Universitari per la Federazione europea
Verso le elezioni: quale Italia in quale Europa?
Som m a r i o
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Il tema dell'Europa
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L’euro è morto, viva l’euro!
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Trattato del Quirinale
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All’alba dell’Europa: la figura controversa di Churchill
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8 La grande sfida dello spread
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Il re è nudo e lo stato nazionale è morto
14 Rubrica Erasmus: Vienna
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deralisti europei: Immanuel Kant (1724-1804)
Stampato da
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Articolor Verona Articolor Verona srl srl Via Olanda, 17 ComuniCazione GrafiCa 37135 Verona Via Olanda, 17 37057 Verona Tel. 045 584733 Tel. 045 584733 Fax 045 584524 articolor@articolor.it P.I.email: C.F. 04268270230 REA 406433
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Rivista degli Universitari per la Federazione europea Con il contributo dell’Università degli studi di Verona: Responsabile del gruppo studentesco: Marco Barbetta. Direttore: Filippo Sartori. Vice-Direttore: Salvatore Romano. Collaboratori: Dimana Anastassova, Gianluca Bonato, Davide Corraro, Andrea Golini, Umberto Marchi, Filippo Pasquali, Gabriele Scandola, Chiara Storari, Giulia Sulpizi, Andrea Zanolli. Redazione: Via Poloni, 9 - 37122 Verona • Tel./Fax 045 8032194 • www.mfe.it • gfe.verona@gmail.com Progetto grafico: Bruno Marchese
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Editoriale: tempo di elezioni di o Sal vatore Roman
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e prime righe di un noto racconto di Landolfi iniziano con un aggettivo particolare, importante ai fini della storia che si voleva narrare. Esso restituisce l’atmosfera cupa e gretta che pesava sulla vita di un quartiere di una provincia italiana ai tempi del fascismo. Dove caseggiati grigi e tutti uguali s’incolonnavano in serie anonime, dove le case popolari, tirate su alla meno peggio, si affacciavano in prospettive geometriche con volti rassegnati. Dove le vie, poi, avevano nomi roboanti, come via dell’Indipendenza, e sbucavano in piazze con nomi anch’essi roboanti, come piazza Cavour. A contrasto con quella retorica esibita, le stesse piazzette erano abitate solamente da qualche intristita pianta tropicale. L’aggettivo in questione è “scuorante”. E vedendo il panorama politico italiano degli ultimi mesi, per un certo verso, al cronista fedele soltanto ai comandamenti di Madonna Verità, un aggettivo così gli farebbe comodo inserirlo, senza pagar dazio di accuse di pedanteria, in qualche suo articolo, magari en passant, chiudendo per un attimo gli occhi. Egli forse potrebbe iniziare così il medesimo articolo: «In un Paese scuorante dell’Europa mediterranea andava in scena una tornata elettorale. Politici scuoranti si aggiravano come lemuri nei salotti televisivi spiegando che una tassazione giusta, equa e santa era quello che ci voleva per rimettere in carreggiata il Paese. E la spiegavano in molti, seriosi e compunti, una riforma fiscale su misura degli italiani. Una marea montante di politici, alcuni usciti da chissà dove, altri onnipresenti nella vita dei cittadini che fingevano di vedersi per la prima volta, che fosse per loro una sorta di primo appuntamento, una marea che s’ingrossava sempre più in vista delle spiagge 4 marzo, dove i pochi bagnanti ancora prendevano un sole pallido pallido». Che non sia giusto poi di fare di tutta l’erba un fascio, questo lo giudicheranno e vidimeranno gli elettori nelle cabine elettorali, nelle sue segrete stanze, occhi e penna o matita puntati sul partito/movimento o lista da mettere in croce per le sue proposte e programmi. Ad alcuni forse parrà di recitare una sorta di “mea culpa”, altri tratterranno il fiato fino al momento della consegna della cartella, altri ancora, più gioiosi, imbalsameranno il momento eroico della “x” con un selfie. Gli uni e gli altri, comunque, si accuseranno a vicenda
o penseranno male del compagno di cabina. Chi abbia poi ragione o torto, la linea di demarcazione la detta la realizzabilità dei programmi dei partiti, e dei loro progetti per il futuro. O forse neanche la realizzabilità. Meglio la concretezza di questa cosa o dell’altra, sì, perché poi, se i conti devono quadrare, ed è meglio che quadrino, è giusto togliere qua e mettere là, cosi tutto torna, non vedi? Ma anche la concretezza è talvolta foriera di sinistri eventi, e ciò che sembrava giusto, perché saldo nei suoi propositi, può in un attimo essere spazzato via da una scopettata più energica delle altre, e pure la calcolatrice può perdere la testa dietro la sfilza dei decimali da inseguire. Una vera linea di divisione tra diversi indirizzi di politica, allora, la può fornire uno sguardo sul lungo termine. Ma che venga da lontano. Che sorvoli in un lampo la catena degli evi sonnecchianti, e in un tracciato parabolico segni, atterrando, un punto visibile, da raggiungere. La sfida da molti paesi europei è già stata lanciata, dai più coraggiosi forse. Questi sono Francia e Germania, e vogliono una riforma dell’Eurozona per un’Europa più forte. Adesso è il turno dell’Italia. Ma le settimane corrono, non c’è molto tempo, e già si alzano lingue di nebbia che offuscano la vista.
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Il tema dell'Europa di Andr Golini ea
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Come viene affrontata la questione europea nella campagna elettorale italiana?
egli ultimi anni vi è stata una superficialità di alcune forze politiche italiane nei confronti dell'Europa. Era presente un europeismo passivo in cui i partiti non sono riusciti a promuovere adeguatamente il processo di integrazione europea. Quell'atteggiamento distaccato non ha favorito l'integrazione sociale e lo sviluppo in armonia con i paesi europei, allontanando di fatto l'Italia dall'Europa. Oggi il tema dell'Europa gioca un ruolo molto importante; forse non adeguatamente trattato nel nostro paese, ma sempre più determinante se pensiamo per esempio alla Brexit o all'elezione di Macron in Francia, dove abbiamo visto scontrarsi la volontà di uscire dall'Unione europea e la volontà di rilanciare l'Unione europea. Il tema dell'Europa è quindi fondamentale; capire quali sono le posizioni che assumono i vari partiti è essenziale per decidere a chi affidare il prossimo governo. Quando si parla di Europa nel dibattito politico italiano, le opinioni sono principalmente due. Da un lato abbiamo partiti che accusano l'Europa, descrivendola come un ostacolo, un vincolo alla sovranità italiana. Secondo questa visione è necessario difendere l'identità italiana e risolvere fenomeni complessi in modo autonomo. Dall'altro lato abbiamo partiti favorevoli alla costruzione di un futuro integrato in una dimensione europea. Secondo questa visione è necessario creare un'identità europea e collaborare per trovare una strategia risolutiva comune per i fenomeni complessi. All'interno di queste due posizioni possiamo trovare diverse sfumature, ma è chiaro che la totalità dei partiti italiani sono intenzionati a cambiare l'attuale sistema dell'Unione europea. Ciò che li distingue è la direzione: chi vuole il cambiamento verso lo Stato nazione e chi vuole il cambiamento verso l'Europa. Cambiare fa bene ma bisogna farlo nel modo giusto; è importante non dare per scontati i 70 anni di costruzione europea e i benefici che ne sono scaturiti, come la pace tra i paesi membri, non scontata se pensiamo ai conflit-
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ti che ci sono stati nel continente come quelli jugoslavi e che ci sono attualmente ai confini dell'Europa. La condizione di pace, presente grazie al processo di integrazione europea, ha consentito lo sviluppo dei paesi europei attraverso la crescita economica e sociale. Ma abbiamo anche le debolezze di un sistema europeo ancora incompleto, che non ha garantito una reale coesione politica e sociale e che talvolta ha creato disparità economiche. Questo ha generato l'idea diffusa che l'Unione europea sia un peso per i singoli paesi e questa idea ha vinto in Inghilterra come in Polonia e in Ungheria. Tuttavia è presente un'altra idea diffusa che coglie le opportunità di un sistema come l'Unione europea; ci sono paesi che invece di uscire chiedono di entrare nell'UE, come l'Ucraina, la Turchia e i Balcani. Come affrontare la questione dell'Europa? Le alternative sono quelle che abbiamo detto precedentemente: abbandonare il progetto europeo o rilanciare il processo di integrazione europea. Se la prima soluzione può sembrare più facile, dietro a questa decisione vi sono molte trappole storiche, economiche e sociali. Abbandonare il progetto europeo significa un salto indietro nel tempo di quasi un secolo, tornando alla sovranità del singolo Stato che verrebbe schiacciato dal mondo moderno e dalla società in continua evoluzione. Abbandonare il progetto europeo significa uscire dall'attuale mercato europeo che, seppur con certi limiti, contribuisce allo sviluppo economico degli Stati aderenti. Per non parlare dei trattati come quello di Schengen e progetti come quello Erasmus, che permettono la libera circolazione delle persone nei paesi aderenti, che facilitano le relazioni tra europei, che permettono la condivisione di esperienze e conoscenze nel continente e che contribuiscono a creare un legame con i cittadini degli altri paesi, favorendo il multiculturalismo e la creazione di un'identità non più statale bensì continentale. Non resta che rilanciare l'Unione europea. Farlo non è semplice ma permetterebbe all'Europa di competere a
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Il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera Angela Merkel
livello globale e risolvere le crisi che affliggono la maggior parte dei paesi europei. Esempi per rilanciare l'Unione possono essere la creazione di un'unione bancaria europea, rafforzare l'eurozona, l'ammonizzazione delle politiche fiscali e di investimento dei paesi membri, la formalizzazione di diritti civili comuni, la creazione di una politica sociale europea in alternativa o a supporto dei fondi sociali, la creazione di una politica estera europea che permetta di decidere su questioni lontane dai singoli Stati, la creazione di una politica di sicurezza e difesa comune, fare un decisivo passo in avanti nella governance dell'UE, vista la dimensione intergovernativa non più sufficiente. Per assumere un profilo europeo è quindi necessaria un'Europa federale; unire più Stati sotto un organismo centrale retto da una costituzione unica, con determinati compiti e poteri, che garantisca ai singoli Stati una larga autonomia e il mantenimento di una propria personalità giuridica. Non si tratta di utopia. Lo stesso Churchill nel secondo dopoguerra disse: «Dobbiamo creare una sorta di Stati Uniti d'Europa. Solo in questo modo centinaia di milioni di esseri umani avranno la possibilità di godere di quelle semplici gioie e di quelle speranze che fanno sì che la vita valga la pena di essere vissuta». Negli ultimi 70 anni si è andati avanti verso questo obiettivo ottenendo molti risultati e affrontando
molte crisi. L'intesa tra gli Stati europei è possibile ed esempi ci sono tutt'oggi; per esempio 25 ministri della difesa, la materia ritenuta più nazionale hanno trovato un'intesa sulla futura cooperazione delineando una strategia di difesa comune. In campagna elettorale, la crescita dopo la crisi economica, le migrazioni e il terrorismo sono esempi di tematiche che non coinvolgono solo l'Italia; un fenomeno come l'immigrazione può e deve essere gestito da tutti i soggetti coinvolti che ne hanno la facoltà. È diventato essenziale trovare una strategia europea. In un mondo globalizzato i singoli Stati europei non hanno le capacità di fronteggiare le attuali sfide come il cambiamento climatico, le energie rinnovabili, il nucleare, le multinazionali, le migrazioni, le guerre, i diritti dell'uomo. Le conseguenze di questi fenomeni influenzano il mondo intero; è il mondo che si muove. Ciò non toglie l'importanza di trovare politiche statali efficaci che risolvano tematiche come il lavoro, le pensioni, l'istruzione e la sanità, ma non è più possibile decidere da soli su fenomeni che coinvolgono l'Europa. Se oggi è il singolo Stato che ha la facoltà di agire, domani è necessario un potere europeo che abbia la facoltà di agire. Il futuro dell'Unione europea dipenderà anche dal nostro voto, si deciderà il 4 marzo.
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Eureka 5
L’euro è morto, viva l’euro! di Filip ali po Pasqu
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reve debunking sull’ipotesi di abbandonare la moneta unica europea. C’è da registrare che, nonostante la campagna elettorale, è un tema passato molto in sordina in tempi recenti. Alcuni partiti hanno approfittato delle elezioni per mitigare la loro posizione: MoVimento 5 stelle, Lega e Fratelli d’Italia, in sostanza. Altri invece, non hanno nemmeno provato – sinistra e destra extraparlamentari. Ma è davvero così? Analizzando le più recenti uscite, non si può dire con certezza quanto sia reale questo cambio di rotta nel dibattito politico. Di certo ci sono le recenti uscite a riguardo, nonostante l’ordine di scuderia di stemperare i toni sull’Europa. In particolare, la Lega, al di là di tutto, ha candidato tra le proprie fila Alberto Bagnai e Claudio Borghi ovvero i massimi supporters italiani del ritorno alla lira. Segno eloquente che l’idea di abbandonare la moneta unica è tutt’altro che passata dalle parti di via Bellerio. La lista non si esaurisce con l’ex sindacato del nord. Anche 5 Stelle, Forza Italia, Liberi e Uguali e FdI tentennano sulla questione. Abbiamo dunque preparato un vademecum in caso di emergenza. Svalutare per tornare a competere. Primo mantra del fronte no-euro, cercare lo slancio delle esportazioni attraverso la svalutazione della lira, al fine di rendere più convenienti le merci italiane. Eppure, certifica l’Istat, nel 2016 l’Italia ha avuto una bilancia commerciale in attivo di 43 mld di euro. Significa che le nostre merci vanno già forte: in Europa solo la Germania fa meglio. Non solo, ma questo dato rappresenta un record. Tasso di crescita globale dell’export intorno al 4,8% dal 2008 ad oggi; e incidenza odierna del settore nel PIL pari ad un terzo di esso, quanto basta per diventare cruciale nel trainare la nostra economia. Questi risultati sono stati raggiunti con l’euro, non con la liretta che affonda. Uscire dall’UE per cambiare valuta comporterebbe la perdita in primis di tutti gli accordi commerciali attualmente in vigore, molto prima che qualsiasi altro effetto monetario abbia compimento. L’attenzione andrebbe semmai focalizzata sui consumi interni, più
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che quelli esterni, dal momento che sono fermi (-0,2%) dallo scoppio della crisi. L’inflazione, però, penalizza il mercato interno – universalmente considerata una tassa occulta – perché diminuisce il potere d’acquisto e vanifica eventuali aumenti del reddito. Alla luce di ciò, la proposta no-euro è di spingere ancora di più le esportazioni affossando i consumi nazionali come contraccolpo. Che la somma dei due movimenti risulti segno positivo è tutto da vedere. Tutti quelli invece che «competere con le merci tedesche avendo la stessa moneta non è giusto», sono invitati a chiedere cosa ne pensi un campano delle merci emiliano-romagnole. Eventualmente, se rimpianga la grana di vecchio corso, una volta riavuta la lira nazionale. Svalutare per risolvere la crisi del debito. Secondo punto caldo della questione, l’Italia attualmente detiene un debito pubblico di circa 2290 mld di euro, il cui rapporto con il PIL si è assestato a quota 132%. Spada di Damocle sopra la nostra economia, ma i no-euro hanno la soluzione anche per questo scoglio. Neanche a dirlo, si torna alla lira e si attacca a stampare. Tutto bello-bello-bellissimo come direbbe qualcuno, ma anche in questo caso ci sono un paio di controindicazioni. La prima: al cambio di valuta unilaterale, è quasi scontato che i creditori chiedano – e ottengano – pagamento in euro, ovvero la valuta con cui è stato stipulato il contratto di acquisto dei BTP. Immaginate dunque, con la lira in picchiata, la bellezza di acquistare euro sempre più costosi in termini di cambio, per evitare il default. Weimar è vicina, ma l’Argentina lo è ancora di più: lo scenario appena prospettato è preso in prestito proprio dall’esperienza sudamericana. Ma c’è dell’altro. Crollo della fiducia internazionale, emergenza tassi d’interesse, aste vuote. Chi comprerebbe debito sapendo che, alla data di riscossione, il bond contratto avrà perso valore a causa dell’inflazione? Per non mancare un’asta – data l’assenza della BCE che fa da garante – servirà offrire tassi di interesse da crisi economica (>30% yield per coupon), per garantire al creditore un introito potenziale, al netto dell’inflazione
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Mazzette su mazzette di banconote per fare acquisti al supermercato in Venezuela galoppante. Ma se il tasso di interesse schizza di pari passo al crollo dell’inflazione, dove sta il vantaggio sul lungo periodo? In realtà non lo si vede nemmeno nel breve, ma Borghi non lo sa. Come nemmeno sa dare una risposta al problema dei tassi di interesse “che-tanto-sono-fissati-da-Euribor”. Qualcuno lo avvisi che vale solo per la zona euro e non riformeranno sicuramente il sistema per venire incontro alla liretta. Non dare risposte sarà parte della strategia d’uscita, stile piano B di Varoufakis nella crisi del 2015 in Grecia. Altro piano segreto bello-bello-bellissimo che nessuno ha mai decifrato. Nell’attesa, altro quesito: se il debito è detenuto attualmente per il 68% da privati e istituti italiani, non si capisce come a perderci sia in prima misura la Grande Finanzatm e non i risparmiatori, a fronte della perdita di valore. Fermare la spirale Una volta completata l’uscita unilaterale, la domanda da un milione di lirette è: con quali risorse lo stato riuscirà a mantenere la stabilità monetaria e difendersi da attacchi speculativi? Abbiamo forse dimenticato l’attacco a lira e sterlina negli anni ’90? Episodio che fu la goccia che strinse i paesi UE attorno al progetto della moneta unica. Mantenere un tasso di inflazione contenuto è molto dispendioso. Comporta infatti la capacità di comprare dal mercato la valuta nazionale in caso di eccesso di offerta, ma per farlo è necessaria valuta straniera. Acquistata con vere contropartite in moneta o beni, niente lirette che collassano. Evitare una spirale inflattiva con risultati devastanti (cfr. Weimar, Argentina, Zimbabwe, Venezuela etc) è dunque estremamente dispendioso per il bilancio statale. La Svizzera, fino a due anni fa, bruciava 60 mld di dollari
al mese (!!) per mantenere il cambio Franco/Euro a 1,2. La Russia, con la rendita del petrolio in fase calante, ha speso altrettanto. Il Venezuela non c’ha nemmeno provato, ma questo è un altro discorso. La domanda a questo punto è: come e con quali risorse l’Italia potrebbe garantire stabilità? Cari amici del fronte no-euro, siete veramente così fiduciosi delle capacità finanziarie nostrane di non essere fatti a pezzi, una volta uscito dall’ombrello protettivo dell’Unione? Prontuario sul cambio Lira-Euro Per concludere, un brevissimo accenno alla questione ricorrente dell’ingresso nella moneta unica. È sapere comune che il cambio fissato allora fosse sbagliato, e la lira sottostimata nei confronti del nascente euro. Che la nuova moneta abbia portato a perdere potere d’acquisto, dito puntato contro il governo Prodi/ Berlusconi dell’epoca – a seconda che l’accusatore sia di destra o di sinistra. Per i lettori entrati in contatto con queste sciocchezze elettorali, ma anche per tutti gli altri, la notizia è diversa. Il cambio non l’ha fissato nessuno se non il mercato, in base ai valori di scambio che le monete europee ebbero alla data 31 dicembre 1998. Nemmeno la più feroce esperienza anticapitalista – il bolscevismo – è potuta sfuggire a questa legge dell’economia, figuratevi Prodi o la Grande Finanzatm. Il cambio era basso perché già allora la lira era una moneta inaffidabile. Alla luce di tutto ciò, restiamo fiduciosi sul futuro della nuova liretta, nascente dalle ceneri dell’euro maligno. La convinzione di tutti, favorevoli e detrattori, è che l’Italia diventerà un punto di riferimento per i posteri. Su come non condurre politiche monetarie, senz’altro. Maduro saluta.
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La grande sfida dello spread di la Ga briele Scando
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Da inizio 2018 l’andamento dei mercati è stato nel complesso positivo, ma ora questi si trovano a dover affrontare la prima grande sfida dell’anno: le elezioni politiche italiane. L’impatto maggiore si potrebbe avere su quello relativo ai Titoli di Stato, con la forbice dello spread pronta ad allargarsi.
a maggior parte dei Titoli di Stato italiani è costituito dai BTP, per un valore totale superiore ai 1000 miliardi. Il rendimento di un Titolo di Stato è un’ottima misura della solidità di un Paese: più basso è, più facilmente lo Stato riuscirà a coprire i suoi debiti, e di conseguenza darà più garanzia agli investitori, o viceversa. Allargando questo concetto a tutti gli Stati, è possibile confrontare i relativi rendimenti, e di conseguenza confrontare le loro stabilità, tramite lo spread. Dopo il fallimento della Lehman Brothers e le difficoltà finanziarie della Grecia i tassi d’interesse si impennarono, i valori di spread crebbero a dismisura e si cominciò a pensare che la bancarotta di uno Stato, oltre che una possibile (e definitiva) rottura della zona euro, fossero eventi sempre più probabili. Per quanto riguarda l’Italia, ha sempre fatto fede lo spread tra i nostri BTP e i corrispondenti Bund tedeschi; ebbene, si è passati rapidamente dai 30-40 punti del 2008 ai 170 del 2009, fino a quel tumultuoso 2011 in cui, sotto il governo Berlusconi, si toccò il record storico di 575 punti base, con un rendimento dei titoli del 7,47%. L’Italia cominciò a perdere il suo appeal, e con esso importanti capitali di grandi investitori. Con l’avvento del governo Monti, dopo un andamento all’inizio altalenante, la situazione iniziò lentamente a migliorare grazie alle parole e agli interventi della Banca Centrale Europea: «La BCE è pronta a fare qualsiasi cosa per salvare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza», annunciò Draghi. E nel giro di due anni, lo spread tornò sotto i 200 punti, i rendimenti calarono e la stabilità politico-economica dell’Italia (e della zona euro in generale) migliorò. Un nuovo dato, però, torna ad allarmare: verso la
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fine del 2017 è emerso che l’Italia sia, dopo la Grecia, il Paese dell’Eurozona più rischioso sui mercati, coi rendimenti più elevati, ed è stato appena superato in questa classifica dal Portogallo. I lusitani infatti godono ora di rendimenti più bassi, ma non per un improvviso miglioramento dell’economia, quanto più per il rischio politico delle elezioni italiane del 4 marzo. Si è visto in Francia prima dell’elezione di Macron, così come in Spagna con la questione della Catalogna: il rischio di una scissione o di un governo anti-europeista mina alle fondamenta della stabilità del Paese e della moneta unica, con conseguente rialzo del rendimento dei titoli e dello spread. Così anche in Italia, dove la vittoria di una coalizione anti-euro potrebbe facilmente portare a una grande turbolenza sui mercati azionari e obbligazionari, con un nuovo allargamento a forbice tra il rendimento dei BTP e dei Bund. Vi è anche l’ipotesi che non si raggiunga una maggioranza di governo, e anche in quel caso allora, allungandosi il periodo di incertezza fino ad ulteriori elezioni, lo spread tornerebbe a crescere. Sicuramente oggi la situazione è molto diversa rispetto all’inizio del governo Monti, dato che il trend è positivo da diverso tempo, e l’Italia in particolare ha tratto grandi benefici dalla politica del QE; bisogna però tenere conto che il sostegno della Bce sugli acquisti dei Titoli di Stato potrebbe presto terminare, e questo sta già cominciando a incidere sui BTP. Molto probabilmente, fino al 4 marzo aumenterà sempre di più la volatilità, così come i rendimenti e, di conseguenza lo spread. Se alla fine vincesse un partito a sostegno dell’Europa, però, l’Italia comunicherebbe quella stabilità necessaria a rafforzare l’economia, non solo interna, ma anche di tutta la zona euro.
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di lli And rea Zano
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Il re è nudo e lo stato nazionale è morto
er iniziare questo pezzo è doverosa una premessa: l’argomento è trito e ritrito. Infatti, si parlerà di quanto accaduto a Macerata il 3 febbraio, quando un uomo di 28 anni ha sparato contro un gruppo di uomini africani e si è recato poi, con il tricolore al collo, verso un monumento di epoca fascista per fare il saluto romano e accendere un cero con l’effige di Mussolini. Questa volta, però, vorremmo considerare l’evento non come ha fatto Matteo Renzi, spacciandolo come una semplice dissennatezza compiuta da un pazzo, oppure come hanno fatto i nazionalisti Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che sono quasi arrivati a colpevolizzare i ragazzi africani che passavano da quella zona. Non faremo nemmeno come Silvio Berlusconi, che ha vergognosamente incolpato il sistema di immigrazione che lui stesso con i suoi fedeli ha infelicemente edificato, tramite il Regolamento di Dublino (sì, è stato lui a firmarlo) e la legge Bossi-Fini, giungendo (ancora) a ipocrite promesse: «Espelleremo 600mila immigrati». E, infine, non faremo nemmeno come il Movimento 5 Stelle che, per non affrontare temi che possono essere impopolari o che possono spaccare il proprio elettorato transpartitico, si è limitato a fingere che nulla sia successo standosene muto. Qui vorremmo prendere in mano la questione con una prospettiva diversa. Vorremmo considerare l’evento come emblema di un pericolosissimo morbo che sta affliggendo l’Italia Repubblicana e la sua democrazia. Questo evento ci dimostra come, progressivamente, stiano dilagando nel nostro Paese ideologie xenofobe, razziste e nazi-fasciste che non possono essere sminuite nei numeri, nelle idee e negli atti. Solo per dare qualche numero, citato anche dal The Guardian nelle ultime settimane: 142 attacchi violenti di neofascisti in Italia dal 2014; Forza Nuova nel 2001 aveva 1500 iscritti, oggi ne ha più di 13000; CasaPound e Forza Nuova, candidate separatamente alle elezioni legislative del 4 marzo, hanno un
seguito su Facebook superiore ad altre forze politiche di primo piano, fra cui il Partito Democratico. Ma a preoccupare non sono solo questi numeri e questi partiti-milizie, a preoccupare sono anche i leader dei grandi partiti (più o meno) moderati, Renzi, Berlusconi e Di Maio, che non urlano all’emergenza del ritorno fascista, ma che minimizzano o che cercano di avvicinarvisi per raccattare qualche suffragio in più. Ma a cosa dobbiamo queste divampate fasciste e questa incapacità di rispondere da parte del fronte antifascista? Sicuramente, i fattori sono molteplici, basti citare la classe politica che spesso lascia a desiderare o l’ignoranza verso la storia del nostro Paese da parte di molti italiani. Fra gli altri, però, c’è un fattore su cui molti non vogliono soffermarsi, ma che invece è il più determinante e il più allarmante. Mi riferisco alla crisi della democrazia nazionale. L’inadeguatezza dello Stato nazionale davanti a questo tipo di problematiche porta a effetti collaterali emergenziali, come il rischio di scontro sociale fra, da un lato, un gruppo di italiani xenofobo e impaurito e, dall’altro lato, il gruppo di immigrati. Le difficoltà dello Stato nazionale sconfinano nelle spinte di cittadini che arrivano a mettere in dubbio il regime democratico e a minarne la stabilità. Questa crisi e la necessità di un’espansione della democrazia e della sovranità (per funzionare entrambi, i due elementi devono andare a braccetto) a un livello sovranazionale sono sotto gli occhi di tutti, ma quasi nessuno ha il coraggio di urlare: «Lo Stato nazionale è morto!». Un po’ come nella celebre fiaba danese I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen, in cui i sudditi vedono il re sfilare nudo, ma tutti continuano ad adularlo e a lodarlo e solo un bambino riesce nell’impresa di urlare: «Il re è nudo!». Quel bimbo ha fatto quello che oggi, dopo 75 anni, i federalisti europei continuano a fare, alla ricerca di ascolto e di spazio nel caos dell’informazione dei media e dei politici nostrani, con la soluzione fra le mani.
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Trattato del Quirinale di o Sal vatore Roman
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on si prospettava nulla di buono per il Bel Paese dal nuovo presidente francese, Emmanuel Macron, se è vero che, in barba all’inno alla gioia strombettato con tanta foga europeista al momento della sua proclamazione, in barba ai discorsi alla Sorbonne, a settembre quel cattivone di un francese non dimostrava altro che un’anima nazionalista, avvinghiata agli interessi della grandeur, come gli artigli dell’avvoltoio alla carogna. Il fattaccio della frenata impressa dall’Eliseo all’acquisto dei cantieri navali francesi, Saint Nazaire, da parte del gruppo italiano Fincantieri parlava chiaro. Dei cugini d’Oltralpe, come di tutti i cugini in genere, non ci si poteva fidare. Quando, dopo il Vertice di Lione del settembre scorso e delle rassicurazioni di Macron, si rivelò che un accordo si poteva trovare e questo sarebbe stato più vantaggioso per Fincantieri di quello concordato con Hollande, i timori dei più rientrarono. Quel Vertice, oltre a dirimere la querelle della compravendita, portò sul tavolo delle trattative la possibilità di una maggiore cooperazione tra i due Paesi, cooperazione da concretizzarsi con la firma, entro la fine del 2018, di un Trattato italo-francese. Sulla falsariga del Trattato dell’Eliseo del 1963, voluto da De Gaulle per svincolare la Rft dalla tutela americana, l’obiettivo era
Cantieri navali Stx di Saint-Nazaire
quello di una gestione comune di interessi comuni. La firma è prevista a Roma per l’incontro del settembre/ottobre prossimo, nel palazzo del Quirinale. Una maggiore cooperazione italo-francese. Forse a vituperare l’accordo, nelle ultime ore, non sono soltanto i sovranisti italiani, ma anche l’intero corpo studentesco. Se è vero che i commilitoni francesi dovranno soffrire, tra i banchi, le fisime del nuovo ministro dell’Istruzione, Blanquer, “basta cellulari in classe”, “ripristino della divisa”, gli studenti italiani temono che il contagio valichi le Alpi e approdi nello stivale. A piombare tra capo e collo, come un fulmine, c’è anche una frase, la più odiata dagli studenti, detta dal Napoleone dell’Istruzione. Costui avrebbe sussurrato alle orecchie dei professori, per tre volte: ‹‹Bocciate, bocciate, bocciate››. Mentre gli studenti sparpagliati dalle recenti intimidazioni ritornano nei ranghi, si prepara a riunirsi anche il Gruppo dei saggi, voluto dai Macron e Gentiloni per l’elaborazione dei punti fondamentali del Trattato. Da parte italiana vi saranno l’ex ministro Franco Bassanini, il consigliere di palazzo Chigi per gli affari Ue Marco Piantini e Paola Severino, Rettore dell’Università Luiss ed ex ministro. Il lavoro di questo gruppo si concentrerà sui diversi nodi del futuro asse franco-italiano. Da una parte nella creazione di un quadro istituzionale che favorisca una cooperazione strutturata, che rimanga però flessibile, dall’altra i settori interessati alla cooperazione, i quali vanno dal campo economico, industriale, dell’innovazione, alla cultura, istruzione, ricerca. Il Trattato dovrà riflettere soprattutto l’ambizione europea dei due Paesi coinvolti, «sia che si tratti della promozione dei nostri valori comuni che del nostro dialogo sui grandi negoziati europei o delle iniziative in vista di una rifondazione dell’Unione Europea». La volontà di puntare su innovazione e di favorire la fusione di industrie può portare frutti durevoli. Questo Macron lo sa, e per questo ha puntato alla nascita di un gigante europeo nel campo della cantieristica civile, in cui le quote sono divise così: 51% andrà a Fincantieri, il resto diviso tra la Repubblica francese e la compagnia Naval Group. Le ambizioni non si fermano qui, perché il progetto Pesco (cooperazione strutturata permanente sulla difesa) può aprire ad ulteriori spinte centripete tra le teste di serie delle industrie europee. Chi lo sa questo?
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di Giulia Sulpizi
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All’alba dell’Europa: la figura controversa di Churchill
olitico, giornalista, storico e militare britannico, Winston Churchill è stato certamente una delle figure più controverse del suo secolo. Amato da molti, anche e soprattutto per le sue molte stranezze, rimase però un mistero per molti altri, un uomo duro, tutto d’un pezzo, che ad un tratto si ritrovò ad essere un fantasma del passato, fuori posto nel secondo dopoguerra, un momento di grandi cambiamenti negli equilibri geopolitici europei. Eppure, c’è un motivo profondo per cui Churchill è oggi considerato uno dei padri fondatori dell’Unione europea. Possiamo criticare quanto vogliamo la sua politica e le sue scelte, ma non possiamo negare che il nostro caro Winston fosse un uomo previdente, quasi un visionario per i tempi oscuri in cui fu chiamato a vivere, la sua mente rivolta ad evitare alle nuove generazioni di vedere un altro conflitto su scala globale. Egli, infatti, già nel 1946 aveva compreso l’importanza di creare un vincolo saldo e duraturo tra tutti gli Stati appena usciti dalla guerra e non tenne nascosto questo suo sogno: Churchill lo descrisse chiaramente all’Università di Zurigo, in un discorso purtroppo dimenticato e sottovalutato dai suoi stessi connazionali. In quella sede, dunque, egli ipotizzò la nascita degli Stati Uniti d’Europa, organismo simile in tutto e per tutti ai cugini d’oltreoceano, gli USA. «Vaste regioni d’Europa devono assistere ad un nuovo cumulo di nuvole, di tirannia e di terrore che oscura il cielo all’avvicinarsi di nuovi pericoli», diceva l’allora ex Primo Ministro inglese, riferendosi al nuovo pericolo rappresentato ai suoi occhi dalla Russia. E proprio per combattere questa nuova ondata di incertezza e paura che altrimenti avrebbe sconvolto il suo mondo, l’abile politico britannico concepì l’idea di cre-
are una nuova forza, unitaria, un rimedio «che potrebbe trasformare la situazione come per incanto, e in pochi anni l’Europa, o per lo meno la maggior parte del continente, vivrebbe libera e felice come gli svizzeri lo sono oggi». Le sue parole non possono essere male interpretate: ciò a cui egli si stava riferendo, e che auspicava con tutto il suo cuore, era la formazione di una federazione, che delineava una forma di Stato molto simile a quella presente nella Confederazione elvetica. Questo programma fu molto apprezzato da Max Petitpierre, l’allora ministro degli esteri svizzero, che scrisse in un telegramma indirizzato a Churchill quanto egli fosse «convinto che la salvezza dell’Europa sia nell’unione dei suoi popoli, non sotto forma di un blocco, ma secondo la formula federalista», di cui il suo Paese poteva vantare una grande esperienza e che era tale da permettere “a ogni popolo di mantenere la sua personalità nazionale rispettando quella degli altri”. Un sogno condiviso, dunque, quello di un’Europa infine libera e senza più conflitti, un’Europa che avrebbe trovato “pace nella libertà”. Non sono parole vuote, sono le parole di chi ha dato l’avvio al processo di integrazione europea. Eppure non possiamo fare a meno di notare come il Paese di origine di uno dei massimi esponenti di questo monumentale progetto non abbia colto questo messaggio e si sia tirato fortemente indietro. L’appello di Churchill, infatti, non riscosse molto successo in patria e le conseguenze le possiamo osservare ancora oggi. Chissà cosa avrebbe detto Winston della tanto chiacchierata Brexit! Probabilmente, ora come allora, non avrebbe approvato questa separazione e avrebbe condannato questa scelta, un passo indietro per la Gran Bretagna, per l’Europa e il mondo tutto.
Febbraio 2018•Universitari per la Federazione europea
Eureka 11
Perché un’Europa federale: dieci buone ragioni Sull’ultimo numero del 2017 de L’Unità europea, è uscito un pezzo redazionale che illustra dieci buone ragioni perché si formi un’Europa federale. Lo ripubblichiamo su Eureka in una versione ridotta, a cura di Filippo Pasquali.
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’unità europea è nata per garantire ai cittadini ciò che il nazionalismo aveva loro tolto: la pace e lo sviluppo. Di fronte alle sfide indotte dalla globalizzazione, l’Europa deve porsi oggi il problema della sua posizione nel mondo, per contribuire alla pace e al suo sviluppo sostenibile. Per questo ha bisogno di una reale unità politica, senza la quale anche il grande patrimonio finora acquisito può essere a rischio. Ce lo ricordano i movimenti neo-nazionalisti, populisti e antieuropei, che coltivano l’illusione che sia possibile difendersi dal mondo barricandosi entro le mura dello Stato-nazione, la cui crisi storica è invece irreversibile. Non si può fermare la storia. Bisogna invece governare, con la democrazia europea, i processi che vanno al di là della nazione. Occorre dunque andare avanti nel processo di unificazione, con l’affermazione di una “sovranità europea” nei campi in cui oggi è necessario svilupparla: l’economia, la politica estera e la sicurezza. Ecco dieci buone ragioni per chiedere, in queste aree, un’Unione federale tra i Paesi UE disponibili, a partire da quelli che condividono già la moneta unica. 1 La Federazione garantisce pace e sicurezza, meglio dei singoli Stati L’Unione europea ha garantito 70 anni di pace a quei popoli europei che hanno condiviso istituzioni comuni. L’idea della guerra è sparita dalla mente dei giovani europei. Ma le sue minacce sono alle nostre porte e il terrorismo la ripropone anche all’interno dell’Europa. La pace e la sicurezza sono diritti e beni sociali. Condividere gli obiettivi e ripartirne l’organizzazione e i costi su scala europea è più intelligente. Occorre procedere verso una difesa militare comune, un’intelligence e una procura europea, superando il diritto di veto degli Stati, per poter decidere a maggioranza. 2 La Federazione dà all’Europa una voce nel mondo Le grandi potenze parlano di pace, ma si dimostrano incapaci di risolvere i conflitti regionali e di gestirne le conseguenze. L’Unione europea ha maturato una mentalità e un’organizzazione orientata alla pace, che può essere impiegata nelle crisi internazionali, mitigando così anche le ricadute sull’Europa stessa. Vogliamo
evitare di trovarci nella condizione di vasi di coccio fra potenze mondiali che dettano legge in un mondo globalizzato. Per avere più voce in capitolo ci manca la massa critica di una vera unione politica. Per questo ci vuole una politica estera comune, superando il potere di veto degli Stati e poter decidere a maggioranza. 3 La Federazione garantisce uno sviluppo sostenibile L’Unione europea ha reso possibile, nel corso di decenni, una crescita economica senza precedenti, ha creato una società aperta e libera, facilitando lo sviluppo dei diritti individuali e collettivi. La crisi economico-finanziaria dell’ultimo decennio ha mostrato i limiti delle politiche economiche nazionali, inadeguate a gestire la globalizzazione dei mercati. Per questo occorre un bilancio, nell’ambito dell’Eurozona, dotato di risorse proprie, gestito da un Ministro europeo delle Finanze, sotto il controllo del Parlamento europeo. 4 La Federazione garantisce una finanza sostenibile Le finanze di uno Stato devono essere sostenibili nel tempo. Non è corretto accumulare debito pubblico all’infinito. In primis, per non trasmetterne i costi alle generazioni future, impoverendole. La crisi finanziaria del 2008, con una moneta comune ma senza un governo comune, ha trovato l’Europa impreparata a gestire la crisi dei debiti degli Stati, ciascuno dei quali ha cercato di difendere i propri interessi, anziché quello generale. Solo con la Federazione e un suo bilancio autonomo, soggetto al controllo democratico del Parlamento europeo, ci può essere una vera solidarietà tra gli Stati, perché consente di deliberare gli investimenti necessari a superare una situazione difficile. 5 L’euro è un successo La moneta unica, che oggi circola in 19 dei 27 Stati membri dell’UE, è la seconda valuta internazionale dopo il dollaro americano ed è la seconda più importante valuta di riserva mondiale. Per chi gira l’Europa (e non solo) il varo della moneta unica è stato una facili-
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tazione incredibile. L’euro ha eliminato le svalutazioni competitive tra le monete nazionali, che alteravano il valore delle merci, dando stabilità ai prezzi. Ha indotto le imprese a competere sul valore del prodotto, piuttosto che sul prezzo. È ciò che ha consentito all’export italiano di competere nel mondo, malgrado la crisi. Perciò la moneta unica non può più essere messa in discussione. 6 Le regole fiscali devono essere armonizzate Alcuni Stati traggono eccessivo vantaggio da facilitazioni fiscali a danno di altri Stati, in contrasto con lo spirito dell’Unione. Una politica fiscale comune a livello europeo è in grado di porvi rimedio, sulla base del principio che è opportuno tassare le società là dove si produce il valore. Inoltre, occorre assegnare all’Eurozona una capacità fiscale per mettere in moto una politica di investimenti europei nei settori strategici. Un’imposta europea sulle società del digitale (web tax) e la carbon tax potrebbero costituire le prime risorse per un bilancio dell’Eurozona. 7 Le persone devono contare più dei capitali I capitali messi a disposizione dalla finanza internazionale sono utili strumenti per finanziare lo sviluppo, non nemici da combattere. Ma occorre sviluppare la democrazia europea per impedirne una gestione che non rispetti le istanze sociali. In questo senso la Commissione europea ha promosso il “pilastro sociale”, che prevede diritti, quali pari opportunità di accesso al mercato del lavoro, condizioni di lavoro sostenibili, protezione e inclusione sociale. Una legislazione europea per armonizzare i diritti del lavoro e della previdenza è necessaria. 8 Possiamo rendere ancora più ospitale la casa dei giovani della generazione Erasmus L’Europa è già la loro casa. Impariamo a seguire la loro
strada, facilitiamo la libera circolazione e l’accoglienza reciproca. Allarghiamo a tutti i giovani europei lo spirito di convivenza e interscambio culturale che è alla base di Erasmus. Chiediamo di creare un “servizio sociale europeo” per offrire ai giovani un’esperienza di studio/lavoro per un anno in un paese europeo diverso. 9 L’immigrazione è una risorsa che va gestita a livello europeo, nella legalità Le correnti migratorie sono il risultato della diversa distribuzione delle risorse nel mondo, oltre che del disordine politico in Africa e in Medio oriente. L’Unione europea deve avere una propria politica, con risorse economiche e strumenti operativi diretti per attuarla. Ci vuole un piano europeo per l’Africa, per stabilizzare politicamente l’area e mettere in moto una politica di sviluppo. È necessaria una chiara politica europea sia sui canali d’ingresso (legali), sia sull’integrazione degli immigrati, sotto l’aspetto sociale e del lavoro. La politica d’immigrazione deve essere affidata alla Commissione europea, sotto il controllo del Parlamento europeo. 10 L’Europa è la famiglia dove si valorizzano le differenze locali L’Unione europea accantona ed eroga fondi regionali, con un meccanismo di solidarietà economica e di rispetto delle differenze locali e culturali. Restano tuttavia presenti molte “questioni meridionali” e “pulsioni autonomiste” che gli Stati nazionali non riescono a gestire senza mettere a rischio la propria coesione interna. Solo una Federazione europea può dare alle istanze locali sia legittimazione politica sia competenze e risorse proprie secondo il modello federale di ripartizione dei poteri
Febbraio 2018•Universitari per la Federazione europea
Eureka 13
Rubrica Erasmus: Vienna di ri Chia ra Stora
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el settembre del 2017 ha avuto inizio l’esperienza più impegnativa ed entusiasmante della mia carriera universitaria: sono partita per Vienna, la città nella quale ho trascorso sei mesi come studentessa Erasmus. Ebbene sì, il periodo di scambio è stato anche impegnativo, soprattutto nella sua fase iniziale, quando ancor prima della partenza ti ritrovi sommerso da carte da compilare e cerchi a distanza una camera in uno dei tanti studentati della città, tutti rigorosamente occupati già da mesi. Mi sono resa conto di quello a cui andavo incontro solo poche settimane prima di partire, quando finalmente i documenti erano stati approvati e l’alloggio era stato confermato. Vienna non solo ha soddisfatto tutte le mie aspettative, ma è anche diventata in brevissimo tempo una seconda casa. Tra le destinazioni a disposizione avevo infatti scelto questa per vari motivi, tra cui la qualità della vita, l’ottima università, la lingua tedesca e l’arte. Non avrei però mai pensato di ritrovarmi in un luogo che fosse anche così vibrante, giovane e moderno. Infatti ciò che rende unica la capitale austriaca è la possibilità di trovare nel bel mezzo di una piazza un’installazione con onde artificiali, surfisti
che gareggiano a suon di musica e, appena girato l’angolo, quartetti di archi che suonano Schubert. L’Universität Wien, situata in un palazzo storico del centro, offre diversi corsi di studio e seminari, che, al contrario di quanto accade in Italia, sono fondamentali nella formazione degli studenti. Completare i crediti del piano formativo è stato per me un notevole impegno per via di progetti e compiti per casa settimanali, che hanno comportato diverse ore di lavoro. Allo stesso tempo, però, ho avuto la possibilità di apprezzare i dibattiti in classe che, dando la possibilità ad ogni studente di esprimere la propria opinione su temi attuali, mi hanno immensamente arricchita a livello personale e mi hanno dato nuovi spunti e chiavi di lettura della realtà odierna. Sono però sicura che la mia esperienza sia stata indimenticabile anche grazie a tutte le persone che ho conosciuto e con cui ho avuto la possibilità di trascorrere dei mesi fantastici. Già dal primo incontro tra studenti si creano dei legami particolari che ti accompagneranno poi nel corso di tutto lo scambio. In particolare il ricordo del mio Erasmus è legato alle conversazioni sulle tradizioni di ogni paese, ai caffè con le torte nella pasticceria Demel, alle serate nei musei, alle notti in discoteca, alle cene dove ognuno preparava un piatto tipico, ai giochi di gruppo in inglese, alle passeggiate nei parchi, alle visite alle città vicine, alle cene nei locali tipici austriaci davanti a delle enormi Wiener Schnitzel, alle serate nei pub e ai balli nelle grandi sale affrescate dei palazzi viennesi. L’Erasmus è un’esperienza che ti mette alla prova ma che allo stesso tempo ti dona un’incredibile senso di libertà e una nuova maturità. Ti rende autonomo e consapevole del fatto che le cose che inizialmente ci spaventano di più sono quelle che si rivelano migliori. Ripensando a quel periodo torna un po’ di nostalgia, la voglia di ritornare in quella meravigliosa città e il desiderio di rincontrare tutti i compagni di viaggio con i quali hai condiviso così tanto. L’Erasmus ti fa comprendere come, nonostante le apparenti differenze, si è tutti parte di un’Europa, la quale ti ha dato proprio la possibilità di vivere quest’esperienza unica nel suo genere.
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di hi Um berto Marc
Conosciamo i federalisti europei: Immanuel Kant (1724-1804)
«L
La contraddizione consiste nel colo concepiscono la federazione europea come prifatto che gli Stati, al loro interno, mo passo verso una pacificazione mondiale: l'Europa prescrivono ai cittadini ciò che in quanto epicentro di due conflitti mondiali necessità non riconoscono nei rapporti inquanto prima di essere strutturata in modo tale da imternazionali: la legalità» pedire qualsivoglia ricorso futuro alle armi, di una fede«Nel contesto internazionale, razione per l'appunto). infatti, il diritto si converte nella prescrizione e indiretNella storia coesistono dunque necessità e libertà. tamente nel culto della forza [...]». La storia naturale dell’umanità (dominata Terza puntata del«[...] Uscire dallo stato eslege di barbadalla violenza sociale e politica) prepara una la nostra nuova rurie ed entrare in una federazione di popoli, situazione nella quale gli uomini traggono brica "Conosciamo nella quale ogni Stato, anche il più piccolo, dall’esperienza della distruttività dei confliti federalisti europossa sperare la propria sicurezza e la tutela ti (in primo luogo della guerra) la spinta a pei”, in cui raccontiamo la biografia dei propri diritti non dalla propria forza o costruire la pace, la quale è la condizione di alcuni famosi dalle proprie valutazioni giuridiche, ma solo per realizzare la libertà e l’uguaglianza di federalisti! da questa grande federazione di popoli, da tutti gli uomini. Kant precisa che nessuna una forza collettiva e dalla deliberazione seCostituzione può essere perfetta finché il condo leggi della volontà comune.» genere umano non sarà governato da una Costituzio(Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista ne mondiale. Prima che sia raggiunto quel traguardo, cosmopolitico, 1784) i singoli governi saranno costretti dalla ragion di Stato a Ma qual è il pensiero di esercitare rapporti di forza con Kant, in breve? i governi degli altri Stati e ciò li spingerà a privilegiare la sicuSecondo Kant, l’uomo ha rezza a spese della libertà. una duplice natura: è istinto e La politica nel senso più alto ragione. In quanto essere nadella parola è l’attività che ha lo turale, l’uomo agisce in base scopo di migliorare le sorti delallo stimolo dei propri bisogni la condizione umana. È, in altri e nel fare ciò entra necessariatermini, il veicolo del processo mente in conflitto con gli altri di civilizzazione, la cui essenza individui. In quanto essere raconsiste nella pacificazione di zionale, l’uomo introduce una gruppi umani sempre più ampi finalità nella storia: la costruattraverso l’affermazione di zione di una società nella quale meccanismi costituzionali per il diritto permetta di comporre regolare i conflitti con il diritto pacificamente tutti i conflitti e ed eliminare l’uso della violenza di espellere la violenza da tutte dalle relazioni sociali. L’uomo le relazioni sociali, anche quelle diventa più civile nella misura internazionali. L’istituzione che in cui la ragione, con l’ausilio può assicurare il perseguimendei meccanismi automatici delto di questo obiettivo è la Fele istituzioni politiche, governa derazione mondiale (NB: anche gli istinti, facendo prevalere la i federalisti europei del XX sesua seconda natura razionale. Febbraio 2018•Universitari per la Federazione europea
Eureka 15
Disertando la politica non si lasciano le cose come sono, nemmeno nella vita privata. Si creano vuoti di potere, cioè si affida il potere agli altri, si accetta che degli altri divengano i padroni del proprio futuro. Mario Albertini