Universitari per la Federazione europea
Antidoto a un'Europa divisa cercasi
In questo numero articoli su coronavirus, estremismo crescente in Germania, Brexit e molto altro!
So m m a r i o
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Editoriale: Conferenza sul futuro dell’Europa
Paura e disgusto a Washington
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Coronavirus: fake news e scienza a confronto
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Again! We’re not alone (anymore)
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“Emmanuel Pension”
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Schaffen Wir das?
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6/7 C’eravamo tanto amati Stampato da
15 Rubrica Erasmus: Lione (Francia) Per collaborare con noi, contattaci a: gfe.verona@gmail.com! Rivista degli Universitari per la Federazione europea Con il contributo dell’Università degli studi di Verona: Responsabile del gruppo studentesco: Maddalena Marchi. Co-direttori: Maddalena Marchi, Salvatore Romano. Collaboratori: Gianluca Bonato, Gabriele Faccio, Francesco Formigari, Andrea Golini, Giulia Granzotto, Filippo Pasquali, Filippo Sartori, Giulia Sulpizi, Alice Tommasi, Alberto Viviani, Filippo Viviani, Sofia Viviani, Andrea Zanolli. Redazione: Via Poloni, 9 - 37122 Verona • Tel./Fax 045 8032194 • www.mfe.it • gfe.verona@gmail.com Progetto grafico: Bruno Marchese. Universitari per la Federazione europea
Articolor Verona Articolor Verona srl srl Via Olanda, 17 ComuniCazione GrafiCa 37135 Verona Via Olanda, 17 37057 Verona Tel. 045 584733 Tel. 045 584733 Fax 045 584524 articolor@articolor.it P.I.email: C.F. 04268270230 REA 406433
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Universitari per la Federazione europea•Marzo 2020
di lli And rea Zano
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Editoriale: Conferenza sul futuro dell’Europa: un’altra occasione, europei • Tempo di lettura: 4 minuti
l 31 gennaio scorso finalmente la Gran Bretagna ha ufficializzato la sua uscita dall’Unione Europea. L’avventura del divorzio britannico non è ancora finita e, anzi, nei prossimi mesi la diplomazia dovrà portare a termine tutte le questioni ancora aperte. Inoltre, la nuova Commissione Europea è finalmente a tutti gli effetti insidiata. In questo quadro, finalmente, sembra che l’attenzione politica dell’Unione Europea possa ora concentrarsi primariamente su qualche altro tema. Le possibilità e le potenzialità dell’UE sono molte: la lotta al cambiamento climatico, l’intervento nelle complesse situazioni ai propri confini, la gestione delle migrazioni, i rapporti con le grandi potenze mondiali, l’avvio di una fiscalità europea, una ridiscussione dei trattati e molto altro. In realtà, però, l’Unione Europea rischia di ritrovarsi ancora una volta bloccata e incapace di ambire al ruolo che le spetterebbe. Infatti le situazioni di politica interna degli stati nazionali più importanti sono oggi a diverso modo problematiche. In particolare, Emmanuel Macron deve recuperare il consenso perduto ed è alle prese con le numerose proteste di piazza in Francia. In Germania invece è scoppiato il caso CDU, che ora non ha un successore per Angela Merkel, non sa come sceglierlo e soprattutto è spaccato al proprio interno. Da parte loro, anche Italia e Spagna non hanno la forza di proporre riforme istituzionali a livello europeo. In entrambi i paesi mediterranei, infatti, i governi sono deboli internamente e poco autorevoli ai tavoli europei. In questa situazione l’impasse è inevitabile. Se nessun governo prova a rilanciare l’azione di riforma istituzionale o ad appoggiare convintamente una di quelle sul tavolo, l’Unione Europea rimane immobile. E di nuovo arriverà in ritardo agli appuntamenti con il nostro tempo. Comunque, alcune possibilità sono sul tavolo. Specificatamente, in occasione del 70° anniversario della Dichiarazione Schuman, il 9 maggio 2020 verrà inaugurata la Conferenza sul futuro dell’Europa. La proposta di aprire un dibattito sulle riforme da ap-
portare all’Unione Europea è nata dal Presidente francese Macron nel marzo scorso. Ursula von der Leyen ha poi dato seguito alla proposta, che ora si appresta a diventare realtà. Il Parlamento Europeo spera di raggiungere obiettivi ambiziosi, al passo con le richieste e le necessità dei cittadini e della società. Tuttavia, come siamo soliti constatare, la Commissione europea e i governi nazionali non sono intenzionati a dare troppo risalto a questa proposta, sperando invece di difendere l’indifendibile: lo status quo. Il tentativo di rallentare e di lasciare in sordina la Conferenza lascia intendere che vi siano effettivamente possibilità di riforma. Tuttavia gli stati nazionali non vogliono correre questo rischio. Sta a noi, dunque, il compito di pretendere una discussione coraggiosa, ambiziosa e all’altezza con i tempi attuali. Le riforme istituzionali, la riforma dei trattati e la cessione di sovranità verso il livello europeo non possono restare dei tabù, ma dobbiamo far sì che entrino nel dibattito della Conferenza. Per questo motivo, i prossimi mesi saranno fondamentali per smuovere l’Unione Europea, a partire dalle posizioni dei governi nazionali, eccessivamente attenti al proprio orticello. Da qui il nostro compito in vista di questa Conferenza: far sentire la voce di chi crede in un’Europa capace di agire e vicina ai cittadini. Per l’Europa non c’è un’alternativa valida alla costituzione dell’unità politica federale, per la quale si necessita anche dell’appoggio della cittadinanza. La Conferenza sul futuro dell’Europa è un’occasione difficilmente ripetibile e non possiamo permetterci di sprecarla.
Marzo 2020•Universitari per la Federazione europea
Eureka 3
di hi Ma ddalena Marc
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Coronavirus: fake news e scienza a confronto • Tempo di lettura: 4 minuti
l 2020 è iniziato con la scoperta di un nuovo virus. Quale migliore occasione per fare campagna elettorale e vendere qualche copia di giornale in più? «A Civitavecchia per due casi sospetti di coronavirus tengono a bordo 6000 passeggeri[…] A Taranto fanno sbarcare 400 irregolari senza alcun controllo!», scrivono politici italiani; «Nel mondo chiudono le frontiere, in Italia aprono i porti». Molto più tranquillo il presidente Donald Trump: «Sparirà in aprile con il caldo». C’è poi chi afferma che questo virus sia stato creato in un laboratorio cinese come arma chimica e chi, a fronte del numero di contagiati, grida all’epidemia. Partiamo dall’inizio. Nel dicembre 2019, ad alcuni pazienti nei pressi di Wuhan è stata diagnosticata una polmonite virale il cui agente patogeno era sconosciuto. I medici hanno quindi proceduto raccogliendo frammenti virali presenti nelle mucose delle vie respiratorie. Da qui è stato possibile sequenziare il genoma virale mediante NGS e sequenziamento di Sanger. A seguito dell’analisi genomica si è scoperto che: il 2019-nCoV è un parente del SARS-CoV, con il quale presenta il 79% di omologia, e del MERS-CoV, 50% di omologia. In particolare, 2019-nCoV presenta una forte somiglianza (dell’88%) con due SARS-like coronavirus derivati dai pipistrelli. Da qui l’ipotesi che il virus si sia diffuso a partire da questi animali molto venduti al mercato marittimo di Wuhan. L’analisi filogenetica ha confermato l’appartenenza del 2019-nCoV al sottogenere Sarbecovirus del genere Betacoronavirus. Il virus si comporta pertanto come molti altri virus influenzali. Tra i sintomi abbiamo: febbre, tosse, difficoltà respiratorie e, nei casi più gravi, polmonite, SARS (severe acute respiratory syndrome), insufficienza renale, morte. La trasmissione avviene tramite uno stretto contatto con una persona affetta, cioè goccioline del respiro diffuse tramite tosse, starnuti, mani, saliva. Il periodo di incubazione varia da 2 fino a un massimo di 14 giorni attualmente. Si stima, inoltre, che 2019-nCoV possa sopravvivere fuori da un organismo solo poche ore e non sia resistente a disinfettanti a base di etanolo al 75% o a base di cloro all’1% (candeggina). Passando ai numeri, al 18 febbraio 2020 sono confermati 73 332 casi, di cui 72 528 in Cina. Il totale dei decessi ammonta a 1873, di cui 1870 in Cina e, nello specifico, 1789 di queste morti si sono verificate nella città di Hubei. Il virus è stato ritrovato in 26 dei 206 Stati presenti sul Pianeta. Giusto per avere un paragone, ogni anno sono stimate 650 000 morti per l’influenza (alla quale esiste il vaccino) e fino a 1 miliardo di contagi.
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Bisogna pertanto prendere tutte le dovute misure di sicurezza e precauzione, trattandosi di un agente patogeno ancora in parte sconosciuto il quale può mutare ed evolvere velocemente, senza però farsi prendere da un inutile allarmismo. Uno dei più grossi difetti dei mezzi di comunicazione odierni è infatti indirizzare l’attenzione delle persone verso un’unica notizia, portando all’amplificazione di quest’ultima e distogliendo lo sguardo da tutto ciò che succede nel resto del mondo. In queste settimane è stato poi possibile vedere l’incapacità di giornalisti, politici e lettori di informarsi adeguatamente: ognuno dava i suoi numeri e la sua versione sulla metodica di diffusione di 2019-nCoV. A questo riguardo consiglio di basarsi sui comunicati ufficiali rilasciati dalla WHO e sugli articoli medico-scientifici presenti su PubMed. Allarmante è invece l’atteggiamento di coloro, un noto politico italiano in primis, che utilizzano qualsivoglia motivo per rinnovare discriminazione verso un capro espiatorio. Ma cosa possiamo fare noi per combattere pregiudizi e falsa informazione? In fondo anche Hannah Arendt scriveva: «Nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l'una con l'altra e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche. Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista».
Universitari per la Federazione europea•Marzo 2020
di io Gab riele Facc
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Again! We’re not alone (anymore) • Tempo di lettura: 5 minuti
In un periodo già convulso di per sé sul piano politico istituzionale, con le incognite sulla successione ad Angela Merkel, il calo dei consensi dei partiti storici e il rallentamento economico, la Germania deve fare i conti anche con spettri del passato che ritornano, e sembrano parlare a tutta Europa.
na Germania sotto shock polazione vulnerabile a messaggi di odio ripiomba nell’incubo del xenofobo e rivoltamento sociale in senso terrorismo di estrema violento. L’Afd, più di tutti, sembra essedestra. Un cittadino tedere il partito che più ha puntato su quesco fa strage ad Hanau in sto tipo di messaggio e a cui deve il suo due bar frequentati dalle exploit elettorale. comunità curde e turche locali, uccidendo Come ha avvertito la Cancelliera Ange9 persone e lasciandone altre 5 gravemenla Merkel, l’ultimo attacco ad Hanau rivela te ferite. Sembrerebbe si tratti di un attacuna società tedesca “avvelenata” dal co pianificato, come molti nel suo genere, razzismo. Sembra, in definitiva, che quee imbevuto di odio xenofobo e teorie sti estremisti neri non si sentano più soli complottiste apprese su internet. come prima. Come ha lucidamente osserGli attacchi di terrorismo nero non vato Annette Ramelsberg sul Suddeutsche sono un fenomeno nuovo in Germania, Zeitung: «Per anni sono stati percepiti ma ciò che colpisce oggi è il loro costancome lupi solitari, le loro idee non vete aumento in numero ed intensità nenivano prese sul serio dai loro amici e gli ultimi anni. Proprio da quando l’Afd le loro famiglie cercavano di minimizha iniziato a raccogliere ampi consensi, zarle. Ma ora stanno osservando che le soprattutto nell’est del paese. Lo scorso loro idee sono meno stigmatizzate e giugno, lo ricordiamo, si consumava l’ascerti messaggi penetrano sempre più sassinio del presidente del Kassel, Wala fondo nella società, come se diventer Lübcke, sostenitore di una politica di tassero socialmente più accettabili. E apertura ai migranti, mentre è di inizio improvvisamente non si sentono più ottobre l’attacco antisemita in una sinapazzi, e nemmeno soli». goga tra la comunità ebraica di Halle, con La Germania, come ogni altro paese la morte di due persone. d’Europa, è alle prese con il ritorno di reLe autorità non restano con le mani toriche nazionaliste e identitario-xenofoin mano e arresti di cellule estremiste o be e sembra più vulnerabile che mai, pur smantellamento di di attacchi come quello di Hanau sono purcon una delle leggi più restrittive sul porto d’armi in Europa. Il troppo piuttosto frequenti. La soluzione però potrebbe non popolo tedesco non deve essere lasciato solo nella lottrovarsi nella sola repressione. Inoltre, il continuo sforzo delta contro i fanatismi e la radicalizzazione, sia di gruppi e le autorità per contrastare questi progetti criminali e la vastità partiti come del dibattito politico. Molti passi indietro si regidelle operazioni necessarie possono essere un sintomo di un più strano anche nei Balcani, ma il fatto che prendano piede con profondo disagio sociale e il radicamento di un certo tipo di una tale intensità fin dentro il cuore dell’Europa, la Germania, idee nell’opinione pubblica, prima considerate tabù. deve far prendere una posizione forte e decisa da parte dell’USembra essere proprio questo, alla nione Europea in termini di difesa dei fine delle notizie di cronaca, il risultato diritti e promozione dell’uguaglianza, che ne esce degli attacchi dell’estremidella dignità, di lotta contro le disuguasmo di destra. La società, tedesca deve glianze, ridando vero valore al principio fare i conti con un ritorno nel dibattito democratico europeo. Questo l’Europa sociale e politico di certi termini e idee può fare per combattere alla radice gli che prima erano diffusamente rigettate, attacchi come quello di Hanau. Questo perché considerate l’ombra di fantasmi deve farci pensare come cittadini eurodel passato che non si voleva mai più ripei, perché attraverso la valorizzazione vedere. Il disagio sociale e in particolare Tobias Rathien, 43 anni: il lupo solita- della persona e la promozione della del’arretramento dell’est del paese, la rio che ha compiuto la strage di Hanau mocrazia e del dialogo si mantenga la vecchia DDR, lasciano una parte della popromessa: «Never again!». Marzo 2020•Universitari per la Federazione europea
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C’eravamo tanto amati di Giulia Sulpizi
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ormai avvenuta l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, la tanto attesa Brexit. Dopo quasi quattro anni, le dimissioni di due Primi Ministri, mille rinvii e milioni di proposte, è arrivato il momento tanto atteso – e tanto temuto. Come sempre quando ci si avvicina alla fine di una storia, il sentimento che si prova si trova a metà strada tra una cupa nostalgia e una serena consapevolezza. Nostalgia per ciò che è stato e che non sarà più e consapevolezza di ciò che sarà e che continuerà ad essere. L’Unione europea si ritrova, ora, in questa situazione, drammatica certo, ma ormai così annunciata da aver perso qualsiasi ulteriore interesse o rimorso. Davanti al risultato del referendum del 23 giugno del 2016, nessuno di noi voleva credere ai propri occhi: la Gran Bretagna, il Paese che durante la Seconda guerra mondiale era rimasto, per un certo tempo, solo a combattere su tutti i fronti – “dalle Alpi alle Piramidi” in tutti i sensi –, era arrivato a volersi allontanare definitivamente da tutti i suoi fratelli europei, dopo poco più di settant’anni di pace tra le nostre nazioni. È stato un momento terribile, un duro colpo per le istituzioni europee, che hanno dovuto fare i conti con il malcontento e la diffidenza del popolo britannico, ricevendo così una pesante lezione. Fin dalla nascita della Comunità Economica Europea nel 1957, il rapporto fra i membri della CEE e il Regno Unito si fecero tesi. La Gran Bretagna chiedeva, infatti, di poter entrare all’interno di quell’organismo comunitario, ma per due volte questa possibilità venne rigettata in forza del veto opposto dalla Francia. De Gaulle era, infatti, fortemente contrario ad ammettere i cugini aldilà della Manica nella CEE. Nel novembre del 1962, il Generale – com’era noto tra i francesi per il suo ruolo di guida della Resistenza avverso i nazisti durante il secondo conflitto mondiale – ospitò in una delle sue residenze l’allora Primo Ministro inglese, Harold Macmillan, il quale cercava sostegno in Francia per ottenere l’approvazione dei sei Paesi fondatori ad entrare nella Comunità Economica Europea. Dopo quell’incontro, De Gaulle, in una conferenza stampa del gennaio dell’anno seguente, espresse le proprie perplessità riguardo all’ipotesi di accogliere questo nuovo Paese membro. La ragione che il Generale addusse fu il carattere “insulare” della Gran Bretagna: la distanza geografica di quello Stato rappresentava altresì una distanza politica ed economica insormontabile. Quel Paese, secondo
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l’opinione del Presidente francese, avrebbe sempre cercato di far valere la sua alterità rispetto ai sei membri fondatori della Comunità, cercando di imporre le proprie visioni e la propria posizione. «Elle est maritime. Elle est liée par ses échanges, ses marchés, ses ravitaillements aux pays les plus divers, et souvent les plus lointains. Elle exerce une activité essentiellement industrielle et commerciale, et très peu agricole. Elle a dans tout son travail des habitudes et des traditions très marquées, très originales»: con queste parole, De Gaulle segnava una tremenda battuta d’arresto per la Gran Bretagna, sottolineando che il carattere di quel Paese, forte delle sue tradizioni e delle sue abitudini, avrebbe creato scompiglio. Non da ultimo, criticò anche l’eccessiva influenza che gli Stati Uniti esercitavano sui parenti d’Oltreoceano, definendo così la possibilità che tutto il lavoro fatto per anni – un lavoro di bilanciamento e pacificazione all’interno del continente europeo – andasse distrutto. Aveva tutti i torti? Alcuni storici inglesi hanno definito De Gaulle come una sorta di oracolo, un profeta della Brexit. Un profeta il cui monito non venne ascoltato, poiché, come si suol dire, «la speranza è l’ultima a morire». Nel 1973, infatti, fu ufficializzata l’entrata della Gran Bretagna nella CEE, sotto la guida del Primo Ministro conservatore Edward Heat. Da subito, furono i laburisti i più scettici riguardo all’opportunità e ai benefici che la partecipazione alla CEE avrebbe determinato per il Regno Unito. Nel 1975 si fecero portatori di una consultazione popolare riguardo al remain nella CEE, in cui il 67% degli elettori si espresse favorevolmente al mantenimento degli obblighi con la Comunità. Nel 1992 la Gran Bretagna firmò il Trattato di Maastricht, ottenendo, però, di poter restare fuori dall’Euro e di poter evitare di adottare alcune delle scelte comuni. Aderì, dunque, all’Unione europea, ma lo fece esercitando sempre una vera e propria clausola di opting out, caratteristica che ha distinto da sempre lo scetticismo britannico rispetto alla moneta unica – cui, infatti, non ha mai aderito – e al mercato comune europeo. Per questo, dopo meno di cinquant’anni all’interno delle istituzioni europee, potremmo chiederci se De Gaulle veramente avesse previsto la Brexit, se davvero egli avesse immaginato questa situazione. Sono persuasa di credere che il Generale non potesse concepire lo scenario attuale: la Francia, la Gran Bretagna e la stessa Unione europea sono profondamente mutate dall’epoca del fu Presidente francese, al punto che ormai
Universitari per la Federazione europea•Marzo 2020
Il Presidente francese Charles De Gaulle con il Primo Ministro inglese, Harold Macmillan ci eravamo tutti abituati a considerare la patria di Harry Potter un po’ come se fosse casa nostra. Molti miei coetanei, credo, non rammentino le parole e le ragioni che De Gaulle aveva sostenuto per evitare l’ingresso della Gran Bretagna nella CEE. E non lo ricordano per una motivazione: in questi anni molti italiani ed europei hanno conosciuto il mondo britannico e lo hanno potuto apprezzare, nelle sue contraddizioni e nella sua complessità, come ogni Paese che si rispetti. Ci eravamo abituati ad essere i cordiali vicini di casa degli inglesi, come ci si abitua a quei parenti un po’ strani che abitano nella tua stessa via e che – cosa ci vuoi fare – devi frequentare perché sono i tuoi parenti, con le loro stranezze e con i loro colpi di scena. Per questo ritengo che in molti saranno rattristati dall’idea di vedere la Gran Bretagna, infine, separata dall’Unione europea. A questa tristezza e a questo rammarico si aggiunge, però, anche il sollievo: il sollievo che questa lunga storia sia ormai giunta ad una conclusione. Una conclusione che sicuramente De Gaulle avreb-
be voluto più celere: era un uomo pratico e avrebbe optato perché l’UE prendesse una posizione più decisa, più netta, nei confronti degli inglesi, cosa che l’Unione avrebbe, in effetti, dovuto fare. Eppure, si continua a sperare che, da bravi vicini, si possa incominciare a lavorare di nuovo insieme, non più parenti, ma quanto meno bravi condomini su questa terra in cui siamo solo di passaggio. Per questo le parole del Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, hanno scavato un solco nel mio cuore quando le ho udite: «Cari amici britannici, addio è una parola troppo definitiva, ed è per questo che insieme a tutti i colleghi vi dico soltanto arrivederci. E voglio salutarvi con le parole di Jo Cox, la deputata britannica uccisa durante una campagna elettorale: abbiamo molto di più in comune di quanto ci divide». Le parole più consone in questa situazione potrebbero ricalcare il titolo del capolavoro di Ettore Scola: C’eravamo tanto amati. E forse, un giorno e in modo diverso, torneremo ad amarci.
Marzo 2020•Universitari per la Federazione europea
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Paura e disgusto a Washington di ri Fra ga i nces m co For
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a notizia, diffusa in tempo reale da centinaia di mezzi d’informazione, ha rapidamente raggiunto i più disparati angoli del globo. Per coglierne l’aspetto più rilevante è sufficiente una parola: acquitted, ossia “assolto”. È il verbo che si staglia a caratteri colossali sulla prima pagina dei quotidiani che lui, il presidente statunitense Donald Trump, nelle ore e nei giorni successivi ha sollevato trionfante dinanzi ai flash, facendosi ritrarre in scatti che probabilmente odoreranno di storia. Il 5 febbraio 2020, a Washington, si è concluso il processo di impeachment intentato dai democratici guidati dalla speaker della Camera Nancy Pelosi contro Trump. Due i capi d’accusa approvati alla Camera: abuso di potere (per i fatti legati all’Ucrainagate) e ostruzione del Congresso (per alcuni atti volti a intralciarne le indagini compiuti dall’entourage di Trump e dai repubblicani). Uno il verdetto pronunciato al termine del processo svoltosi nel Senato: assoluzione completa. Negazione di qualsiasi reato. La vittoria conquistata da Trump è stata (quasi) schiacciante: la votazione relativa alla prima incriminazione è terminata con 52 voti a favore dell’assoluzione e 48 contrari; quella riguardante la seconda, invece, con 53 voti a favore dell’assoluzione e 47 contrari. In nessuno dei due casi i democratici sono riusciti a raggiungere il quorum qualificato previsto dal Senato, ossia i due terzi dei voti: 67 senatori su 100. L’unico «dettaglio scomodo», come l’ha definito su La Repubblica Federico Rampini immergendosi nella prospettiva di Trump, è stato costituito dal senatore repubblicano dello Utah Mitt Romney, primo parlamentare della storia statunitense – come segnala Il Corriere della Sera – a votare per la destituzione di un membro del suo stesso partito. Liberale e moderato, sulla linea di figure come George Bush senior, devoto mormone che da governatore del Massachusetts varò una riforma sanitaria per certi versi simile all’Obamacare, Romney ha reso conto del suo voto con motivazioni religiose e morali: stando a quanto riportano le pagine de Il Sole 24 ORE, il senatore ha accusato Trump definendolo «colpevole di un terribile abuso della fiducia del popolo» e ha parlato di corruzione del processo elettorale. L’“ultimo galantuomo anti-Trump”, riprendendo Rampini, ha compiuto un atto rischioso, un atto con il quale ha voluto anche raccogliere idealmente l’eredità di un autorevole repubblicano ostile a Trump quale John McCain, scomparso nell’agosto del 2018. A tale atto il clan Trump ha risposto con la consueta ferocia: il figlio del tycoon più sfrontato d’America su Twitter ha sostenuto che il voto contrario di Romney sia stato una manifestazione della sua frustrazione derivante dalla sconfitta alle presidenziali del 2012. Rincarando la dose, Donald Trump Junior, sempre su Twitter, si è spinto a invocare l’espulsione di Romney dal partito. Le parole del figlio non hanno ancora raggiunto la loro con-
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cretizzazione, ma sicuramente – come è accaduto più volte nella storia dell’umanità – la vittoria conquistata da Trump dopo una fase di contestazione tanto onerosa ha fornito allo stesso un incremento di potere tale da permettergli di stilare una sorta di lista di proscrizione. E con i fatti del 7 febbraio il furore del presidente ha individuato una sua chiara esplicitazione: il membro del Consiglio nazionale per la sicurezza Alexander Vindman e l’ambasciatore statunitense presso l’UE Gordon Sondland, entrambi rei di aver testimoniato contro il presidente alla Camera, sono stati rimossi dalle loro cariche. Uguale sorte ha colpito persino Yevgeny Vindman, gemello di Alexander che operava come consulente legale alla Casa Bianca. Inoltre, il medesimo tono di sfrontata e rinnovata prepotenza è risultato patente, seppur in forma diversa, all’interno di una clamorosa dichiarazione fatta da Trump il 14 febbraio in relazione a una delle figure più rilevanti del processo cui è riuscito a sopravvivere, ossia l’avvocato Rudy Giuliani. Trump ha ammesso di averlo inviato in Ucraina affinché raccogliesse informazioni sui Biden e – come riferisce il TGcom – l’ha paradossalmente definito «un grande combattente del crimine». Il trionfo sull’impeachment è stato accompagnato anche da eventi meno cupi, benché non privi della consueta e smargiassa spregiudicatezza. Il 16 febbraio The Donald, primo presidente degli Stati Uniti a farlo, si è presentato all’inaugurazione della 500 Miglia di Daytona, una delle gare motoristiche più celebri al mondo. Come riporta l’Ansa, Trump ha dato inizio alla corsa tra le ovazioni dei centomila spettatori gridando ai microfoni “Signori, accendete i motori!”, e ha poi fatto un giro di pista a bordo della limousine presidenziale. Retrocedendo, pare opportuno ricordare anche i fatti avvenuti il 13 febbraio nello Studio Ovale della Casa Bianca. In occasione della visita del presidente ecuadoregno Lenín Moreno, la prima da parte di un presidente dell’Ecuador in vent’anni, Trump ha scelto di abbandonarsi a una sfilza di considerazioni per certi versi imbarazzanti e per altri preoccupanti. Ha definito i democratici “crooked” (ossia “disonesti”, ndr) e “vicious” (ossia “cattivi”, ndr). Inoltre, destando l’inquietudine di molti, si è espresso intorno al caso Roger Stone richiedendo con decisione al Dipartimento di Giustizia, attualmente guidato dal repubblicano di orientamento trumpista William Barr, una riduzione della pena indicata dai procuratori. Soffermandosi su tali dichiarazioni, il giornalista della CNN Kevin Liptak ha sottolineato l’ennesima infrazione delle norme attinenti al “presidential behaviour” da parte di Trump nonostante l’impeachment appena conclusosi (come a dire: il lupo perde il pelo ma non il vizio!), e ha scorto nelle stesse un «one clear message: the once-typical wall between White House political motives and Justice Department decision-making has fallen». Tuttavia, non sono questi gli eventi più significativi tra quel-
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Il Presidente americano Donald Trump li legati alla celebrazione della vittoria. Un momento particolare ha attratto l’attenzione dei commentatori, soprattutto quella dei giornalisti statunitensi: l’incontro nella East Room della Casa Bianca a meno di ventiquattr’ore dalla proclamazione della sentenza di assoluzione. Tale incontro si è svolto in presenza della stampa e di buona parte degli esponenti di maggior rilievo dell’area repubblicana: tra gli astanti, oltre ai componenti della squadra legale del presidente, si trovavano figure quali il leader della Maggioranza del Senato Mitch McConnell e il leader della Minoranza della Camera Kevin McCarthy. Il commentatore della CNN Chris Cillizza (da alcuni tacciato non a torto di “infotainment”, è bene precisarlo) ha riferito alcune delle frasi offensive pronunciate a ruota libera da Trump in tale occasione. Il tycoon ha definito «a horrible person» Nancy Pelosi, e con riguardo alla stessa ha poi aggiunto «I doubt she prays at all»; a proposito di Romney, invece, ha avanzato dubbi sulla religiosità del suo voto riconducendo il medesimo a motivi dettati dalla frustrazione. Un “Trump on steroids”, secondo Cillizza, al quale i grandi esponenti dell’area repubblicana hanno dedicato plausi aperti ed entusiastici. Degli stessi, sprezzante, Cillizza ha scritto: «[…] to sit by or even celebrate while Trump used the White House as a combination of a campaign venue, or a bathroom wall on which to write his darkest thoughts about those who oppone him, was beyond unforgivable». Non troppo diverse, relativamente ai fatti verificatisi nella East Room, paiono le parole del corrispondente della BBC New York Nick Bryant, che li ha definiti come un “triumph of trumpism” e una nitida esternazione del processo di “republican radicalisation” favorito dall’approccio di Trump. A proposito dei repubblicani che si sono inchinati dinanzi a The Donald, Bryant ne ha liquidato il comportamento bollandolo come “slavishly loyal”. Nel trambusto costituito dai fatti sinora descritti non può evitare di farsi largo una domanda relativa al principio degli stessi:
che cosa è accaduto durante il processo cui Trump è stato sottoposto? Prima di descrivere i fatti legati alla battaglia, pare opportuno tratteggiarne quantomeno i principali attori e fornire qualche premessa. Durante il processo, portato al Senato sull’onda del moto generato dalla speaker della Camera Nancy Pelosi, si sono fronteggiati due schieramenti. Da un lato, i sette manager del partito democratico capitanati da Adam Schiff nel ruolo di Intelligence Commitee Chair. Dall’altro, una formazione che su La Repubblica il corrispondente Federico Rampini non ha esitato a definire con ironia un “dream-team” di legali: trattasi dei difensori del presidente. La squadra in questione, avente la sua figura apicale nell’autorità di Pat Cipollone, oltre all’avvocato personale di Trump Jan Sekulow, includeva alcune figure piuttosto controverse. Le più rilevanti erano sicuramente gli avvocati Kenneth Starr e Alan Dershowitz. Starr, al centro di un paradossale incrocio di destini, nel 1998 fu tra coloro che condussero le indagini dalle quali scaturì l’impeachment di Bill Clinton. Secondo l’analisi sviluppata dal giornalista de Il Fatto Quotidiano Massimo Cavallini, Starr propugnò l’impeachment contro Clinton senza disporre degli elementi che lo stesso Starr, in occasione dell’impeachment contro Trump, ha inserito nell’“architrave giuridico-politica” della difesa presentandoli come conditio sine qua non del processo: assenza di un giudizio largamente bipartisan, mancanza dell’appoggio unanime dell’opinione pubblica, e non sussistenza di reati estremamente gravi. Dershowitz, invece, è oggi noto ai più perché fu coinvolto come difensore nel processo a O.J. Simpson svoltosi nel 1995, un processo dal quale scaturirono conseguenze in parte paragonabili, secondo Nick Bryant, a quanto è successo dopo l’assoluzione di Trump. Dershowitz, inoltre, ha difeso diverse celebrità (tra le quali Mike Tyson), ed è stato tra i legali dell’inquietante finanziere Jeffrey Epstein. Ebbene: descritti i due schieramenti, è ora possibile indicare – o, meglio: ripetere – il luogo in
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Il Senatore del Partito Repubblicano Willard Mitt Romney cui si sono affrontati, ossia il Senato di Washington. Lo scontro si è sviluppato sotto la sorveglianza e la guida del giudice John Roberts, capo della Corte Suprema di orientamento repubblicano. L’intero processo, come hanno sottolineato più commentatori, è stato caratterizzato da una forte impronta politica: così dev’essere, anche secondo la stessa Costituzione statunitense, nel caso relativo ai processi per impeachment – non casualmente Douglas Heye, giornalista della CNN, ha individuato uno dei maggiori errori dei democratici proprio nel loro trascurare la dimensione politica del processo. Il 18 gennaio, prima dell’inizio del dibattimento previsto per il 21 gennaio, i manager democratici hanno depositato un documento di quarantasei pagine contenente le ragioni dell’impeachment. A tale documento è seguita la risposta del collegio difensivo, concentrata in sei furenti pagine firmate da Cipollone: in tali pagine si negava qualsiasi reato e veniva ammesso soltanto il temporaneo congelamento degli aiuti militari all’Ucraina. Iniziato il processo, la corte ha rapidamente impedito la convocazione di qualsiasi testimone o il ricorso alle molteplici prove raccolte dai democratici. Si è così verificato ciò che Cavallini ha definito come un “sistematico e preventivo occultamento”. Tale occultamento è stato possibile grazie alla penetrante ingerenza della Casa Bianca, che tramite Mitch McConnell – come confermato dallo stesso, definitosi ben presto un “non objective juror” – aveva dettato con fermezza la linea da seguire ai repubblicani prima ancora che il dibattimento cominciasse. Dunque, i repubblicani hanno agito obbedendo a una granitica forma di ostruzionismo. Tra gli esiti più clamorosi di tale strategia, la mancata convocazione di John Bolton, ex membro del Consiglio di sicurezza che aveva da poco pubblicato un libro – alcuni estratti del quale resi visibili dal New York Times – contenente una limpida conferma delle azioni illegali perpetrate da Trump. Dinanzi a un contesto simile, ben poco hanno potuto
fare i manager democratici, costretti spesso a incassare la retorica sfoderata dalla difesa di Trump. Dershowitz è giunto a sostenere che il presidente, al fine di essere rieletto, possa fare ciò che vuole. Insistendo sulla prospettiva repubblicana per la quale Trump è un presidente regolarmente eletto, la difesa ha sostenuto anche che lo scopo dei democratici fosse di annullare la volontà del popolo espressa nell’ultima elezione con pretesti e mezzi giudiziari – discorso, quest’ultimo, al quale si era piegato, come ricorda l’Ansa, lo stesso presidente Putin in dicembre intervenendo a favore di Trump. In sostanza, un tripudio eminentemente politico di slogan che hanno trasformato il processo, come è stato sottolineato con intelligenza da Rampini, in un messaggio destinato all’opinione pubblica. Con tale messaggio Trump ha voluto sfruttare l’affaire legato al suo impeachment, il cui finale pareva scritto prima ancora che si giungesse al processo, per screditare la sinistra statunitense presentandola come una forza intenzionata a sospendere la democrazia e a sottrarre la decisione sulla futura presidenza al popolo americano. A rendere ancora più bruciante e quantomeno dubbio l’esito del processo, poi, si devono considerare i seguenti fatti: 1) nell’attuale Senato statunitense i senatori repubblicani, pur essendo maggioranza, rappresentano circa diciotto milioni di elettori in meno rispetto ai senatori democratici; 2) tra le varie formule di assoluzione, come delineato da Cavallini, è stata scelta la più forte e schiacciante, quella per non aver commesso il fatto: tale formula ha implicitamente presentato l’intero impeachment come un tentativo di golpe. Alla luce di quanto è stato descritto finora, si può ben comprendere perché alcuni commentatori abbiano parlato di “non processo” e di degradazione delle istituzioni legate alla democrazia statunitense. Cavallini, su Il Fatto Quotidiano, si è spinto a parlare di «tragicommedia della crisi della democrazia americana». Per i democratici la sconfitta non ha avuto luogo soltanto all’interno dell’aula senatoriale. Le conseguenze derivanti dall’as-
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soluzione di Trump hanno favorito lo stesso su più fronti prima ancora che il processo si concludesse. Secondo quanto evidenziato da Cillizza, il 4 febbraio Trump ha raggiunto la sua più alta percentuale di approvazione secondo l’indice Gallup: il 49% dei consensi. Lo stesso sondaggio, poi, ha indicato come pari al 94% il grado di approvazione nei confronti dell’operato di The Donald da parte dei “self-identified republicans”. In sintesi, il processo per impeachment non sembra aver leso la popolarità del presidente; anzi: stando a quanto viene riferito da David Heye, pare che si sia trasformato in un “financial boon” pari a 46 milioni di dollari raccolti nell’ultimo quarto del 2019. Ecco perché, allora, lo stesso Heye, riferendosi alla frase di Nancy Pelosi secondo la quale “impeachment is forever”, ha scritto: «If in impeaching Trump democrats help reelect him, four years may be more consequential than forever». Sulle pagine del The Guardian, tentando di fornire una analisi delle ragioni legate alla débâcle dei democratici, Tom McCarthy ha individuato i fattori della stessa nei seguenti punti: 1) «the base stuck with him» (ossia Trump, la destituzione del quale era sostenuta soltanto dall’8-10% della base repubblicana, ndr); 2. «elected republicans stayed in line» (come testimoniato dal forte ostruzionismo rotto solamente da Romney, ndr); 3) «the senate is broken» (perché non rappresentativo delle proporzioni legate alle parti dell’elettorato, ndr). McCarthy allora ha concluso scrivendo, pressappoco come Heye: «While Trump will forever
be an impeached president, his acquittal should count as a major political win». Paura e disgusto a Washington, rielaborando il titolo del celeberrimo romanzo dello sregolato Hunter Thompson. Paura per la crescente onnipotenza di Trump e per il suo infaticabile sprezzo nei confronti delle istituzioni e del loro significato politico, civile, ed etico. Disgusto per il processo totalmente impregnato di assurdità e paradossi del diritto che non ne ha nemmeno scalfito in misura rilevante la popolarità. Allo scenario sconfortante non può che aggregarsi lo stato di crisi in cui sembrano essere scivolati proprio coloro che vorrebbero porre fine all’amministrazione più controversa degli ultimi decenni: i democratici. In una intervista con il politologo Ian Buruma comparsa su L’Espresso, il giornalista Alberto Flores D’Arcais ha posto in evidenza le divisioni interne al partito, divenute più patenti in seguito all’assoluzione di Trump. I candidati alle primarie democratiche, poi, non sembrano dotati delle qualità necessarie a compattare la sinistra statunitense guidandola a uno scontro ad armi pari con Trump. In attesa dei primi dati importanti, come quelli legati al “supertuesday” che si svolgerà il 3 marzo, tutto pare a favore di Trump: è sufficiente pensare al caso dei caucus tenutisi in Iowa. Forse, però, un giorno The Donald verrà ricordato soltanto come l’ombra ormai svanita di una lisergica visione simile alle tante raccontate da Hunter Thompson. Il potere, diversamente dall’impeachment, non è mai per sempre.
Presidente (Speaker) della Camera dei Rappresentanti Usa Nancy Patricia Pelosi
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“Emmanuel Pension” di Andr Golini ea
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Troppe eccezioni: riformare il sistema pensionistico è indispensabile ma l’esperienza francese insegna che la sfida è molto ardua.
ivremo più a lungo, questo lo sappiamo. Nel continente europeo l’aspettativa di vita continua a salire e la popolazione più anziana supererà la popolazione più giovane, se non l’ha già fatto. E come li manteniamo questi anziani? Cosa faremo quando noi saremo anziani? È chiaro che dopo tanti anni di duro lavoro non ne potremo più, il fisico inizierà a darci i primi segni di cedimento e determinati lavori non saremo più in grado di farli. Per fortuna abbiamo diritto ad una pensione, un premio mensile per aver lavorato e contribuito al funzionamento della società per lungo tempo. Chi paga questo premio? Non parliamo dell’Italia ché di Fornero siamo abbastanza saturi, parliamo della Francia. Le risorse per il sistema pensionistico francese, in generale, vengono prelevate dalle casse nazionali. In linea di massima paga lo Stato, in aggiunta ogni cittadino può ricorrere privatamente a fondi pensione. Possiamo dire che il sistema è prevalentemente pubblico e la Francia è il terzo paese europeo che spende di più in pensioni dietro a Grecia e Stivale. Fonti OCSE dicono che lo Stato francese ha una spesa pensionistica pari al 14% del PIL e tale percentuale è destinata ad aumentare. Secondo il report del Consiglio di orientamento pensionistico francese, al 2025 il deficit conseguente al sistema pensionistico oscillerà tra i 7,9 miliardi fino ai 17,2 miliardi di euro. C’è da aspettarselo, se l’aspettativa di vita aumenta lo Stato dovrà mantenere i pensionati più a lungo. Come funziona l’attuale sistema pensionistico francese? In primis funziona con il sistema di ripartizione: è basato sul cosiddetto “patto tra generazioni” nel quale i contributi che versiamo durante il periodo lavorativo pagano la popolazione in pensione. Mentre lavoro una parte del mio stipendio viene trattenuta ai fini pensionistici, il 55% della quota trattenuta lo versa il datore di lavoro mentre il restante 45% lo versa il lavoratore; la quota trattenuta del mio stipendio andrà a finanziare le pensioni attive. Quindi la pensione che io percepirò, seppur calcolata in base ai contributi che ho versato, non verrà “pagata” direttamente da me, non metto fisicamente da parte moneta per riaverla in futuro, ma viene pagata da chi ancora lavora. Ecco che si innesca un rapporto tra la popolazione che lavora e
la popolazione in pensione. Per questo il sistema funziona se è presente un equilibrio: se la generazione impiegata nel mondo del lavoro riesce, con i propri contributi, a finanziare la generazione in pensione. Un secondo aspetto è la moltitudine di casse pensionistiche: il sistema francese attuale conta 42 casse pensionistiche differenti, in media si stima che ogni francese disponga di 2,5 casse per la propria pensione. A seconda della categoria del lavoro svolto esistono diverse regole per andare in pensione, non c’è un sistema pensionistico uguale per tutti. Sebbene si conti l’82% di lavoratori sotto regime “generale”, che segue un sistema contributivo con età pensionabile posta a 62 anni, altri lavoratori come i minatori, gli insegnanti, i notai, i dipendenti della Banca di Francia e più in generale i lavoratori statali di imprese come la Sncf (ferrovie) sono tutti sotto regimi eccezionali. Questi regimi eccezionali vengono favoriti dall’attuale sistema pensionistico: nel caso della Sncf i lavoratori vanno in pensione circa a 57 anni e percepiscono una pensione al di sopra della media. Questo “favore” alla pensione, oltre ad essere basato su una legge del secondo dopoguerra in cui i macchinisti erano fisicamente più sollecitati, viene socialmente visto come una compensazione dei salari molto bassi rispetto ad altre realtà europee. A questo punto, cosa vuole fare Emmanuel Macron? Premesso che il sistema del “patto tra generazioni” non verrebbe alterato, quello che vuole il presidente francese è introdurre un nuovo regime pensionistico che inizierebbe nel 2025 e che porrebbe tutti i lavoratori in un unico regime per tutte le professioni con età pensionabile progressivamente aumentata da 62 fino a 64 anni nel 2027, anche se il primo ministro Edouard Philippe ha “provvisoriamente” ritirato l’innalzamento per ridurre le proteste dei sindacati. Come sale l’aspettativa di vita, sale l’età pensionabile: vivendo più a lungo dovremo sostenere pensioni più lunghe e per farlo dovremo versare più contributi ossia lavorare di più. Per chi volesse andare in pensione prima e ricevere meno potrà comunque farlo, l’età di 64 anni se confermata è l’età “pivot”, una sorta di bonus-malus dove se vado in pensione in anticipo all’importo verrà tolto il 5% per ogni anno in meno, viceversa, se vado in pensione più tardi otterrò un aumento del 5% per ogni anno in più. Il nuovo regime tocca altri punti, ne cito due: l’aumento della pensione minima da
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900 a 1000 euro o pari all’85% del salario minimo percepito e l’aiuto verso i lavoratori meno costanti inclusi i casi di maternità in cui vi sarebbe un bonus pensionistico a partire dal primo figlio e non più dal terzo. Sebbene un recente sondaggio Ifop mostra il 76% dei cittadini francesi favorevoli ad una riforma del sistema pensionistico, meno della metà si fida della proposta di Macron. C’è un malcontento generale e gli scioperi di cui sentiamo parlare, promossi dai sindacati che giustamente cercano di tutelare i lavoratori che rappresentano, ne sono la prova. Se dovessimo guardare la manovra senza le ragioni di bilancio potremmo dire che il presidente ha intenzione di aumentare l’età in cui dovremo andare in pensione e che probabilmente la cifra che otterremo sarà più bassa di quella attuale. Ma uniformare il sistema pensionistico comporterebbe pensioni dello stesso livello per tutti i lavoratori eliminando così le disparità di trattamento in base al lavoro. Se dovessimo guardare solo le ragioni economiche della manovra potremmo dire che alzare l’età pensionabile e quindi far versare più contributi ai lavoratori renderebbe più sostenibile l’erogazione delle pensioni a lungo termine diminuendo il deficit pubblico. Economicamente per pagare le pensioni serve lavorare, ma i cittadini dopo la riforma si vedrebbero diminuire la pensione senza essere compensati con un aumento dei salari, attualmente al di sotto della media proprio a causa del sistema pensionistico a loro favore. I sindacati mettono in luce altri due aspetti importanti: la variabilità del regime pensionistico proposto, facilmente manipolabile dai governi visto il sistema a punti previsto nel calcolo delle pensioni e l’incentivo a lavorare dovuto ai bonus ritenuto discriminatorio e in contrasto con la stabilità generazionale. Alcuni aspetti della riforma rimangono poco chiari e questo non aiuta il presidente francese e sindacati ad arrivare ad una sintesi. È chiara la necessità della riforma, ma si discute ancora sui risvolti economici e sociali. I
predecessori di Macron tentarono un cambio del sistema pensionistico e in quelle occasioni vennero bloccati dalla fermezza dei sindacati e delle piazze. Forse la strada dell’attuale presidente avrà lo stesso esito; anche se l’intenzione è giusta la stabilità verrebbe pagata dai lavoratori statali che fanno parte della numerosa classe media francese e non dalla cosiddetta “elité” molto vicina, secondo chi sciopera, al presidente. Però i privilegi alle pensioni rimangono e sono difficili da rimuovere se sono visti come una compensazione sociale dello stipendio. Sono altrettanto difficili da rimuovere se per farlo dovrebbero pagare tutti i lavoratori, anche quelli sotto il regime “generale”. Siamo destinati ad andare in pensione sempre più avanti con gli anni ed è giusto protestare affinché la pensione rispecchi lo stipendio e l’utilità sociale del lavoro svolto. Ma chi prende una pensione sproporzionata o va in pensione in anticipo rispetto agli altri, è davvero legittimato a protestare per qualcosa che non gli spetta? Per me rimane paradossale. Una volta consapevoli dell’insostenibilità di un certo sistema dovremmo essere disposti a rinunciare a ciò che ci è stato dato e che non potevamo permetterci. Si ha il diritto di lottare per stipendi equi e pensioni corrette, ma lottare per difendere pensioni sproporzionate suona come la difesa del consumo di carbone. Rimane ancora un quesito irrisolto: la presenza dei fondi pensione privati che secondo i sindacati verrebbero incentivati e che andrebbero progressivamente a sostituire il sistema statale. Nell’Unione europea la vigilanza bancaria e dei fondi di investimento rimane comunque serrata concedendo poca speculazione al settore privato, però la questione rimane aperta. Comunque sia, il sistema pensionistico dimostra che gli interessi dei singoli persistono e ancora una volta si tende a perde la visione comunitaria di una riforma che coinvolgerà le prossime generazioni francesi.
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Schaffen Wir das? di ni Filli ppo Vivia
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ccoci qui per un nuovo update sulla politica interna tedesca, sempre più intricata e di difficile interpretazione. La congiuntura economica non aiuta: da un lato la Commissione Europea nelle sue ultime previsioni di crescita del PIL ha abbassato la stima a +1,1% (comunque un miraggio per l’Italia, come al solito fanalino di coda), dall’altro i campioni nazionali dell’auto stanno fronteggiando la difficile sfida dell’elettrificazione dei loro prodotti, campo nel quale si trovano a rincorrere le controparti asiatiche. Recentemente, il CEO di Volkswagen, Herbert Diess, ha addirittura dichiarato che il gruppo è destinato a fare la fine di Nokia senza le adeguate riforme (!). Sul versante politico la notizia è rappresentata dalle dimissioni di Annegret Kramp-Karrenbauer da leader della CDU dopo appena un anno, uno stravolgimento a cui i cristianodemocratici non sono, e non ci hanno, abituati. La decisione giunge dopo il controverso accordo tra la sezione della CDU della Turingia, liberali ed AfD per eleggere ministro presidente del Land il candidato dei liberali. Con tale scelta è stato rotto l’accordo fra le forze moderate al fine di istituire un cordone sanitario per isolare il partito di estrema destra ed è dovuta intervenire ancora una volta Angela Merkel a ristabilire l’ordine. La Cancelliera ha definito la decisione “imperdonabile” e ha espulso i membri della CDU locale responsabili dello scandalo, portando alle dimissioni del presidente neoeletto. Nonostante la situazione fosse tornata sotto controllo, è apparso chiaro come AKK (come è soprannominata l’ormai ex leader dell’Union) non avesse il partito sotto controllo, un partito in cui l’ala destra ha mostrato tutta la propria forza. Ora, a meno di due anni dalle prossime elezioni federali, la CDU si trova a dover trovare un nuovo leader, una battaglia molto più difficile per Merkel, la quale vorrebbe un nuovo profilo moderato. Analogo è l’imbarazzo per i liberali di FDP, che due anni e mezzo fa si rifiutarono di appoggiare un governo a livello federale con il motto «meglio non governare che governare male» e oggi si ritrovano ad aver appoggiato, con poco più del 5% dei voti, una coalizione di governo in Turingia con l’estrema destra ostracizzata da tutti gli altri partiti. Tutto ciò si combina con le attuali problematiche internazionali e con l’incapacità cronica dei governi europei di dare una svolta al processo di integrazione del Vecchio Continente. Un mix esplosivo che potrebbe mettere a rischio una particolare triade che i tedeschi danno ormai per scontata dall’inizio del millennio: stabilità politica, benessere economico e guida dell’Unione Europea.
Potrebbe sembrare che tali problematiche non possano interessare più di tanto il nostro Paese, tuttavia saremmo i primi a risentire di un’eventuale crisi tedesca, essendo l’Italia parte integrante delle catene del valore capeggiate dalla potente industria tedesca. E il problema si ripropone a livello europeo, dove tra due anni ci ritroveremo senza Angela Merkel, pilastro della difficile convivenza europea a dispetto degli umori altalenanti degli altri Stati membri. Nei prossimi due anni si deciderà molto del nostro futuro di europei, ma comunque nel Belpaese saremo concentrati sull’ennesima, fondamentale, microelezione regionale.
Annegret Kramp-Karrenbauer
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Rubrica Erasmus: Lione (Francia) di to Giu lia Granzot
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tutto iniziato facendo domanda per gioco: «Tanto non credo verrei mai selezionata…è solo per curiosità, per vedere dove mi piazzerei in graduatoria» pensavo. E…come non detto. Mi sono sentita un po’ presa alla sprovvista, quegli “addirittura” nove mesi mi spaventavano; ma poi, questo Erasmus si è rivelato una grande opportunità capitata al momento giusto. Durante il viaggio per arrivare, appena ho visto quella grande città in lontananza, mi è salita l’adrenalina a mille; e appena arrivata lì, non vedevo l’ora di esplorare ogni angolo di Lione. Mi stabilisco in residenza e conosco le prime persone: una ragazza turca, un ragazzo e una ragazza coreani, che sono stati una specie di famiglia per me: insieme abbiamo organizzato cene internazionali, cantato e suonato il pianoforte nella sala di musica della residenza e festeggiato i compleanni. I primi dieci giorni dell’Erasmus uscivo sempre, approfittando del tempo libero prima dell’inizio delle lezioni. Penso sorridendo alla prima festa: era su una barca e mi sono divertita molto; ma la parte più “divertente” è stata dopo la festa quando, non essendoci bus notturni e non trovando un taxi, assieme ad una ragazza tedesca del mio piano e altri due suoi amici tedeschi, mi sono ritrovata costretta ad una lunga camminata in collina per tornare alla residenza. Ho conosciuto poi anche altre persone con cui sono uscita spesso la sera andando in vari locali; il mio posto preferito però rimaneva un bar a tema irlandese, dove c’era spesso musica dal vivo e si poteva giocare a freccette. Altri posti di Lione che mi sono rimasti nel cuore sono Vieux Lyon, quartiere storico che mi infondeva tranquillità; il Parc de la Tête D’Or, un parco immenso vicino ad un grande lago; e i Jardins des Curiosités, da cui si può ammirare una vista stupenda di Lione. Alla fine del primo semestre, tanta gente se n’è andata: è stato parecchio triste vedere la residenza vuota, senza tutte le persone che avevo conosciuto. Ma dopo qualche giorno sono arrivate persone nuove, tra cui due ragazze dall’Argentina, due ragazze e un ragazzo dal Brasile, un ragazzo dalla Colombia e un ragazzo francese originario del Burkina Faso. In particolare con una delle due ragazze argentine ho passato molto tempo insieme: abbiamo chiacchierato, bevuto il mate, ascoltato musica (e fu così che scoprì il festival di Sanremo e se ne innamorò) e siamo andate a un corso di zumba della residenza. I viaggi che ho fatto sono stati a Montpellier, città di cui il momento più bello per me è stato sedersi in spiaggia a guar-
dare il mare; Parigi, dove sono rimasta stregata dalla Tour Eiffel che vedevo per la prima volta; e Marsiglia, città mediterranea, in cui ho visitato anche il Parc National des Calanques, con un paesaggio sulla costa davvero mozzafiato. Verso la fine del mio Erasmus, mi chiedevo come sarebbe stato una volta finito: sarei tornata a come ero prima di partire? Il penultimo giorno ho pranzato insieme ad alcuni della residenza e poi, nonostante io e il ragazzo brasiliano dovessimo assolutamente finire di sistemare le nostre stanze per il check-out, siamo rimasti ancora in cucina per ore insieme alla ragazza argentina (quella appassionata di Sanremo) a suonare un ukulele e a cantare. Come immaginavo da tempo, ho fatto fatica a lasciare la mia stanza: quella che è stata casa mia in un periodo della mia vita in cui ho provato mille emozioni. Mi ha fatto effetto vederla vuota come lo era all’inizio, come se non fosse successo niente. Quello stesso giorno però, partendo per tornare in Italia, mi sentivo felice pensando a quello che avevo vissuto: un’esperienza che mi ha arricchito come persona e che ha cambiato le lenti degli occhiali con cui guardavo il mondo, facendomi scoprire altre realtà. Mi sono messa più in gioco, ho maturato nuove consapevolezze, imparando così anche a credere più in me stessa. E no, alla fine non sono tornata come prima; perché alla fine è vero: «Once Erasmus, always Erasmus».
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«[...] La grande posta in gioco non è un governo di sinistra o di destra in tale o tale paese. La posta è la rinascita della libera civiltà democratica europea che può avere luogo solo sulla base di una Europa unita.» Dal discorso tenuto da Altiero Spinelli al 1° Congresso UEF del 27 agosto 1947
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