di orario sulle linee di trasporto in città”.
Azienda Tranviaria Municipale di Milano. Rivista mensile n. 4 Dalla festa del lavoro, alla mostra “di Arti e Mestieri del nostro Dopolavoro”, alla visita della “nostra scuola di meccanica alle ferriere dell’Ilva”, fino alle pagine più leggere dedicate ai viaggi e all’”umoristica”. La rivista ATM del mese di Aprile del 1935 approfondisce varie tematiche tra cui, in particolare il tema delle arterie urbane, come si evince dalla stessa illustrazione in copertina.
“Vediamo del resto anche a Milano soltanto durante la giornata quale diversa variazione di flusso di traffico da arteria ad arteria… Non si tratta quasi mai di arterie regolari e di capacità sempre uguale nelle quali il flusso di veicoli e di pedoni procede a velocità costante e con densità quasi uniforme come si può verificare nelle grandi capitali americane ed europee: NewYork, Londra, Parigi, Berlino, nelle cui vie principali i veicoli in circolazione sono esclusivamente a trazione meccanica. Da noi se si volesse arrivare alla completa semaforizzazione della parte centrale della città non si saprebbe come consegnare la rete della progressione dei tempi. Si pensi ad una città a rete ortogonale come Torino a Piano Regolatore di recente realizzazione con strade ampie percorse da flussi di traffico di densità paragonabile sia un senso che in quello ortogonale. Non dovrebbe essere difficile conciliare qui la progressività semaforica in una direzione con quella da assegnare sulla direzione ortogonale. Le equidistanze, la uniformità delle carreggiate, i flussi paralleli e simili ben si prestano a tale sistemazione. A Milano la rete stradale, a forma monocentrica con una serie di raggi multipli talvolta biforcantisi intercettati da strade circolari concentriche aventi però distanze diverse dal centro, non consente di dare una progressività semaforica lungo le radiali che si concilii colla progressività semaforica delle circolari”. Dall’articolo “Il trasporto di persone in comune lungo le arterie urbane e la regolazione semaforica del transito” Dott. Ing. A. Fiorentini
Azienda Tranviaria Municipale di Milano n. 4 aprile 1935
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Azienda Tranviaria Municipale di Milano. Rivista mensile «Varia, interessante, completa nella forma e nella sostanza fornirà […] ai lettori un quadro esatto dell’attività dell’Azienda e illustrerà efficacemente quanto si verrà compiendo a beneficio del pubblico nel campo dei trasporti, a beneficio del personale nel campo assistenziale. Sarà insomma un organo degno dell’importanza dell’Azienda, un interprete efficace della sua vita nuova». Così il direttore, puntando esplicitamente sulla discontinuità impressa dal fascismo, delineava la morfologia della rivista. L’articolazione interna alla prima parte aveva come protagonisti contributi di ingegneria ferro-tranviaria o automobilistica – sempre di alto livello e con un buon grado di approfondimento –, spesso illustrati con grafici, tabelle e fotografie, scritti e firmati o da dirigenti o da consulenti e collaboratori dell’Atm. Tra questi si contavano sia contributi originali pensati per la rivista sia estratti da altre pubblicazioni, conferendo a questa sezione la fisionomia di un ampio e variegato dibattito tecnico. Uno degli appuntamenti più importanti rimase sempre la pubblicazione delle conferenze tenute annualmente dal direttore dell’Atm, Piero Franceschini, durante le quali venivano affrontati bilanci del passato e nuovi propositi con dovizia di particolari. Uno spazio era invece dedicato all’aggiornamento della mappa delle linee con relativi orari e fermate, utile naturalmente tanto ai dipendenti quanto al pubblico, costituendo una sorta di guida ai servizi tranviari e automobilistici. Venne dedicato poi un posto di primo piano a sport, escursionismo, alpinismo e manifestazioni di massa. Gli altri articoli variavano dalla cultura generale a recensioni di libri ed esposizioni, fino ad arrivare all’interessante rubrica «Itinerari milanesi», tesa a valorizzare, seguendo i tracciati delle linee tranviarie, le bellezze architettoniche cittadine agli occhi di chi sosteneva che Milano fosse «una brutta città».
“Cari lettori, voi potrete benissimo dissentire dall’impostazione del QT8, o criticare la scelta di quel progetto invece di un altro. Potrete benissimo criticare i singoli edifici del Quartiere; anzi, dovrete farlo (…). La critica sul terreno culturale e artistico va fatta senza peli sulla lingua. C’è però una considerazione preliminare ad ogni giudizio di merito: il Quartiere QT8 è un fatto di architettura moderna: costituisce una delle pochissime realizzazioni di un complesso omogeneo urbanistico ed edilizio, studiato da cima a fondo da architetti, in questo Dopoguerra in cui la ricostruzione è del tutto sfuggita al nostro controllo”. Dall’editoriale della Direzione
“Il nuovo Quartiere, destinato a restare l’esempio di quanto meglio di triennio in triennio si andrà maturando nel campo dell’architettura moderna e delle arti decorative, sarà una unità architettonicamente armonica, economicamente equilibrata ed urbanisticamente autonoma (…). Sarà una mostra permanente, sperimentale, vivente, della architettura moderna”. Dal testo Nascita del QT8 (citazione dal programma della Ottava Esposizione Triennale)
Numero doppio dedicato al Quartiere Sperimentale della Triennale di Milano Piero Bottoni, Commissario dell’Ottava Esposizione Triennale del 1947, cura e coordina la raccolta del materiale per il numero monografico di Metron dedicato al QT8. La redazione sottolinea a più riprese nell’editoriale e nei testi introduttivi, che l’interesse del quartiere risiede innanzitutto nella sua “modernità”. Mai prima di allora, infatti, e raramente in seguito, gli architetti e urbanisti italiani del Movimento Moderno hanno avuto l’occasione di dare forma costruita, su scala così ampia, alle loro speculazioni teoriche sulla città del XX secolo. Il dossier presenta le caratteristiche generali del quartiere, elenca e descrive nel dettaglio (fino alle specificità tecniche e costruttive) le diverse tipologie di abitazione che vi si costruiranno, e fa una rassegna dei migliori progetti presentati ai concorsi banditi per gli edifici collettivi. Si riconosce, tra gli altri, la prima proposta di Vico Magistretti e Mario Tedeschi per la chiesa di Santa Maria Nascente, che sarà poi realizzata senza eccessive variazioni.
“Per far conoscere i vari aspetti del problema dell’abitazione, la Esposizione Triennale del 1947 ha avuto per tema la visualizzazione di tutto il programma del quartiere QT8, dalla progettazione urbanistica ai sistemi costruttivi, all’arredamento degli alloggi fino agli oggetti di uso e d’arte per la casa. Questo tema dell’architettura è stato portato su un piano realistico nel nuovo quartiere per il quale si sono cominciate nell’autunno 1946 le opere di impianto generale. È evidente, per chiunque abbia un minimo di esperienza del mestiere o soltanto conoscenza dei complessi problemi che ogni realizzazione richiede, quali difficoltà si siano incontrate anche solo per ‘varare’ l’idea di un quartiere sperimentale modello per 13.000 vani circa, che è l’unico in Europa e nel mondo”. Dal testo Nascita del QT8
Metron n. 26-27, Numero doppio dedicato al Quartiere Sperimentale della Triennale di Milano agosto / settembre 1948
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Metron L’esistenza di Metron è relativamente breve, solo un decennio tra il 1945 e il 1954, con pubblicazione inizialmente a cadenza mensile, ma il suo ruolo culturale nel dibattito sull’architettura e l’urbanistica italiana del secondo Dopoguerra è di primaria importanza. Fondata su iniziativa di Eugenio Gentili Tedeschi, Luigi Piccinato, Enrico Tedeschi, Cino Calcaprina, Silvio Radiconcini e Bruno Zevi, la rivista funziona in un primo momento come piattaforma condivisa tra i razionalisti di area culturale milanese, aderenti all’M.S.A. - Movimento Studi per l’Architettura, e i romani sostenitori dell’architettura organica, vicini all’A.P.A.O. - Associazione per l’Architettura Organica. Si tratta delle due correnti più importanti degli anni a cavallo tra i ’40 e i ’50, in cui ricadono più o meno tutti coloro che credono nella necessità di un rinnovamento dei principi e delle modalità di azione della disciplina dopo il periodo fascista. Negli anni, è la corrente organica a prevalere in Metron, come testimonia anche la posizione sempre più centrale assunta nella redazione da Bruno Zevi, e la progressiva scomparsa dei milanesi dal consiglio direttivo. Alla conclusione dell’esperienza di Metron, motivata da difficoltà editoriali e dalla sempre maggiore dispersione geografica dei suoi autori, Zevi concentrerà le sue energie su di una nuova rivista, L’Architettura Cronache e Storia, fondata nel 1955 e destinata a più lunga fortuna.
“I dieci anni del Dopoguerra hanno lasciato in Milano i segni di una profonda trasformazione, visibile in ogni strada del centro ed in ampie zone della più esterna periferia. Ed è ben significativo che proprio nel periodo della più dinamica e più completa trasformazione edilizia, nel tumulto e nell’eruzione delle più disparate iniziative, si sia venuto lentamente, ma sempre più fermamente, maturando e fortificando l’intervento urbanistico che ha saputo imbrigliare a poco a poco le iniziative più ribelli, fino a capovolgere la generale situazione edilizia, che dal primitivo caos dell’immediato Dopoguerra sta ora passando ad una più serena, ordinata e convinta successione di interventi pianificati, senza perdere in slancio ed in mordente”. Dall’editoriale di Giovanni Astengo, p. 3
Numero monografico dedicato al Piano Regolatore di Milano A tre anni dall’approvazione del Piano Regolatore Generale di Milano (1953), quando già si possono verificare i primi effetti della sua attuazione, Urbanistica dedica un corposo numero monografico a questa esperienza di pianificazione urbana, che ha convogliato le energie dei migliori esperti italiani della disciplina. Il nuovo piano è innanzitutto iscritto nella storia delle trasformazioni e dell’espansione del capoluogo lombardo. Segue la presentazione del piano vero e proprio, dalla sua concezione all’attuazione, e fino ai Piani Particolareggiati sviluppati per i quartieri centrali e periferici. L’editoriale di Giovanni Astengo e l’articolo di apertura di Luigi Piccinato, Guardare Milano, definiscono l’inquadramento culturale generale del numero. Astengo e Piccinato sono allineati nella sostanziale fiducia nel nuovo Piano Regolatore Generale, elogiato come strumento per il raggiungimento di un nuovo ordine urbano, che permetterà di “liberare” Milano dal caos determinato dai bombardamenti e dalla speculazione privata.
“L’attuale Piano Regolatore di Milano, per essere compreso nella giusta luce, va guardato dunque da queste premesse: scaturito dalla reazione contro un passato di errori; sorto dalla collaborazione democratica dei migliori tecnici in un clima democratico; costretto a rinunzie infinite dalle colpe degli uomini di ieri, esso rappresenta un supremo ed estremo sforzo per liberare la città dal caos conseguente ad un organismo sbagliato, anzi, e meglio detto, alla mancanza totale di un organismo. Rappresenta lo sforzo per organizzare una struttura più aperta, più libera, più economica, proiettata nella regione lombarda (…). Le lunghe more, che intercorrono tra la formulazione dei piani particolareggiati e la approvazione di questi, hanno certo frustrato molte belle intenzioni e compromesso molte belle possibilità. Ma tutto questo conta fino ad un certo limite: quello che più conta è il successo fondamentale della lotta, l’affermazione dei principi, la conquista del nuovo organismo e quella della coscienza della validità di questo. Dopo un secolo giusto di lotta Milano si è liberata”. Dall’articolo di Luigi Piccinato, Guardare Milano, p. 5-8
Urbanistica n. 18-19, Il Piano Regolatore di Milano marzo 1956
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Urbanistica Urbanistica nasce nel 1932 come Bollettino della Sezione Piemontese dell’INU - Istituto Nazionale di Urbanistica, e l’anno successivo è adottata dallo stesso istituto come proprio organo di stampa ufficiale alla scala nazionale. Dopo alcuni anni di cesura durante la Seconda guerra mondiale, a partire dal 1945 è pubblicata nella forma di bollettino. Nel 1949, quando l’INU si dota di uno statuto interamente rinnovato, alla luce del ritrovato contesto d’azione democratico, Urbanistica viene rifondata e la sua numerazione azzerata. Adriano Olivetti, Giovanni Astengo, Bruno Gabrielli e Bernardo Secchi sono solo alcuni dei grandi urbanisti che si susseguono alla direzione della rivista, che s’impone in Italia come la principale testata del settore, e guadagna autorevolezza anche all’estero come portavoce e osservatorio delle principali esperienze italiane. Rivolta soprattutto ad un pubblico di specialisti, Urbanistica inquadra la progettazione e la pianificazione urbana in un ambito pluridisciplinare, incrociando riflessioni di carattere storico, economico, sociale e politico.
“Anche la XIII Triennale rientra, .., nella legge “trascrittiva” di tutte le Triennali. Questa volta infatti si può ritrovare, .., quasi un catalogo delle più interessanti considerazioni e anche dei ripensamenti e delle deviazioni sulle vie dell’architettura. In modo particolare emergono alcune proposte, non tutte nuove veramente, ma tutte indubbiamente con vocazione di novità: le trasposizioni architettoniche di alcune esperienze letterarie, la verifica della possibilità di uso contemporaneo di tecniche linguistiche diverse in un contesto architettonico; la ricerca di una simbolistica che sia prerisolutrice di ogni problema di significanza nell’opera architettonica finita. …. “Dove invece si riscontra il massimo sforzo di adeguazione al tema di base è nelle parti curate dagli italiani; nelle prime zone dell’esposizione curate dall’architetto Vittorio Gregotti: con il risultato che i criteri tenuti nella composizione traspaiano oltre il visibile un po’ éclatant, tutto d’argento.. Concludendo, il contributo italiano a questa Triennale, per quanto limitato nei mezzi dell’espressione, è notevole ai fini di un confronto sulle vie dell’architettura, e vien da pensare con rabbia alle possibilità di una mostra di architettura, solo di architettura. Anche perché credo che alcune indicazioni “ottiche” che ci mostrano le nostre architetture più giovani (e, ovviamente, non parliamo più di Triennale ma di produzione corrente) come riflessi, in una specie di Provincia Atlantica, di idee e contributi sviluppati altrove, siano da rigettare come assolutamente false.”
La XIII Triennale di Milano Nel suo editoriale di apertura di questo numero, intitolato La Triennale uscita dal coma, Ernesto N. Rogers, descrive la Triennale come uno dei tipici «miracoli all’italiana», e «uno degli aspetti più evidenti è l’inconsistenza dovuta alla fragilità delle strutture, che non resistono alle verifiche della critica e neppure all’usura del consumo e che, nelle sue parti più clamorose, se può soddisfare le élites, lascia negli altri il senso di essersi nutriti delle briciole di un pranzo il quale, per chi l’ha goduto, può essere stato saporito». La cover, scelta da Gae Aulenti, presenta “La course” di Picasso, ed è dedicata al Tempo Libero, tema della XIII Triennale, indicativa anche lei della rottura di «ogni schema figurativo con le precedenti occasioni e di essere, cioè, significativa, perché si esprime con un linguaggio attuale e senza indugi».
Dall’articolo di Gian Ugo Polesello, Questa Triennale e l’architettura discoperta, p. 33
Casabella n. 290, La XIII Triennale di Milano agosto 1964
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Casabella La rivista La Casa bella nasce nel gennaio 1928. Edita dallo Studio Editoriale Milanese, ha cadenza mensile ed è diretta da Guido Marangoni. All’inizio del 1933, Giuseppe Pagano, che già collabora alla rivista con Edoardo Persico, ne assume la direzione, modificando il titolo in Casabella. Il cambio di direzione coincide con l’acquisto della testata da parte dell’Editoriale Domus. Nel 1935, a Pagano si affianca come condirettore Persico. Nel 1938, al titolo Casabella viene aggiunta la parola Costruzioni. Nel 1940, i termini vengono invertiti e il titolo diventa Costruzioni-Casabella. Nel dicembre del 1943 la rivista è sospesa dal Ministero della Cultura Popolare. Dopo due anni, l’editore Gianni Mazzocchi la riorganizza affidandone la direzione a Franco Albini e a Giancarlo Palanti. Nel 1946 appaiono così tre numeri di Costruzioni, tra i quali il numero monografico dedicato a Giuseppe Pagano. Segue un nuovo periodo di sospensione dal 1947 al 1953. Nel gennaio 1954 esce Casabella-Continuità, diretta da Ernesto Nathan Rogers fino al gennaio 1965. A partire dall’agosto 1965, e fino al maggio 1970, la direzione viene affidata a Gian Antonio Bernasconi e la rivista torna a chiamarsi soltanto Casabella. Dopo Bernasconi è la volta di Alessandro Mendini fino a marzo 1976, sostituito, da aprile a dicembre dello stesso anno, da Bruno Alfieri. Dal gennaio 1977 la rivista viene pubblicata dal Gruppo Editoriale Electa, con la direzione di Tomás Maldonado fino al dicembre 1981. La direzione passa a Vittorio Gregotti nel marzo 1982. Dal marzo 1996 Gregotti viene sostituito dall’attuale direttore, Francesco Dal Co.
“[Quello di via Lincoln, NdR] è un modesto, piccolissimo quartiere – una strada, due gruppi di case a un piano e di cortili – sorto alla fine dell’Ottocento come quartiere operaio. È rimasto fisicamente quasi intatto nel corso di novant’anni e appare ormai come un’isola nel cuore della città. Ma naturalmente, come sempre più spesso avviene, non è più abitato solo da operai e dai loro discendenti. Altri sono arrivati, attratti da una misura umana e di ambiente sempre più introvabile e sempre più necessaria. La stessa misura che ha attratto anche noi – e abbiamo cercato di renderla attraverso le immagini e le annotazioni di questo servizio”. “Nel ’66, quando ancora le vecchie case non godevano di buona fama, inizia la prima sparuta processione verso via Lincoln di giovani in cerca di casa. Solo verso il ’70, sfumata in parte la mania del nuovo, inizia la grande corsa alla villetta. Contrariamente ad oggi, allora era facile comprare o affittare con poco, in quanto l’ambiente non era ancora ‘valorizzato’ dalla presenza di personaggi per qualche verso famosi”.
L’appartamento in città. Un paese a Milano. Tutti i mobili per il ’77 Abitare, soprattutto nei suoi primi decenni di esistenza, è una rivista squisitamente milanese: nasce per raccontare il fervore culturale e produttivo legato al settore del design, proprio della città, e nel capoluogo lombardo trova una parte consistente del suo pubblico. Anche quando ai testi italiani si affianca la loro traduzione in inglese, Abitare è percepita all’estero come l’ambasciatore di un punto di vista tipicamente milanese sui temi trattati. Così, nel corso del tempo, la rivista realizza diversi numeri monografici su Milano, che raggruppano carrellate di case milanesi e raccontano le trasformazioni della città in senso lato. Nel 1977 esce il dossier L’appartamento in città. Un paese a Milano. Tutti i mobili per il ’77. L’appartamento è un attico progettato a Milano da Eugenio Gentili Tedeschi e Francesco Gnecchi Ruscone. I mobili sono quelli presentati in occasione del Salone del Mobile di quell’anno. Il paese, che è il vero nucleo tematico del numero, è il piccolo quartiere di via Lincoln. Abitare riscopre ed esplora le case a schiera della micro-lottizzazione operaia di fine ’800, ne investiga gli aspetti architettonici, urbanistici e sociologici e s’interroga sul suo rapporto con la città contemporanea.
“Architetti, studenti, intellettuali, medici, giornalisti, oltre alle generazioni discendenti dai vecchi cooperativisti, costituiscono la popolazione prevalente di via Lincoln. Accanto, coesistono anche personaggi un po’ strani, immancabili e tipici di ogni paese. I modi di vita di questo piccolo villaggio, accerchiato dalla città, ricordano a chi vive inscatolato in verticale quelli di un ampio pianerottolo di una grande casa, adagiata in un ristretto spazio della zona 4 di Milano”. Dall’articolo di Nives Ciardi Un paese a Milano, dedicato al quartiere di via Lincoln
Abitare n. 151, L’appartamento in città. Un paese a Milano. Tutti i mobili per il ’77 gennaio / febbraio 1977
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Abitare Abitare nasce a Milano nel 1961 come Casa Novità, denominazione che abbandona già con il quinto numero, nei primi mesi del 1962. La fondatrice Piera Peroni ha studiato come architetto e ha lavorato a lungo come giornalista di architettura d’interni e di design, per le grandi testate milanesi del settore, tra le quali Interni. La rivista di Peroni s’impone rapidamente come uno degli osservatori più autorevoli del suo settore, e accompagna con spirito entusiasta e al tempo stesso critico i decenni più fortunati dell’interior design e del product design italiano, e soprattutto milanese. Al tempo stesso, gli interessi della redazione si ampliano progressivamente ad altre scale del progetto, dall’architettura alla città, ed a temi che si allontanano sempre di più da quelli strettamente legati al disegno e all’arredo della casa. Rivolta ad un pubblico generalista, più ampio di quello delle più antiche riviste milanesi di architettura e di urbanistica, come Domus e Casabella, Abitare è stimata ed apprezzata anche tra gli specialisti di queste discipline, per la capacità di tradurre contenuti di notevole qualità e profondità critica in un linguaggio accessibile, e di presentarli in una veste accattivante sul piano grafico e iconografico. Alle prime due direttrici, Piera Peroni e Franca Santi Gualtieri, seguiranno alla direzione di Abitare personaggi di spicco del mondo della grafica (come Italo Lupi, dal 1991) e dell’architettura (come Stefano Boeri, dal 2004).
“L’ipotesi che avanziamo qui sommariamente (…) si fonda sul convincimento che per sviluppare a sistema il molteplice museale di Milano e del suo territorio di gravitazione culturale occorra cercare di approfondire e di far emergere la sua struttura di relazione. Da questo punto di vista ci sembra importante riscontrare la connessione storica tra istituzione di museo e progettazione della città monumentale (basti pensare al Duomo, alla Ca’ Granda, all’Ambrosiana, a Brera). Ciò comporta, oltre al consolidamento interno delle istituzioni museali, il loro aggancio ad una trama di servizi, istituzioni e architettura pubblica che Milano deve sapere ritrovare nel centro storico e protendere sul territorio”. “Ci preme ribadire la particolare conformazione di Milano che nonostante tutto persevera nel mantenere una struttura policentrica che trascende gli ambiti amministrativi senza contraddirli, integrando dentro e fuori i confini istituzionali differenziate entità culturali come componenti inscindibili di una municipalità – per così dire – federativa. Si tratta di una struttura non piramidale, non gerarchica, consolidatasi nel tempo, più volte rinnegata eppure sempre riemergente, dove la mobilità a distanza, la diluizione e la promiscuità delle attività e delle competenze si è sempre configurata, anche nell’aggregato urbano, forzando lo schema radiocentrico dei piani post-unitari, sconfessando lo zoning funzionalista e rattrappendo lo skyline della città terziaria. In questa particolare e in parte segreta stratificazione articolata tra interno ed esterno dell’architettura, tra luoghi pubblici e privati, respira la continuità monumentale di Milano, da trovare con l’apporto dei suoi musei”. Hinterland n. 23 Nel settembre del 1982, il numero 23 di Hinterland passa in rassegna i risultati della XVI Triennale di Milano. In particolare, riporta alcuni estratti degli atti del convegno Per un museo metropolitano, svoltosi nell’ambito della stessa Triennale per definire il quadro di riferimento storico, teorico e metodologico del concorso per la progettazione del museo metropolitano milanese. Questo termine non indica in senso stretto una singola sede espositiva; piuttosto, quello del museo metropolitano è un tema, una chiave di rilettura della città che permette di definire al suo interno nuove gerarchie e nuove relazioni. Il concorso chiede ai partecipanti di elaborare strategie per mettere in connessione i poli museali esistenti, tra di loro e con le architetture monumentali, gli spazi pubblici, le infrastrutture. Il dossier si compone di una prima parte storico-analitica (Materiali per un museo metropolitano) e di una seconda parte di presentazione degli esiti del concorso (Progetti per un museo metropolitano).
Hinterland n. 23 settembre 1982
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Dall’estratto del contributo di Guido Canella al convegno Per un museo metropolitano
Hinterland Pubblicata in 34 numeri tra il 1977 e il 1985, la rivista Hinterland si fa portavoce soprattutto delle posizioni del suo fondatore ed unico direttore, Guido Canella. Per una linea di lavoro è l’editoriale del primo numero, in cui Canella dichiara, nella sua caratteristica prosa densa ed erudita, gli obiettivi del suo progetto editoriale: «Con il termine HINTERLAND» afferma «postuliamo la necessità di spiegarci il retroterra culturale dei processi insediativi, differenziandoli territorialmente e approfondendoli storicamente (…). Proponiamo un contraddittorio attivo non solo per evitare piatte generalizzazioni delle ragioni per cui le agglomerazioni umane e produttive si configurano anche in architettura, ma soprattutto per contrastare il pregiudizio corrente che attribuisce a case, servizi, trasporti, città valore di beni riscattabili soltanto attraverso la complicità del mercato immobiliare e della speculazione». Canella corrisponde per molti versi alla tipica figura dell’architetto italiano degli Anni ’70, che considera l’elaborazione teorica e la riflessione critica sui grandi temi della disciplina come una premessa necessaria al progetto. E proprio a cavallo tra i due ambiti si colloca Hinterland, che non a caso ha come sottotitolo Disegno e contesto dell’architettura per la gestione degli interventi sul territorio: «La linea di lavoro che proponiamo (…)» prosegue Canella «investe autocriticamente la nostra esperienza di architetti, per confrontarci dialetticamente e operativamente su un concreto, complessivo e differenziato progetto di città».
“Milano è nata romana? No: Mediolanum è nata… preromana, in ambiente ligure nella media e tarda età del Bronzo (II millennio avanti Cristo) ha le prime chiare presenze di vita, che si fanno decisamente più vive nel V secolo avanti Cristo, quando grazie a frammenti di ceramica greca attica trovati sotto lo strato romano, sono attestati anche rapporti con l’Adriatico, e nel IV quando è divenuta capitale dei Galli Insurbi. Così che i due consoli romani, ad uno dei quali, M. Claudio Marcello, è dedicata una strada presso piazza Villapizzone, conquistando Mediolanum nel 222, trovarono una sede già in certo modo organizzata. La presenza romana nel II secolo si fa più stabile, con mercanti e artigiani latini, mentre leggi in favore dei Transpadani per opera dei consoli e di Cesare alla metà del I secolo legarono alla vita romana la città e il territorio. Mediolanum non cambiò nome, ma cambiò vita urbana e civile, anche se in vari aspetti della vita quotidiana restarono ancora note della cultura insubre. Ebbe allora le mura: un circuito di più di tre chilometri, di cui restano 32 metri in via San Vito, in pietra e mattoni e qualche tratto in altre parti, con almeno quattro porte, di una delle quali, la Ticinese, sulla strada per Pavia, resta una torre al Carrobbio, un impianto di strade ortogonali al Foro, e infatti sotto l’Ambrosiana si sono trovate le lastre della pavimentazione in pietra di Verona; e certamente molti edifici pubblici”. Archeologia. Anche Mediolanum Caput Mundi. di Mario Mirabella Roberti, disegni di Francesco Corni, fotografie di Marco Capovilla
Milano Segreta Il numero dedicato a Milano si aggiunge ad una serie di “speciali” verticali. Come anticipa l’editoriale di apertura: “Milano… è una città sempre da scoprire: in certi suoi segreti, nelle sue riposte realtà, in quelle tradizioni che, legandola al passato, la proiettano verso un futuro europeo”. Parole incredibilmente attuali, lette oggi. All’interno del numero troviamo ovviamente il Duomo (“Il cuore è laggiù”), luoghi iconici come Bicocca (“soltanto di nome”) a cui è dedicata anche la copertina, e San Cristoforo (“fuori Porta, dove scorre il Naviglio Grande”), ma anche spazio al verde della città (l’Orto botanico), così come molti accenni alla storia e ai personaggi, grandi (“La villa Comunale... Si cominciò con Napoleone”) e piccoli (“Antichi mestieri. Dal menafrecc al ciapparatt: personaggi perduti nella memoria), che l’hanno resa così eclettica e interessante da analizzare.
Bell’Italia n. 80, Milano segreta dicembre 1992
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Bell’Italia Bell’Italia (sottotitolo Alla scoperta del paese più bello del mondo) è una rivista mensile italiana, dedicata, come recita il sottotitolo, alle località e alle bellezze artistiche, paesaggistiche e turistiche d’Italia con particolare attenzione all’aspetto fotografico. Fondata nel 1986 dall’Editoriale Giorgio Mondadori, dal 1999 è parte del Gruppo Cairo Editore. Il periodico propone mensilmente ai lettori servizi su diverse località del territorio nazionale e una serie di rubriche che approfondiscono i temi artistici, la gastronomia, le tradizioni. Non manca lo spazio dedicato alle segnalazioni dei lettori. Sua caratteristica peculiare è la pubblicazione di illustrazioni (spaccati assonometrici, vedute a volo d'uccello, ricostruzioni grafiche) di alcuni borghi o edifici civili e religiosi. Sovente è accompagnato da supplementi speciali su particolari città o regioni d'Italia.
Milano Boom Porta Nuova, City Life, le aree ex-Falck di Sesto San Giovanni, il Portello, Santa Giulia e tanti altri: il numero monografico che Lotus dedica a Milano nel 2007 raggruppa tutti i grandi interventi del boom milanese del nuovo millennio, concepiti prima della grande recessione del 2008 e quasi tutti proseguiti, tra non poche difficoltà, proprio negli anni della crisi. La Bicocca di Vittorio Gregotti, che si avvicinava allora al suo completamento, è presentata in apertura del dossier come episodio fondatore di una nuova modalità di costruire la città. Nelle parole del direttore Pierluigi Nicolin, autore di un editoriale denso e lucido, la Bicocca ha importato nel contesto di Milano quel passaggio «dall’etica della produzione all’estetica del consumo» che anche altre città europee stavano ereditando in quegli anni dalla cultura anglosassone. Secondo Nicolin, è a partire da questa realtà ormai incontrovertibile che bisogna osservare i progetti della nuova Milano, con uno sguardo disincantato ma risolutamente postideologico.
Lotus n. 131, Milano Boom 2007
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“La grande operazione architettonico urbanistica della Bicocca prelude alla fase attuale di interventi alla scala urbana del nuovo boom immobiliare con le recenti figure architettoniche di cui dobbiamo discutere. Negli ultimi decenni del secolo scorso con la Bicocca ha fatto il suo esordio nello scenario milanese un diverso approccio alla trasformazione urbana ad opera di nuove figure di developers portatori di moderni criteri economico-finanziari e di un modo più aggiornato di affrontare il mercato immobiliare, i quali sono diventati degli attori principali dei nuovi interventi. Nelle proposte ora in campo, l’idea della città come res extensa regolata da un criterio tipomorfologico, da una regolamentazione in altezza, da una continuità minerale, città in cui il tutto è inteso come un valore superiore alla singola parte (per cui il singolo oggetto architettonico è inquadrato nel contesto sintattico generale), in sostanza il modello urbano di matrice “continentale”, come è andato man mano definendosi a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, è soppiantato nei nuovi interventi da un’idea di enclave di matrice anglosassone e, contro ogni unità linguistica, da un’esaltazione del valore iconico dei singoli oggetti architettonici oltre che, come è stato accennato, dall’offerta più o meno veritiera dell’idillio verdolatrico (…). Bisogna riconoscere come l’intellighenzia architettonica milanese sia giunta impreparata a questo passaggio dall’etica della produzione all’estetica del consumo che ha segnato l’ingresso alla grande nello scenario milanese di molti architetti dello star system, passaggio peraltro compreso per tempo dalle parallele culture della moda e del design”. Dall’introduzione di Pierluigi Nicolin, Milano Boom. Dall’etica della produzione all’estetica del consumo, p. 4-9
Lotus Il primo numero di Lotus è pubblicato nel 1964, come un annuario della migliore produzione architettonica, urbanistica e di design alla scala mondiale. Bruno Alfieri, fondatore ed editore, raggruppa attorno a sé un comitato di consiglieri di altissimo livello: da Siegfried Giedion a Henry Russell-Hitchcock, da Esther McCoy a Jürgen Joedicke e a Giulia Veronesi, co-curatrice del fascicolo. Già con il terzo numero l’annuario si trasforma in una vera e propria rivista, che evolve per piccoli aggiustamenti fino alla sospensione delle pubblicazioni per quattro anni e alla loro ripresa nel 1974, con l’ottavo numero ed il nuovo titolo di Lotus International. Rivista di architettura. Comincia in quel momento la collaborazione con Lotus di Pierluigi Nicolin, che ne diventerà direttore nel 1977, posizione che mantiene a tutt’oggi. La rivista acquista la sua periodicità trimestrale. Si definisce, inoltre, l’impostazione monografica di ogni numero, che resta tuttora una delle caratteristiche salienti di Lotus. Una panoramica sui titoli dei dossier degli ultimi quarant’anni fornisce una casistica esauriente dei temi che si sono imposti nel dibattito architettonico. Lotus si rivolge essenzialmente a un pubblico di specialisti. Nelle parole di Alessandro Rocca, si tratta di «una rivista minoritaria e riservata a un pubblico ristretto di lettori affezionati, professori e studenti, ma anche professionisti assetati di cultura». Questo posizionamento editoriale specifico, privo di un vero e proprio interesse divulgativo, è confermato anche da due pubblicazioni parallele di alto livello, che hanno affiancato temporaneamente la rivista madre: i Quaderni di Lotus, che nascono nel 1982, e Lotus Navigator, fondato nel 2000.
“Un quadro vitale, sorprendente, fortemente inclusivo, ma soprattutto capace di rovesciare molti luoghi comuni, che vanno dal verde mancante all’immaginario multietnico dei prossimi decenni. È una Milano che conferma i numeri dell’economia che la stanno definendo. Cifre doppie del PIL nazionale che presentano tutti gli indicatori statistici in controtendenza rispetto al paese, in un distacco che dopo Expo sta diventando un vero e proprio paradigma nel mondo prima ancora che in Europa e nelle altre regioni d’Italia. Una storia che, senza dimenticare i nomi e le contraddizioni (…) fa pensare che forse una via italiana al futuro c’è”. Dall’editoriale di Walter Mariotti, Una via italiana al futuro, p. 4
“Nuove piazze, realizzate da architetti famosi o da iniziative degli abitanti. Nuovi quartieri, frutto di radicali trasformazioni dell’esistente o d’insediamenti in terrain vague recuperati all’urbanità. Antichi quartieri gentrificati da iniziative immobiliari o rigenerati dalla caparbia volontà dei nuovi abitanti d’innestarvi usi inediti e inedite culture. A Milano, la conquista dello spazio pubblico è una questione che oltrepassa la logica del real estate: è un’esigenza vitale che afferma la necessità dell’autocostruzione di una rappresentanza collettiva e condivisa”. Dal testo a cura della redazione che introduce la sezione Spazio Pubblico, p. 15
Milano Italia Una via italiana al futuro è il titolo dell’editoriale di Walter Mariotti che introduce il numero monografico dedicato da Domus a Milano alla fine del 2019. Domus riconosce, nel tessuto urbano e sociale del capoluogo lombardo, il proliferare di energie che la crisi economica del 2008 ha fatto vacillare ma a cui gli eventi successivi, su tutti Expo 2015, hanno permesso uno spettacolare rimbalzo. Che può essere una fonte d’ispirazione, se non un modello direttamente replicabile, anche per il resto d’Italia. Spazio Pubblico, Milano Futura, Spazi Ibridi, Manifatture Milanesi, Patrimonio Moderno sono le cinque macro-aree in cui sono organizzati i contenuti del numero, da cui emerge il panorama di una Milano in cui l’esuberanza del mercato immobiliare e delle operazioni pianificate dall’alto è positivamente controbilanciata dall’azione dell’amministrazione pubblica e dalle iniziative promosse dal basso. Dalle prospettive di sviluppo degli scali ferroviari alle soluzioni innovative e leggere per le Piazze Aperte di NoLo, Milano è immortalata con occhio critico ma in un innegabile momento di gloria, che potrebbe rivelarsi effimero alla luce delle pieghe prese dalla storia mondiale ad inizio 2020.
Domus n. 1041, Milano Italia dicembre 2019
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“Per una città come Milano, la crescita costante all’interno dei suoi confini non può fondarsi su un unico modello di sviluppo: deve contare sulla trasformazione interconnessa delle sue componenti minori, i vecchi quartieri, indicati con l’acronimo NIL, Nuclei di Identità Locale, nel Piano di Governo del Territorio ‘Milano 2030’”. Dall’articolo di Luca Saccardi, Il caso NoLo, p. 21
Domus Il 1928 è un anno fondamentale nella storia dell’editoria di architettura milanese e italiana. Nasce a Torino La casa bella, poi Casabella, la cui redazione è subito trasferita a Milano. E, sempre nel capoluogo lombardo, Gio Ponti e il padre barnabita Giovanni Semeria fondano Domus, acquisita nel 1929 dall’editore Gianni Mazzocchi, che ne fa la testata di punta del gruppo Editoriale Domus. Casabella e Domus s’impongono rapidamente come piattaforme autorevoli e spazi di riflessione privilegiati per la cultura architettonica mondiale, posizione che mantengono a tutt’oggi. Se in un primo momento la dimensione della casa è il riferimento fondamentale di entrambe, nel tempo Casabella si avvicina maggiormente all’ambito della teoria dell’architettura, mentre Domus emerge per la sua vocazione multidisciplinare. La compresenza sulle sue pagine di architettura, urbanistica, design e arte è un riflesso diretto del talento eclettico di Ponti che, salvo una breve pausa negli Anni ’40, ne mantiene la direzione fino alla sua morte nel 1979. A partire da quel momento, mentre la figlia Lisa assicura per molti anni un elemento di continuità, anche simbolica, all’interno della redazione, si susseguono alla guida di Domus architetti e critici del calibro di Alessandro Mendini, Vittorio Magnago Lampugnani, François Burkhardt, Stefano Boeri e Joseph Grima, tra gli altri. Fin dalla sua fondazione, Domus si rivolge tanto agli specialisti del settore quanto ad un pubblico generalista di appassionati di architettura, impegnandosi in un’opera di divulgazione di alta qualità.
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100 ANNI ↘
10 LUOGHI ↙ MILANO Dalla Rinascente di Piazza Duomo al “panettone” di Enzo Mari, dal Teatro Armani a Fondazione Prada: dieci luoghi iconici di Milano.
di Enrico Ratto
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C ↑ 1920–1930 LA RINASCENTE
Dopo l’incendio che la distrusse poco dopo l’apertura, la Rinascente inaugura nuovamente il 23 marzo del 1921. Fonte: Rinascente Archives
↙ 1940–1950 GALLERIA VITTORIO EMANUELE II
Nel 1943, durante la Seconda guerra mondiale, la Galleria Vittorio Emanuele viene bombardata e sarà restaurata solo nel 1948.
↓ 1930–1940 I NAVIGLI
Amati da artisti, scrittori e registi, i canali a cielo aperto che scorrevano per tutta Milano e che l’hanno affermata come “città d’acqua”, in questi anni vengono coperti, portando a un radicale cambiamento del volto della città.
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he cosa permette ad una città di vivere la propria epoca, attraverso le decadi, se non quel continuo gioco tra cultura, impresa e visione del futuro? E l’architettura, che dà vita a tutto ciò che ci circonda con elementi che possiamo vedere e percepire senza per forza saperne decodificare i tratti, è lì per condizionare la nostra esistenza. Così è stato, negli ultimi cento anni, per Milano, città che ha sempre protetto la sua storia senza per questo rinunciare a sostituire il passato con il presente. Cosa rara per le città italiane, dove la tutela del patrimonio è un argomento che vince sempre sull’evoluzione. Un buon inizio per ripercorrere gli ultimi cento anni di Milano è, appunto, una ricostruzione. Parliamo della Rinascente di Piazza Duomo. Il giorno di Sant’Ambrogio del 1918, i grandi magazzini, dopo vari passaggi di proprietà ed un riposizionamento del marchio coordinato da Gabriele d’Annunzio, aprono in Piazza Duomo e durano solo due settimane. La notte di Natale del 1918 un incendio distrugge l’edificio. Per ricostruirlo, la proprietà impiega ventisette mesi, poco più di due anni. Ci vogliono soldi, prestiti da parte delle banche, ma soprattutto ci vuole la capacità milanese di voler ricominciare in tempi rapidi. L’aneddoto racconta che il proprietario, Senatore Borletti, il giorno dopo l’incendio abbia riunito a tavola la famiglia per una breve comunicazione: la Rinascente è bruciata, domani ricominciamo. Il nuovo edificio è identico al precedente, solo vengono posizionate delle grandi cisterne anti incendio sul tetto. È uno dei simboli della rinascita tra le due guerre, un luogo non solo destinato al commercio, ma nel quale artisti, designer, architetti e stilisti riescono a trovare, durante tutto il ’900, gli strumenti per realizzare il loro talento. Tra la fine degli Anni ’20 e gli Anni ’30, Milano vive anche una radicale trasformazione urbanistica. Tra le città più continentali d’Italia, veniva definita “la città d’acqua”. La ragione è semplice: i Navigli, che oggi occupano un’area limitata intorno alla cintura sud della città, erano canali a cielo aperto che attraversavano le aree centrali, da Piazza San Marco, in Brera, fino a Porta Genova, circondavano il Castello Sforzesco fino a Piazza Cadorna. Costruiti per ragioni difensive, vengono più volte trasformati, ma è nel 1929 che si decide, con il varo del primo Piano Regolatore di Milano, di coprire gran parte di quei canali. A partire degli Anni ’30, la “fossa interna” non farà più parte del panorama urbano. Vincono le ragioni sanitarie, vince l’evoluzione della città che inizia ad essere percorsa da automobili, vince l’età del traffico. Inizio Anni ’40. Scoppia la Seconda guerra mondiale. La Galleria Vittorio Emanuele è, tra i simboli della città, il più colpito. Il 15 e 16 agosto 1943 i bombardamenti alleati producono ingenti danni alla struttura. La grande via commerciale coperta, dove l’ingegneria della struttura in ferro si è sposata con l’architettura della copertura in vetro, è l’archetipo delle gallerie commerciali nel mondo. Viene restaurata solo nel 1948, tra gli ultimi monumenti simbolo della città ad essere completati dopo i danni della guerra, vittima questa volta di lunghi dibattiti tra politica, progettisti e cittadini. La svolta per Milano, città italiana dell’architettura, avviene negli Anni ’50. I dibattiti non sono più animati solo dalla borghesia cittadina, ma è il mondo che inizia ad osservare l’architettura che si fa in città, spesso per replicarla. Qui arrivano i progettisti per scrivere i propri manifesti, statement per la nuova architettura. Gli architetti operano in collaborazione con gli ingegneri, sperimentano l’utilizzo dei materiali per lanciare sfide strutturali. Nel pieno centro della città, la Torre Velasca, costruita in soli due anni tra il 1955 ed il 1957, e completata con 8 giorni di anticipo rispetto al contratto, è firmata dallo Studio B.B.P.R.. Oggi la Torre Velasca viene
← 1950–1960 TORRE VELASCA
Nato su progetto dello Studio B.B.P.R. e simbolo della rinascita postbellica di Milano, il grattacielo viene inaugurato nel 1957.
→ 1960–1970 GRATTACIELO PIRELLI
Anche noto come il Pirellone, questa importante opera progettata da Gio Ponti e inaugurata il 4 aprile del 1960, è stato uno dei più celebri simboli di Milano e, per quasi cinquant’anni, l’edificio più alto della città.
↓ 1970–1980 PALAZZINA LIBERTY
Situata all’interno del Parco Vittorio Formentano e originariamente parte integrante del Verziere, l’antico mercato ortofrutticolo, durante gli Anni ’70 venne concessa in uso al Collettivo Teatrale “La Comune” di Dario Fo.
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considerata qualcosa di mai visto prima. Costruita in vetro e – molto – cemento, tutti i critici l’avrebbero tirata su con l’acciaio, solo che l’industria siderurgica italiana non era in grado di fornire il materiale necessario in quel breve periodo di tempo. Oggi quell’edificio sostenuto da travature oblique esterne alla struttura, è entrato a far parte del panorama visivo e culturale di Milano. È questa la Milano che entra nel circuito dell’architettura internazionale. Nel 1961, ci pensa Gio Ponti ad affermare Milano nel mondo. Sono anni in cui le città occidentali crescono in verticale, magari senza un ordine, sicuramente con molto fascino. Anche in questo caso, è dalla collaborazione tra l’architetto Gio Ponti e l’ingegnere Pier Luigi Nervi che prende forma l’idea di realizzare un edificio così alto in calcestruzzo armato. Nel 1961 viene inaugurato il Grattacielo Pirelli che, per cinquant’anni, rimane l’edificio più alto di Milano. Per qualche anno, fino alla metà degli Anni ’60, è stato anche l’edificio più alto dell’Unione Europea. Ma, al di là dei record, è in questa costruzione che Gio Ponti, architetto amato dalla borghesia milanese del Dopoguerra, esprime tutta la sua ricerca. La Pirelli gli ha chiesto un edificio internazionale, contemporaneo, privo di elementi manieristi rivolti al passato, ed il mondo se ne accorge. Nel 1963, nel cuore di Manhattan, viene inaugurato il grattacielo della PanAm (oggi MetLife Building) di Park Avenue. Dopo venticinque anni di proposte e progetti, per i quali vengono coinvolti da Le Corbusier a Walter Gropius, l’edificio sarà la copia del “Pirellone” di Gio Ponti e Pier Luigi Nervi. A Milano architettura e cultura si muovono sullo stesso binario. Gli Anni ’70 sono il decennio dei conflitti e dello sviluppo delle periferie, dove le costruzioni hanno ben poco di simbolico, sono più che altro funzionali alla gestione di uno sviluppo troppo rapido. E, spesso per reazione, la cultura è chiamata a fare la sua parte. A metà degli Anni ’70, Dario Fo e Franca Rame, di ritorno da una tournée europea dove godono di una fama che si alterna alle contestazioni, individuano nella Palazzina Liberty, un piccolo edificio nell’area del Parco Vittorio Formentano, la sede del loro Collettivo Teatrale “La Comune”. Questa costruzione dei primi del ’900, dal 1974 al 1980, diventa luogo di recite, spettacoli e interventi pubblici fondamentali per comunicare a Milano, ed al mondo, la natura di quel teatro che porterà l’attore, ed autore, italiano al Nobel. Sono anni frammentati e di transizione, per questo il simbolo milanese degli Anni ’80, non può che essere qualcosa di provvisorio. Non è un edificio, è un elemento di design urbano nato per un malinteso. All’inizio degli Anni ’80, sulle strade di Milano ci sono troppe auto e poche regole. Al Comune di Milano, ufficio urbanistica, viene chiamato un designer famoso per trovare soluzioni con elementi semplici e funzionali, uno che ha la passione per le forme e per il disegno: Enzo Mari. Gli viene chiesto di ideare un dissuasore per la sosta, l’importante è che non sia una fioriera. Enzo Mari disegna un cilindro ed una sfera, incastra l’uno nell’altra, e nasce il “panettone”. In cemento grigio, deve pesare almeno cento chili, in modo che non possa essere spostato a mano per parcheggiare l’auto. Enzo Mari dirà che l’idea era nata per qualcosa di provvisorio, non si aspettava di veder prodotti in breve tempo oltre un milione di “panettoni”, per essere installati ovunque, a Milano e in Italia. L’oggetto più conosciuto, e sconosciuto, del progettista milanese. Gli Anni ’90 sono il decennio della presa di coscienza che l’industria è finita, o per lo meno si è trasformata, e che immense aree devono tornare a vivere con altri significati. Tra il 1985 ed il 2005, in particolare durante la seconda metà degli Anni ’90, l’area nord di Milano si trasforma in un grande cantiere dove l’architettura lavora al servizio della cultura, nella sua forma più elevata: la formazione. È la grande riqualificazione che ha per oggetto gli ex stabilimenti Pirelli dell’area Bicocca. Il progetto viene affidato a Vittorio Gregotti, un architetto che tutto vuole, tranne la spettacolarizzazione degli edifici. «Il nostro obiettivo è di lunga durata, dobbiamo fare cose che appaiono come fossero sempre state» è il pensiero di Gregotti. Nelle ex aree Pirelli vengono costruiti gli edifici della nuova Università Statale di Milano, l’Università Bicocca. Nel frattempo, nel 1997, viene colta l’occasione del restauro del Teatro alla Scala, per costruire il Teatro degli Arcimboldi. Ma, anche questa volta, il fascino del passato viene conservato e tutelato. Proprio accanto agli edifici dell’Università, lungo Viale Sarca, Pirelli mantiene la sede del consiglio di amministrazione in un piccolo – in proporzione agli edifici circostanti – villino di tre piani con molti secoli di storia: la Bicocca degli Arcimboldi, circondata da un
← 1980–1990 DISSUASORE STRADALE
Ideato dal designer Enzo Mari su richiesta del Comune di Milano che aveva bisogno di una soluzione semplice per scoraggiare la sosta delle auto. Doveva pesare almeno 100 kg.
↑ 1990–2000 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA
Nata dalla riqualificazione delle ex-aree Pirelli, su progetto di Vittorio Gregotti, l’Università viene inaugurata nel 1998.
↑ 2020 PORTA GENOVA
Storico scalo della città, anche Porta Genova sarà parte del progetto di riqualificazione degli ex-scali ferroviari che vedrà, nei prossimi anni, la nascita di nuovi quartieri.
→ 2010–2020 BOSCO VERTICALE
Il complesso residenziale a due torri progettato da Stefano Boeri e nato ai margini del quartiere Isola nel 2014, vanta la presenza di più di duemila essenze arboree.
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parco che è un’oasi in contrasto con tutto ciò che avviene a pochi metri. Accanto al villino, infatti, Vittorio Gregotti si occupa della ristrutturazione della sede di Pirelli Real Estate, un cubo trasparente di cinquanta metri di lato al cui interno è stata mantenuta, circondata dal vetro, la grande torre di raffreddamento dell’ex stabilimento. E, qui, nonostante le dichiarazioni dell’architetto, l’incontro tra passato e presente sa essere spettacolare. Da nord, la riqualificazione si sposta verso il sud della città. Nel 2002, l’attenzione di Giorgio Armani e dell’architetto giapponese Tadao Ando, minimalista che riesce a dare un significato spirituale anche al cemento, si concentra sull’ex stabilimento Nestlé di Zona Tortona. Anche quest’area di fabbriche affacciate sui canali d’acqua dei Navigli ha bisogno di una nuova vita. Nasce il Teatro Armani, concepito in modo da accogliere sfilate, eventi della moda e del design, ed in grado di cambiare il volto di un’area della città destinata alla produzione pesante. A partire dagli Anni 2000, infatti, Zona Tortona diventa il centro della creatività, delle idee, della produzione intangibile delle immagini e del design. Un sistema che afferma di voler spostare il baricentro della città dalla produzione materiale all’innovazione creativa. La maturità di questo percorso arriva nel 2015. Expo è l’evento che mette a sistema anni di ricerca in settori come l’economia, la finanza, la logistica, i servizi, la cultura e la creatività. Naturalmente, l’architettura dà supporto e lega insieme tutti questi elementi. Milano si apre alla tecnologia delle archistar che hanno già costruito in Asia, in Medio Oriente, negli Stati Uniti e nel nord Europa. Ma arrivano anche team più articolati e multidisciplinari di architetti, progettisti, paesaggisti, sviluppatori ed imprenditori coinvolti nei quartieri popolari da rilanciare. Sono queste le operazioni che lasciano, senz’altro più dei grattacieli, una traccia duratura. Milano continua a scoprire nuove aree su cui imprimere i valori e le linee di tendenza per la città dei prossimi decenni: ambiente, sostenibilità, produzione intellettuale, visione e connessioni internazionali. Milano porta l’Europa in Italia, occupandosi della tutela della storia di quartieri come Isola, ai quali fornisce gli strumenti per competere con il mondo. Qui vicino nascono edifici residenziali come il Bosco Verticale di Stefano Boeri. A pochi metri vengono ricavati parchi urbani come la Biblioteca degli Alberi, terzo parco per estensione della città, il primo di nuova concezione per Milano. Ogni decade è segnata da una tendenza precisa, che l’architettura deve affrontare e risolvere: il commercio con le sue vetrine ed i suoi salotti, la produzione culturale all’interno dei teatri, la trasformazione delle industrie in nuovi laboratori. Le aree di sperimentazione del prossimo decennio sono state individuate nelle immense ex aree ferroviarie della città: Scalo Farini, Porta Genova, San Cristoforo, Lambrate, Greco-Pirelli, Rogoredo, Porta Romana. Tutti spazi da plasmare per una una società che sembra voler passare molto più tempo all’aperto, per vedere quel cielo che tanto grigio non è più. Un nuovo modello di sviluppo urbano, con progetti residenziali, commerciali e, soprattutto, vasti parchi urbani come fulcro della metropoli contemporanea. La prima pietra di questo lungo percorso è stata l’inaugurazione, nel 2015 e poi nel 2018, della sede milanese della Fondazione Prada, firmata dallo studio OMA di Rem Koolhaas. Dalla sua terrazza panoramica si può vedere, o per il momento solo immaginare, quello che sarà il nuovo skyline per Milano. Una linea che, se si svilupperà in altezza, probabilmente sarà perché densa di alberi, più che di grattacieli. ●
I PALAZZI. TUTTI GLI ANGOLI DELLA CITTÀ Foto di DSL Studio Testi tratti da Borio Mangiarotti 1920-2015, a cura di Raffaella Poletti, 2014
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L’evoluzione di una città dipende da molti fattori. C’è la storia, il passare del tempo, il solco e le nervature che crea. Nella città tutto questo si trasforma in scelte architettoniche, urbanistiche, stradali. La città cambia e si trasforma grazie a come la modellano le persone che la vivono e alle esigenze che cambiano. I palazzi che Borio Mangiarotti ha costruito dal 1920 a Milano riescono a rendere esplicito questo muoversi del tempo e delle cose, delle persone e delle loro abitudini. Milano infatti è una città che ha sempre messo al centro il fare, provando a renderlo più facile, più reticolare, più concreto. A seguire, una selezione di dieci palazzi che non soltanto riescono a incarnare le direttrici dei cento anni di lavoro di Borio Mangiarotti, ma anche l’architettura stessa della città. I materiali scelti, le zone di sviluppo edilizio cambiate ed evolute negli anni, il recupero e la riqualificazione di strutture preesistenti. E poi le tipologie dei palazzi, che hanno sempre spaziato dal residenziale al commerciale e che nel loro insieme dimostrano come anche l’economia e il lavoro della città si siano come sempre plasmati su ciò che rende una città viva: l’essere diretta emanazione dei suoi cittadini e di chi la abita, anche solo di passaggio.
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Tra via Mauro Macchi e Settembrini, le case commissionate dall’Istituto Nazionale Case per Impiegati dello Stato sono state costruite alla fine degli Anni ’20 e per l’appunto destinate ad abitazioni per gli impiegati statali. Impreziosita dal decoro del basamento a bugne squadrate, l’architettura nel suo complesso è contraddistinta da uno stile sobrio e pulito, che però porta al suo interno novità, come l’introduzione di lesene decorative in cemento in corrispondenza del corpo centrale, oltre alle balaustre sagomate dei balconi al primo piano e le finestre termali sopra i portoni.
Case INCIS viale Brianza 20/22 1928–29 Progetto: Giovanni Broglio
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Commissionata dai Fratelli Civita all’inizio degli Anni ’30, la casa di piazza Duse concretizzava la quintessenza del concetto di ciò che una classe alto-borghese e di avanguardia intendeva per alloggio moderno e di prestigio. Il progetto di Gigiotti Zanini si inseriva in una piazza tardo-liberty e neomanierista e proponeva un edificio lineare, stilizzato secondo i dettami viennesi e vivacizzato dai personali e inconsueti accostamenti cromatici. Cinque scale, dieci ascensori e un montacarichi, locali attrezzati con casseforti a muro, cucine già munite di frigorifero e aspiratori secondo il modello americano, una speciale serra per coltivare le orchidee collocata sul tetto costituivano gli attributi della modernità e del comfort destinati ad una élite di inquilini.
Casa di abitazione piazza Duse 2 1933–34 Progetto: Gigiotti Zanini
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Rimessa e officina per filovie ATM viale Zara, angolo viale Stelvio 1940–41 Progetto: Giuseppe Casalis
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Un’ampia rimessa per filovie, destinata ad un settore in espansione dei trasporti urbani ed integrata a una vicina sottostazione elettrica. Il complesso comprende un edificio a sette piani, con un corpo più basso, adibito a ufficio e attività ausiliarie di servizio, e la rimessa vera e propria, affacciata su viale Zara con un lungo fronte inframezzato da gruppi di strette e alte aperture. La funzionalità si unisce al decorativo, grazie alla scelta dei materiali: rivestimento in clinker per l’edificio più alto, basamento in ceppo, intonaco chiaro e cemento a vista lavorato con un leggero disegno a riquadri. La costruzione della rimessa è invece formata da quattro lunghe campate, la cui copertura impiega travi curve in laterizio armato.
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Lo stabile, ad uso abitazione, negozi ed uffici è costituito da tre corpi di fabbrica. Tutti i fabbricati hanno una struttura in cemento armato e solette in laterizio. Il fronte è giocato su una maglia regolare di orizzontali e verticali, con variazioni ritmiche nella disposizione dei balconi, tutti mantenuti a filo di facciata. A uno zoccolo in granito si susseguono in altezza pareti a intonaco e parapetti in vetro, fino all’ultimo piano, arretrato e dotato di balconata continua.
Casa in condominio viale Vittorio Veneto 16 1950–51 Progetto: Guglielmo Ulrich
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Chiesa e complesso parrocchiale dei SS. Giovanni e Paolo via Maffucci 1964–65 Progetto: Luigi Figini e Gino Pollini
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Lo studio dello spazio interno come principio generatore del progetto caratterizza il complesso dei SS. Giovanni e Paolo. La pianta libera, articolata da una serie di aggetti e rientranze, genera all’esterno un incastro di parallelepipedi che danno origine a diverse visuali, ma nello stesso tempo a confini prospettici precisi. I muri sono pieni e continui, quasi sempre privi di sforature ed accomunati dal materiale impiegato: il mattone, tipico della tradizione lombarda. Inoltre, le murature in laterizio si integrano a strutture in cemento armato che, se in alcuni casi possono essere strutturalmente impegnative – come nel soffitto a soletta piena e grandi nervature nel salone seminterrato –, in altri riescono a generare suggestivi effetti estetico-ambientali.
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Quartiere residenziale IACP Gescal Locate Triulzi 1972–74 Progetto: Giorgio Morpurgo, Novella S. Tutino, Vittorio Korach, Vittore Ceretti, Egon Cegnar, Alberto Favali
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Sette edifici per complessivi 50mila metri cubi e 154 appartamenti compongono il quartiere IACP di Locate Triulzi, che si distribuiscono in due gruppi attorno ad aree verdi separate da una strada di accesso veicolare. La struttura dei fabbricati, tutti di quattro piani, è costituita da pilastri e muri in cemento armato, così come i corpi scala, che si caratterizzano anch’essi per avere strutture verticali costituite da muri in cemento armato. Il calcestruzzo non è tuttavia solo una componente della struttura interna degli edifici, ma individua anche la loro configurazione esterna, stendendosi a vista sulle intere testate laterali, sui parapetti dei balconi, e sui prospetti, in fasce orizzontali, a segnare i vari piani, alternati a parti rivestite di blocchetti in Leca.
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L’edificio si inserisce in un contesto complesso e delicato che alterna importanti preesistenze storiche e archeologiche a costruzioni recenti. I giochi di ombre creati da volumi e aperture e dal sapiente uso dei materiali riescono a movimentare con eleganza l’esteriorità dei quattordici alloggi, organizzati in sette piani, arricchita da lastre di cemento rinforzato con fibra di vetro che ben si alternano al rivestimento in cotto e pannelli. Nell’articolazione compositiva delle facciate entra anche il legno (abete verniciato naturale) utilizzato per infissi, chiusure finestre e plafoni dei balconi.
Edificio residenziale via Arena 22 1989–91 Progetto: Studio associato G. Bentivoglio e G. Brighi
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Mercati ittico, floricolo e palazzina servizi comuni via Cesare Lombroso 95 1989–1992 Progettista: Studio di Architettura EKOS, Arch. G. Veneziani & C. srl Techint S.P.A.
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L’incarico prevedeva la costruzione di due distinti corpi di fabbrica, destinati ad ospitare i nuovi mercati floricolo ed ittico, e di una palazzina a due piani assegnata a servizi e a centrali tecnologiche. La galleria del mercato ittico è coperta con travi trasversali post compresse, cassoni di luce e coppelle di collegamento intervallate da lucernari traslucidi in policarbonato. La galleria del mercato floricolo è coperta con archi trasversali in legno lamellare. La tamponatura delle strutture è stata realizzata in blocchetti vibrapack, successivamente tinteggiate a fasce di colore verde (floricolo), azzurro (ittico), grigio scuro (palazzina servizi).
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Edificio residenziale via Lomazzo 52 2008–11 Progetto: Antonio Citterio Patricia Viel and Partners, Anna Giorgi and Partners
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L’antica sede del quotidiano economico Il Sole 24 Ore è sostituita da un complesso articolato in tre corpi. Su via Lomazzo si crea un volume muto, privo di articolazioni volumetriche. Queste ultime sono però sostituite da una gabbia metallica minimale, che nasconde giardini privati e un parco lussureggiante che occupa il retro del lotto. Nella finitura degli edifici materiali diversi e contemporanei: pietre naturali si alternano a superfici intonacate, legno, pietra lavica, fibrocemento ecologico, alluminio verniciato.
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Parcheggio interrato su quattro livelli piazza Sant’Ambrogio 2019 Progettista: Studio Anna Giorgi and Partners
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La proposta progettuale di piazza Sant’Ambrogio prevedeva la completa pedonalizzazione dell’intera area. A partire da questo obiettivo, era necessario sgomberare il sagrato della Basilica da qualsiasi interferenza materica per consentirne la miglior fruizione visiva ed enfatizzare il recupero storico dello Stradone grazie all’aumento del verde e degli alberi. A caratterizzare il progetto, la ricerca e la sperimentazione nello studio di soluzioni tecniche e tecnologiche sempre più complesse sul versante del consolidamento verso gli edifici confinanti. Anche gli elementi tecnici dovevano dunque essere armonizzati, dando la possibilità di riordinare anche lo spazio antistante il Monumento ai Caduti e l’ingresso allo storico complesso dell’Università Cattolica.
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I progetti per un futuro all’insegna della sostenibilità, la nuova cultura dell’abitare, la periferia e la città: questi sono alcuni dei temi al centro del dibattito contemporaneo su un modello di vita urbano che è destinato a cambiare e che abbiamo scelto di inserire nella nostra cassetta degli attrezzi.
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SOSTENIBILITÀ Un futuro di sfide e progettualità
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CULTURA La cultura dell’abitare Le riviste manifesto
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INNOVAZIONE Affordable Housing
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PERSONE Un secolo di storia
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PORTFOLIO Il paesaggio svelato
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UN FUTURO DI SFIDE E Serve una trasformazione nel modo di progettare: più consapevole del passato (e dei suoi errori) e fortemente legata alla sostenibilità.
di Mario Cucinella
In un momento di grande sensibilità ai temi ambientali, di crescente preoccupazione di fronte alle emergenze e alle grandi sfide della Roadmap Low Carbon Europe 2050, dell’Agenda Onu 2030 con gli obiettivi di sviluppo sostenibile, diventa fondamentale progettare realmente il futuro, distaccandosi dall’idea di concepirlo esclusivamente come estensione e prolungamento del presente. Un progetto di futuro che sia basato su un modello di sviluppo sostenibile e resiliente e che non può prescindere da una consapevole strategia di investimento che interessi l’ambiente costruito. La qualità del contesto in cui abitiamo è una parte fondamentale della qualità della nostra vita e forse uno dei fattori determinanti nella soluzione dei problemi ambientali. La domanda più ambiziosa che dobbiamo porci è come vogliamo vivere nelle città, nelle campagne, che rapporto vogliamo avere con la natura dentro e fuori dalle città e se riteniamo indispensabile trovare un nuovo equilibrio. Mai come in questa fase storica è emersa con forza una necessità collettiva di architettura e di un nuovo rapporto con la natura e con lo spazio costruito. Saranno quindi necessarie nuove azioni, una nuova etica nei confronti dell’ambiente attraverso un’azione che accompagni un cam-
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biamento culturale epocale, soprattutto nel nostro modo di concepire l’architettura e gli strumenti a nostra disposizione per la progettazione. Il tema dell’inquinamento non riguarda la capacità degli edifici di assorbire CO2 ma quella di non produrla. Inoltre possiamo chiederci ad esempio: quali sono i costi sanitari dei cambiamenti climatici dovuti anche alla povertà edilizia? Se ci mettiamo a misurarli, scopriamo che probabilmente l’investimento sull’edilizia per migliorare le funzioni di comfort è infinitamente minore rispetto ai costi per il welfare dovuti al cambiamento del clima. Il mestiere e le competenze dell’architetto sono essenziali, ma dobbiamo essere consapevoli che costruire un edificio non è un’azione ecologica. È una trasformazione di materie che prendiamo nell’unico luogo che abbiamo, che è il pianeta. Numerosi studi ci dicono che nel 2060 avremo edificato oltre il doppio della superficie costruita attualmente presente sulla Terra, ma dove troveremo tutte le risorse per farlo e l’energia per mantenere questi edifici? Il mondo costruito, lungo l’intera filiera, è responsabile per quasi il 40% delle emissioni di gas climalteranti, di cui il 28% deriva dalla fase di utilizzo (operational energy) e l’11% dalla costruzione (embodied energy). A questo tema si aggiungono il recupero di un immenso patrimonio edilizio e l’azzeramento del consumo netto di suolo. Dunque possiamo dire che costruire, trasformare, ricostruire è un’attività necessaria e che possiamo fare meglio, possiamo costruire abbassando l’impatto ambientale, possiamo migliorare le produzioni industriali, possiamo utilizzare materiali pensati per una nuova economia circolare. Forse prima è necessario prendere consapevolezza di come negli ultimi due secoli abbiamo perso l’abilità di dialogare con il clima, confidando nella sola tecnologia come risposta ai nostri problemi. Questa semplificazione tecnologica ha ridotto le nostre conoscenze portandoci a creare edifici totalmente estranei ai luoghi. Il dialogo con il clima e il contesto richiedeva e richiede competenze e capacità progettuali nel suo insieme. Questo approccio alla progettazione, da un lato ha incentivato lo sviluppo della tecnologia impiantistica, dall’altra ha impoverito i linguaggi, che si sono con il tempo omologati, divenendo indipendenti dalla relazione con il contesto. Se lo sviluppo tecnologico ha rappresentato la soluzione a molti problemi, è evidente che l’ambiente ci ha presentato il conto. Davanti a tutto questo mi chiedo allora cosa abbiamo perso e cosa si può recuperare per affrontare un futuro che si prevede particolarmente impegnativo per l’ambiente. Nel pensare i nostri progetti proviamo da un lato a riprendere la lezione di quel passato in cui, per millenni, abbiamo
Nel 2060 avremo edificato oltre il doppio della superficie costruita attualmente presente sulla Terra, ma dove troveremo tutte le risorse per farlo e l’energia per mantenere questi edifici?
← Una visualizzazione digitale di un passaggio pedonale del progetto SeiMilano. Visual by Mario Cucinella Architects
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↑ Un render di TECLA, il nuovo modello abitativo circolare lanciato da Mario Cucinella Architects e WASP, interamente creata con materiali riutilizzabili e riciclabili. Visual by SOS - School of Sustainability
... è fondamentale nel nostro lavoro un approccio multidisciplinare, che si avvale di diverse competenze, attraverso collaborazioni con sociologi, ingegneri, esperti di sanità, di mobilità, di spazi culturali, pedagogisti.
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costruito opere che non necessitavano dell’impiego di energia, utilizzando al massimo le risorse disponibili, nel rispetto dei tempi di rigenerazione della natura; dall’altro nell’idea che l’uomo non è il centro del mondo ma parte di un sistema ecologico più grande, proviamo a ripensare i nostri edifici e gli interventi di rigenerazione urbana bioispirati, concependoli quasi come organismi o piccoli ecosistemi con un loro ciclo di vita, che interagiscono con il contesto sociale e ambientale. Le architetture vogliono essere quindi il risultato di un incontro tra questa nostra ricerca e il progetto, che è la parte creativa. Inoltre oggi, alla luce di quello che è l’impatto del mondo costruito nella vita delle persone, non possiamo fare a meno di lavorare su temi di grande urgenza come la città, ridisegnando gli spazi per stare insieme. Proprio in questa filosofia del disegnare la città, la casa, gli spazi per stare insieme, il rapporto con il paesaggio, si inserisce anche il grande progetto di rigenerazione di SeiMilano. Attraverso la pianificazione e l’architettura possiamo pensare una città che si può vivere in un raggio di quindici minuti riconnettendo le persone ai loro quartieri, immaginare i servizi di assistenza socio-sanitaria, scolastici, culturali, relazionali, di amicizia e solidarietà come diffusi, simili a una rete neurologica interconnessa. Riprogettare la casa intesa come primo luogo di cura è un altro tema importante. Lo stato di povertà del patrimonio edilizio sociale (e non solo) ha come conseguenza un incremento di patologie che pesano e peseranno in maniera importante sul costo del welfare. Nel ripensare la casa bisogna ascoltare maggiormente i desideri delle persone, comprenderne meglio i nuovi bisogni, perché nel progettare l’abitare condizioniamo i comportamenti altrui, per questo la casa dovrebbe avere dei margini di adattabilità ai diversi modi di abitare, esattamente come suggerisce il prof. Mario Abis nella sua ricerca Housing Evolution. Abbiamo compreso che è fondamentale nel nostro lavoro un approccio multidisciplinare, che si avvale di diverse competenze, attraverso collaborazioni con sociologi, ingegneri, esperti di sanità, di mobilità, di spazi culturali, pedagogisti etc. In questa trasversalità attenta all’apporto di personalità e professionalità diverse si colloca anche l’esperienza di SOS - School of Sustainability, nata dalla volontà di formare dei professionisti che sappiano proprio rispondere alle sfide del domani grazie a un approccio che punta all’applicazione dei temi di ricerca più all’avanguardia all’interno di progetti reali. I giovani professionisti hanno l’opportunità di entrare in contatto con la realtà progettuale dello studio e quindi con la pratica professionale, ma allo stesso tempo la scuola diventa una piattaforma di scambio di conoscenze. Le ricerche condotte all’interno della scuola diventano degli input di riflessione progettuale anche nel lavoro dello studio, in quanto importante occasione di riflessione e ricerca slegata dai vincoli della professione, del budget e dei requisiti stringenti di una vera committenza. Si genera un grado di libertà che riesce a generare un lavoro creativo di grande interesse, che è il vero senso della ricerca. Con la SOS - School of Sustainability abbiamo avuto l’opportunità di lavorare su temi di grande attualità sviluppando progetti spesso per committenti reali che seguono tre grandi filoni tematici: l’architettura per l’era post-carbon, l’architettura di emergenza e l’architettura come business sociale nella rigenerazione urbana. Negli anni i giovani professionisti della scuola hanno sviluppato progetti come il Parco bioclimatico per una Bologna resiliente, un progetto urbano di adattamento agli impatti del cambiamento climatico; il progetto del Water Wall per mantenere freschi i prodotti della produzione alimentare in India; un nuovo modello di casa sostenibile per gli Emirati Arabi; un Toolkit per la creazione di spazi di comunità, applicato attraverso un progetto all’interno del quartiere della Bolognina a Bologna; un progetto di un prototipo urbano per
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l’integrazione di migranti e rifugiati; le linee guida strategiche di ricostruzione per il centro storico di Camerino, distrutto nel terremoto del 2016. Grazie a una collaborazione con il MIUR e al coinvolgimento degli studenti delle scuole superiori, abbiamo potuto lavorare al progetto della “scuola Ideale” e creare delle linee guida per un progetto di scuola innovativa. L’anno scorso abbiamo ancora lavorato, in collaborazione con WASP, azienda leader nel campo della stampa in tre dimensioni, e gli architetti dello studio, su TECLA, un villaggio di abitazioni in terra stampate appunto in 3D che siano in grado di rispondere in maniera rapida, sostenibile e di qualità all’emergenza abitativa. In tutti questi progetti i giovani professionisti della scuola hanno avuto modo di interfacciarsi con moltissime figure: dagli attori pubblici, a rappresentanti di diverse aziende, alle molte professionalità dalle competenze differenti fino ad arrivare alla cittadinanza. Sempre in questa direzione, per l’appunto, sono stati realizzati tre dei quattro progetti di riqualificazione delle scuole Open Space in collaborazione con Actionaid. Interventi in spazi scolastici che sono caratterizzati dal basso costo e dall’alto impatto sociale e che mirano a contrastare la povertà educativa all’interno di quartieri marginali delle più grandi città italiane, attraverso il coinvolgimento degli studenti e della comunità educante del quartiere. In conclusione, quello che cerchiamo di fare sia con il nostro lavoro dello studio che con SOS - School of Sustainability, si fonda su un‘idea di sostenibilità che mira a costruire senza distruggere, costruire per un bene comune, nella consapevolezza di essere parte di un ecosistema più grande. ●
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Quello che cerchiamo di fare, sia con il nostro lavoro dello studio che con la School of Sustainability, si fonda su un’idea di sostenibilità che mira a costruire senza distruggere... nella consapevolezza di essere parte di un ecosistema più grande. ↓ Un render del progetto del team di Post Carbon Architecture che mira a disegnare nuovi modelli di città caratterizzati da forme avanzate di re-cycling e hyper-cycling, soprattutto in Paesi emergenti come gli Emirati Arabi Uniti. Visual by Mario Cucinella Architects
LA Quando e come è nata l’idea di casa, la sua evoluzione nel tempo, la nuova percezione che ne abbiamo oggi e l’idea di come sarà domani. Riconsiderando i suoi spazi, reali ed iconici, oltre al suo stesso ruolo nella vita delle persone.
DELL� ABITARE URBANO
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CULTURA
CULTURA
Il recente scenario di emergenza sanitaria ha costretto la maggior parte di noi a trascorrere un periodo prolungato nelle proprie abitazioni, vivendo questi spazi con maggiore intensità rispetto alla consuetudine, svolgendovi anche delle attività che generalmente hanno luogo in altri contesti. Questa esperienza ci invita a una riflessione sul significato reale della casa, luogo di protezione e intimità, uno spazio abitato che trascende lo spazio geometrico e la dimensione architettonica. La casa è il centro del nostro universo, la nostra culla, il luogo dove tutto ha inizio. Il suo ruolo nelle nostre vite si estende ben oltre la mera funzione di riparo, essa rappresenta, insieme alla famiglia, un punto di riferimento costante nella vita dell’uomo e conferisce un seppure illusorio senso di stabilità. Il filosofo francese Gaston Bachelard (1884–1962) ha dedicato una grande parte della sua ricerca all’individuazione dell’origine della poesia e, assieme ad alcuni temi fondamentali come la vita, la morte, la natura e l’amore, individua lo spazio abitato come oggetto del suo studio. Nella sua celebre opera La Poetica dello Spazio lo studioso descrive la casa come elemento di integrazione per i pensieri, i sogni e i ricordi dell’uomo, il luogo che protegge il sognatore e fornisce un riparo alla rêverie, al fantasticare. Bachelard sostiene che la nostra nozione di casa è al contempo un insieme di memoria e sogno, che il ricordo della casa natale rimanga sempre fisicamente dentro di noi ed abbia inciso in noi il diagramma delle diverse funzioni di abitare. Tutte le altre case per il filosofo non sono che variazioni di questa “casa indimenticabile”. Questo legame indissolubile ricorre spesso nell’arte e nella letteratura, un recente esempio particolarmente significativo può essere considerato Roma, film del 2018 diretto da Alfonso Cuaron, dove la famiglia e la casa dell’infanzia del regista fanno da sfondo ad un romanzo popolare ambientato negli Anni ’70 a Città del Messico. All’opposto di questo profondo legame radicato nell’inconscio Bachelard pone la casa sognata, la casa dell’avvenire, finale, che condensa tutte le nostre aspirazioni abitative, dalle idee di comfort e benessere della società in cui viviamo all’idea romantica di intimità e solitudine della capanna. La casa si manifesta a noi attraverso la sua dimensione fisica,
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di Paolo Dell’Elce
↓ Machu Picchu è il miglior esempio conservato di architettura Inca. Gli edifici sono principalmente a pianta rettangolare, senza muri interni e fatti di pietre semilavorate cementate con malta.
← Due esempi di Yurt e un’immagine di abitazione Masai. La Iurta è un’abitazione tipica del Medio Oriente e dell’Asia centrale. Si tratta di rifugi ingegnosi e flessibili a pianta circolare che rispondono perfettamente alle esigenze di vita nomade di quei popoli: queste abitazioni hanno infatti il vantaggio di poter essere smontate, spostate e assemblate in tempi relativamente brevi. Sin dall’antichità sono costituite da uno scheletro di legno e da una copertura di tappeti di feltro di lana di pecora. Le dimensioni e l’aspetto non sono fissi ma dipendono dal popolo che le adotta. In base alla zona geografica e alle condizioni climatiche possono inoltre presentare soluzioni più tecnologiche, come telai in metallo. All’interno la pavimentazione è variabile e può prevedere dalla più semplice copertura in feltro a leggeri basamenti fino a forme di pavimentazione più simili a quelle occidentali. Diverse dalle prime sono invece le costruzioni di alcuni popoli africani, come i Masai, che utilizzano ancora le tecniche costruttive della preistoria. Le loro abitazioni, a pianta circolare, sono costruite con materiali facilmente reperibili in natura come torba, sterco, rami, fogliame, pelle.
abitiamo la sua forma. Anche questa è ricca di simboli e miti, richiama le forme abitative che troviamo in natura o le immagini dei rifugi primitivi, che proteggono dalle ostilità del mondo esterno. Per comprenderne appieno il significato e aumentare la nostra consapevolezza del ruolo dell’abitazione nella vita degli uomini, può essere interessante ripercorrerne brevemente la sua evoluzione. Le prime forme di riparo utilizzate dall’uomo primitivo sono di tipo naturale, come la chioma degli alberi e le cavità nella roccia. In mancanza della disponibilità di questi ripari venivano utilizzate delle semplici strutture composte da pelli sostenute da pali in legno, che andavano a formare un tipo primordiale di tenda. Sono numerosi gli esempi dove l’uomo interviene alterando il paesaggio naturale, ricavando per sottrazione delle abitazioni all’interno della roccia. Alcuni degli esempi più significativi di queste abitazioni sono gli insediamenti definiti Camini delle fate, in Cappadocia, nell’Anatolia centrale in Turchia, uno spettacolare paesaggio di tufo eroso dove ha origine l’impero Ittita. Questo tipo di abitazione e le sue caratteristiche di durezza e sicurezza rimandano immediatamente al guscio del mondo animale, che Bachelard analizza approfonditamente nel suo lavoro e descrive come «un’immagine iniziale… appartenente all’indistruttibile bazar delle antichità dell’immaginazione umana». La caverna e le sue pareti in roccia accompagneranno e rimarranno a lungo dei riferimenti per l’uomo anche quando questo edificherà strutture indipendenti, utilizzando pareti perimetrali in pietra, pensiamo ad esempio alla straordinaria architettura Inca o ai Trulli della costa adriatica Italiana. Alcune abitazioni utilizzate ancora oggi dalle popolazioni autoctone africane come Dogon, Masai, ci suggeriscono la conformazione e le tecniche costruttive di molti degli edifici della preistoria. Questi sono frequentemente realizzati con materiali come torba, sterco, rami, fogliame, pelle e sono solitamente geometricamente caratterizzati da una pianta circolare, un tetto spiovente e internamente da schermi separatori tra le zone dedicate alle donne, agli uomini ed eventualmente al bestiame. Il focolaio occupa quasi sempre una posizione di centralità, rappresentando il nucleo dello spazio
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↑ Un esempio di Trullo, tradizionale capanna in pietra a secco pugliese con tetto conico. Tipico della Puglia centro-meridionale, era adibito ad abitazione per gli agricoltori o usato come rifugio temporaneo nelle campagne. ↓ Un esempio di casa moderna, modello che si sviluppa nel secondo dopoguerra parallelamente alla nascita della società moderna. Si afferma l’idea di abitazione come la conosciamo noi oggi, dotata di ogni comodità e comfort. → Un esempio di casa moderna progettata da un architetto genovese nel 1972, che prende ispirazione dalla preistorica caverna con le pareti in roccia.
CULTURA
attorno cui viene eretta la casa. I primi impieghi del legno da parte dell’uomo preistorico nella costruzione di rifugi sono relativamente semplici ed adatti alla vita nomade. I tipici Yurts presenti per millenni in Medio Oriente e nell’Asia centrale ne rappresentano una delle versioni più ingegnose, flessibili ed evolute. Le nuove esigenze di spazio dettate dall’avvento dell’agricoltura nel neolitico portano all’evoluzione dell’abitazione in legno a pianta circolare, la cui dimensione era limitata alla lunghezza delle travi a disposizione, ad una nuova configurazione rettangolare espandibile secondo le necessità, vicina per forma all’icona della casa tutt’oggi presente nell’immaginario collettivo. Tuttavia è solo dopo l’avvento dell’Età del ferro e la reperibilità in Europa di strumenti adeguati che le costruzioni in legno evolvono drasticamente dal punto di vista strutturale e qualitativo. Tra la tarda Età del bronzo e l’inizio dell’Età del ferro compaiono in Europa le prime costruzioni in mattone in terra cruda, un elemento modulare e dalle dimensioni relativamente contenute composto da fango essiccato al sole, che rappresenta un importante avanzamento nella razionalizzazione della costruzione degli spazi abitativi. Esso viene ampiamente utilizzato nell’antico Egitto e nell’architettura medio-orientale e trova grande espressione nelle costruzioni delle popolazioni indigene degli Stati Uniti del Sud-Ovest, dell’America Centrale e delle Ande. Queste costruzioni, realizzate con risorse facilmente reperibili in natura, rappresentano i primi passi che l’uomo compie nella definizione di un proprio spazio abitativo e ci restituiscono chiaramente i connotati fondamentali della casa. Judith Flanders, nel suo libro The Making of Home, mostra come il riparo evolva e diventi una “casa”, ripercorrendo cinque secoli di evoluzione dell’abitare e descrivendo i diversi modi in cui gli spazi vengono vissuti nelle varie culture e latitudini. L’autrice guida il lettore attraverso documenti e testimonianze provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti che raccontano la vita domestica e i costumi dal XXVII secolo ad oggi, mostrando alcuni curiosi dettagli, come ad esempio che in passato i mobili fossero generalmente posizionati nella zona perimetrale dei locali della casa, ad eccezione dell’Inghilterra, dove erano posizionati al centro per favorire l’interazione e la socialità tra gli individui. Interessante notare come, sempre in Inghilterra, i letti si trovassero nel soggiorno e fossero considerati mobili pubblici, prima di divenire mobili intimi posizionati in spazi privati, o ancora come le tende fossero il segno di una famiglia ordinata in Germania e venissero invece evitate nell’Olanda calvinista per mostrare i propri beni, simbolo della benevolenza divina. Dopo millenni di evoluzione tecnologica e architettonica con l’avvento della seconda rivoluzione industriale nel XIX secolo e con l’introduzione dell’accia-
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Quattro Capanne, quattro storie per cambiare la filosofia Nel descrivere il suo libro Quattro Capanne o della semplicità (2020, ed. Nottetempo) in un’intervista a Frammenti Rivista, Leonardo Caffo ha parlato di «necessità della semplicità per fare filosofia», cioè dell’astrazione che ha permesso agli intellettuali protagonisti del suo racconto di mettere a punto il loro pensiero. Si tratta di un concetto che, in qualche modo, vuole evidenziare la distanza tra il mondo accademico della filosofia e la filosofia stessa, che poi è la distanza tra l’attività intellettuale dei filosofi e la loro vita reale. È questo il tema che emerge di più nell’opera di Caffo, 31enne catanese, filosofo e co-curatore del Public Program 2020 di Triennale Milano, insegnante di filosofia teoretica al Politecnico di Torino e di fenomenologia delle arti visive contemporanee alla NABA di Milano – ma anche giornalista, autore radiofonico, e tante altre cose. Nel suo libro ci sono le storie di Henry David Thoreau, Theodore “Unabomber” Kaczynski, Le Corbusier e Ludwig Wittgenstein, quattro personaggi rivoluzionari, controversi, che hanno segnato il loro tempo, ognuno in un campo diverso, e che vengono catapultati e raccontati in un contesto archetipale: quattro capanne, appunto, che abitano per una scelta primitiva e radicale, ma che secondo la versione dell’autore permette loro di esercitare realmente il pensiero filosofico. Il senso della lettura di quest’opera è quello della riscoperta: la vita torna ad essere percepita come condizione inevitabilmente legata a fenomeni naturali. Ma nelle pagine del libro di Caffo c’è anche la richiesta di un cambiamento radicale, di una ribellione che possa trasformare la filosofia moderna, una disciplina diventata fin troppo argomentativa, la cui ricerca risulta lontana dalla realtà, o meglio da una percezione reale della vita. Nell’introduzione, Leonardo Caffo scrive: «Questo è un testo di filosofia, eppure parla delle vite, delle svariate vite, che ognuno di noi potrebbe trovarsi a sperimentare sapendo scegliere una strada piuttosto che un’altra». È proprio il senso della filosofia, a pensarci bene.
io, dell’elettricità, del petrolio e dei prodotti chimici assistiamo ad una totale ridefinizione della vita dell’uomo. La società moderna comincia a prendere forma e con essa la casa come la conosciamo oggi. Si potrebbe affermare che l’abitazione ideale presente nell’immaginario collettivo nasca dopo il secondo conflitto mondiale, in un momento di grande prosperità economica e fiducia nel progresso. In questo contesto di benessere, assieme alla cultura del consumo, si diffonde l’immagine di una casa dotata di ogni comfort, per rendere agevole e organizzata la vita quotidiana. Un modello quindi nato in un momento storico distante oltre mezzo secolo, caratterizzato da dinamiche sociali ed economiche estremamente lontane dalla contemporaneità, che ritroviamo ancora oggi presente nelle aspirazioni abitative della maggior parte degli uomini del nostro tempo. Il modello abitativo moderno è stato ampiamente messo in discussione ed analizzato da alcuni dei più grandi intellettuali della nostra epoca. J.G. Ballard nel suo Il condominio (High Rise, 1975), racconta con acuta lucidità e sintesi l’alienazione e il disagio della vita in un grattacielo, che dovrebbe offrire ai propri occupanti tutto ciò di cui necessitano e invece risveglia in essi odio e violenza, portandoli a regredire ad uno stato primitivo. Anche i materiali e le tecnologie su cui si fondano i principi dell’architettura moderna tradizionale hanno ampiamente dimostrato di non essere sostenibili, così come il modello di società basato sulla crescita illimitata della produzione di beni materiali e dei consumi. Nonostante questa consapevolezza, la nostra idea di benessere sembra invariata, continuiamo a vivere come in una costante amnesia. Alcuni timidi segnali di cambiamento dimostrano la volontà di una parte della società di vivere utilizzando meno risorse e, allo stesso tempo, godere dei vantaggi offerti dalle tecnologie e da una società interconnessa: il caso letterario Goodbye Things di Fumio Sasaki ne è un chiaro esempio e può stimolare riflessioni sul tema. Forse la casa può costituire il luogo ideale dove soffermarci per riconsiderare le nostre priorità e focalizzarci sui nostri reali bisogni, può ispirare nuovi comportamenti e rappresentare il punto di partenza da cui possano diffondersi nuovi possibili scenari di vita, capaci di garantire un futuro alle generazioni che verranno. ●
LE MANIFESTO
RIVISTE
Dal “New York Magazine” di Milton Glaser (e i tetti di New York), passando per “Monocle” (e i balconi di tutto il mondo), fino all’italiana “Terrazzo” (nome nomen) di Ettore Sottsass: viaggio attraverso riviste-manifesto di una cultura dell’abitare al centro di continue interpretazioni. di Serena Scarpello
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↑ L’immagine di un salotto di un’abitazione degli Anni ’50. La zona da pranzo, divisa dal salotto, si trova dietro.
Philippe Daverio diceva che le riviste hanno avuto, fin dai tempi della loro primissima diffusione, un ruolo fondamentale nella creazione della cultura e del pensiero stesso, nonché nelle grandi rivoluzioni che, a suo dire, passavano sempre dalla carta. Le riviste sono, a mio parere, delle opere d’arte senza tempo, bellissime, sfacciatamente commerciali in alcuni casi, meno in altri, tutte volte ad esprimere bellezza, molto spesso manifesto (appunto) ed archivio e cronaca dei nostri tempi interessanti. C’è chi dice che le venderà per sempre, fino al giorno della sua morte, come uno dei dipendenti di Casa Magazine, l’edicola più famosa del West Village, a New York, che ha riaperto a luglio di quest’anno dopo alcuni mesi di lockdown e quando il New Yorker scrive che: «For “Westies”, Casa is a clubhouse and a weekend confessional. For destination tourists – that is, people who are not locals – it’s the only living shrine to print culture in New York City»1 mi trova perfettamente d’accordo. Questo paradiso delle riviste, Casa Magazine, è gestito dall’indiano Mohammed Ahmed, eletto l’ultimo “Re della carta” dal New York Times2 e quasi non riesce a mostrare tutti i 225mila giornali di cui è in possesso: sotto al numero di Granta, per esempio, si possono scovare alcuni
CULTURA
numeri di Gentlewoman, e poi Self-service, Cabana, Lapham’s quartley. Il New York Magazine è sempre in bella vista. Una rivista manifesto a tutti gli effetti, che negli anni ha raccontato una città, New York, costruendone di volta in volta la stessa immagine ed interpretandone l’evoluzione nel tempo. Il numero di marzo mi è rimasto impresso nella mente più di altri: in copertina mostrava un ragazzo su un tetto mentre suonava il piano, un’immagine semplice ma allo stesso tempo forte, che improvvisamente abbatteva tutti i muri tra le nazioni, ci accomunava tutti, trasmetteva più di mille titoli il forte senso dell’unione (e della poesia) che la pandemia aveva scaturito a New York, come a Milano e a Roma. Abbiamo vissuto le nostre case, il nostro privato, il nostro tempo esattamente come tutti, cercando di non perdere la speranza, l’ispirazione, il senso della bellezza, nonostante fossimo circondati da tanta bruttezza. Ma le copertine del New York Magazine sono sempre state una specie di Manifesto libero, veloce, divertente ed urbano, proprio come la città dove sono nate. Il bellissimo libro raccolta MAG MEN. Fifty years of making magazines di Walter Bernard & Milton Glaser, introduce così la storia della nascita del magazine: «We began working together on July 1, 1968. The pace was hectic from the start, but we quickly found our stride as art director and design director. With lean budgets and a brilliant staff, we managed to produce a weekly magazine that, if far from perfect, had a real impact on the city and beyond».3 Le copertine erano di solito foto artistiche della città, del suo skyline, di Central Park e di altri luoghi diventati sempre più iconici con il passare degli anni. Il design di Peter Palazzo venne per lo più mantenuto da Milton Glaser e Walter Bernard che lo ammiravano al punto da volerne mantenere la tradizione nonostante la volontà di base di fondare un nuovo magazine, lanciare un nuovo modo di raccontare la città sia da un punto di vista artistico che letterario. Tra le cover illustrate dallo stesso Glaser e forse le più riuscite (secondo la stessa testata) ci sono sicuramente quella che lanciò il primo numero e che recitava «New York is about New York» e presentava un Empire State Building in quattro sequenze. In fondo chi meglio di Milton Glaser poteva essere in grado di ascoltare, interpretare e raccontare una città che tanto amava da averne ideato lo slogan più famoso, I NY, nell’anno in cui gli chiesero un supporto per rilanciare la stessa immagine di una città allora in crisi (siamo nel 1975). Glaser riuscì con questa e con altre riviste, così come con i suoi poster, a disegnare un’immagine precisa quanto stratificata di New York, e a diffonderne il ruolo nel mondo in quanto città modello, anticipatrice di nuovi trend, antesignana di tutte le mode e luogo in cui le discussioni intorno a certi temi nascono prima che altrove. A proposito di riviste-manifesto che hanno avuto e hanno tuttora un ruolo fondamentale nel cambiare certe percezioni riguardo la vita in un posto c’è Monocle, nata nel 2007 a Londra da un’idea di Tyler Brûlé (lo stesso che ha inventato Wallpaper), e diventata in pochi anni la bibbia di ogni lettore viaggiatore moderno e che intende scoprire qualcosa che vada oltre l’immagine più turistica e mainstream di un qualsiasi luogo. Monocle parla di politica, cultura e temi globali attuali, e lo fa attraverso il mensile, la radio, i libri, la sua agenzia creativa, i negozi e i caffè in giro per il mondo, ma soprattutto lo fa in un modo tale da cristallizzare una certa
← Copertina di Domus n. 1045 Courtesy Editoriale Domus S.p.A. tutti i diritti riservati
↓ Copertina di New York Magazine 30 marzo–12 aprile 2020 Foto: Jeremy Cohen
↓ Copertina di Monocle n. 133, maggio 2020 Fonte: Monocle / monocle.com
HOME — IT’S WHERE YOU NEED TO BE
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INSIDE: BEDROOM-FITNESS BOOM THE HOME GUARDS TYO, LDN, NYC (WE’RE WITH YOU) HANDSOME COWS to
AFFAIRS: What the world thinks of China BUSINESS: Finland’s sharpest company CULTURE: The Italian editor DESIGN: Perfect hideaway pads and lairs ENTERTAINING: Happy meals and homely recipes FASHION: How to make it anew
1
A lighthouse for Magazines, “The New Yorker”, di Nathan Taylor Pemberton, 9 luglio 2020
2 The Last King of Print, “New York Times”, di
Maya Lau, 26 Ottobre 2012
3 Introduction, “MAG MEN, Fifty years of
making magazines”, di Walter Bernard & Milton Glaser, foreword by Gloria Steinem, pag. 12
WHY HOME MATTERS
A manifesto for creating spaces that make you feel happy and secure (and what to see when the world gets moving)
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may 2020 issue 133
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WE’LL BE BACK: The Bali outpost that wants to set a new agenda for taking care of people TOME ALONE Japan’s Tsutaya bookshop does it again with a Roppongi revival GROW UP How to nurture shaggy nature on your balcony
idea di vivere: la propria città, la meta di un viaggio, l’esperienza stessa del viaggio, la propria casa o l’ufficio in cui si lavora. Lo stesso Tyler Brûlé è icona di un modello di vita che mette il bello e soprattutto ciò che non è scontato davanti a tutto. Vanity Fair 4 lo ha definito il guru della “Merano Renaissance” visto che proprio qui ha comprato una casa-Castello (ristrutturata con il suo stile moderno e poi venduta) ma prima ancora ci aveva aperto il suo primo Monocle Shop in cui si vendono tutt’ora prodotti di eccellenza locale, riviste (tanta, bellissima carta), ma che fa anche da hub per artisti e mostre pop-up. Al negozio di Merano sono seguiti quelli di Londra (a Mayfair), Zurigo, Tokyo, Hong Kong (all’interno dell’aeroporto), Los Angeles, Toronto e il temporary di Milano (in collaborazione con Tenhoa, il concept store giapponese simbolo della vita cool orientale). Un numero del 2020 che ho conservato è l’Issue 133 di maggio, dedicato ad un vero e proprio manifesto per vivere bene i propri spazi. Il titolo in copertina recita: «Why home matters. A manifesto for creating spaces that make you feel happy and secure (and what to see when the world gets moving)» e l’illustrazione di Satoshi Hashimoto mostra diversi balconi, più o meno grandi, dai quali giovani coppie, bambini, cani e anziani, si affacciano sorridenti mentre bevono una tazza di caffè, suonano la chitarra, annaffiano le piante, si salutano e sorridono alla vita. Mai come quest’anno ci siamo resi conto di quanto sia importante la nostra casa. Certo lo sapevamo già, ma non l’avevamo mai vissuta in questo modo, intenso, continuativo, vicino, intimo, privato ma allo stesso tempo pubblico. Mai quanto nel 2020 ci siamo esposti, mostrando le nostre case ai colleghi, agli amici e ai parenti vicini e lontani; abbiamo riconsiderato il valore di certi spazi, certi oggetti, angoli e mobili; riordinato i nostri armadi, cassetti e scaffali (quando in realtà volevamo solo ordinare i nostri pensieri). Monocle ha provato, attraverso una personalissima guida domestica e → Copertina di Cabana n. 13, aprile 2020 Fonte: Cabana
4 L’ombelico del mondo? Il 47° parallelo, di
Laura Fiengo, “Vanity Fair”, 17 giugno 2020
5 Ettore, di Michele De Lucchi, “I libri di Ettore
Sottsass”, a cura di Giorgio Maffei e Bruno Tonini, Corraini Edizioni, 2011, pag. 16
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raccogliendo le opinioni di alcuni dei principali rappresentanti della cultura dell’abitare, ad interpretare le nostre percezioni ed immaginare una nuova idea di vivere alla luce di quanto accaduto. Credere nel proprio spazio per credere in se stessi, una promessa e un intento che vanno oltre il semplice elenco degli oggetti da avere, riordinare, riconsiderare in casa. È un modo di vivere il proprio io dentro e fuori quello che vuole disegnare Monocle, e in questo numero in particolare ho notato come ci sia riuscito alla perfezione mettendo insieme alcune tra le voci più famose (o scoprendone delle nuove) dell’architettura moderna. A cominciare da Rem Koolhaas, citato per il suo testo Countryside, a report (e qui improvvisamente ci ritroviamo in una specie di matrioska di carta, di manifesto nel manifesto), titolo che coincide con la sua mostra al Guggenheim di New York, ovviamente e tristemente chiusa in anticipo causa Covid-19, o da David Chipperfield, archistar prestata alla direzione di Domus. Ce ne è una di cover, di quest’ultima, che ho trovato davvero iconica: nel n. 1045 di aprile 2020 c’è la facciata della nave da crociera Diamond Princess, diventata il simbolo della pandemia dopo che a febbraio 2020 venne diagnosticato il Coronavirus ad un suo passeggero ottantenne di Hong Kong. Un’immagine antesignana della vita in lockdown mondiale che ne è seguita. Vorrei concludere questo mio breve viaggio con Terrazzo, la rivista che ha cambiato le regole delle riviste precedenti e di quelle successive. Fondata nel 1988 con la direzione editoriale di Barbara Radice, la cura grafica di Christoph Radl, le fotografie di Santi Caleca e la produzione di Anna Wagner, Terrazzo parlava (in inglese) non solo agli appassionati di architettura, ma a tutti coloro che erano intenzionati ad analizzare e a farsi un’opinione riguardo il bello stesso di vivere: uno spazio, una disciplina letteraria, una scelta consapevole. La carta per Sottsass rappresentava un vero amore (un amore che Michele De Lucchi dice di avere ereditato da lui, infatti ne scrive: «Per Ettore la carta è sempre stato una materiale preziosissimo e le riservava una particolare riverenza, un amore quasi sensoriale che esprimeva con sguardi affettuosi, carezze a palmo aperto, contemplazione, attesa, compiacimenti… Distendeva la carta sul tavolo con grande cura, attento a non arricciare gli angoli o a sporcare la superficie e sia che fosse una rara carta giapponese fatta a mano da un monaco scintoista o un impersonale foglio A4 extrastrong della fotocopiatrice, mai sembrava, a guardarlo, che esitasse sempre un po’ prima di toccarlo con la punta della penna»5) e non dava solo forma a quanto intendesse pubblicare, ne faceva parte esattamente come gli altri elementi, con la stessa importanza, in un magico equilibrio di pesi e misure che in poco meno di dieci anni (chiuderà nel 1996) ha definito una rivista con un’identità forte ed immediatamente riconoscibile. I primi dieci numeri si sono infatti presentati con la stessa copertina grafica, che cambiava solo per diverse scelte cromatiche. Ogni numero rappresentava un piccolo manifesto costituito da Michele De Lucchi, Toyo Ito, Aldo Rossi, Fran Lebowitz, solo per fare alcuni nomi tra i più noti. Nel 1996 escono tre numeri monografici completamente diversi per grafica e interni, dedicati alla fotografia, ai progetti di interni e al Nagamandala, antico rito di purificazione. Dalla monografia Terrazzo 1988–1996 edita da Electa con il Design Museum de La Triennale di Milano, emerge tutto il mito che questa rivista dalla vita breve è riuscita a creare intorno a sé.
CULTURA
«Come Vitrum di Gio Ponti, come Verve di Tériade, l’americana Views, la francese XX e Siècle o Spazio di Luigi Moretti, riviste la cui raffinatezza ed eleganza le ha poste volutamente fuori dall’affollato mercato delle longeve... riviste di settore». La rivista oggetto e progetto, manifesto di un ragionamento sul design lungo dieci anni e che cambierà i dieci, venti, trenta anni successivi. E così ci sono le fotografie scattate dallo stesso Sottsass e le note scritte durante i suoi viaggi in India, alle Isole Eolie, a Firenze, alle Hawaii, alle Fiji, a Buenoa Aires; i disegni di Francesco Clemente, quelli di Aldo Rossi, le litografie di Giorgio de Chirico; le foto di Andy Warhol e Helmut Newton. Nel numero 5 dell’inverno del 1990 c’è un pezzo dedicato agli architetti del “Dolce Stil Nuovo”, come li definisce Andrea Branzi: quelli che erano fortunati di potersi lasciare alle spalle un secolo e di aprire un nuovo millennio per il quale scrivere le nuove regole e mettere le basi di una nuova avanguardia. Branzi parla di una realtà in cui l’aspetto metropolitano delle vite di ognuno di loro era molto accentuato e in cui i bei vecchi tempi nei quali «gli urbanisti disegnavano le mappe, e i designer di interni le sedie»6 erano ormai lontani anni luce. Una nuova era di contaminazioni tra le arti stava nascendo e Terrazzo ne faceva da megafono a tutti gli effetti. Ma perché per una rivista interamente scritta in inglese, era stato scelto un titolo italiano? Lo spiega Barbara Radice nel n. 1 dell’inverno del 1988 trasmettendo magistralmente anche cosa significhi e implichi fare un magazine. Vale davvero la pena riportarlo di seguito, parola per parola. «Doing a magazine is like writing a book or making a movie; you never know what you’ll end up with and not knowing is part of the amusement. You start because you think you have something to say, something urgent or different or new… maybe even vital… The photos, the drawings, the captions the words, the titles, the paper, the page format, the typesetting, even the advertising and the sponsors, everything, even the cover price, add up to a magazine and blend like the ingredients of a cake to communicate a taste, an aspiration, a desire embodied by that very object»7.
↑ Copertina di Terrazzo n. 4, primavera 1990 Biblioteca Triennale - Milano → Copertina di Terrazzo n. 8, autunno 1992 Biblioteca Triennale - Milano
Ed è da questo principio, da questo ragionamento a monte sul significato più intrinseco delle riviste e sull’obiettivo stesso che la Radice ed Ettore Sottsass si erano immaginati di raggiungere con questo magazine-progetto (e non sul progetto), che nasce l’idea di chiamarlo Terrazzo. «Terrazzo is an Italian word that means terrace or balcony. It is an outdoor place accessible from indoors where, depending on the size and the climate, you can sit, chat and look around. It is also an architectural element. The idea of terrazzo in Italian is associated with leisure and relaxation, with a general feeling of physical and psychological well-being. In English the same word means “a mosaic flooring made by embedding small pieces of marble or granite in mortar and polishing»8.●
6 Dolce Stil Nuovo, Andrea Branzi, “Terrazzo
1988–1996”, Ed. Electa, La Triennale di Milano Design Museum, 2008, pag. 125
7/8 Editor’s Note, di Barbara Radice, “Terrazzo
1988–1996”, Ed. Electa, La Triennale di Milano Design Museum, 2008, pag. 25
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AFFORDA – Un modo rivoluzionario di vivere le abitazioni sempre più diffuso in Italia e nel mondo: ne parliamo con Planet Smart City, società nata nel 2015 con l’obiettivo di progettare e costruire quartieri smart con abitazioni di qualità elevata a prezzi accessibili.
URBANO
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INNOVAZIONE
–BLE HOUSING Nel 2015 i governi di 193 Paesi membri delle Nazioni Unite hanno sottoscritto l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, un programma di azione globale finalizzato a raggiungere lo sviluppo sostenibile - in ambito economico, sociale e ambientale – in maniera equilibrata e interconnessa. Prevede 17 Sustainable Development Goals, obiettivi comuni verso cui orientare gli interventi da intraprendere e perseguire; ciascuno è declinato in “traguardi”, per un totale di 169 target. “Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili”, l’undicesimo goal dell’Agenda, incoraggia un’analisi del contesto internazionale legata a specifiche previsioni per il futuro. Attualmente metà della popolazione mondiale, circa 3,5 miliardi di persone, vive in aree urbane, preferite a quelle rurali per l’accesso diretto a lavoro, istruzione, assistenza sanitaria, cultura, mobilità. Per il 2030, le stime indicano che quasi il 60% degli abitanti della Terra abiterà nelle città e, secondo le Nazioni Unite, il 95% dell’espansione urbana avverrà nei Paesi in via di sviluppo. Ma in quale modo? Sarà possibile garantire il diritto alla casa, evitando uno sviluppo scarsamente regolamentato, senza pianificazione o in forme spontanee e provvisorie? Le fasce più vulnerabili disporranno delle forniture essenziali? Considerando che già ora le città, occupando il 3% della superficie terreste, sono responsabili del 60-80% del consumo energetico e del 75% delle emissioni di anidride carbonica, come si prospetta il futuro dal punto di vista ambientale? I target associati all’obiettivo in questione identificano i passaggi imprescindibili in vista del 2030: dalla volontà di assicurare a tutti «L’accesso ad alloggi adeguati, sicuri e convenienti e ai servizi di base» alla necessità di «potenziare un’urbanizzazione inclusiva e sostenibile» attraverso «la capacità di pianificare e gestire in tutti i Paesi un insediamento umano che sia partecipativo, integrato e sostenibile», fino al supporto dei Paesi meno sviluppati «anche con assistenza tecnica e finanziaria, nel costruire edifici sostenibili e resilienti utilizzando materiali locali». In corso in tutto il mondo, le esperienze di Affordable Housing – settore che opera nella realizzazione di alloggi a prezzi accessibili, ovvero il cui l’affitto o mutuo annuale non supera il 30% del reddito familiare netto, con mercato pari a circa $300 miliardi all’anno – puntano a offrire risposte alla crisi abitativa globale, in un’ottica di crescita equa e armonica. Lo scopo di queste pratiche è sanare, alle diverse latitudini, l’attuale deficit di case affordable, agendo parallelamente affinché le città mantengano – o acquisiscano – standard adeguati di benessere, sicurezza, inclusione. Nel 2016, alla quindicesima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale
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di Valentina Silvestrini
← Una veduta dall’alto del progetto residenziale Smart City Natal.
di Venezia, il progetto di ricerca Conflicts of an urban age, coordinato dalla London School of Economics and Political Science, ha indagato le conseguenze dei cambiamenti in città cresciute rapidamente nell’arco 1990-2015 – tra cui Shanghai, Addis Abeba, São Paulo, Mexico City e Mumbai –, evidenziando le disuguaglianze sociali e le mutate disponibilità spaziali. Non si tratta dunque solo di attivare processi finalizzati alla riduzione del costo al metro quadrato dell’edilizia abitativa, ma di operare in nome del rafforzamento del tessuto sociale delle comunità e dei quartieri, evitando di replicare processi rivelatisi scarsamente attrattivi o poco virtuosi nel lungo periodo. Un processo con diretti riflessi nella sfera politica, che invita a un cambio di paradigma anche studi di progettazione, società di costruzione, realtà imprenditoriali ed investitori. Le generazioni emergenti di progettisti sembrano voler abbracciare questa sfida, come dimostra il fermento attorno al tema dell’affordable housing nei concorsi di progettazione: spesso destinati a studenti o giovani architetti, costituiscono il primo banco di prova di una sfida globale che guarda al 2030. E oltre. Leader mondiale nell’edilizia abitativa intelligente a prezzi accessibili, Planet Smart City sta costruendo, in Brasile, Smart City Laguna, dopo averne curato la progettazione: sarà il primo progetto al mondo di smart affordable housing (oltre a quelli già in cantiere a Natal, San Paolo, Aquiraz, e in India). In Italia, tra gli altri interventi curati, è presente nel progetto di rigenerazione urbana di SeiMilano: fornirà soluzioni smart integrate e la Planet App ai futuri residenti. A raccontarne il modus operandi e le prospettive di sviluppo è Giovanni Savio, CEO e co-fondatore nel 2015 con Susanna Marchionni del gruppo, che attualmente ha uffici a Londra, Torino, Pune (India), Fortaleza e São Paulo (Brasile).
↓ Un render di uno degli appartamenti di SeiMilano, ideati e progettati interamente secondo i principi dell’innovazione e della sostenibilità. Visual by Mario Cucinella Architects
URBANO
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INTERVISTA GIOVANNI
A SAVIO
Planet Smart City sviluppa progetti di affordable housing dal forte impatto sociale e orientati all'innovazione tecnologica. Quali sono le premesse di questo approccio? Come sviluppatori immobiliari il nostro obiettivo è dare alle persone a basso reddito le migliori case possibili in ecosistemi smart. Nel mondo, ogni quattro ore, prende il via un nuovo progetto di affordable housing di grandi dimensioni: in tale ambito abbiamo deciso di avviare un nostro percorso, nel quale prestare attenzione, oltre alla sostenibilità e alla digitalizzazione, all’impatto sociale. Riteniamo che i servizi per i residenti dovranno infatti essere posti al centro dei quartieri del futuro. Per noi sono più importanti degli spazi. Come ha dimostrato la pandemia, un terrazzo o un giardino valgono, ma dobbiamo andare oltre e pensare a quartieri innovativi, provvisti di servizi comuni, come connettività, bookcrossing, car-pooling. Come opera la società? Su tre fronti. A Torino, nel Competence Centre, circa 80 persone – architetti, ingegneri, agronomi, sociologi – studiano le tecnologie smart in ambito urbano nel mondo: l’abbondanza di innovazione rende complesso, per lo sviluppatore, individuare i prodotti più performanti a livello di prezzo e caratteristiche fra i tanti disponibili. I nostri esperti li esaminano, offrendo anche consulenza esterna. A sostenere economicamente Planet Smart City è lo sviluppo immobiliare; siamo presenti in Paesi in via di sviluppo con interventi su larga scala focalizzati sull’affordable housing. Il terzo ambito si lega ai servizi per la comunità: a contraddistinguere i nostri prodotti – smart city, smart-district, smart-building – saranno la Planet App e, soprattutto, i community manager. Di cosa si occuperanno? Saranno i gestori sociali dei progetti, molto vocati alla trasformazione digitale. Puntiamo non solo a realizzare quartieri migliori dei nostri concorrenti, ma ad esserci anche quando le famiglie accederanno alle case. I community manager gestiranno le esigenze dei futuri abitanti, organizzando corsi, raccogliendo richieste, animando la comunità. L’adozione della nostra app consentirà ai residenti di accedere a un’ampia gamma di servizi, gratuiti o a prezzi calmierati, a nostra cura. Quali saranno i riflessi della pandemia in questo processo? Nonostante tutte le riflessioni sul futuro di città e case, nessuno sa cosa accadrà tra 12 o 18 mesi. Tuttavia di uno shock così rimarranno alcune buone idee. Emergerà in modo deciso la necessità della resilienza, dunque la capacità di adattarsi velocemente ai cambiamenti, finora declinata soprattutto esclusivamente in chiave climatica ma destinata ad abbracciare un significato sempre più ampio. Proprio per questo i nostri progetti saranno in continua evoluzione. Inoltre, l’impatto sociale sarà sempre più rilevante: Planet investirà molto nella ricerca in tal senso nei prossimi anni. Contiamo anche sulla nostra Chief Impact Officer, che monitorerà continuamente la nostra azione confrontandola con i Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite. Partiamo dalle smart city per arrivare a una social city molto più performante di quanto oggi possiamo immaginare.
INNOVAZIONE
PROGETTO
SEIMILANO
Supera i 250 milioni di euro l’investimento per lo sviluppo di SeiMilano, il nuovo quartiere polifunzionale nato dalla partnership tra Borio Mangiarotti e Värde Partners che sorgerà nella zona sud-ovest del capoluogo lombardo. Occuperà una superficie di oltre 300.000 mq, tra via Calchi Taeggi e via Bisceglie, e accoglierà un programma funzionale misto, con oltre 1.000 residenze – di cui poco meno del 50% in edilizia convenzionata –, spazi per uffici e per il commercio (rispettivamente 30.000 mq e 10.000 mq) e un parco di 16 ettari. Concepito dallo studio Mario Cucinella Architecs, autore del masterplan, come una nuova “città giardino”, l’intervento di rigenerazione urbana intende favorire «la permeabilità tra parco, residenze, spazi pubblici e privati e il resto della città». Una peculiare relazione tra i volumi edificati e il verde contraddistingue il progetto, nel quale il parco, opera del paesaggista Michel Desvigne, perde la ricorrente accezione di sfondo vegetale a favore di un ruolo identitario del quartiere. Due le direttrici principali: quella in direzione nord-sud, asse portante del masterplan, e il boulevard lungo l’estremità settentrionale, cui spetterà la connessione con il tessuto urbano esistente. Il programma residenziale, anch’esso messo a punto da Mario Cucinella Architects, include tre tipologie. I venti volumi a base quadrata previsti, variamente orientati, potranno essere dotati di logge, di grandi balconi o di bow windows, intesi come serre bioclimatiche.
↙ Una veduta dall’alto del progetto residenziale di SeiMilano. Visual by Mario Cucinella Architects ↓ La veduta della promenade pedonale che collega le diverse residenze del quartiere. Il progetto prevede anche un parco, negozi, uffici e un centro polifunzionale. Visual by Mario Cucinella Architects
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UN SECOLO Due generazioni a confronto, Renata Mangiarotti e Regina De Albertis, nonna e nipote, che raccontano il percorso e la storia dei personaggi che hanno reso grande un’azienda (loro due in primis, aggiungiamo noi).
Citazioni tratte da Uno sguardo al futuro. In ricordo di Claudio De Albertis, Ance, 2017
→ Una foto di Regina De Albertis che fa parte della nuova generazione a capo di Borio Mangiarotti. Foto: Francesca Stella
↓ Renata Mangiarotti, nonna di Regina e figlia di Carlo, fondatore dell’azienda. Foto: Francesca Stella
DI URBANO
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PERSONE
«Allora nonna, ti va di raccontare dall’inizio?». Riunite in un salotto di Milano, ci sono due generazioni che si incontrano: quella di Regina De Albertis, bisnipote dell’ingegnere Carlo Mangiarotti che nel 1930, dopo essere arrivato nel capoluogo lombardo, diviene Presidente e maggiore azionista dell’impresa nata Borio Frascoli nel 1920 e divenuta poi Borio Mangiarotti, e sua nonna Renata Mangiarotti, figlia di Carlo, quell’uomo che sin da subito porta l’azienda a misurarsi con realizzazioni nel campo dell’edilizia civile, soprattutto delle industrie – necessarie nel Dopoguerra alla ripresa economica nazionale. «Ricordo che lavorava tanto, ed è andato in ufficio fino a cent’anni. Perché l’azienda doveva essere sempre al primo posto, da quando ha iniziato a parteciparvi insieme al geometra Filiberto Borio, un colonnello degli Alpini privo di eredi, pluridecorato, medaglia d’argento della Prima guerra mondiale. Da bambina ero appassionata a quella storia», racconta Renata, che ora è Presidente Onorario del Consiglio di Amministrazione. Lo chiamano lascito, quello che resta, dono che si tramanda, e che nel caso di un’azienda storica come poche ce sono ancora in Italia si è evoluto attraverso i cambiamenti apportati dalle nuove generazioni: «Quasi nessun’altra impresa ha avuto una simile apertura mentale, e forse è per questo che la Borio Mangiarotti, grazie anche a quel senso del dovere che caratterizza le persone che ne fanno parte, è durata e dura nel tempo», spiega Regina, riflettendo su un percorso ininterrotto di un secolo di attività. «Borio inizialmente governava i cantieri, ed è stato il mio bisnonno ad avere la vera visione strategica», continua, «costruendo stabilimenti industriali da Savona a Marghera, da Massa Carrara ad Agrigento, per poi collaborare, a cavallo fra le due guerre e nel periodo della ricostruzione, con i più importanti progettisti quali De Finetti, Gigiotti Zanini, Muzio, Figini e Pollini, realizzando edifici che sono oggi la storia del nostro Paese». Ma se negli Anni ’50, quando entra in azienda il marito di Renata, Edoardo De Albertis, che prende in mano la direzione amministrativa e finanziaria, Borio Mangiarotti è ancora legata all’edilizia civile, è da un preciso momento che la vita e il volto di questa imponente impresa familiare cambiano: «Da quando è nato mio papà, Claudio, o meglio, da quando ha iniziato a lavorare con il nonno e il bisnonno», dice Regina. «Per lui Carlo stravedeva, e lo sapevano tutti, aveva sei nipoti ma in realtà era come se ne avesse solo uno. Mio padre aveva studiato ingegneria, e allora chi si laureava in quel ramo veniva considerato una sorta di genio. Così, una volta cresciuto e dopo aver fatto il grande passo, non è trascorso molto tempo prima che promuovesse modifiche sostanziali». È in questo periodo, negli Anni ’80, che da pura impresa di costruzione, Borio Mangiarotti diviene infatti sviluppatrice, attraverso l’idea di comprare il terreno, costruire e poi vendere all’acquirente finale, «in una forma che chiamiamo edilizia convenzionata. E questa è stata una rivoluzione. Da allora l’azienda ha abbandonato il settore pubblico, e si è specializzata nel privato», aggiunge. «E tutto grazie al papà di Regina», ribadisce sua nonna, «lei non era ancora nata, suo padre andava nei cantieri a Gallarate e viveva praticamente in mezzo agli operai. Anzi, quando tornava a casa si lamentava perché diceva che nella piccola cucina che avevano in cantiere mangiava meglio che a casa sua».
«“Tutto si può fare, i limiti sono sempre superabili, indipendentemente che qualcuno ci aiuti”. Lo diceva il Dalai Lama». Claudio De Albertis
«Ci dicevi, “fino ad urlare”, che dobbiamo cambiare, perché così non c’è futuro, così non si va da nessuna parte. Modernizzarsi nella struttura, con coraggio e creatività, al servizio del “bene comune”». Piero Torretta
STORIA
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Nel delineare la storia dell’azienda, quello tra Regina e sua nonna diviene un dialogo composto da momenti differenti, con una linea temporale caratterizzata da tappe precise e specifiche, ma accumunate dal ritorno costante del termine “famiglia”, come un collante, ciò che tiene insieme i cambiamenti. Emerge dagli aneddoti e dai ricordi: «Quella che stava dietro alla Borio Mangiarotti ai tempi era una famiglia normale, a modo suo. Mia madre non era proprio una “donna da cucina”, era felice quando andava alle conferenze, mentre mio padre Carlo con noi era molto severo e rigoroso, ma era ben voluto dai dipendenti, anche se loro hanno amato soprattutto mio marito», racconta Renata. «E invece il mio? Un ritardatario cronico», ride Regina. «Mio papà, che succedette al bisnonno nel 1993, arrivava quando la riunione era quasi finita, e ovviamente stravolgeva tutto. Diceva di essere un po’ un profeta, anche quando gli chiedevo dei consigli su qualcosa che avevo scritto. “Ma cosa scrivi Regina”, mi diceva, e mi cambiava tutto. Come fanno le persone geniali». È grazie a un simile succedersi di direttori generali illuminati che la Borio Mangiarotti ha dato vita ad alcuni degli elementi urbanistici che hanno fotografato e definito il cambiamento della città, come Palazzo Civita, edificio residenziale multipiano in piazza Duse, o ancora quello in via Santa Maria Segreta, realizzato all’inizio degli Anni ’30 su progetto di Gio Ponti ed Emilio Lancia e divenuto oggetto di un intervento di recupero. «Ricordo che il mio bisnonno amava quegli edifici, così come quello in piazza Cardinal Ferrari, e tra quelli nuovi credeva molto in SeiMilano (un intervento nella zona ovest della città teso alla realizzazione di un parco di oltre 16 ettari con residenze e uffici, nda). Ma in realtà i suoi progetti li amava tutti, come li amiamo noi. Perché ognuno di loro è sempre diverso dagli altri, come una nuova sfida da affrontare con passione. Le persone ci andranno ad abitare, noi dobbiamo metterci l’amore». Da Carlo Mangiarotti in poi, questa attenzione sensibile alle idee non è mai mancata. «La metteva anche nelle tante chiese che abbiamo costruito a Milano, su richieste del Cardinal Montini, poi Papa Paolo VI. Era una cosa che non doveva mai mancare», prosegue Renata. L’amore, per il proprio lavoro, la famiglia, l’impresa. È stata questa la formula che ha permesso di tenere unite tutte le differenti parti e menti di cui è stata ed è tuttora composta l’azienda, considerando che in tanti anni di lavoro, la storia delle persone che l’hanno animata sarà indissolubilmente legata a quella della Borio Mangiarotti. «In realtà anche mia nonna è da sempre un ottimo perno intorno a cui ruotano numerose decisioni», rivela Regina. «Non so ai tempi del bisnonno, però, lei che adesso ha novantatre anni e non riesce comunque a stare ferma un attimo, sia per suo marito, che per mio padre, nonostante non fosse mai presente fisicamente in azienda, era davvero il punto di riferimento delle scelte importanti, soprattutto durante quei momenti di difficoltà che ogni società prima o poi attraversa. Era l’anello centrale, quella che dovevi ascoltare. Vero nonna?». «A ben pensarci, mi chiamavano Radetzky». L’azienda oggi conta su una struttura tecnica e amministrativa ben organizzata, con un’attenzione costante rivolta ai temi ambientali e sociali. Si è evoluta, eppure nel corso del racconto più volte ritorna il tema del lascito, ma non solo come ciò che resta: più che altro, come ciò che viene dopo, grazie all’insegnamento ereditato ed appreso. Qual è nel caso della Borio Mangiarotti? «L’attaccamento al lavoro, il rispetto per i dipendenti, l’amore, sempre quello, che passava dagli uni agli altri», continua Renata, «basti pensare che la Borio Mangiarotti non ha mai licenziato nessuno. E non era una questione di etica, ma di sensibilità. Questo legame per ogni aspetto della filiera è ciò che abbiamo tramandato alle generazioni successive». Quella di Regina, per esempio, è la quarta, la più recente, che ha visto l’ingresso anche di Edoardo, Jacopo e Marta Stella con il tentativo di rivedere il modello organizzativo dell’impresa. E tutto questo è il filo rosso che unisce le abitazioni costruite dalla Borio
«Cosa ho imparato da mio padre: ovviamente moltissimo […] ma proverò a trasmettervi qualche concetto riassumibile in tre parole chiave: innovazione, impegno, etica». Edoardo De Albertis
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«Come interpretare il veicolo che pone limiti al consumo di suolo, come intendere la rigenerazione urbana? Se lo vuoi fare per davvero, diceva Claudio, devi cambiare atteggiamento». Pierluigi Nicolin «Mi dicevi, “Regina, devi immaginare e prefigurare tu le esigenze e i bisogni delle persone tra dieci anni, devi anticiparli e creare la casa del futuro”». Regina De Albertis
«Claudio in Triennale significava questo: la voglia di lavorare insieme […] tra chi ha la responsabilità di costruire il bello, di donare e far circolare l’arte e la cultura, di consentire a tutti di vivere in una città di qualità». Ada Lucia De Cesaris
Mangiarotti, dai progetti residenziali di viale Certosa, a quelli di viale Montello, sulle vestige di un’antica corte milanese. «Nella creazione della “casa Borio” noi mettiamo al centro la persona, i suoi bisogni ed anzi, cerchiamo sempre di anticiparli, proprio perché realizziamo prodotti che saranno sul mercato tra due o tre anni», spiega Regina. «Pensiamo al futuro, ad ogni minimo dettaglio, oltre ovviamente al livello qualitativo costruttivo che è la base di ogni progetto e rigenerazione urbana. Cerchiamo soluzioni ottimali per mettere al centro la persona, sempre in relazione al contesto e alle circostanze in cui ci stiamo muovendo. In questo momento, per esempio, abbiamo capito che i balconi e i terrazzi dovranno essere migliori e più grandi, con l’idea di una casa che si apra verso l’esterno, e dotata magari di spazi di lavoro più ampi. Tutto, seguendo sempre questa idea personale per cui le nostre case siano contenuti, invece che contenitori». A proposito di circostanze, si è vissuto un momento particolare in cui l’abitazione è diventata più di prima il nostro microcosmo-unico cosmo. E per quanto l’azienda abbia già affrontato tempi “interessanti”, come li chiamava una lontana maledizione cinese riferendosi al senso di incertezza e complessità che li accompagna, quella che ha attraversato Milano nel corso dell’anno è stata una situazione singolare, drammatica, «ma noi non ci siamo mai fermati». dice Regina, ricordando come la Borio Mangiarotti abbia sfidato i gangli del Dopoguerra e della SARS, nel 2002. «Perché contro ogni ostacolo, da sempre la nostra azienda porta avanti le proprie idee, pensando e progettando case che corrispondano alle esigenze della gente. Trasmettendo fiducia e sicurezza. Con un unico obiettivo: farvi stare bene». ●
«Claudio coglieva i fattori di novità, coglieva le provocazioni, le rielaborava, ci pensava. Era intelligente perché sapeva modulare i toni». Aldo Mazzocco
«Va riconosciuta a Claudio la sua capacità nel gestire i conti, la sua onestà ed anche la sua astuzia. La capacità di gestire il dialogo con personalità diverse». Arturo Dell’Acqua Bellavitis
«Claudio era prima di tutto uomo di impresa, ma anche una persona di estrema cultura. Non è facile nel nostro mestiere riuscire a coniugare queste due capacità». Gabriele Buia
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IL → Bruzzano, Parco Nord, Milano. Foto: Isabella Sassi Farías
PAESAGGIO → Opera, Milano Sud. Foto: Isabella Sassi Farías
Il racconto fotografico come strumento culturale per sviluppare conoscenza e nutrire nuovi immaginari. Testo e immagini di Urban Reports
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Le forme della città, Opera, Milano Sud. Foto: Isabella Sassi Farías
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Cormano, Milano Nord. Foto: Isabella Sassi FarĂas
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Nuove lottizzazioni ad alta densitĂ abitativa, Ningbo, Cina. Foto: Alessandro Guida
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Lungo le frange di transizione sul limite della cittĂ , Shanghai, Cina. Foto: Alessandro Guida
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Sguardo sulla cittĂ dal limite nord, Bedrijventerrein Schieveen, Rotterdam, Paesi Bassi. Foto: Alessandro Guida
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Nesselande, una delle piĂš recenti espansioni della cittĂ di Rotterdam sul limite nord-est, Paesi Bassi. Foto: Alessandro Guida
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New Territories, Hong Kong. Foto: Alessandro Guida
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Che cos’è il paesaggio? In che modo possiamo parlarne? E forse, più in generale, siamo ancora capaci di guardare il mondo per capire chi siamo?
Testo di Viviana Rubbio
Lei: «Che cosa vogliono che faccia coi miei occhi? Cosa devo guardare?» E lui: «Lei dice “cosa devo guardare”. Io dico: come devo vivere? È la stessa cosa». (Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni)
Il paesaggio è il frutto della stratificazione di storie, culture, memorie, segni e modi di vivere ed agire sul territorio attraverso il tempo. Il geografo Eugenio Turri concepiva il paesaggio come teatro, sottintendendo che l’uomo e la società si comportano nei confronti del territorio in cui vivono in duplice modo: come attori che trasformano, in senso ecologico, l’ambiente di vita, imprimendovi il segno della propria azione, e come spettatori che sanno guardare e capire il senso del loro operare sul territorio. Un approccio che intende “paesaggio” il risultato di un processo culturale, un modo di guardare, un’immagine costruita e nutrita collettivamente, «un’esperienza visiva» (cit. Frits Gierstberg, 1998). Condividendo appieno questo pensiero, il nostro collettivo è nato per esplorare e documentare le trasformazioni del paesaggio contemporaneo attraverso progetti di natura interdisciplinare. La fotografia per tornare a guardare i luoghi e prendersene cura, per svelarne i caratteri e le forme nello spazio. Il nostro sguardo, attraverso la lente della camera, seleziona e registra i cambiamenti, decompone e ricompone gli elementi del contesto, attribuendo ad essi nuovi significati. La fotografia quindi per introdurre un nuovo livello di analisi e accogliere nuovi punti di vista; un potente mezzo di comunicazione delle mutazioni territoriali in grado di nutrire nuovi immaginari e produrre nuove narrazioni capaci di dialogare con una grande varietà di attori, quali i professionisti e gli “addetti ai lavori”, gli attori locali e le istituzioni, ma anche un pubblico più vasto, quali i cittadini e le comunità. Il cammino e l’ascolto sono due perni del nostro metodo di lavoro: esplorare i territori attraversandoli con il corpo, calpestandone e percorrendone gli spazi, e farne un’esperienza diretta, accompagnati dalle parole e dai racconti di chi li abita, a partire dall’analisi lenta e silenziosa della fotografia documentaria. In un’epoca di rapidi cambiamenti in cui i riferimenti culturali, socio-economici e spaziali sono in continua ridefinizione, il paesaggio subisce trasformazioni quanto mai profonde: sono l’accelerazione dei processi di urbanizzazione, una crescente distanza sociale ed economica tra centro e periferia, tra mondo urbano e mondo rurale, una maggiore complessità dei sistemi territoriali e la nascita di nuove forme di governance. A questo si aggiunge la sfida urgente posta dal cambiamento climatico e dai massicci fenomeni migratori, non ultima, la crisi sanitaria globale che ha investito l’Europa in questo difficile 2020, e che rimette in discussione i sistemi del lavoro, dei trasporti e della mobilità, delle connessioni e delle relazioni sociali. Sono tutti fattori che contribuiscono a cambiare l’identità dei nostri paesaggi determinando una ridefinizione dinamica del loro immaginario collettivo. Questa condizione è particolarmente evidente nelle aree periurbane, in quei territori di transizione, dove la relazione urbano-rurale è soggetta a forti dinamiche di cambiamento. Prima di agire per decidere il futuro orientamento di un territorio, è opportuno considerare il modo in cui il paesaggio viene modificato, scoprendo quali sono gli elementi essenziali che costruiscono la sua identità e quali altri possono variare nel tempo. La fotografia documentaria, imponendo un tempo e uno spazio di posa, ci obbliga a soffermare lo sguardo sulle cose per riflettere sull’immagine che il paesaggio proietta su di noi. Il racconto fotografico, sviluppato in forma collettiva, aggiunge un ulteriore elemento di complessità e ricchezza, permettendoci di confrontare i nostri sguardi sul mondo ed organizzarli in una nuova sintesi visiva.
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Da questa riflessione nasce il nostro primo lavoro di indagine sui paesaggi contemporanei. Di respiro europeo, Report from the egde of the city (2017–) è un progetto che indaga i limiti politico-amministrativi della città in relazione al suo reale “confine”: quello spazio di transizione, indefinito, spesso non pianificato, che separa la città dal suo intorno. Alle volte è campagna, altre è di nuovo città. Si tratta spesso di aree suburbane, in cui è molto labile il confine tra urbanità diffusa e ruralità urbanizzata, territori post-industriali, grandi svincoli infrastrutturali, o vaste aree agricole su cui si preparano nuove espansioni urbane. Al centro del racconto che proponiamo in queste pagine ci sono i margini comunali di alcune capitali europee: tra queste Milano, messa a confronto con Madrid e Rotterdam. Il confine amministrativo di queste città è uno spazio liquido che spesso esiste solo più formalmente, e sta mutando radicalmente sotto la pressione di sistemi di governance territoriale di carattere metropolitano, che travalicano i confini geografici fino ad ora conosciuti rendendoli desueti, e le cui sfide riguardano la riappropriazione collettiva e l’inclusione di spazi fino ad oggi etichettati come “periferici”. Il progetto racconta un paesaggio inconsueto e lontano dall’immaginario di queste capitali: svela territori sospesi nel tempo, terreni agricoli, grandi vie di percorrenza, spazi incerti, e “paesaggi inconsci” come li chiamavano i surrealisti: interstizi, vuoti della cultura e del territorio, luoghi de-umanizzati che scandiscono la progressiva urbanizzazione dello spazio. Proprio per il loro carattere marginale (in termini spaziali) e mutevole (in termini di destinazione d’uso), questi luoghi tendono ad assomigliarsi, quasi a confondersi. La riconoscibilità del luogo viene meno ed emerge la condizione contingente. Paesaggi di transizione tra dimensione rurale e città che avanza, ma che parlano in eguale misura di Milano, Rotterdam e Madrid, cosi come di realtà più lontane (Hong Kong, Seoul, Shanghai, Ningbo), benché su altre scale e con altre densità. Sul filo di questo confronto, e partendo da uno spaccato visivo sulle mutazioni della dimensione sociale e spaziale dei territori ai margini, il nostro sguardo si apre sul mondo, esplorando e raccontando complessità territoriali anche molto diverse tra loro, per una riflessione necessaria ed urgente sui paesaggi contemporanei.
Urban Reports è un collettivo che riunisce fotografi e ricercatori e utilizza il racconto fotografico come strumento culturale a supporto di una riflessione sulle trasformazioni del paesaggio contemporaneo. www.urbanreports.org
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