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GFE - Giovani Federalisti Europei

Dal 2020 al 2021, oltre la pandemia


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12/13 Smartphone e bubble tea, come gli studenti in Asia lottano per la democrazia

Duemilaventi, Annus horribilis

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Giochi di potere a Bruxelles: il ruolo della rule of law e del Next Generation EU

Ticchettio ecologico

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Synkrisis a stelle e strisce

Rubrica Erasmus: Parigi (Francia)

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L’Europa dei diritti si unisca per Patrick Zaki Stampato da

Un angolo sul faceto della politica europea Per collaborare con noi, contattaci a: gfe.verona@gmail.com! Rivista del gruppo studentesco GFE - Giovani Federalisti Europei Con il contributo dell’Università degli studi di Verona. Responsabile del gruppo studentesco: Maddalena Marchi. Co-direttori: Maddalena Marchi, Salvatore Romano. Collaboratori: Camilla Bastianon, Gianluca Bonato, Carlo Buffatti, Caterina Cognini, Lea Dietzel, Gabriele Faccio, Francesco Formigari, Andrea Golini, Federico Pasotti, Filippo Pasquali, Filippo Sartori, Andrea Stabile, Alice Tommasi, Alberto Viviani, Filippo Viviani, Sofia Viviani, Andrea Zanolli. Redazione: Via Poloni, 9 - 37122 Verona • Tel./Fax 045 8032194 • www.mfe.it • gfe.verona@gmail.com • Progetto grafico: Bruno Marchese. GFE - Giovani Federalisti Europei

Articolor Verona Articolor Verona srl srl Via Olanda, 17 ComuniCazione GrafiCa 37135 Verona Via Olanda, 17 37057 Verona Tel. 045 584733 Tel. 045 584733 Fax 045 584524 articolor@articolor.it P.I.email: C.F. 04268270230 REA 406433

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Duemilaventi, Annus horribilis di hi Ma ddalena Marc

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ara di freestyle. Sono le 4:00. La polizia. Il volume troppo alto. Cantiamo a squarciagola. Felici. Probabilmente perché ubriachi, ma comunque felici. La sessione incombe. Corriamo verso un lontano miraggio. Alle volte si raggiunge anche. E al sudato posto ridiamo (verosimilmente per non piangere). Terza guerra mondiale. Sembra quasi un galà. Una splendida vetrina. Dentro il negozio ansia al 78%. La gioia si misura in trentesimi. O in spritz, dipende dal punto di vista. Il fuoco divampa. Ci voleva proprio con il cambiamento climatico. Dopo aver donato si cerca la motivazione sul fondo di una bottiglia di cognac. La libertà dispensata in pacchetti di massimo dieci minuti. Arriva l’ordine di wish. Ansia. Il 7 Gennaio finisce l’agonia. L’8 Gennaio febbre a 38.5°C. Bella per le vacanze. Brexit. Inizia il semestre. S’intravede una gioia. Sabato. Ma finché la dispensavano ero in coda per le montagne russe. Brutta scelta. Università chiuse. Poi l’11 Marzo. Cinquantaquattro giorni. Forse il peggio è passato. George Floyd. O forse no. Petrolio nel fiume Ambarnaya. Forse meglio estraniarsi di nuovo dal mondo. Ripeto. Videochiamata. Amici. Videochiamata. Lezione. Videochiamata. Guardo un film. Videochiamata. Sessione estiva. Videochiamata. Compleanno. Basta. Inondazione del fiume Brahmaputra. Il sole del Lago. Caldo. L’acqua fredda. Cullata da un piacere effimero. Calli morbidi sfiorano la mia schiena. Il cielo si riempie di riflessi vitrei. I suoni sono più sordi. Il profumo di una sigaretta. Il sapore di un cubetto di ghiaccio. Beirut. È strano tornare all’interno delle grate grigie. La biblioteca è vuota. Il pranzo dentro una scatola. Il sole bollente. L’aria condizionata. La corsa dalle vespe. La corsa contro il tempo. Sembra quasi di poter respirare. Lukašenko. Conferenza sulla situazione in Bielorussia. Uno spritz. Un altro. Mi mancava la pizza con gli amici. Piove. Gocce

di consapevolezza cadono sulla pelle. Non è finita. Piove. Forte. Mi butto dallo scoglio. Il sale brucia gli occhi. Attendo con ansia l’alba. Il freddo tagliente entra nelle ossa. Non smetto di aspettare. 20 settembre. Referendum. Ha davvero senso votare alle regionali in Veneto? 7 ottobre. Proroga dello stato di emergenza. Ripartiamo. 26 ottobre. Sospensione dei tirocini. 29 ottobre. È vietato tassativamente il consumo di cibo all'interno delle strutture universitarie, anche nelle aree esterne. 3 novembre. Dpcm. 4 novembre. Sospensione delle lezioni in presenza. Era troppo bello per essere vero. Napoli è in fiamme. Progetto studenti per contact tracing. Chiamo il consultorio. Ho bisogno di uno psicologo. Basta. Non voglio essere costretta a casa. Non posso essere costretta a casa. Non posso vivere di nuovo quell’incubo. Ho paura. Magari una passeggiata con un’amica. Non esce di casa da un mese. Non uscirà di casa per un altro mese. Il fratello del fidanzato è positivo. Basta un calzolaio. Basta un calzolaio che non ti ridarà le scarpe finché non ti toglierai quell’inutile mascherina. Perché tanto si sa, «Questo è uno dei grandi segreti della vita. Attualmente gran parte della gente muore a causa del buon senso che la pervade, e poi scopre troppo tardi che l’unica cosa di cui non ci si pente mai sono i propri errori» (Oscar Wilde). Ordino i regali di Natale su Amazon. Ho qualche risparmio da parte. Ci sarebbe una conferenza su zoom, Biden ha vinto. I miei amici mi hanno chiesto di giocare su skribbl. Spengo il telefono. Gennaio 2021•GFE - Giovani Federalisti Europei

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di n Ca milla Bastiano

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Giochi di potere a Bruxelles: il ruolo della rule of law e del Next Generation EU

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sine qua non per l’ottenimento passato quasi un di fondi europei, ma addirittura anno dalla comparsa accusavano le istituzioni europee del Covid-19 in Eurodi strumentalizzare la rule of law pa, e, dopo una fase al fine di renderla uno strumeniniziale estremamente to politico. Il veto di Polonia e promettente e tempeUngheria non riguardava solo i stiva, il piano di ripresa europeo fondi straordinari del Next Gensi è nuovamente arrestato nel eration EU (€750 miliardi), ma labirinto di Cnosso delle relazioanche il Multiannual Finanni di potere dell’Unione. A fine cial Framework (MFF, Quando novembre, Ungheria e Polonia Finanziario Pluriennale) 2021hanno posto un veto all’inter2027. In altri termini, i due stati no del Consiglio, frenando una stavano bloccando l’intero budrisorsa urgente e mettendo così get europeo. in pericolo la stabilità finanziaria È importante ricordare, tra dell’intero sistema. l’altro, che entrambi questi paeInfatti, il premier ungherese si sono al momento sottoposti a Viktor Orban e il primo ministro • Tempo di lettura: 5 minuti procedure disciplinari dell’Uniopolacco Mateusz Morawiecki ne Europea proprio per sospette violazioni della rule hanno tenuto una conferenza stampa in cui non solo of law. chiedevano al Consiglio di riconsiderare la decisione Questo scontro tra Ungheria-Polonia e Unione Eurodi imporre il rispetto della rule of law come conditio

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pea sul Next Generation EU ha assunto i colori di uno scontro ideologico sulla natura stessa dell’Unione. Le istituzioni europee e un importante blocco di Paesi membri sentono oggi la necessità di creare un più stretto legame tra i valori ideologici dell’Unione e i suoi fondi, tra ciò che definisce un Paese “europeo” e i vantaggi che esso può trarre dall’appartenenza a questo gruppo. Alla fine, la presidenza tedesca ha negoziato un accordo che non prevede alcuna modifica al testo originale del piano Next Generation EU, ovvero che non elimina né altera la clausola che vincola i fondi europei al rispetto della rule of law, ma che ne ritarda l’entrata in vigore. Infatti, la clausola sarà efficace solo dopo che Polonia e Ungheria avranno sottoposto il testo alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per verificarne la compatibilità con i trattati. Le reazioni dei capi di Stato a questo accordo sono state varie. Il primo ministro sloveno Janez Janša ha definito l’accordo «Not good, not bad. Typical EU compromise». Il premier ungherese Viktor Orbàn ha dichiarato che era prevalso il buon senso, mentre il presidente francese Emmanuel Macron ha scritto in un tweet «Lo storico piano europeo di ripresa deciso a luglio si sta ora concretizzando. Abbiamo appena adottato un solido accordo sul meccanismo da attuare, nel rispetto dello Stato di diritto. L'Europa sta andando avanti, unita e portando i suoi valori». Nonostante l’ottimistica posizione di Macron, la solidità di questo meccanismo è relativa. Prima di una sentenza definitiva della CGUE potrebbero volerci mesi o anni (la stima più realistica è di 8-12 mesi) e, anche se il verdetto sancisse la compatibilità della clausola sulla rule of law e quindi la sua entrata in vigore, essa è limitata al Multiannual Financial Framework 2021-2027 e al Next Generation EU. In altre parole, tra sette anni si dovrebbe rinegoziare, a meno di un accordo permanente nel frattempo stipulato.

Ancora una volta, l’integrazione europea è rimasta vittima della natura intergovernativa dell’UE e degli interessi nazionali degli stati membri, che, come il prigioniero del famoso dilemma, cedono ad egoismi circostanziali, mettendo in pericolo il futuro comune e danneggiando tutte le parti della trattativa, inclusi essi stessi. Il superamento dell’impasse del veto di Ungheria e Polonia è un successo, ma limitato. È innegabile che la situazione fosse particolarmente favorevole ad un accordo, in quanto tutte le parti in causa sarebbero state gravemente danneggiate dalla mancata approvazione del pacchetto di spesa di 1.800 milliardi tra bilancio settennale e fondi straordinari per la ripresa. Soprattutto, è importante considerare come Polonia e Ungheria avessero tutto l’interesse di far passare questo bilancio. Infatti, dal solo Recovery Plan, riceveranno rispettivamente 30 e 8 miliardi di euro. In più, qualora si fosse dovuto adottare un budget d’emergenza per il 2021, in assenza di accordo, la spesa dell’Unione Europea sarebbe stata ridotta del 50-70% secondo le stime, con pesantissimi tagli alla cohesion policy, di cui entrambi i Paesi sono beneficiari. In una situazione differente, l’esito avrebbe potuto essere molto diverso. L’Unione Europea è ancora in balia dell’interesse nazionale e della buona volontà dei Paesi membri nei negoziati. Fintanto che il meccanismo sarà questo, ci saranno sempre nuove impasse intergovernative da affrontare e, al momento, le istituzioni europee non hanno gli strumenti per fare prevalere l’interesse comune su quello nazionale. Citando Ben Hall del Financial Times, l’UE manca di un “silver bullet” contro stati membri autocratici e illiberali. La differenza di risultati tra l’approccio intergovernativo e quello sovranazionale e la natura troppo spesso ostruttiva del primo comparata a quella più facilmente costruttiva del secondo evidenziano come l’unica via possibile per l’integrazione europea sia quella a guida sovranazionale. Gennaio 2021•GFE - Giovani Federalisti Europei

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Synkrisis a stelle e strisce di ri Fra ga i nces m co For

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oti conteggiati febbrilmente, organi mediatici rosi dall’apprensione, borse col fiato sospeso, una pandemia inarrestabile, negozianti intenti a schermarsi dalle eventuali ondate di protesta barricando i propri negozi con pannelli di legno… Nel frattempo, Donald Trump e Joe Biden già dichiaravano vittorie e annunciavano scontri legali. Non v’è dubbio: le elezioni presidenziali statunitensi del 2020 sono state un evento politico che nessuno dimenticherà facilmente. Proprio come l’anno terribile in cui si sono svolte. A lottare per la Casa Bianca sono stati due uomini che costituiscono nitidi emblemi di mondi completamente diversi: Trump e Biden, ricordando il lontano Plutarco cui allude il titolo di questo testo, rappresentano vite parallele. Entrambi cresciuti e radicati negli Stati Uniti, ma lungo strade mai intersecatesi. Fatta eccezione per lo scontro che li ha opposti, pare arduo individuare dei punti di contatto tra i due: attraverso un espediente di natura metaforico-fenomenologica, invece, risulta possibile osservare con singolare chiarezza proprio le incongruenze che hanno diviso (e dividono) i loro profili. Se i due candidati fossero stati un oggetto, quale sarebbero stati? Il trascorso quadriennio trumpiano trova uno dei suoi più iconici corrispettivi nel cappello rosso con visiera recante la frase: «Make America great again». Un credo politico in quattro parole che ha cambiato il corso della storia americana e mondiale imprimendo il faccione di The Donald nell’immaginario collettivo. Nulla più di quel comunissimo oggetto ingloba Trump: il machismo d’impostazione reaganiana, il desiderio di un’America dall’economia forte e imperiosa, l’immagine di una società insoddisfatta e affamata – affamata di tutto e a tutti i costi. Non solo: in quel cappello, ricordando le parole scritte tempo fa da Massimo Cacciari sulle pagine de L’Espresso, si può scorgere anche il rovescio della medaglia trumpiana. Ammettere che l’America debba tornare a essere grande non significa forse riconoscerne l’attuale perdita di potenza? Altro è il discorso relativo a Biden: a rappresentarlo, infatti, non può che essere il sobrio completo che da anni, essendo un uomo profondamente legato alle istituzioni statunitensi, lo accompagna in ogni occasione pubblica

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– talvolta in versione altamente formale talaltra in versione più informale. Il completo per Biden è più che un mero capo d’abbigliamento: si tratta dell’oggetto che ne esplicita la cifra saliente, il tratto che mesi fa gli aveva permesso di conquistare una prima vittoria svettando sugli altri candidati alle primarie democratiche. Il riferimento è all’atteggiamento moderato, mai sovversivo rispetto alla linea più pacata dell’establishment legato al suo partito, con cui si è sempre posto. Non casualmente, molte delle persone intervistate in corrispondenza delle elezioni presidenziali dagli organi d’informazione hanno descritto Biden come un uomo rassicurante e in grado di ricoprire la carica di presidente con decoro. Se i due candidati fossero stati una foto, quale sarebbero stati? Nel caso relativo a Trump, l’im-


barazzo della scelta è palese. Parte della popolarità legata all’ex presidente, infatti, è stata originata dalla sua spiccata attitudine al clamore mediatico: in questo senso, The Donald può essere considerato il perfetto rappresentante di una politica nuova, fatta d’ingombranti e chiassose apparizioni volte a manipolare l’attenzione pubblica. Guardando al passato recente, pare significativo esaminare due scatti in particolare: da un lato, la foto in cui Trump regge tra le mani un giornale il cui titolo ne dichiara a lettere maiuscole l’assoluzione in seguito al processo di impeachment; dall’altro, la foto in cui Trump, con il volto teso e fiero, è ritratto nel gesto di levarsi la mascherina chirurgica per celebrare la propria vittoria contro il covid. Entrambi gli scatti raccontano una presidenza scandita da controversie e temibili difficoltà: il primo descrive una vittoria dai riflessi politici tramite la quale Trump era riuscito a sventare l’ultimo grande attacco architettato dai democratici ai suoi danni; il secondo, invece, mescola più fattori e li concentra tutti nella figura del presidente: l’attuale pandemia, il menefreghismo ostentato da Trump nei confronti del covid, la guarigione tanto misteriosa quanto fulminea trasformata dalla sua cerchia in spot elettorale. A corredo dei due scatti, alcune delle costanti tipiche dell’estetica trumpiana: l’abbronzatura artificiale, il ciuffo ridicolo, la cravatta sgargiante… Segni esteriori che riflettono l’approccio alla politica e

al mondo di Trump. Volendo allargare la prospettiva, poi, altri sono gli scatti che meritano di essere quantomeno menzionati: Trump imbronciato dinanzi ai leader mondiali durante il G7, Trump che stringe la mano al dittatore nordcoreano Kim Jong-un, Trump impassibile durante il raid che condurrà all’uccisione del leader dell’Isis al-Baghdadi, Trump che incontra il presidente cinese Xi Jinping, Trump entusiasta nello Studio Ovale con il rapper afroamericano Kanye West, et cetera. Scelte politiche estreme, incontri surreali, manovre imprevedibili e rischiose: ecco ciò che spesso emerge dai tanti scatti relativi all’ex presidente. Ben diverso è il cosmo fotografico legato a Biden: del senatore di lungo corso, infatti, pare non esistano scatti controversi. Nei giorni delle elezioni uno dei più diffusi dagli organi mediatici è stato quello che lo ritrae nel novembre del ’72 mentre taglia la torta per il suo trentesimo compleanno. Era appena stato eletto senatore del Delaware, nella foto è insieme alla prima moglie Neilia e ai due figli maschi. La tragedia familiare che ne avrebbe segnato l’esistenza avverrà poco tempo dopo, privandolo della moglie e della figlia. Quell’immagine racconta sia un politico che da quasi cinquant’anni appartiene al panorama istituzionale del proprio Paese sia un uomo dalla confortante umanità – il giornalista Harry F. Themal anni addietro lo definì il «sensible center of the Democratic Party». Altri, poi, Gennaio 2021•GFE - Giovani Federalisti Europei

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sono gli scatti in grado di catturarne il profilo: si pensi a quelli con Barack Obama, di cui è stato vice dal 2008 al 2016 e da cui ha ricevuto la prestigiosa Medaglia presidenziale della Libertà. Si pensi anche agli scatti che lo ritraggono in compagnia di figure storicamente rilevanti quali Jimmy Carter ed Henry Kissinger o alla foto dell’’88 che lo coglie in metropolitana mentre si reca al Senato per tornare al lavoro dopo aver rischiato la morte a causa di un aneurisma. Foto che descrivono, ancora una volta, un uomo ligio al proprio dovere e dignitosamente legato al sistema politico statunitense. Se i due candidati fossero stati un luogo, quale sarebbero stati? Trump, dato il ruolo rivestito negli ultimi quattro anni, non può non essere associato alla Casa Bianca. Tuttavia, il suo singolare rapporto con la stessa rivela un politico poco avvezzo alle tradizioni presidenziali e più che propenso a infrangerne il decoro. Spesso, infatti, The Donald ha manifestato un forte legame sia con la Trump Tower che sorge lungo la Fifth Avenue di New York sia con la sua lussuosa residenza a Mar-a-Lago, in Florida. Edifici che nelle proprie fattezze raccontano l’abbacinante (nonché fumosa) ricchezza di un uomo desideroso di sfruttare gli stessi per alimentare lo status di self-made man su cui ha spesso puntato in ambito propagandistico. A proposito della Trump Tower, è bene rammentare che proprio nella stessa fu installato il set del reality-show che contribuì alla nascita del personaggio-Trump: “The Apprentice”, la cui prima stagione fu mandata in onda nel 2004. Come spiega il giornalista Davide Mamone sulle pagine de L’Espresso, «nel documentario Netflix “Trump: An American Dream” lo stratega repubblicano Roger Stone […] lo dice chiaro e tondo. L’inizio della carriera televisiva in The Apprentice […] è stato anche l’inizio inconsapevole della sua campagna elettorale. Alcuni delle decine di milioni di telespettatori che hanno seguito il reality show […] si sono convertiti poi in suoi elettori». Ancora una volta, dunque, il tema di cui prima: il legame potente e pericoloso tra il mondo mediatico e Trump. Per l’ennesima volta, poi, diverso è quanto si può dire a proposito di Biden. Due, essenzialmente, sono le categorie di luoghi che più definiscono l’identità del neo-presidente statunitense. Da un lato, i luoghi delle istituzioni: nel corso della sua pluridecennale carriera politica Biden ha calcato tanto i corridoi della Casa Bianca quanto l’aula senatoriale di Capitol Hill. Dall’altro, i luoghi legati alla sua formazione e alla sua azione politica: la Pennsylvania, il Delaware, la “rust belt” fatta di vecchi impianti siderurgici e chimici prossimi alla rovina, gli spazi legati a quei sindacalisti e a quegli operai sui quali Biden pare non aver mai perso la propria influenza. La disamina condotta fino a questo punto rivela indubbiamente, come preannunciato, due figure agli antipodi: Trump e Biden sono uomini tanto lontani che non solo appartengono a partiti diversi, ma occupano anche posizioni differenti in seno agli stessi. Trump è considerato un estremista dai repubblicani, Biden un

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moderato dai democratici. Profondamente difformi, poi, sono le storie familiari e personali dei due: il primo proviene da una famiglia di origini tedesche con forte vocazione imprenditoriale, il secondo da una famiglia di origini irlandesi e di umile estrazione; figlio di un noto immobiliarista di New York il primo, figlio di un venditore di auto usate dalla carriera traballante il secondo; il primo ha condotto studi dalla rigida impostazione militaristica e di ambito economico, il secondo studi non brillanti in ambito politico-giuridico; protestantesimo in salsa presbiteriana per il primo, nucleo familiare di fede cattolica per il secondo; il primo ha avuto tre mogli e cinque figli, il secondo due mogli e quattro figli. Certo, alcune sovrapposizioni non mancano: entrambi, ad esempio, non bevono alcolici e conoscono bene, seppure per ragioni diverse, i meccanismi della vendita. Entrambi, inoltre, sono stati toccati da alcuni scandali: numerosi, fondati e ignominiosi quelli legati a Trump; pochi, incerti e non così eclatanti quelli inerenti a Biden – anche se, a dire il vero, la scomoda condizione di suo figlio Hunter ha recentemente ricevuto molte attenzioni. Niente, ad ogni modo, ha polarizzato Trump e Biden quanto i programmi attorno ai quali sono state costruite le loro candidature. I due contendenti ne hanno discusso durante i dibattiti presidenziali trasmessi in diretta televisiva su tutto il territorio statunitense: l’esito di tali dibattiti, che hanno incluso anche uno scontro tra i due candidati alla vice-presidenza (si tratta del cristiano conservatore Mike Pence e dell’ex procura-


trice della California Kamala Harris, ora vice-presidente), non è stato molto determinante. La ricetta trumpiana si è rivelata sempre la medesima, ed è stata propalata con spot che esaltavano Trump descrivendolo come colui che ha restituito la ricchezza agli Stati Uniti. In sostanza, con il suo programma Trump si è confermato un esponente della corrente repubblicana che i politologi Jacob Hacker e Paul Pierson, in un testo intitolato “Let Them Eat Tweets”, hanno definito come “demagogia plutocratica”: generalmente, una combinazione di elementi quali l’anti-elitismo, l’individuazione di nemici, il nazionalismo bianco, il conservatorismo religioso, e un insieme di manovre economiche favorevolissime ai ricchi. La proposta di Biden, invece, ha palesato elementi tipicamente in linea con il moderatismo di matrice democratica: nel suo programma, dunque, non hanno trovato post né gli estremismi di Trump e neppure gli estremismi di alcuni esponenti del suo stesso partito – si pensi, ad esempio, alle forti idee ecologiche della combattiva e popolarissima Alexandra Ocasio-Cortez. Biden ha promesso 400 miliardi alle industrie per l’acquisto di beni strumentali intermedi made in Usa e 300 miliardi per ricerca e sviluppo – promessa, quest’ultima, che nel 2016 fu anche di Trump. Biden ha incluso tra i propri obiettivi un rialzo delle aliquote finalizzato a ottenere un rilevante recupero sul fisco (senza causare fughe di capitali), la ripresa dell’Affordable Care Act cestinato da Trump per continuare il percorso verso il servizio sanitario universale di stampo europeo, la riattivazione del multilateralismo

in politica estera con l’intento di ripristinare i rapporti internazionali (quelli con l’Europa in primis) troncati dall’ex presidente, l’abbandono di politiche basate sui dazi introdotti con ferocia da The Donald, l’attenuazione del conflitto economico con la Cina, e l’introduzione di misure favorevoli all’ambiente quali il ritorno agli accordi climatici di Parigi e un piano da 2mila miliardi per l’auto elettrica, le energie rinnovabili, la sostituzione con impianti meno inquinanti dei vecchi stabilimenti e altre iniziative per il contenimento della CO2. A questa agenda, poi, Biden ha voluto sommare sia il piano da 4mila miliardi con il quale i democratici vorrebbero rinnovare le infrastrutture del Paese (il quale, data la riapertura del mercato a tutte le aziende del settore, avrebbe ottime ripercussioni in ambito europeo) sia il piano d’emergenza da 3mila miliardi per le piccole aziende, elaborato in seguito allo scenario causato dalla pandemia, che gli stessi democratici – nonostante il contrasto opposto dai repubblicani – vorrebbero fare approvare al Congresso. Secondo le stime sviluppate da Oxford Economics, con la vittoria di Biden l’economia statunitense impiegherà un anno di meno a tornare ai livelli del 2019: fine 2022 con il democratico, fine 2023 se fosse stato rieletto The Donald. Inoltre, la stessa Oxford Economics ha previsto che nel 2021 la crescita sarà del 5,8% grazie a Biden; del 3,8%, invece, se avesse trionfato Trump. Lo scontro che per giorni ha sconquassato gli Stati Uniti è stato segnato da aspre battaglie a colpi di zeri-per-cento: anche pochi punti o risicate manciate di voti sono più volte parsi determinanti. Raramente gli Stati Uniti, che ancora si configurano come una delle maggiori potenze mondiali, sono parsi tanto divisi: due mondi paralleli, in lotta anche per questioni in precedenza non menzionate. Non si dimentichi, infatti, che quella odierna è l’America di George Floyd e di quanti sono stati brutalmente assassinati dalle forze dell’ordine, l’America delle 240mila vittime mietute dal covid, l’America delle folle che richiedono totale tutela per l’ambiente e più giustizia socio-economica. Molto si è agitato (e tuttora si agita) dietro i volti dei due uomini descritti finora. Non sono mancate alcune delle tensioni che certi analisti avevano previsto: Trump, come evidenziato più sopra, ha inscenato ampie e focose contestazioni, richiedendo a più riprese nuovi conteggi dei voti – tutti respinti. Questo scenario – divenuto poi realtà – è stato definito da analisti come Elliot Hentov, capo della Policy research della finanziaria State street di Boston, come un’eventualità «così paradossale che ritenevamo fosse appannaggio dei regimi dittatoriali tipo Bielorussia o Venezuela». Il 14 dicembre la carica presidenziale è stata ufficialmente conferita a Joe Biden, così divenuto il 46esimo presidente degli Stati Uniti. Accanto a lui, in veste di vice-presidente, l’ex senatrice Kamala Harris. Ora, essendo Trump sempre più privo di spazi di contestazione, una è la domanda: con Biden gli Stati Uniti rinasceranno davvero sotto il segno dell’unità, dopo uno dei quadrienni più sconvolgenti della loro storia? Gennaio 2021•GFE - Giovani Federalisti Europei

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L’Europa dei diritti si unisca per Patrick Zaki

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parso per più di 24 ore, gli avvoetenzione arbitracati della difesa affermano che ria, torture e abusi Zaki ha subito torture per oltre sono all’ordine del 17 ore e che al momento del loro giorno in un paese incontro riportava segni di percosdove lottare per i se sul volto. Per le accuse di terrodiritti umani è conrismo sopracitate rischierebbe dai siderato un reato. Patrick Geor13 ai 25 anni di reclusione, accuse ge Zaki è uno studente e attivista • Tempo di lettura: 6 minuti che deriverebbero da presunti post di 29 anni che dal 7 febbraio ad su Facebook che la difesa ha dichiarato falsi. oggi è in detenzione preventiva nel carcere di Tora Come spesso avviene in casi come questo, non si al Cairo, in Egitto. L’accusa è sempre la stessa: «Essersi verifica immediatamente un processo, ma l’accusato unito ad un gruppo terroristico, diffondere false dichiarimane in detenzione preventiva che viene rinnovata razioni che disturbano la sicurezza pubblica, dannegdi volta in volta, fino a un massimo di due anni. Ad giare il pubblico interesse ed utilizzare un account onlioggi sono trascorsi circa dieci mesi di detenzione, dune per diffondere false notizie». rante i quali, a partire dal suo arresto, Patrick ha subito Patrick si trovava in Italia come studente dell’Università violenze e violazioni dei suoi diritti fondamentali. di Bologna, dove conseguiva un Master, tramite Erasmus Dalle torture con percosse e scosse elettriche, alle conMundus, in “Women and Gender Studies”. Avendo a dizioni di incarcerazione, alla negazione del corretto cuore diritti e questioni di genere collaborava con l’ONG svolgimento giudiziario. EIPR (Egyptian Initiative for Personal Rights), organizzazioIn un estenuante ripetersi di udienze terminate con ne che dal 2002 si occupa di diritti umani e libertà fondail solito rinnovo della custodia cautelare, il 21 novembre mentali, prima a riconoscere i diritti LGBT in Egitto. di quest’anno abbiamo assistito all’ennesimo “rinnovaIl 7 febbraio 2020, mentre tornava in Egitto per visitare to di 45 giorni”. In questo modo la detenzione prela sua famiglia, Patrick è stato arrestato all'aeroporto del ventiva, che non assume nessuno scopo ai fini dell’inCairo con un mandato di cattura (emesso nel settembre dagine, diventa un pretesto per far dimenticare il caso 2019) di cui non era a conoscenza. Dopo l’arresto è scomal resto del mondo. La situazione è peggiorata da quando, in queste ultime settimane, il sistema di sicurezza nazionale egiziano si è accanito principalmente nei confronti dei difensori dei diritti umani, arrestando tre dirigenti della ong EIPR con le stesse accuse di terrorismo rivolte a Zaki. In momenti come questo, diventa fondamentale una presa di posizione univoca e determinata. In Italia purtroppo il Governo si è finora espresso debolmente intorno alla vicenda, portando avanti trattative economiche con il Governo egiziano per la vendita Patrick George Zaki, attivista e ricercatore egiziano di armamenti militari, anche se la

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ll presidente egiziano Al-Sisi e il Premier Giuseppe Conte Legge 185/90 sull’esportazione di armi vieta di trattare con Stati che non rispettano i diritti umani. L’articolo 1, comma 6, della Legge 185/90 della Repubblica Italiana, riporta infatti: «L'esportazione ed il transito di materiali di armamento sono altresì vietati: verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell'UE o del Consiglio d'Europa.» Il caso di Patrick Zaki ha provocato una risposta tempestiva da parte del Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli, che ha chiesto la sua immediata scarcerazione e ha ricordato alle autorità egiziane l’importanza per l’Unione del rispetto dei diritti umani e civili nei suoi rapporti con paesi terzi. Nel febbraio 2020 a Strasburgo sono state presentate due interrogazioni parlamentari che sollecitavano l’Alto Rappresentante Europeo a rivalutare le relazioni con l’Egitto, sospendendo eventualmente l’accordo di libero scambio, fino al rilascio di tutti gli attivisti detenuti ingiustamente come Patrick. Alcuni europarlamentari e deputati italiani hanno partecipato insieme ad associazioni come Amnesty International, FIDH (Federazione Internazionale dei Diritti Umani) ed EIDHR (Human Rights and Democracy Network) ad alcune iniziative come un flashmob a Strasburgo, un sit-in presso il consolato egiziano a Milano e l’invio di una lettera all’Ambasciatore egiziano a Bruxelles a nome della delegazione italiana appartenente al gruppo europarlamentare S&D (Socialists & Democrats). Anche in Italia hanno preso forma iniziative come “100 città con Patrick”, con lo scopo di costringere il governo italiano a prendere una posizione decisa e concreta riguardo alla detenzione di Patrick: in questo caso, fornendo la cifra simbolica di 100 cittadinanze onorarie allo studente. Rimane il fatto che dal punto di vista mediatico, anche a causa della pandemia in corso, il caso si è posto in secondo piano e fino ad oggi l’Italia ha mantenuto una

posizione molto cauta, quasi neutrale. Non dobbiamo dimenticare che l’Italia, insieme agli altri Stati dell’Unione, è un importante partner commerciale dell’Egitto; questo è probabilmente il principale motivo per cui le questioni umanitarie passano di fatto in secondo piano. Un altro punto critico sono le reazioni delle autorità egiziane, che sembrano non tollerare ingerenze estere di alcun tipo negli affari interni del Paese. A dimostrazione di ciò, infatti, l'ambasciata d'Egitto a Roma ha rifiutato di ricevere le oltre 150mila firme raccolte da Amnesty International per chiedere la liberazione di Patrick Zaki. Un Paese che si accanisce su giovani impegnati nello studio e nella difesa dei diritti si dimostra in forte contrasto ai principi di libertà ed uguaglianza che sono stati le fondamenta per la costruzione della nostra Unione Europea. Non dobbiamo dimenticarci che oltre ad essere un’unione economica, l’UE ha alla base dei valori e principi comuni, quali l’importanza della solidarietà, dei diritti fondamentali e della libertà che viene attribuita ad ogni individuo. Lasciare indietro un cittadino, naturale o acquisito, non giova all’immagine di un Paese che dovrebbe pretenderne la tutela. Per fronteggiare situazioni come questa, quindi, serve un’azione più compatta sia da parte del Parlamento Europeo e delle altre istituzioni, sia a livello dei singoli Stati Membri, che dovrebbero anteporre di comune accordo le questioni umanitarie agli interessi economici e svolgere azioni il più possibile omogenee. I forti interessi economici tra Europa e Egitto potrebbero non essere un ostacolo ma una risorsa per ottenere il rispetto delle libertà individuali. Un’Unione Europea unita su più fronti diventerebbe un colosso che potrebbe davvero fare la differenza. Un’analisi dello European Council of Foreign Relations dichiara che l’Unione Europea avrebbe, per casi come quello di Zaki, un potere sull’Egitto da non sottovalutare. Il regime di Al-Sisi non è poi così inattaccabile alle critiche, e si è già dimostrato vulnerabile alle influenze internazionali sul fronte dei diritti umani. Gennaio 2021•GFE - Giovani Federalisti Europei

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di io Gab riele Facc

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Smartphone e bubble tea, come gli studenti in Asia lottano per la democrazia • Tempo di lettura: 5 minuti

all’Asia soffia un vento di primavera, un vento di rivolta, portato avanti dai giovani e organizzato su internet e con alla base una richiesta molto chiara e semplice: questi giovani chiedono democrazia e stato di diritto. I social media, le chat private con gli admin segreti e pure i meme, aiutano nella lotta comune alla tirannia, e non solo in Asia. «Il classico stereotipo che le persone in Asia sono quiete, che non ci permettiamo di domandare, che non ci facciamo sentire, ecco questo stereotipo è stato finalmente smentito grazie a queste manifestazioni», dice alla BBC Akkarasorn Opilan, une delle giovanissime prominenti leader dei recenti movimenti di protesta studentesca in Thailandia. E in effetti è vero che interessi tutta un’intera regione. Questi giovani si trovano in paesi differenti e affrontano nemici diversi, i propri rispettivi governi autoritari, ma sono ispirati da comuni ideali e mettono in pratica e condividono le stesse strategie di protesta. Da questa necessità di fare rete, ne è nato un vero e proprio movimento virtuale che ha coinvolto anche ambasciate e ministeri degli Esteri

Joshua Wong a Hong Kong

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per il suo impatto, il Milk Tea Movement, come è stato nominato. «Quando devi affrontare un potere così grande devi essere creativo», cita il The Guardian da Netiwit Chotiphatphaisal, studente attivista in Bangkok. «Il nome è molto carino, è seducente e la gente [vede] che non è aggressivo». Il Milk Tea Movement, in effetti, organizza proteste che vogliono essere sostanzialmente pacifiche e pare sia nato dall’aggressione sui social di una famosa coppia di attori thailandesi da troll nazionalisti cinesi, perché rei di aver postato delle immagini in cui sia Taiwan che Hong Kong venivano menzionati come stati indipendenti, punto scottante questo per il Partito Comunista a Pechino che rivendica la sovranità completa su questi territori. Ne è nato, quindi, un dissing sui social e Twitter in particolare, che ha coinvolto i giovani fans thailandesi schieratisi con la coppia di attori, contro l’orda di nazionalisti e troll cinesi e le loro invettive dall’altra, e che ha interessato anche critiche al governo e alla monarchia thailandesi da parte dei cinesi. Cosa questa che è stata piacevolmente riutilizzata dagli studenti thai per dare il via alle loro proteste.


I social, si sa, non conoscono confini, e c’è voluto poco perché giovani da tutta l’Asia, e in particolare da Hong Kong e Taiwan, arrivassero a sostegno degli studenti thailandesi. Da semplici meme e condivisioni di hashtags comuni, ne è nata una vera e propria collaborazione tra gruppi di attivisti di Hong Kong, Taiwan e Thailandia, che ha dato il via a tattiche comuni di protesta, organizzazione particolare dei gruppi per preservare i leaders da arresti e permettere la sopravvivenza del movimento anche in assenza di un vertice, e pressione sui media per avere risonanza pubblica, come per il Movimento degli Ombrelli in Hong Kong nel 2014. Le stesse pratiche vengono sempre di più utilizzate, raffinate e contestualizzate da altri gruppi di protesta non solo in Asia, come lo dimostra la vasta rete organizzativa e propagandistica su Telegram del movimento per la destituzione di Lukashenko in Bielorussia, quest’anno. E in tutto questo cosa fa l’Europa? A parte gli sparuti e ritualizzati richiami alla legalità e allo stato di diritto di alcune prominenti cancellerie europee, delle dichiarazioni della Presidente della Commissione Europea e dell’Alto Rappresentante Josep Borrell contro Pechino, sul tema di Hong Kong e della sua violenta e illegale repressione si registrano, per ora, solo parole. Per quanto riguarda i movimenti di protesta studentesca in Thailandia e le tattiche sempre più pesanti che le forze di sicurezza stanno adottando, non si registrano, invece, neanche quelle. Un silenzio assordante, che mina la credibilità del blocco europeo nel campo della di-

fesa dei diritti umani e della promozione della democrazia nella regione del Sud-est asiatico e nel mondo. Le solite priorità date a questioni di faziosità e divisione interne, la crisi sanitaria ed economica, non fanno che aggiungersi ai timori da parte europea di mettere a repentaglio gli accordi commerciali in discussione e gli interessi economici nella regione. «Per il PCC [Partito Comunista Cinese], ci sarà sempre una prossima vittima, un’altra e un’altra ancora» ricorda Thachaporn Supparatanapinyo, studente attivista thailandese da Taiwan. «E anche quando non si tratta di espansione territoriale, cercano di mercanteggiare la nostra sovranità comprando la classe politica [thailandese], come hanno già fatto in Cambogia o Laos». Un monito, questo, che manifesta il crescente sentimento anticinese nel Sud-est asiatico e che dovrebbe far smuovere il blocco europeo dalla sua posizione di timida reazione frammentaria a una chiara, unitaria e di lungo periodo, di bilanciamento della crescente potenza cinese. «Se pensiamo al problema dalla prospettiva dei diritti umani, della libertà e della democrazia, allora troveremo molte cose in comune», dice Jerry Liu del Taiwan’s New Power Party ad una conferenza stampa del Taiwan Alliance for Thai democracy. E questo è vero, non solo per i manifestanti di Hong Kong, per gli studenti in Thailandia o per gli attivisti in Taiwan, vale anche per tutti i cittadini che in Europa si identificano nei valori dell’Unione e della loro difesa e promozione al di là di qualunque interesse economico di sorta. Gennaio 2021•GFE - Giovani Federalisti Europei

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Ticchettio ecologico di ri Fra ga i nces m co For

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ià nel dicembre dello scorso anno la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, poco tempo prima chiamata a rivestire tale ruolo, aveva sostenuto con forza la rilevanza di misure finalizzate a contrastare il cambiamento climatico. Il proposito della von der Leyen si è successivamente trasformato in ciò che oggi i giornali, con esplicito riferimento alla novecentesca iniziativa di Roosevelt, chiamano “Green New Deal”. Stando a ciò che viene indicato dallo stesso sito dell’Unione europea, tale piano d’azione si configura come la “tabella di marcia” attraverso la quale l’Unione medesima si propone di diventare un’“economia moderna” ed “efficiente sotto il profilo delle risorse”. I principali obiettivi del Green New Deal prevedono

l’azzeramento entro il 2050 delle emissioni nette di gas a effetto serra, lo sviluppo di una crescita economica dissociata dall’uso delle risorse, e il coinvolgimento di ogni persona ed ogni luogo. Questi macro-obiettivi potranno essere raggiunti soltanto attraverso la promozione dell’uso efficiente delle risorse, l’instaurazione di un’economia pulita e circolare, il ripristino della biodiversità e la riduzione dell’inquinamento. Anche la coordinazione tra le iniziative legate ai vari settori economici giocherà un ruolo d’assoluta importanza: dovranno essere introdotte tecnologie rispettose dell’ambiente, dovrà essere sostenuta l’industria dell’innovazione, dovranno essere incentivati trasporti privati e pubblici più puliti, più economici e più sani, dovrà essere attuato il processo di decarbonizzazione del settore energetico, dovrà essere incremen-

La presidentessa della Commissione europea Ursula von der Leyen

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tata l’efficienza energetica degli edifici, dovranno essere individuati dei partner internazionali con i quali migliorare gli standard ambientali mondiali. La determinazione dei vertici europei rispetto alla realizzazione del Green New Deal si è manifestata con chiarezza nella proposta di una legge europea sul clima, la quale è stata presentata il 4 marzo 2020: attraverso tale proposta, pensata anche per consentire a innovatori e investitori di programmare investimenti a lungo termine, i vertici europei hanno voluto sostenere l’importanza, in materia ambientale, del passaggio dalla dimensione dell’impegno politico a quella dell’obbligo giuridico. In sostanza, il Green New Deal rappresenta la possibilità di un cambiamento epocale. Anzi: un «momento uomo sulla Luna», come dichiarato dalla von der Leyen. Nello scorso dicembre, infatti, la presidente della Commissione aveva presentato con le seguenti parole il Green New Deal: «Il nostro obiettivo è riconciliare l’economia con il nostro pianeta, tagliare emissioni ma creare occupazione e rafforzare l’innovazione». Proposito motivato, sempre nelle parole della von der Leyen, dalla convinzione che «il vecchio modello di crescita basato sui combustibili fossili e l’inquinamento sia fuori dal tempo e dal mondo». Certo, in una Unione all’interno della quale – stando ai dati riportati da Alessio Foderi su “Wired” – produrre e usare energia causa il 75% delle emissioni di gas a effetto serra, gli edifici rappresentano oltre il 40% dei consumi energetici, l’industria si avvale soltanto per il 12% di materiali riciclati e i trasporti determinano il 25% dell’impronta di carbonio, il Green New Deal pare una manovra più che necessaria. Non casualmente, il 14 gennaio 2020 il vice-presidente della Commissione Valdis Dombrovskis ha annunciato nell’aula plenaria del Parlamento europeo l’approvazione del piano. Persino la pandemia tuttora in corso non ha scalfito la centralità dell’ambizioso Green New Deal: lo testimoniano, da un lato, la lettera

che l’11 aprile ben undici ministri dell’Ambiente europei (tra i quali l’italiano Sergio Costa) hanno spedito ai vertici dell’Ue con l’intento di ribadire la rilevanza della lotta al cambiamento climatico e, dall’altro, le parole della von der Leyen. La presidente della Commissione, infatti, il 16 settembre 2020 – in occasione del suo primo discorso sullo stato dell’Unione – ha sostenuto con rinnovata decisione l’importanza del Green New Deal, alzando al 55% (contro il 40% inizialmente previsto) il quantitativo di emissioni da tagliare entro il 2030. Non solo: la von der Leyen, che nella circostanza sopracitata ha affermato che il covid dev’essere “un’occasione per cambiare”, ha posto in evidenza l’esempio virtuoso delle industrie svedesi in grado di produrre acciaio utilizzando idrogeno al posto del carbone e ha speso alcune parole intorno alle modalità di finanziamento del piano, spiegando che al Green New Deal sarà dedicato il 37% delle risorse del Next Generation EU e che il 30% del Recovery Fund sarà reperito sul mercato con l’impiego di “green bond”. Nonostante ciò, il cammino del Green New Deal non dev’essere pensato come privo di criticità o di avversari. Secondo l’analisi sviluppata da Gloria Riva sulle pagine de L’Espresso, infatti, il piano in esame sarebbe caratterizzato da alcuni “lati oscuri”. Riva, che definisce questo processo di trasformazione “in un’economia pulita e circolare, per ridurre l’inquinamento, fermare i cambiamenti climatici, senza tuttavia tagliare posti di lavoro, anzi aumentando il benessere delle famiglie” come la “terza grande sfida” del capitalismo mondiale, ritiene che le maggiori criticità del Green New Deal risiedano in tre punti: i soldi con i quali finanziare il piano, che risultano essere meno della metà di quelli necessari a spegnere l’emergenza entro il 2050; il ritardo temporale rispetto all’agenda 2030 previsto dalla stessa conformazione del piano, che si rivolge al 2050; il serio rischio per l’Italia di non riuscire a intercettare i finanziamenti necessari a rilanciare le aree più critiche. L’insufficienza di denaro evidenziata nel primo punto è legata, secondo la ricostruzione di Riva, alle stime della stessa Commissione: il piano, infatti, attualmente prevede il ricorso a 100 miliardi di euro all’anno per dieci anni; tuttavia, la Commissione ha riconosciuto che, in realtà, il perseguimento degli obiettivi del Green New Deal richiederebbe 260 miliardi all’anno per dieci anni. Non casualmente, negli Stati Uniti Alexandra Ocasio-Cortez, tra le figure di spicco dei democratici, ha indicato come cifra necessaria al Green Deal statunitense una quantità di denaro pari a 2.500 miliardi da ripartire tra i prossimi dieci anni. Le perplessità esposte dalla Riva al terzo punto, invece, sono legate alla scarsa confidenza dell’Italia con sistemi di finanziamento quali leve economiche e finanze a progettualità mista. In tal senso, è bene precisare che l’Unione non intende distribuire i fondi legati al Green New Deal tramite sistemi di finanziamento a fondo perduto: il denaro che l’Unione stessa recupererà attraverso InvestEu, prestiti della Banca europea, piani di transizione strutturati (il principale dei quali è il Just Tran- continua Gennaio 2021•GFE - Giovani Federalisti Europei

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sition Mechanism), risorse provenienti dal Fondo europeo di sviluppo regionale, dal Fondo sociale europeo e dalle finanze degli Stati membri, sarà distribuito tramite sistemi basati su meccanismi come le leve economiche alla Juncker. Ebbene: dato lo scenario descritto, alla Riva il futuro del Green New Deal pare alquanto fosco. Volgendo lo sguardo al contesto italiano e a coloro che più rischieranno di subire le eventuali conseguenze negative del piano, ossia i lavoratori legati al settore energetico, la giornalista formula la seguente considerazione: «Chi sta pensando a un piano b per tutte queste tute blu? Per ora nessuno.» L’elenco delle voci critiche prosegue con le perplessità avanzate dalle ong ambientaliste. Greenpeace, ricordando che «la natura non negozia», ha posto l’accento sulle tempistiche definite dall’Unione, giudicate insufficienti a contrastare i sempre più brutali effetti del cambiamento climatico. Secondo il WWF, invece, l’enfasi che all’interno del piano è stata dedicata alla dimensione della crescita economica è spia della volontà, da parte dell’Unione, di mantenersi in linea con il paradigma tradizionale della crescita, considerato sostanzialmente inadatto alla reale accettazione dei limiti del pianeta. Non casualmente, il Financial Times si è recentemente domandato se il Green Deal sia un piano per il clima o per l’industria europea. Sul versante dei nemici, poi, è bene ricordare l’ostilità già palesata dai Paesi la cui economia risulta fortemente legata all’industria del carbone (si pensi a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria). Anche l’Energy Charter Treaty, piano istituito dopo la Guerra fredda per proteggere le industrie occidentali che investivano negli ex stati sovietici, sembra configurarsi come un elemento d’intralcio. Difficoltose, poi, paiono le intese con partner internazionali quali la Cina: basti rammentare l’esito decisamente scialbo dell’incontro avvenuto il 14 settembre 2020 tra i vertici europei e il presidente cinese Xi Jinping.

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Ambiente, tecnologia, politica, tempo: oggi più che mai questi grandi elementi della storia umana risultano intrecciati all’interno di una partita delicatissima, uno scontro in cui l’avversario sembra davvero prossimo a mettere in scacco l’umanità intera. Dall’Ottocento in avanti il tema della natura e dell’inquinamento legato alla stessa ha più volte attratto l’attenzione dell’opinione pubblica e delle società mondiali. Nel caso relativo all’orizzonte culturale del bel Paese, significativi sono gli esempi costituiti da Adriano Celentano e da Giorgio Caproni. L’uno pop, l’altro più colto. Con il suo ragazzo della via Gluck, il cantautore milanese metteva in musica con tono moraleggiante una malinconica riflessione sull’incedere spietato dell’urbanizzazione: era il 1968. Quattro anni più tardi, nel 1972, con i suoi “versicoli quasi ecologici” il poeta livornese proponeva invece una rassegnata meditazione intorno alla distruzione del pianeta operata dall’uomo: «Come potrebbe tornare a esser bella, / scomparso l’uomo, la terra». Oggi, quasi cinquant’anni dopo, l’uomo ancora non è scomparso, ma pare che il tempo rimastogli sia ben poco: sette anni circa, secondo il calcolo del Climate Clock recentemente inaugurato a New York in Union Square. Un grande orologio digitale che segna con un conto alla rovescia quanto tempo divide l’umanità dall’irreversibilità del cambiamento climatico. Come se l’umanità avesse una pistola costantemente puntata alla tempia. La mano che la regge è, in accordo con la lezione di Caproni, quella dell’umanità stessa. Il Green New Deal, creatura tanto ambiziosa quanto complessa, tanto grandiosa quanto fragile, forse non è la migliore delle soluzioni, ma sicuramente è una speranza alla quale affidarsi. In fondo, soltanto l’umanità può neutralizzare sé stessa prima che ad annientarla sia il mondo cui è inestricabilmente congiunta: «Il galagone, il pino: / anche di questo è fatto l’uomo.»


Rubrica Erasmus: Parigi (Francia) di i Cat in erina Cogn

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ono Caterina Cognini e sono una studentessa del terzo anno di Philosophy, International and Economic Studies presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ho avuto l’opportunità di svolgere tutto il secondo anno accademico presso l’istituto di scienze politiche Sciences Po di Parigi, grazie allo scambio Erasmus. Innanzitutto, avendo potuto scegliere i corsi per il mio percorso accademico, ho deciso di intraprendere specialmente corsi legati all'Unione Europea. Poiché sono propensa a concentrare il mio master sugli studi europei, ho voluto iniziare ad approfondire tali argomenti in una delle città più importanti per la politica europea. In quei mesi ho davvero sperimentato l'enorme differenza tra la metodologia di apprendimento e di studio italiana e francese. Se l'Università italiana di solito si concentra maggiormente sul miglioramento della conoscenza dei suoi studenti sottolineando l'importanza dello studio, d'altra parte, la metodologia francese si basa sullo sviluppo di capacità di scrittura e ricerca che dovrebbero essere riferite a un modello e una struttura precisi composti dalla cosiddetta problématique.

Essere una studentessa di Sciences Po mi ha dato l'opportunità di partecipare a molte conferenze con importanti personalità del panorama culturale accademico e non solo, da Ken Follet ad Alexis Tsipras. Inoltre, all'inizio dell'anno, sono diventata un membro del gruppo Sciences Po Nations Unies, un'associazione studentesca che si dedica a promuovere le azioni e le istituzioni delle Nazioni Unite in generale, nonché aiuta gli studenti a familiarizzare con la diplomazia, relazioni internazionali e MUN. Grazie a quest’associazione ho potuto ascoltare e discutere con diplomatici e ambasciatori riguardo al proprio lavoro. Tra i numerosi eventi a cui ho partecipato, ho potuto incontrare l'ambasciatore Bernard Miyet, ex sottosegretario generale delle Nazioni Unite per le operazioni di mantenimento della pace. Inoltre, poiché Parigi è così ricca di eventi e opportunità culturali, ho approfittato di questo prezioso aspetto della città. Essendo ovviamente interessata alle tematiche relative all'Unione europea, in ottobre ho partecipato a una conferenza di un giorno estremamente arricchente, A Cultural and Identity-related - continua -

La Senna di Parigi

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La Tour Eiffel Shift in European Union Law?, presso l'Université Paris 2 Panthéon-Assas, durante il quale sono intervenuti diversi esperti e ricercatori. Grazie all'aspetto più cosmopolita di Parigi, ho potuto sfruttare a pieno le sue potenzialità, abituandomi subito alle dinamiche della capitale francese. Visto l'ambiente altamente internazionale in cui vivevo a Sciences Po, la maggior parte dei ragazzi con cui ho stretto amicizia erano studenti da tutto il mondo, per esempio India, Bolivia e Canada. Ciò mi ha dato la possibilità di scoprire nuove culture e usi durante i tipici picnic parigini sul lungofiume della Senna. Purtroppo, a metà marzo ho dovuto lasciare Parigi a causa della diffusione del Covid-19 in Francia. Lasciare Parigi prima della fine del mio Erasmus, con tante attività e impegni in sospeso, mi ha sicuramente lasciato una sorta di ricordo agrodolce del mio Erasmus. Infatti, non avrei mai pensato che sarei stata a Verona l'ultimo giorno del mio Erasmus. Seguire le lezioni online non è paragonabile ad andare a lezioni fisicamente e discutere direttamente con il professore e con il tuo compagno di banco. Tuttavia, devo dire che ho avuto la fortuna di vivere appieno la prima parte del mio programma di scambio. Venire a Parigi per il mio Erasmus è sempre stato il mio obiettivo da quando ho iniziato a studiare francese durante l'ultimo anno di liceo. Sono sempre stata affascinata dalla storia di questa città come un centro potente e unico che ha riunito i più importanti intellettuali e movimenti artistici all'inizio del

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Parigi, Museo del Louvre XX secolo. Parigi è stata la destinazione perfetta per il mio scambio Erasmus, come una delle città più importanti per tutto ciò che riguarda la diplomazia, l'Unione europea e la cultura. Inoltre, Sciences Po mi ha dato l'opportunità di essere una studentessa di uno dei più importanti istituti di scienze politiche in tutta Europa. È stata sicuramente un'esperienza che mi ha arricchito non solo dal punto di vista accademico, ma anche da quello personale. Vivere a Parigi va sicuramente oltre il semplice viaggio Erasmus, ma è un'ottima occasione per scoprire le dinamiche di un vivace centro culturale che sarà di grande aiuto per il mio percorso futuro.


Questa nuova rubrica di Eureka nasce con l’intento di fornire un angolo sul faceto della politica europea. Eurelax - la parte relax di Eureka - come la tanto declamata marca di materassi, vi allieterà nei momenti di stanchezza regalandovi un sospiro di rilassatezza. Non perdetevi allora la nostra parte Eurelax!

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«[...] La grande posta in gioco non è un governo di sinistra o di destra in tale o tale paese. La posta è la rinascita della libera civiltà democratica europea che può avere luogo solo sulla base di una Europa unita.» Dal discorso tenuto da Altiero Spinelli al 1° Congresso UEF del 27 agosto 1947

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