Eureka

Page 1

Universitari per la Federazione europea

Europa 2020 in un mondo di nazionalismi

In questo numero articoli su Iran, Brexit, green deal europeo e molto altro


So m m a r i o

pagina

pagina

4

10

Riflessione europea sulla crisi in Medio Oriente

Un nuovo mandato per Pedro Sanchez

pagina

pagina

5

Che Brexit sia: cosa ne sarà del Regno “Unito”?

pagina 6/7

Il Green Deal europeo

pagina

11 Mario Draghi, l’artefice

pagina

12/13/14 La riforma del MES e gli interessi italiani

pagina

8/9 Ogni cittadino ha più di un rappresentante Stampato da

15 Rubrica Erasmus: Buenos Aires Per collaborare con noi, contattaci a: gfe.verona@gmail.com! Rivista degli Universitari per la Federazione europea Con il contributo dell’Università degli studi di Verona: Responsabile del gruppo studentesco: Maddalena Marchi. Co-direttori: Maddalena Marchi, Salvatore Romano. Collaboratori: Gianluca Bonato, Giulia Ceriani, Francesco Formigari, Andrea Golini, Filippo Pasquali, Filippo Sartori, Alice Tommasi, Sergio Varesco, Alberto Viviani, Filippo Viviani, Sofia Viviani, Andrea Zanolli. Redazione: Via Poloni, 9 - 37122 Verona • Tel./Fax 045 8032194 • www.mfe.it • gfe.verona@gmail.com Progetto grafico: Bruno Marchese. Universitari per la Federazione europea

Articolor Verona Articolor Verona srl srl Via Olanda, 17 ComuniCazione GrafiCa 37135 Verona Via Olanda, 17 37057 Verona Tel. 045 584733 Tel. 045 584733 Fax 045 584524 articolor@articolor.it P.I.email: C.F. 04268270230 REA 406433

2 Eureka

Universitari per la Federazione europea•Gennaio 2020


di to Gia nluca Bona

I

Editoriale: Quale Europa racconteremo alla fine degli anni Venti? • Tempo di lettura: 3 minuti

l primo gennaio abbiamo un po’ tutti guardato al nuovo decennio con una certa febbrile eccitazione. Fra gli speciali degli youtubers, gli open bar del 31 e lo scoppio dei fuochi d’artificio, proliferavano le domande su cosa mai di nuovo e speranzoso potessero prospettarci questi anni ’20 del duemila. Il 3 gennaio, però, la cronaca ci ha subito riportato a un orizzonte temporale più ristretto e a stati d’animo meno baldanzosi. Un drone americano a Baghdad ha ucciso l’uomo che alcuni commentatori consideravano come la persona più importante in Iran dopo l’ayatollah Khamenei, ossia Qasem Soleimani [vd. articolo a pag. 4]. L’evento potrebbe sì essere uno di quelli che segnano – anche se non certo suscitando positive speranze – il nuovo decennio. Tuttavia, in questi giorni di lanci di missili contro basi militari e culturali, solo minacciati o anche eseguiti [mentre scrivo, la mattina dell’8 gennaio, l’Iran ha appena attaccato due basi USA in Iraq, ndr], molti media in Italia non smettono di dedicare le loro aperture alle varie faccende interne: prescrizione, taglio dei parlamentari e via dicendo. La circostanza fa riflettere. Sorge l’impressione che domanda e/o offerta di informazione esistenti non riconoscano, nel dibattito di tutti i giorni, i fatti che sono effettivamente in grado di segnare un decennio. Potrebbe però essere in gioco in questo un ulteriore fattore determinante: la consapevolezza dell’irrilevanza totale in questa vicenda non solo dell’Italia ma dell’Europa intera. E tutto ciò nonostante i conflitti del Medio oriente abbiano un impatto immediato sul nostro continente (leggi flussi migratori o sviluppo di organizzazioni parastatali come l’Isis). Perché dunque chi – l’Europa – più ha interesse affinché il Medio oriente sia un’area di pace e stabilità meno riesce a esercitare il proprio interesse? La risposta è del tutto legata all’aspetto istituzionale dell’Unione europea: la somma di 27 politiche estere con sfumature diverse e talvolta persino contrastanti non può risultare in nulla più che in flebili appelli. Così come i 51 Stati federati degli USA, distanti diecimila e più chilometri da Teheran, non avrebbero nessuna voce in Medio oriente se non componessero un unico Stato. È la dimensione, la forza di influenza che si è in grado di esercitare, ciò che può determinare la capacità di proteggere i propri interessi e valori, e al contempo anche ciò che può alimentare la consapevolezza di averne la capacità. Quest’ultima crisi mediorientale dimostra quindi in modo lampante l’irrilevanza europea a

livello globale. Ma quest’irrilevanza ha le proprie origini molto più lontano nel tempo, almeno dal Secondo dopoguerra, quando l’Europa si divise fra chi affidò il proprio destino a Washington e chi a Mosca. Ora che, dopo Mosca, anche Washington si disinteressa ormai delle cose europee, e anzi vede talvolta l’Unione europea come un nemico invece che come un alleato, è tempo di riprendere in mano il proprio destino. È tempo di ripensare il futuro dell’Ue, dandoci un’unica politica estera europea esercitata da un governo federale europeo democraticamente eletto. È tempo di cambiare l’assetto istituzionale dell’Ue nell’ottica di un governo federale democratico in grado di dare risposte europee in tutti i settori di crisi europea in cui le sovranità nazionali riescono al massimo solo a dilazionare i problemi. L’occasione in questo senso può essere rappresentata dalla Conferenza sul futuro dell’Europa, di cui ha parlato Ursula Von der Leyen già nel suo discorso al Parlamento europeo del 16 luglio scorso. Tale Conferenza dovrebbe essere lanciata il 9 maggio, alla prossima Festa dell’Europa, e durare fino all’inizio del 2022. Nelle intenzioni della Commissione europea che sono finora emerse, da qui al 2022 ci saranno una serie di eventi che coinvolgeranno istituzioni europee, istituzioni nazionali e società civile europea nella riflessione sull’attuale stato dell’Ue. Può quindi essere il momento per modificare uno status quo che lascia tutti o quasi insoddisfatti, e per dare agli anni ’20, rispetto ai molti problemi da affrontare (fra gli altri, primo fra tutti anche quello della trasformazione verde dell’economia), un’Europa rinnovata e davvero unita.

Gennaio 2020•Universitari per la Federazione europea

Eureka 3


di S ofia Viviani

L

Riflessione europea sulla crisi in Medio Oriente • Tempo di lettura: 3 minuti

a relazione tra USA e Iran è sempre stata particolarmente tesa, non solo durante la presidenza Trump, ma già a partire da Bush con il conflitto iracheno. La prima elezione di Barack Obama nel 2008 ha comportato una variazione della politica estera statunitense, aprendo un periodo di distensione e relativa stabilità nella zona. In particolare nel 2015, fondamentale è stato il Piano d'azione congiunto globale, comunemente chiamato “patto sul nucleare iraniano”, un accordo che consentiva all’Iran di avere centrali nucleari a scopo energetico e di ricerca con forti limitazioni per monitorarne l’eventuale uso militare; in vigore fino al 2018, quando il presidente Trump decise di uscirne unilateralmente, rilanciando le pesanti sanzioni allo scopo di indurre "il brutale regime iraniano" a "cessare la propria attività destabilizzante", ovvero ritirarsi dalla Siria dove l’Iran sosteneva il governo di Bashar al-Assad. In un clima già teso, sabato 28 dicembre scorso Trump ordina una ritorsione, dopo l’uccisione d’un contractor americano in una base a Kirkuk attaccata da milizie filo-iraniane: raid aerei contro cinque postazioni filo-iraniane in Iraq e in Siria, almeno 25 vittime, “un successo” secondo il Pentagono. Il 3 gennaio, nel raid all’aeroporto di Baghdad viene ucciso, insieme ad altri miliziani, il Generale Maggiore Qasem Soleimani, capo della Niru-ye Qods, braccio destro del capo di stato iraniano Ayatollah Ali Khamenei. Alla sua morte sono stati proclamati tre giorni di lutto nazionale e a Soleimani è stato conferito il titolo di shahid, martire, nonché quello di tenente maggiore. Una folla di milioni di persone è scesa nelle varie piazze iraniane per i funerali, a Kerman, e a causa della ressa sono morte almeno 56 persone e 212 sono rimaste ferite. Per questo motivo l'Iran ha deciso di posticipare la sepoltura. Al momento della notizia del suo decesso, tutti i canali di televisione pubblica hanno interrotto le trasmissioni per annunciare la notizia, mandando in onda la preghiera islamica per i defunti: «Veniamo da Dio e da Dio ritorniamo», con a fianco l’immagine del generale. Soleimani non solo era una figura chiave nelle Guardie della Rivoluzione, nel regime Khamenei e nella cultura popolare iraniana; ma il suo ruolo poteva essere paragonato al direttore dei servizi segreti o ad un Ministro degli Esteri, in tutto e per tutto insostituibile e indispensabile. Per questa sua enorme importanza, molti analisti internazionali temono che l’Iran risponderà all’attacco in egual proporzione. La decisione del Presidente Trump non poteva essere considerata che una dichiarazione di guerra, che fosse o no l’intenzione iniziale del raid. Qual è il ruolo dell’Unione Europea in questa crisi? L’UE è stato uno dei firmatari dell’accordo sul nucleare del 2015, fortemente contraria all’uscita degli USA nel 2018. I raid di dicem-

4 Eureka

Il presidente americano Donald Trump e Ali Khamenei, attuale Guida suprema dell'Iran bre mostrano per l’ennesima volta la completa ininfluenza e impotenza dell’Unione, a prova il fatto che gli USA abbiano informato dell’imminente attacco gli alleati Mediorientali come l’Arabia Saudita, ma non gli europei. La reazione di vari attori geopolitici è stata immediata, mentre l’Alto Rappresentante e i ministri degli esteri nazionali dei Paesi europei rinviano a data da destinarsi la missione in Libia. Se da un lato l’Unione è relativamente più vicina agli USA, è arrivato il momento di prendere coscienza del fatto che dal 1945 l’Europa è stata considerata più come una consumatrice di sicurezza e che oggi la priorità estera statunitense è la questione cinese, che si svolge prevalentemente nel Pacifico. È il momento di costruire una vera rete di sicurezza dell’Unione, l’attuale debolezza non è giustificabile, considerando che è un polo economico a livello di USA e Cina; nonché, nel suo insieme di stati membri, terza per spesa militare, spendendo più della Russia, della Turchia, dell’Iran, dell’Arabia Saudita, di Israele e dell’Egitto. Il grande problema della difesa europea è la sua divisione, 28 difese nazionali, una più inutile dell’altra, oltre alla mancanza di standardizzazione dei sistemi d’arma e l’utilizzo della spesa principalmente incentrato sugli stipendi del personale, invece che in ricerca e materiali. È proprio vero che l’Unione è “un gigante economico, un nano politico e un verme militare”, molto forte dove i poteri sono stati ceduti al livello sovranazionale, ma debolissimo dove la falsa sovranità è restata in mano agli stati nazionali. In sostanza l’Unione è forte e gli Stati membri deboli.

Universitari per la Federazione europea•Gennaio 2020


di lli And rea Zano

L

Che Brexit sia: cosa ne sarà del Regno “Unito”? • Tempo di lettura: 4 minuti

e terze elezioni in cinque anni hanno finalmente sancito una maggioranza chiara a Westminster. Boris Johnson ha condotto il partito Conservatore alla vittoria, trainato dalla promessa di “get Brexit done”. Sul lato degli sconfitti troviamo ancora una volta il Labour Party di Jeremy Corbyn e i Liberal Democratici di Jo Swinson. I primi, attanagliati ancora al sogno di radicale socialismo del proprio leader, non si sono uniti sotto un’unica bandiera e hanno lasciato al proprio principale avversario campo libero. I secondi, invece, sono stati la maggiore delusione per il fronte anti-Brexit, che, evidentemente, non è riuscito a trasformare in voti le molteplici manifestazioni per un nuovo referendum. Così, la strategia di allontanarsi dal centro per andare sempre più a destra e a sinistra ha (stra) premiato i Tories. In soldoni, il Regno Unito dovrebbe lasciare – davvero – l’Unione Europea a breve, forse addirittura il 31 gennaio 2020. Tuttavia il primo problema di Brexit pare non essere più quello economico. I danni economici che l’uscita dall’Unione Europea arrecherà all’economia britannica sono passati in secondo piano. L’attenzione britannica si è spostata sulla questione dei confini fra le regioni del Regno. Il primo problema è quello della Scozia. Lo Scottish National Party ha fatto incetta di seggi nelle circoscrizioni scozzesi. Trascinati dalla propria leader Nicola Sturgeon, gli indipendentisti scozzesi sono riusciti a compattarsi attorno a un’idea

di futuro molto chiara: una Scozia fuori dal Regno Unito, ma dentro l’Unione Europea. Infatti, dopo la vittoria per rimanere sotto la regina Elisabetta nel referendum del 2014, gli scozzesi hanno votato per il Remain in occasione del referendum su Brexit del 2016. Da ciò la promessa, già formalizzata, di un ulteriore referendum per abbandonare il Regno Unito. Con la sua coerenza e la sua determinazione, Sturgeon è stata premiata dai cittadini scozzesi. E ora la battaglia potrebbe entrare nel vivo, aprendo un contenzioso con Johnson e con tutto il resto del Regno. Resta da vedere fino a dove il partito indipendentista e gli scozzesi vorranno tirare la corda. Il secondo problema riguarda il confine fra la Gran Bretagna e l’isola di Irlanda. L’accordo d’uscita sancito fra Johnson e l’Unione Europea prevede una sorta di dogana fra la Scozia e il Nord Irlanda. Se questa intesa venisse effettivamente ratificata e applicata, nei fatti il Nord Irlanda rischierebbe di essere abbandonato dal Regno Unito. A quel punto, l’influenza della Repubblica Irlandese potrebbe, sul lungo termine, essere determinante. Spingendoci ai limiti della fantapolitica, la situazione potrebbe diventare ancora più ostica: se, eventualmente, la Scozia si avviasse verso l’indipendenza, la posizione dell’Ulster sarebbe ancor più complessa; la distanza dal resto del Regno diverrebbe immensa, soprattutto se rapportata alla distanza da Dublino. Boris Johnson e la sua maggioranza parlamentare sembrano convinti del percorso da seguire. Anzitutto, uscire dall’Unione Europea il prima possibile e dunque non negoziare ulteriori accordi con le istituzioni europee, ma ratificare l’intesa già raggiunta. E successivamente negare ogni possibile acchito di indipendenza nelle periferie del Regno. Il voto ha legittimato queste posizioni, consegnando all’inquilino di Downing Street le prossime decisioni in merito. Tuttavia, al di là degli aspetti economici, queste scelte potrebbero aprire una fase nuova nella storia dell’ex – ribadiamo: ex – Impero britannico. Gli scozzesi dimostreranno davvero di voler lasciare il Regno Unito? E Johnson riuscirà a gestire queste eventuali pressioni? Il Nord Irlanda sarà abbandonato e subirà, sul lungo termine, le influenze della vicina Repubblica Irlandese?

Gennaio 2020•Universitari per la Federazione europea

Eureka 5


Il Green Deal europeo di hi Ma ddalena Marc

L

• Tempo di lettura: 5 minuti

’11 dicembre 2019 la Commissione Europea ha emanato un comunicato di cruciale importanza: il Green Deal europeo. Questo è un progetto che la presidente von der Leyen s’impegnerà a trasformare in legge entro marzo 2020. «Si tratta di una nuova strategia di crescita mirata a trasformare l'UE in una società giusta e prospera, dotata di un'economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva che nel 2050 non genererà emissioni nette di gas a effetto serra e in cui la crescita economica sarà dissociata dall'uso delle risorse», è scritto sul comunicato ufficiale. Inoltre, rappresenta una metodica per attuare l’Agenda 2030 e perseguire gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Mantenendo le attuali politiche, la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra sarà limitata al 60% entro il 2050. Tramite il Green Deal viene alzata l’asticella. Entro giugno 2021 si avrà la revisione del sistema per lo scambio di quote di emissioni, con l’estensione di questo ad altri settori nei quali si vedrà un maggiore impegno per la riduzione delle

6 Eureka

emissioni, e del regolamento sull’uso del suolo e sulla silvicoltura. È poi prevista la fissazione del prezzo del carbonio in tutta l’economia al fine di facilitare investimenti sostenibili, sia pubblici che privati. Questa manovra comprende, inoltre, una revisione della direttiva sulla tassazione dei prodotti energetici, mediante la procedura legislativa ordinaria con votazione a maggioranza qualificata. Il comunicato ufficiale sottolinea poi che «se dovessero persistere livelli diversi di ambizione su scala mondiale mentre l'UE aumenta le sue ambizioni in campo climatico, la Commissione proporrà, per determinati settori, un meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere, al fine di ridurre il rischio di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio, garantendo, in questo modo, che il prezzo delle importazioni tenga conto più accuratamente del loro tenore di carbonio». La Commissione Europea intende poi lavorare sull’approvvigionamento di energia pulita e sicura al fine di ridurre l’inquinamento nei settori della mobilità, dell’edilizia e dell’industria. Per quanto concerne quest’ultimo punto è infatti scioccante che l’industria europea utilizzi solo il

Universitari per la Federazione europea•Gennaio 2020


12% di materiali riciclati. Continuando l’analisi delle linee d’azione previste, si legge che, per il periodo 2021-2027, è previsto che almeno il 40% del bilancio complessivo della politica agricola comune e almeno il 30% del Fondo per gli affari marittimi e la pesca contribuiscano all'azione per il clima. Si vuole difatti ridurre significativamente l’uso di pesticidi chimici, fertilizzanti e antibiotici investendo sulla ricerca di nuove metodiche finalizzate a proteggere i raccolti da organismi nocivi e malattie nonché sulla produzione di prodotti alimentari e mangimi innovativi, come i prodotti ittici a base di alghe. È inoltre previsto un intervento nei settori della trasformazione alimentare e del commercio al dettaglio per quanto concerne trasporti, stoccaggio, imballaggio e rifiuti alimentari. Per concludere gli obiettivi dalla Commissione prefissatisi, vi è il ripristino di ecosistemi che stanno scomparendo con scrupolosa attenzione alla preservazione della biodiversità necessaria al sostentamento di questi. Tutte queste lodevoli idee hanno però un prezzo: 260 miliardi di euro (1,5% del PIL 2018) all’anno. Tale ambizione necessiterà la mobilitazione dei settori sia pubblico che privato. «La Commissione presenterà un piano di investimenti per un'Europa sostenibile inteso a sopperire a questo fabbisogno supplementare, che combinerà finanziamenti specifici per incentivare gli investimenti sostenibili e proposte volte a creare un contesto più favorevole agli investimenti verdi», è spiegato. Ruolo cruciale sarà rivestito dal bilancio dell’UE e dal Fondo InvestEU. Prendendo in considerazione il primo, la Commissione individua possibili fonti di entrate basate sui rifiuti non riciclati degli imballaggi in plastica e sull’assegnazione al bilancio del 20% dei proventi delle aste nell’ambito del sistema per lo scambio di quote di emissione dell’UE. Per quanto concerne il secondo, è previsto che almeno il 30% del Fondo venga desti-

nato alla lotta contro i cambiamenti climatici. Inoltre, la Commissione collaborerà con il gruppo BEI (il quale si è prefissato di raddoppiare il proprio obiettivo climatico, portandolo dal 25% al 50% entro il 2025 e diventando così la banca europea per il clima), le banche e gli istituti nazionali di promozione e con altre istituzioni finanziare internazionali. Per concludere, a livello nazionale sarà creato il contesto adatto per attuare riforme fiscali che aboliscano le sovvenzioni ai combustibili fossili allentando la pressione fiscale sul lavoro per trasferirla sull'inquinamento, tenendo conto degli aspetti sociali. Detta così sembra facile. Ci sono tuttavia dei dubbi che si pongono più investitori come Bruno Rovelli, responsabile per l’Italia di Blackrock. In primis, è ancora da definire la direzione che prenderanno la BCE, il Consiglio Europeo e il Parlamento Europeo. In secondo luogo, vedendo la Brexit pian piano più concreta, c’è la possibilità che nei prossimi anni venga a mancare il contributo del Regno Unito di circa 10-12 miliardi. Al terzo punto vi sono gli ingenti finanziamenti privati che, data l’insufficienza dell’attuale bilancio UE, giocheranno un ruolo decisivo per la realizzazione del Green Deal. Per riuscire ad attrarre questi finanziamenti è necessario che gli stati nazionali concordino sull’entità del contributo pubblico stabilendo una politica fiscale comune, la quale costringerebbe a rinunciare a pezzi di sovranità. Un punto di partenza potrebbe essere la Carbon Tax. Il Green Deal europeo è quindi un progetto nobile che potrebbe portare l’Unione Europea ad essere un leader mondiale in materia climatica, in grado di convincere coloro che ancora non stanno prendendo provvedimenti disobbedendo ai Patti di Parigi, ma che presenta importanti incertezze. Si scoprirà durante il 2020 l’esito delle ambizioni di Ursula Von der Leyen.

Gennaio 2020•Universitari per la Federazione europea

Eureka 7


Ogni cittadino ha più di un rappresentante di Andr Golini ea

O

• Tempo di lettura: 8 minuti

In ogni elezione la retorica è sempre la stessa e fuorviante. Serve maggiore consapevolezza dei cittadini e di chi si candida a rappresentarli

gni anno eleggiamo qualcuno. Alle elezioni europee, alle statali, alle regionali o alle comunali, ogni anno eleggiamo i nostri rappresentanti. Regolarmente qualcuno in Italia ha la possibilità di rinnovare le cariche di questi delegati. Il meccanismo di rinnovo periodico è fondamentale per una corretta democrazia e per un senso di responsabilità, il quale dovrebbe fare capo a ciascuno di noi; ci dovrebbe tenere attivi e informati, dovrebbe arricchire il nostro senso civico e la nostra conoscenza di ciò che avviene nel paese. Esso è svolto in buona parte regolarmente ogni cinque anni, il tempo ritenuto necessario per poter attuare alcune delle politiche promosse da coloro che sono stati eletti e per poterne valutare l’operato politico. Nel 2020, in otto regioni su venti (Emilia-Romagna, Calabria, Veneto, Campania, Liguria, Toscana, Puglia e Marche) si voterà per rinnovare l’amministrazione locale, dopo essere trascorsi i regolari 5 anni di mandato. Leggendo l’articolo 117 della Costituzione della Repubblica italiana, capiamo che le regioni sono organi subordinati allo Stato, istituiti per rendere più efficienti le singole politiche regionali e per renderle più in linea con il principio di sussidiarietà, il quale prevede che le funzioni pubbliche debbano essere svolte al livello più vicino ai cittadini e che tali funzioni verranno svolte dal livello territorialmente superiore solo laddove questo sia in grado di svolgerle meglio di quello di livello inferiore. Nell’articolo citato, si evince inoltre che alle regioni rimane una competenza prevalentemente sussidiaria, ovvero esse non possono legiferare nelle materie che competono allo Stato come per esempio la politica estera o la sicurezza interna; si delineano quindi vari livelli di rappresentanza per cui i cittadini sono chiamati a votare. Non c’è un potere unico, non c’è un potere centrale esclusivo come nelle migliori dittature, bensì esiste una distribuzione di esso che dovrebbe garantire la realizzazione di tutti gli interessi del singolo cittadino. Interessi che vanno dalla sua voglia di una politica estera fino alla voglia di avere un lampione funzionante sotto casa. Ogni richiesta ha bisogno del suo grado di rappresentanza, non può esserci

8 Eureka

un potere esclusivo che sappia rappresentare entrambe. È importante avere coscienza del perché si vota e soprattutto per “cosa” si vota: è corretto votare per un organo più prossimo che intervenga direttamente nel quartiere in cui si vive, per questioni come il filobus, e di un organo maggiore che si occupi di materie che coinvolgono molte più persone come ad esempio l’economia, la politica estera e l’istruzione. Questo meccanismo di separazione delle competenze in principio, come detto prima, è efficiente ma ha un grande limite: la schizofrenia. Il sistema fondamentalmente idilliaco e armonioso della votazione periodica crolla nella realtà dei fatti. Le elezioni italiane sono una vera schizofrenia, e di “periodico” hanno più che altro deliri e allucinazioni. Questo perché i diversi livelli di rappresentanza risultano oscurati e di difficile comprensione: nel momento in cui la campagna elettorale si svolge in ambito regionale, questa viene spinta in maniera predominante su scala nazionale. Questo fatto è altamente fuorviante e ci porta a vivere le elezioni in maniera non corretta. Viene da pensare infatti che siano i rappresentanti statali ad occuparsi delle regioni ma non è così. Il più delle volte sorgono contrasti tra i vari livelli nel momento in cui bisogna ridistribuire le risorse e quindi decidere quali siano gli interventi ad avere la precedenza: se la città necessita di dare priorità agli interventi locali, così anche lo Stato, nell’interesse generale, deve decidere su cosa investire. Proprio per questo ci sono più organi competenti di livello diverso. Sarebbe assurdo pensare che a livello statale si possa intervenire su ciascun quartiere di ogni singola città. Così l’impronta statale in ogni elezione è fuorviante: il passaggio dalla volontà generale alle singolarità regionali non è automatico. È corretto e necessario che le regioni esistano, che i comuni esistano, e si può fare questo discorso al contrario e dire che non è automatico il passaggio dalle specificità regionali agli obiettivi generali, per questo lo Stato esiste ed è per questo che l’Unione europea esiste. Avere più livelli è fondamentale per poter gestire efficacemente tutti gli interessi dei cittadini. Ecco invece che si delinea la lettura dei risultati regionali come risultati di elezioni nazionali; un po’ come fatto per le

Universitari per la Federazione europea•Gennaio 2020


elezioni europee in generale non sappiamo più distinguere i livelli di rappresentanza. È così che si crea il circolo della schizofrenia: per ogni tornata elettorale si guarda al governo nazionale, e ogni anno dovremmo cambiare governo. Delirio. Il risultato del voto alle scorse elezioni europee non è stato nazionale ma europeo, anche se ha ottenuto più voti il centrodestra ciò non comporta la modifica della maggioranza del governo italiano, nata dalle elezioni precedenti. Votare uno schieramento alle europee e poi non vederselo governare nel proprio Stato? Sopruso! In realtà questo è corretto, se solo prima pensassimo a che cosa stiamo votando e dove si collocherà quel rappresentante che stiamo eleggendo. Continuando con questa frenetica, insistente e spesso scorretta campagna elettorale che ci fa credere ogni volta che andiamo alle urne per l’elezione del governo nazionale, finiremo per non poterne più. Le elezioni regionali più vicine sono quelle del 26 gennaio, in Emilia-Romagna e in Calabria, mentre per le altre regioni il voto si terrà tra maggio e giugno. Le aspettative sono in linea con le tendenze nazionali, appunto, e sarà importante vedere cosa succederà in Emilia, regione storicamente di sinistra ora in bilico. In Veneto tutto tranquillo, i sondaggi confermano la storica coalizione di centrodestra pronta o meno per la terza legislazione consecutiva.

In Emilia i candidati sono stati annunciati, con i rispettivi schieramenti, in Veneto dovremo rimanere in trepidante attesa mentre il Mose non separa ancora le acque, mentre il mistero dell’amianto nella Pedemontana incompleta ci sorvolerà velocemente in testa, mentre penseremo ad esportare del buon vino senza dazi e promuoveremo delle olimpiadi invernali. Oggi i politici e i principali giornali sostengono la campagna elettorale nazionale. Sono in secondo piano le politiche regionali, quelle per cui siamo chiamati ad eleggere i nostri rappresentanti alle prossime elezioni amministrative. Le regioni rientrano in un contesto ampio e allargato, essendo parte di uno Stato italiano e di una comunità europea; tenendo conto di ciò dobbiamo aver chiaro il senso del nostro voto. Informiamoci dei progetti per la regione in un contesto internazionale, non basiamoci solo sulle propagande nazionali. Non può funzionare la retorica nazionalista in un sistema democratico in cui possiamo eleggere dei rappresentanti a più livelli. Alcuni politici fanno perdere contenuti e dibattiti. Bisogna stare quindi attenti a non confondere il risultato di alcune elezioni come un risultato generale dell’opinione pubblica. I problemi provinciali, regionali, statali ed europei non sono gli stessi. Certo è anche impossibile pensare che uno non influenzi l’altro, ma è sempre bene prima prestare attenzione a ciascun caso.

Gennaio 2020•Universitari per la Federazione europea

Eureka 9


Un nuovo mandato per Pedro Sanchez di S ofia Viviani

I

• Tempo di lettura: 3 minuti

l 10 novembre, in Spagna, abbiamo assistito alle quarte elezioni in quattro anni, le seconde in meno di un anno dopo quelle di aprile. Il paese non riesce a uscire da un’instabilità che vede sempre come protagonisti i socialisti di Pedro Sanchez, fermi al primo posto con la responsabilità di formare un nuovo governo. Le ultime elezioni di aprile avevano portato la Spagna in una situazione simile, con Vox per la prima volta in Parlamento, ottenendo il 7%, e 24 seggi, mentre Sanchez con il 35% decise di formare l’alleanza di governo con i partiti di sinistra radicale. Il governo cade pochi mesi dopo a causa della bocciatura della legge di bilancio, provocata parzialmente dai partiti di sinistra facenti parte del governo stesso. Sette mesi dopo, il 10 novembre, si torna alle urne. PSOE vince di nuovo, ma non ha mai abbastanza consenso per formare un governo in modo autonomo, evitando le contrattazioni con gli altri partiti. Il Parlamento si trova sostanzialmente diviso in due blocchi di tre partiti ciascuno: la destra è formata da i liberali di Ciudadanos, che si riprende parzialmente dal crollo di aprile, il Partito Popolare di Pablo Casado, nettamente il più votato dal bacino elettorale di centrodestra, e infine dal partito nazionalista e populista Vox, in allarmante ascesa. Il blocco di destra in totale ha raggiunto 150 seggi su 350, il che vuol dire che anche se decidessero di allearsi per formare un governo, non ne avrebbero i numeri, ma neanche la possibilità, visto che sia i liberali che i popolari si sono sempre espressi duramente nei confronti del partito nazionalista. Per quanto riguarda la sinistra invece, troviamo oltre ai socialisti, Unidas Podemos di

Pablo Iglesias, evoluzione di Podemos dopo la fusione con i partiti femministi, e Mas Pais di Inigo Errejon, uno dei padri fondatori di Podemos, uscito pochi mesi prima. Questi tre partiti totalizzano 158 seggi, 18 dalla maggioranza. L’ago della bilancia è quindi nelle mani dei partiti regionalisti, in particolare quelli Baschi, delle Canarie e ovviamente i Catalani che in totale hanno guadagnato 42 seggi. Pedro Sanchez ha deciso però di non scendere a compromessi né con la destra, né con i radicali di Mas Pais, accettando di formare un governo molto debole con gli alleati di sempre, Unidas Podemos. Cinquantatré giorni dopo le quarte elezioni in cinque anni e dieci mesi di governo senza poteri, Sanchez è riuscito a ottenere la fiducia dal Parlamento: 167 sì, 165 no, 18 astenuti. La Spagna ha un governo, il primo di coalizione nella democrazia post Francisco Franco. Ma l'elefante nella stanza della politica spagnola rimane sempre quello: la questione catalana, ed è proprio grazie all’astensione dell’Esquerra Repubblica Catalana che il nuovo governo ha ottenuto legittimità. Nella contrattazione con l’ERC i Catalani hanno guadagnato la promessa di un dialogo con il governo centrale per un futuro referendum, il vero problema dell’accordo è l’incongruenza delle intenzioni dei diversi partiti indipendentisti. Il Presidente della Generalitat de Catalunya Quim Torra, leader di Junts per Catalunya, partito di centro destra, si è già espresso a sfavore della collaborazione con i socialisti; inoltre lo stesso ERC è stato a febbraio uno dei responsabili della caduta del governo. In Unione Europea, la riconferma di Sanchez a capo di governo, rafforza il rapporto con il Portogallo di Andrea Costa, a supporto di Emmanuel Macron ed il suo piano di integrazione europea e soprattutto dell’appoggio alla nuova presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen. La Spagna nella neo commissione ha ottenuto la carica di Alto Rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza nella figura di Josep Borrell per continuare il lavoro di Federica Mogherini, a cui toccherà, tra gli altri, il delicato compito di gestire le relazioni tra Bruxelles e i Balcani, a rischio deterioramento dopo il rifiuto del Consiglio europeo di aprire i negoziati di adesione con Albania e Macedonia del Nord. Sanchez si trova davanti più fronti caldi e per gestirli servirà non solo la stabilità di governo, assente da più di quattro anni, ma anche un più stretto legame con Bruxelles.

10 Eureka Universitari per la Federazione europea•Gennaio 2020


Mario Draghi, l’artefice di o Sal vatore Roman

N

• Tempo di lettura: 4 minuti

on ha perso tempo. Quando c'era da saltare il fosso della crisi economica più dura dell’ultimo mezzo secolo l'ha fatto senza mezze misure. Un carattere che non ama perdersi in chiacchiere, che sa che quando è il momento di agire bisogna farlo senza se e senza ma. Così lo raccontano i due giornalisti del Sole 24 Ore Alessandro Speciale e Jana Randow nel libro Mario Draghi. L'artefice. La vera storia dell'uomo che ha salvato l'euro. A differenza del suo predecessore, Jean Claude Trichet, che adottava il metodo collegiale, per cui tratteneva i suoi collaboratori fino a notte inoltrata in estenuanti riunioni prima di giungere ad una soluzione, Mario Draghi viaggiava su tempi brevi. Era più presidenziale, se non decisionista. E chi avrebbe mai detto che negli anni in cui l’istinto politico di segretari di partito, come Matteo Renzi e Matteo Salvini, suggeriva loro di muoversi in fretta, di puntare sulla figura dell’uomo solo al comando, a raccogliere i frutti migliori di questo modus operandi sarebbe stata la sagoma scialba di un tecnocrate. Mario Draghi è stato parco di discorsi sia all'interno della sua cerchia di collaboratori sia nelle occasioni ufficiali davanti alla stampa. Amava il contradditorio se questo portava a trovare risposte efficaci alla crisi, disprezzava i vuoti giri di parole. Per questa sua attitudine nell’arrivare preparato alle riunioni del consiglio direttivo della BCE, l’organo in cui siedono i governatori delle banche centrali dell’eurozona, con la soluzione già in tasca, molti membri del consiglio lo ricordano come “impaziente”. Per tutto il suo mandato ha pesato le parole. E questo ha fatto sì che molti suoi discorsi siano divenuti già celebri. Quello di Londra, nel luglio del 2012 in occasione della Global Investment Conference, in cui annunciava che la BCE era pronta a fare tutto il necessario per salvaguardare la moneta unica, quello di Amsterdam nell’aprile del 2014 in cui dichiarava misure straordinarie per combattere la deflazione, e infine la conferenza stampa del 22 gennaio del 2015 in cui rompeva gli indugi e ammetteva che era pronto un piano che avrebbe immesso nuova liquidità nell’economia europea, il cosiddetto Quantitative easing, o “alleggerimento quantitativo”. Non è stato un percorso in discesa il suo. Dal giorno della sua nomina a presidente della BCE, il 24 giugno del 2011, nel bel mezzo della crisi del debito sovrano, ha dovuto scongiurare il rischio che la recessione che veniva da oltreoceano portasse al fallimento della moneta unica. Nel frattempo, si doveva difendere dalle critiche che gli piovevano addosso dal fronte interno del Consiglio direttivo. La spina nel fianco per tutto il suo mandato, i dissapori con il governatore del-

la Bundesbank, la banca centrale tedesca, Jans Weidmann, e con il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble. Accusato dai “falchi" di essere stato troppo morbido nei confronti dei paesi periferici dell'Europa, di aver aggirato le regole dell'austerity e incentivato i Paesi del sud ad aumentare la spesa pubblica, Mario Draghi si è mosso con attenzione entro il perimetro delle prerogative dell’istituzione di cui era a capo. E ha saputo sfruttare al meglio gli strumenti di cui disponeva. Interpretando il ruolo del presidente non conservativo, ha rafforzato i poteri della politica monetaria della BCE, dando a quei poteri una dimensione federale. Livellando i differenziali dei tassi di interesse tra i debiti sovrani, ha salvaguardato il mercato interno e incentivato gli investitori stranieri a comprare i titoli di stato di quei Paesi che rischiavano il default. Seppure abbia lasciato il suo incarico con un livello di inflazione lontano dall’obbiettivo del due per cento, Mario Draghi ha reso il progetto della moneta unica irreversibile. Ha affrontato le sfide del suo tempo, e “rompere le convenzioni”, così è intitolato un capitolo del libro, è stata la sua stella polare per salvare l’euro. E l’ha salvato, con coraggio.

Gennaio 2020•Universitari per la Federazione europea

Eureka 11


La riforma del MES e gli interessi italiani di si Alice Tomma

E

• Tempo di lettura: 12 minuti

sattamente come accadde qualche anno fa per il termine spread, oggi “MES” entra nelle case degli italiani assumendo un contorno a dir poco grottesco e ridicolo, a causa del polverone mediatico instillato soprattutto dall’attuale opposizione, in prima fila Salvini e Meloni. Al netto delle polemiche che si sono create, sono ancora in molti coloro che si domandando di cosa effettivamente si tratti. Cerchiamo quindi di delucidarne gli aspetti principali. Il MES, Meccanismo Europeo di Stabilità, anche detto Fondo Salva Stati, è un trattato internazionale tra 19 Stati europei (quelli che hanno adottato l’euro come moneta nazionale) che istituisce un’organizzazione internazionale di natura intergovernativa (poiché i membri sono nominati da parte di ogni Stato membro). Con il MES si decide di non avvalersi più dell’Articolo 122 del Trattato che fungeva da base giuridica per il MESF, Meccanismo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria, che forniva assistenza finanziaria agli Stati membri dell’UE in difficoltà, sulla base di fondi raccolti dalla Commissione sui mercati finanziari con la garanzia implicita del bilancio dell’UE (60 miliardi di euro). Meccanismo quest’ultimo totalmente diverso dal FESF, Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria, appositamente costituito dagli Stati membri nel maggio 2010, per il solo fine di aiutare finanziariamente gli Stati membri, preservando la stabilità finanziaria dell’Eurozona in caso di difficoltà economica e garantendo la possibilità di attivazione fino a 440 miliardi di finanziamento, cifra indubbiamente significativa per Paesi come Irlanda, Portogallo, Grecia, ma che perde di significato davanti a Paesi come il nostro. La società di diritto lussemburghese (FESF) viene quindi sostituita nel luglio 2012 dal MES, ampiamente distinto dai due meccanismi antesignani in termini giuridici. L’obiettivo del MES è di «mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità, secondo condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza finanziaria scelto, a beneficio dei membri del MES che già si trovino o rischino di trovarsi in gravi problemi finanziari, se indispensabile per salvaguardare la stabilità finanziaria della Zona euro nel suo complesso e quella dei suoi Stati membri» (Articolo 3 del trattato). Più semplicemente, il MES mette a disposizione risorse finanziarie secondo principi di condizionalità: gli aiuti economici sono garantiti dalla stretta osservanza, da parte del paese debitore, degli obiettivi di bilancio e delle riforme concordate con il fondo, necessari al fine di riportare il paese alla crescita. La condizionalità è inoltre funzionale ad evitare l’azzardo morale: i governi che si sono indebitati eccessiva-

Fonte: www.ilgiornale.it mente per ragioni principalmente elettorali non possono permettersi di non adottare misure economiche tali da ripagare velocemente i propri debiti. Il capitale su cui può contare è di 704 miliardi di euro,

12 Eureka Universitari per la Federazione europea•Gennaio 2020


Fonte: www.panorama.it di cui 80 miliardi circa già versati da parte di Germania, Francia e Italia (la Germania primo contributore netto con il 27% delle quote, seguita da Francia con il 20,3% e Italia con il 17,8%). La struttura organizzativa del Meccanismo di Stabilità si compone di un Consiglio dei Governatori, Ministri e Vice-ministri dell’economia degli Stati membri dell’Eurozona, e di un Consiglio dei Direttori, i cui componenti sono direttamente nominati dal Consiglio in precedenza citato. Le decisioni più importanti sono prese dal Board dei Ministri delle Finanze dei 19 paesi dell’area euro, all’unanimità. In circostanze speciali, è sufficiente una maggioranza qualificata dell’85 per cento dei voti. Questo fatto attribuisce a Germania, Francia e Italia un vero e proprio diritto di veto, poiché questi paesi dispongono di oltre il 15 per cento dei voti, stabiliti in base alle quote del fondo. Ma quali sono gli strumenti di intervento del MES? Quando uno Stato perde la fiducia dei creditori e non riesce più a finanziarsi sul mercato internazionale, non è più in grado di ripagare gli interessi sui debiti e fallisce. Conseguenze dirette sono la perdita del valore dei titoli delle banche nazionali che li hanno comprati, il mancato rimborso alle famiglie (a causa dell’impossibilità di restituzione dei depositi da parte delle banche), il crollo delle imprese. Per impedire tali scenari, il MES dispone dei seguenti strumenti di credito:

1. Assistenza precauzionale: possibilità di erogazione di aiuti economici a Stati a rischio crisi per ripristinare la fiducia nel mercato; 2. Prestiti per la stabilità macroeconomica: prestiti di natura assistenziale impiegati quando i problemi nascono dal bilancio pubblico (Cipro 2013 e Grecia 2015); 3. Assistenza finanziaria per la ricapitalizzazione di istituzione finanziarie (caso Spagna 2012); 4. Iniezioni dirette di capitale per la ricapitalizzazione delle banche; 5. Sostegno al mercato primario o secondario dei titoli di stato: il primo si occupa dell’emissione e vendita dei titoli direttamente dall’emittente (l’investitore acquista titoli che non sono mai stati scambiati prima); il secondario è il luogo dove sono trattati i titoli già in circolazione. Già dal 2012 si inizia a discutere in sede europea di una possibile revisione del trattato istitutivo al fine di completare l’architettura dell’Unione Economica e Monetaria, conferire maggiore stabilità e resilienza al sistema, ma soprattutto evitare la ripetizione di crisi (salvataggio Grecia nel marzo 2010, Irlanda nel novembre 2010, Portogallo nell’aprile 2011, Spagna nel giugno 2012, secondo salvataggio Grecia nel 2012, Cipro nel 2013, terzo salvataggio Grecia nel 2015). Le proposte di riforma di questi ultimi sette anni vertono in

Gennaio 2020•Universitari per la Federazione europea

Eureka 13


misura più o meno uguale sul completamento del quadro finanziario integrato, sul bilancio integrato e sul quadro di politica economica integrato. Relativamente al primo punto, gli Stati membri discutono sulla creazione di un’Unione bancaria attraverso l’istituzione di regole uniche di vigilanza, la creazione di un meccanismo di risoluzione per interrompere la stretta connessione tra crisi interbancaria e del debito sovrano e l’adozione di un sistema europeo di garanzia dei depositi. Si interviene inoltre in merito all’accelerazione del processo di unione del mercato dei capitali e dell’istituzione di un paniere di titoli emessi dall’UE stessa a rischio nullo. Nell’ultimo anno, l’Eurogruppo lavora in merito alla revisione del trattato che istituisce il MES, in merito allo strumento di bilancio per la convergenza e la competitività e relativamente al rafforzamento dell’unione bancaria. Il Meccanismo Europeo di Stabilità si vede così modificato/rafforzato nei seguenti punti: 1. Rafforzamento dell’assistenza precauzionale: rafforzamento e semplificazione dell’erogazione di aiuti economici per gli Stati rispettanti le condizioni economico-finanziarie e di bilancio contenute nell’allegato 3 del Trattato, ovvero: deficit inferiore al 3%, debito pubblico inferiore al 60% del PIL o in forte riduzione, assenza di squilibri di bilancio eccessivi, e assenza di vulnerabilità economiche importanti. In questo caso la procedura di erogazione di sostegno diventa snella e quasi svincolata. Per tali Paesi il protocollo d’intesa viene sostituito con una più generica lettera di intenti. 2. Rafforzamento del principio di sostenibilità del debito: erogazione dell’assistenza finanziaria sulla base della sostenibilità del debito (l’esame circa la sostenibilità viene affidato a un esame congiunto del MES, dei singoli Paesi e della Commissione Europea, che funge da arbitro in caso di opinioni divergenti). La verifica della sostenibilità del debito prima della concessione degli aiuti è già prevista dal Trattato vigente. È una clausola a tutela delle risorse del MES di cui l’Italia è il terzo principale finanziatore. Le proposte folli dei paesi nordici vengono di conseguenza accantonate: il sistema di valutazione della sostenibilità del debito che sarebbe lasciato unicamente nelle mani di un organismo privato e la ristrutturazione automatica del debito per poter accedere agli aiuti economici (che com-

porterebbe inevitabili occasioni di speculazione che tenderebbero ad autorealizzarsi). 3. Introduzione del backstop al Fondo di Risoluzione Unico dell’Unione bancaria: il MES può finanziare il fondo fino a 55 miliardi, al fine di aiutare gli istituti finanziari in difficoltà. In questo modo le banche potranno godere di maggiore sicurezza e stabilità e, nel caso di fallimento, i costi saranno maggiormente limitati per i cittadini contribuenti e gli effetti minimi sull’economia reale. Il compromesso raggiunto non comprende tuttavia il fondo di assicurazione sui depositi, possibile testimonianza dell’utilità di tali scelte finanziarie nei confronti dei cittadini dell’Eurozona, in quanto sarebbe il livello europeo e non più i singoli governi a restituire il capitale depositato in banca in caso di fallimento. 4. Riforma sulla facilitazione di ristrutturazione del debito pubblico di un paese che chiede aiuto al MES (Private sectory board): entro il 2022 tutte le cessioni dei prestiti dei titoli sovrani degli stati dovrebbero introdurre delle clausole di azione collettiva. Esse sono in realtà già applicate sui titoli di stato dal 2013 ma, attraverso l’introduzione della votazione a maggioranza semplice, i debitori sono maggiormente agevolati poiché si impedisce che un piccolo gruppo di speculatori detentori di titoli di stato possano ostacolare la ristrutturazione, tenendo di fatto ingabbiato il paese. 5. Introduzione della possibilità per lo Stato membro di chiedere al MES di favorire il dialogo su base volontaria, non vincolante ed informale con i creditori medesimi. 6. Introduzione di nuove modalità di cooperazione tra Commissione e MES. Nel prosieguo dei lavori sul MES, il nostro Paese, terzo contribuente, dovrebbe quantomeno insistere sull’istituzione della garanzia europea sui depositi e sull’affiancamento, sul lato fiscale, di un bilancio federale adeguato, garante di stabilità, crescita dell’Eurozona e resilienza agli shock economici. Le riforme MES proposte nell’ultimo anno sono necessarie al completamento dell’Unione Economica e Bancaria, ma non ancora sufficienti. Per tali ragioni è indispensabile che il dibattito politico non sia ridotto a propaganda sulle spalle degli italiani, data anche l’esigenza del nostro Paese al completamento dell’Unione bancaria (visto l’alto debito pubblico in proporzione al PIL), ma sia funzionale al rafforzamento della costruzione di un’area monetaria stabile e resiliente.

14 Eureka Universitari per la Federazione europea•Gennaio 2020


Rubrica Erasmus: Buenos Aires di Giulia eriani C

S

• Tempo di lettura: 3 minuti

e mi dovessi presentare direi che mi considero una giovane fortunata viaggiatrice. Da qualche anno ho iniziato a studiare all’estero e sono di recente tornata da un’esperienza exchange a Buenos Aires, in Argentina. Essendo tornata in corrispondenza delle festività natalizie e vedendo i miei parenti di rado, mi è capito spesso, nelle ultime settimane, di rispondere alla prevedibile domanda su come sia stata la mia esperienza sudamericana. Devo dire che ho deluso alcuni, poiché non ho imparato a ballare nemmeno un passo di tango. Ma ho sorpreso i più. Ricordo ancora che circa sei mesi fa, mi scrisse una mia “amica di viaggi”, diciamo una ragazza conosciuta durante uno dei miei viaggi e che riesco a vedere di raro, scrivendomi che l’Argentina mi avrebbe rapito il cuore. Pensavo esagerasse, ma è proprio così: mi ha travolta. Quando mi chiedono quale sia il ricordo più bello che conservo di questa esperienza non ho dubbi: la sensazione di sentirsi a casa. E chi ha vissuto altrove, anche se per poche settimane, sa bene quanta importanza abbia la privilegiata sensazione di sentirsi a casa. Ricordo di essere arrivata sola all’aeroporto di Buenos Aires alle 7 di mattina, dopo circa 22 ore di volo e due scali. Il 30 luglio in Argentina era inverno e, appena scesa dall’aereo, ho pensato che non sarebbe stato facile ambientarmi. Invece, non l’avessi mai pensato: il tempo è volato e il 24 dicembre, nell’uber che mi riportava per l’ultima volta da casa all’aereoporto per ripartire definitivamente alla volta italiana è stata l’unica occasione in cui per tutto il tragitto il conducente non sia diventato un mio fidato conversatore. E questo era un aspetto per cui ero sempre grata: chiunque ti incontrasse, aveva una profonda curiosità e gentilezza. Qualità che, poi, ho ritrovato nel corso di tutti i miei viaggi in Sud America ma che a Buenos Aires mi stupiva ogni giorno per quanto fosse spontanea e gratuita. Altre caratteristiche particolari che ho notato: i porteñi formano file lunghissime per qualsiasi cosa, lasciano vagare i carrelli in giro nei supermercati dopo aver terminato la spesa, quasi tutte le case hanno una parrilla (barbecue) e circa una volta a settimana cucinano un asado (grigliata) in compagnia e/o in famiglia, bevono il mate (un tè) in continuazione e lo portano ovunque, ma la cosa più particolare è che esso nasce con il concetto di “compartirlo”, ovvero condividerlo e sempre accade che ti chiedano se ne desideri un po’. E come ultimo particolare: quasi tutti discendono da italiani, se non spagnoli. Nel momento in cui conosci qualcuno e gli riveli di essere italiano, ti guarda con uno sguardo misto tra l’ammirazione e il rispetto e, spesso, inizia a raccontarti la storia dei suoi avi.

Tutte le persone che ho avuto la fortuna di incontrare, chi con più frequenza e chi con meno, non hanno fatto altro che arricchire il mio modo di essere e la mia persona. Ho avuto compagni di corso fantastici, professori amabili e disponibili, amici che considero quasi fratelli, coinquilini vitali e in aggiunta una delle mie migliori amiche che si è trasferita a Buenos Aires nello stesso periodo e con cui ho condiviso momenti meravigliosi dopo anni a rincorrerci in diversi luoghi dal momento che studiavamo sempre in città diverse. E come se non bastasse tutto questo, l’Argentina, come tutto il Sud America, offre luoghi meravigliosi dove viaggiare. Ho avuto la fortuna di visitare il nord dell’Argentina in un viaggio on the road con scorci e paesaggi mozzafiato; poi sono partita per Mendoza e la costa cilena; in seguito le cascate di Iguatzù al confine tra Argentina, Brasile e Paraguay; e infine Perù e Brasile. Conservo il sogno della Patagonia per un futuro viaggio, ma già so che non rimarrò a lungo lontano da quella meravigliosa terra. Forse, in conclusione, è questo il dono più grande che mi abbia lasciato quest’esperienza: la consapevolezza che non smetterò di partire. Per quanto tornare a casa sia sempre una sensazione meravigliosa, penso che ora sia il momento di mettersi in gioco, di rischiare, di sperimentare e di vedere orizzonti sempre più grandi davanti a me perché non esiste altra barriera che non sia la mia forza di volontà. E lo scrivo proprio ora mentre sto facendo la valigia per ripartire, ma per questo riservo a un prossimo articolo la futura meta.

Gennaio 2020•Universitari per la Federazione europea

Eureka 15


«[...] La grande posta in gioco non è un governo di sinistra o di destra in tale o tale paese. La posta è la rinascita della libera civiltà democratica europea che può avere luogo solo sulla base di una Europa unita.» Dal discorso tenuto da Altiero Spinelli al 1° Congresso UEF del 27 agosto 1947

Seguiteci sui nostri canali social! Gfe Verona

@gfeverona

@gfe_verona


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.