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GFE - Giovani Federalisti Europei

Europa e Occidente alla prova dell'autoritarismo


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Il conflitto in Ucraina e il futuro dell’Europa

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La prismatica gauche d’oltralpe

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Promuovere i valori con realismo: la sfida dell’Unione

Patrick Zaki: «Fatemi tornare a studiare»

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Giovani e politica. Una riflessione

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14 L’importanza di credere nella scienza

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15 Rubrica Erasmus: Nottingham (Regno Unito) Per collaborare con noi, contattaci a: gfe.verona@gmail.com! Rivista del gruppo studentesco GFE - Giovani Federalisti Europei Con il contributo dell’Università degli studi di Verona. Responsabile del gruppo studentesco: Maddalena Marchi. Co-direttori: Maddalena Marchi, Salvatore Romano. Collaboratori: Gianluca Bonato, Carlo Buffatti, Lea Dietzel, Gabriele Faccio, Francesco Formigari, Andrea Golini, Filippo Pasquali, Giovanni Pigato, Filippo Sartori, Andrea Stabile, Alice Tommasi, Alberto Viviani, Filippo Viviani, Sofia Viviani, Andrea Zanolli. Redazione: Via Poloni, 9 - 37122 Verona • Tel./Fax 045 8032194 • www.mfe.it • gfe.verona@gmail.com • Progetto grafico: Bruno Marchese. GFE - Giovani Federalisti Europei

Articolor Verona Articolor Verona srl srl Via Olanda, 17 ComuniCazione GrafiCa 37135 Verona Via Olanda, 17 37057 Verona Tel. 045 584733 Tel. 045 584733 Fax 045 584524 articolor@articolor.it P.I.email: C.F. 04268270230 REA 406433

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Il conflitto in Ucraina e il futuro dell’Europa di to Gia nluca Bona

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• Tempo di lettura: 3 minuti

a cronaca serve per conoscere i fatti, la storia per capirli. Una notevole impressione e attenzione mediatica stanno attirando, nel momento in cui scriviamo, le notizie sull'invasione dell'Ucraina da parte dell'esercito russo comandato da Putin. Sono questi gli ultimi fatti di una vicenda che risale quanto meno alle proteste di “Euromaidan” e all’annessione della Crimea nel 2014. Fatti di cronaca dunque che finiscono sui libri di storia, ma che non spiegano di per sé le ragioni che stanno dietro alle azioni compiute. Qual è lo scopo di Putin? Perché ha invaso l'Ucraina proprio ora? Quale posizione dovrebbe prendere l’Europa? Interessanti riflessioni su queste domande sono sviluppate nell’articolo di Gabriele Faccio, pubblicato a pagina 8-9. In queste poche righe cercheremo invece di compiere un ulteriore passo indietro, dando una panoramica sui sommovimenti della politica globale negli ultimi anni. Nel 1992 il politologo statunitense Francis Fukuyama pubblicò un saggio intitolato La fine della storia e l’ultimo uomo. La tesi era che la fine del comunismo sovietico avrebbe dato spazio alla diffusione incontrastata della democrazia liberale di stampo capitalista come finale tappa dell’evoluzione umana. L’URSS aveva capitolato e gli USA erano l’unica superpotenza globale. L’illusione, tuttavia, è durata pochi anni: l’11 settembre 2001 l’attacco alle Torri gemelle segnò la vulnerabilità degli USA e l’11 dicembre 2001 l’entrata della Cina nel WTO marcò l’ingresso di una nuova superpotenza nel mercato globale. Da allora, non solo le guerre militari hanno logorato la credibilità degli USA, ma anche gli USA stessi sempre di più si sono focalizzati su questioni di politica interna, scossi da una società spaccata, dove il mondo liberal rappresentato da Obama prima e Biden poi è opposto al nazionalismo populista imperniato sulla figura di Trump. Mondi così opposti da mettere a rischio la pacifica transizione di poteri, vedere manifestanti armati irrompere a Capitol Hill, contrapporsi due partiti incapaci di dialogare. In questo contesto è avvenuto il ritiro dall’Afghanistan, in questo contesto l’Europa è sempre più sola. D’altronde, il fatto che la sicurezza degli europei era appaltata a Washington aveva un’immediata ragione nel corso della Guerra fredda, ma il volgersi negli ultimi decenni degli USA verso la politica interna – e verso il

Pacifico per via dell’ascesa della Cina e altri nel continente asiatico – non ha potuto che mettere a nudo le fragilità degli europei. Già ci aveva pensato Obama a definirci “free riders” in materia di sicurezza; le sprezzanti posizioni di Trump e l’unilaterale ritiro dall’Afghanistan deciso da Biden hanno solo proseguito su una scia tracciata. Insomma, riprendendo una citazione attribuita a Henry Kissinger, l’Europa, nonostante sia un gigante economico, è «un nano politico e un verme militare». Da un lato, il mercato unico, di cui beneficiano anche i Paesi ex-sovietici membri UE, garantisce un significativo tenore di vita e l’euro è la seconda moneta più adoperata negli scambi mondiali; dall’altro, per la propria sicurezza l’Europa dipende da un alleato atlantico sempre più riluttante. Ci insegna dunque la vicenda ucraina che l’Europa, per riprendere in mano il proprio destino e difendere i propri valori, deve dotarsi di una politica estera unica, di un governo europeo federale che porti a compimento il processo di integrazione europea. L'unità dell'Occidente verso Putin è fondamentale, ma ucraini ed europei tutti non possono contare solo sull'aiuto del Presidente USA. Solo gli europei possono salvarsi da soli, costituendo quegli Stati Uniti d’Europa che possono essere peraltro da esempio di costruzione di istituzioni democratiche comuni che uniscono Paesi in passato divisi dalla guerra. Possiamo essere di esempio, non lasciamo che sia Putin a dettare i tempi e le ragioni della storia.

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di io Gab riele Facc

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Promuovere i valori con realismo: la sfida dell’Unione

• Tempo di lettura: 5 minuti (Articolo scritto prima dell'invasione dell'Ucraina da parte di Putin)

a recente crisi internazionale che ha visto contrapposti i paesi occidentali e la Russia sulla partecipazione dell’Ucraina nell'Alleanza Atlantica ha inevitabilmente riflesso lo stato di dipendenza del Blocco europeo dalle scelte strategiche di Washington e l'estrema vulnerabilità delle democrazie europee alle rappresaglie energetiche di Mosca. I leader del Vecchio continente sono intervenuti nell’immediato come potevano, agendo da intermediari diplomatici tra le due superpotenze belligeranti. Tuttavia, risolvere la crisi Ucraina nel lungo periodo necessita di correggere la dipendenza e la vulnerabilità dimostrate dai paesi dell’Unione nelle scorse settimane di crisi. A livello internazionale, l’Europa non è pienamente

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riuscita a ritagliarsi un ruolo completamente autonomo, e ha invece servito da canale diplomatico per l’una e l’altra parte. Le missioni dei principali leader europei, tra i quali il Cancelliere tedesco Scholz o il Presidente francese Macron, hanno dimostrato la posizione di debolezza delle cancellerie Europee nella crisi. Alla conferenza stampa congiunta tra Scholz e Biden del 7 Febbraio è finalmente emerso pubblicamente che i tedeschi non possono concludere il Nord Stream 2, per quanto controproducente esso sia, in piena autonomia dai veti di Washington. Anche la missione di Macron a Mosca, che aveva lo scopo di dare lustro al Presidente in vista delle elezioni francesi di primavera, ha dimostrato i limiti del soft power di Parigi nel campo dei grandi Giochi tra Potenze.

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Ancora più allarmante, sia che Putin decida di procedere con un’invasione o meno, prima o dopo la pubblicazione di questo articolo, è la crisi che ha messo in luce l’estrema vulnerabilità di molteplici interessi strategici dell’Unione, come la fornitura energetica e la sicurezza militare del continente. Per molte settimane era chiaro che la chiusura dei ‘rubinetti’ del gas da parte di Mosca era un’opzione sul tavolo, soprattutto qualora Mosca si fosse sentita senza via di fuga in caso di escalation. Per settimane, quindi, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno condotto una ricerca disperata in fonti alternative di idrocarburi per garantire il sostentamento del fronte europeo che avrebbe potuto solo in parte supplire al danno di un'eventuale rappresaglia russa, con tutte le conseguenze economiche, sociali ed elettorali che ne sarebbero conseguite. L’esposizione dell’Europa ai giochi tra i due rivali e la sua impossibilità di ritagliarsi uno spazio di autonomia nella disputa deve ora chiamare tutta la classe politica e l’opinione pubblica dell’Unione a riflettere su come evitare il ripetersi di un simile rischio economico, sociale e democratico sul continente in futuro. L’Unione deve farlo non per rispondere a considerazioni di tipo sovranista fine a se stesse, ma per preservare la stabilità e la sicurezza delle istituzioni democratiche e la sicurezza della sua gente. In vista della prossima crisi tra Superpotenze, siano esse Stati Uniti, Russia o Cina, in Europa si deve sentire l'urgenza di rendere l'Unione e gli alleati in grado di rispondere alle necessità strategiche e vitali del Continente. La vicinanza degli Europei al fronte Russo li rende più determinati a seguire la strada della coesistenza e del dialogo rispetto agli Stati Uniti, posti a più notevole distanza geografica ed economica da Mosca. Una ricostruzione dell’architettura di sicurezza Europea, che consenta agli abitanti del continente di esprimersi sulle politiche di sicurezza europee, non passa solamente dall'istituzione di una forza Europea autonoma finanziariamente e militarmente. Al fine di raggiungere una piena 'autonomia strategica' l’Unione deve, in concerto con Stati Uniti e alleati, trattare la posizione dell'Ucraina con realismo ed equilibrio tra espressione dei valori e limiti del mondo reale. Molto si sta discutendo a riguardo se non sia meglio lasciare l'Ucraina alla sfera di influenza Russa, persistere nell'integrazione di Kyiv nella sfera di influenza Occidentale o piuttosto riconoscere all'Ucraina il ruolo di zona neutrale. Nel mentre che i vari commentatori si mettano d'accordo, al momento pare essere abbastanza solida l'argomentazione secondo cui riconoscere all'Ucraina il ruolo di zona cuscinetto, come è stato fatto per l'Austria durante la Guerra Fredda, potrebbe essere un compromesso realista che tiene conto delle comprensibili paure del regime Russo di subire la presenza di installazioni militari di una potenza rivale fissati a poca distanza dalla capitale e dal cuore economico e demografico del paese. Dall'altro, la neutralità Ucraina potrebbe tenere conto delle consi-

derazioni degli europei riguardanti l'autodeterminazione dei popoli, la presenza di istituzioni democratiche e del rispetto dello Stato di diritto sul continente. L'occidente non deve cadere nella tentazione di voler espandere il proprio club per il solo gusto di farlo. Una politica di neutralità dell'Ucraina, sarebbe prova di realismo politico e porterebbe a una maggiore stabilità, politica e militare. C'è chi oppone a questo argomento il sacrosanto diritto del popolo Ucraino di scegliersi i propri partner e le proprie alleanze. Ma nei fatti, una dichiarata neutralità dell'Ucraina potrebbe portare Kyiv molto più a ovest di ogni formale dichiarazione di alleanza che rischia di non essere rispettata dai suoi propri membri e provocare strategie di brinkmanship da parte dell’oligarchia russa. Dal momento che gli Occidentali non sono in grado di destituire il governo di Mosca senza scatenare un’apocalisse nucleare, saggio sarebbe portare lo scontro tra Civiltà che affannosamente cercano a Mosca sul piano economico e culturale, dove l’Unione avrebbe schiacciante superiorità, invece che sul piano militare, dove i Russi vogliono giocare essendo l'unica loro risorsa. Una neutralità Ucraina priverebbe il regime di Putin di un pretesto per minacciare la Pace e porterebbe lo scontro sul piano economico e dei Valori, dove la democrazia ha un netto vantaggio. Un ambiente pacifico consentirebbe quindi agli Ucraini di scegliersi realmente il proprio partner e il proprio destino. Per contenere il militarismo del regime putiniano e pacificare l'Europa, l'Unione deve primariamente essere unita, capace di determinare un’autonoma politica estera in accordo con gli alleati, e rifiutare ogni allargamento militare che non sarebbe rispettato dai membri dell'alleanza. Si deve evitare di minare la legittimità della NATO e servire gli interessi della cleptocrazia russa che basa la propria politica estera unicamente sullo strumento militare. Gli Ucraini vanno aiutati e abbandonare le pretese della NATO in Ucraina non significa una replica dell'appeasement degli accordi di Monaco del 1938. Al contrario, sostenere la neutralità dell’Ucraina significa rispondere all’esigenza di sviluppare una politica estera europea che avanzi i valori, ma in maniera realistica. Significa farsi promotori di un modello di società che attrae, ma sa gestire i rischi del XXI Secolo.

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Giovani e politica. Una riflessione di to Gia nluca Bona

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siste una forte cesura, che perdura da diversi decenni, fra le istanze e le aspirazioni della cittadinanza da un lato e i programmi e le iniziative della classe partitica nazionale dall’altro. È semplice, infatti, constatare come la “percentuale di gradimento” dei principali leader nazionali di partito, nelle misurazioni incessanti dei sondaggi, è nel complesso scarsa e quanto scarsa è la fiducia nella classe partitica nel suo insieme. Basti ricordare la profusione di libri pubblicati da giornalisti della più vasta estrazione contro le corruttele dei politici, da La Casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo in giù. Tanto che sempre più spesso i politici in prima persona hanno lanciato invettive contro la classe politica di cui fanno essi stessi parte. Il momento di svolta a cui tradizionalmente in Italia si fa risalire tale decadenza è il processo di Mani pulite, al punto che da tempo, senza che frattanto nell’asset-

to istituzionale italiano si verificassero significative trasformazioni, si parla di Prima e Seconda Repubblica, dandosi quel processo – e le elezioni politiche del 1994 – come spartiacque delle due fasi. Tuttavia, sarebbe illusorio pensare che la trasformazione che ha avuto l’insieme dei partiti italiani dalla Prima alla Seconda Repubblica, con il transito dagli storici partiti di massa con centinaia di migliaia – se non milioni – di iscritti ai partiti degli ultimi decenni con una base di iscritti molto più ristretta e una vita media in genere breve, sia avvenuta per cause meramente interne al contesto politico italiano. È necessario invece rilevare come tali fenomeni sono analoghi a quanto successo in molti altri Paesi europei, persino in altri Paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti d’America, dove un leader anti-sistema come Donald Trump è potuto diventare Presidente. Cos’è accaduto dunque? Da dove arriva questa crescente sfiducia verso la classe politica? In parole

Da sinistra: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli

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povere, è caduto il Muro di Berlino. Il crollo del blocco sovietico, la fine della Cortina di ferro, che separava nettamente due sistemi ideologici, distinti per modelli economici, sociali, culturali, hanno sradicato tutti i riferimenti dei partiti italiani. Persa la bussola delle rispettive ideologie, sono così finite la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista Italiano, il Partito Liberale, il Partito Socialista, il Partito Repubblicano. Dalle grandi visioni interpretative e linee programmatiche di quei partiti, si è passati alle proposte di respiro sempre più corto dei nuovi partiti nati da quelle ceneri e alla loro capacità sempre più debole di interpretare i fatti della politica europea e mondiale. Lo testimoniano i nomi stessi dei partiti, contenitori che non portano più tracce delle grandi ideologie dell’800 e del ‘900 e potrebbero indifferentemente designare una forza liberale o socialista, progressista o conservatrice: Forza Italia e Movimento 5 Stelle, Italia Viva e Lega. E tanto in Italia quanto negli altri Paesi europei (con l’eccezione della Germania): En Marche, Podemos, Nea Demokratia. Si è dunque affermato un presentismo costante, iniziative sempre più orientate a essere mance elettoralistiche dedicate a un preciso strato sociale, incapaci di dare una soluzione di ampio respiro. Di questo presentismo, i primi perdenti sono le giovani e i giovani, che più dei loro genitori e nonni desidererebbero avere una classe politica in grado di pensare non al prossimo turno di elezioni amministrative o regionali, ma a dare visioni e soluzioni valide per i prossimi decenni. Persi quindi i riferimenti ideologici, immersa in un mondo sempre più globalizzato in termini di scambi economici, sociali, culturali, la politica nazionale sempre meno negli anni ha saputo interpretare la realtà ed elaborare soluzioni efficaci ai problemi della società. Ma d’altronde non ha saputo farlo in quanto vincolata agli angusti confini nazionali. In diversi modi si potrebbe argomentare e dare prova di questa considerazione, ma pensare a questo può essere sufficiente: l’assetto degli Stati nazionali europei di oggi, il livello a

cui questi agiscono nel 2022 è pressoché quello seguito all’unità della Germania nel 1871, più di centocinquanta anni fa (tolte le colonie); nell’arco di centocinquanta anni, tuttavia, i problemi sono diventati sempre più marcatamente globali (l’epidemia di Covid-19 diffusasi a livello globale nel giro di pochissimi mesi, la crisi climatica, le migrazioni, l’incombente minaccia della proliferazione nucleare). È lungo questi fili, nel contesto europeo e globale dentro cui sempre più è permeata la nostra vita stessa in quanto individui, che la sfiducia verso la classe politica nazionale è montata, che i giovani oggi sempre meno si affezionano ai fatti della politica nazionale. D’altro canto, si interessano i giovani di problemi che trascendono i confini nazionali: la crisi climatica verso cui solleva le coscienze Fridays for Future, il razzismo latente contro cui si levano manifestazioni in tutto l’Occidente e altre ancora che potremmo menzionare. Ma la classe partitica nazionale, incancrenita, affoga nel mare di questi problemi globali. Se i poteri nazionali esistenti per cui competono i partiti (che si organizzano per conquistare il potere esistente, e sono dunque partiti nazionali) non offrono prospettive e non dànno risposte alle questioni sollevate dai giovani e non solo da essi, bisogna dunque creare un potere nuovo, democratico, a un livello superiore. In questo senso, l’Unione europea è un progetto su cui si può costruire un potere politico europeo, che dia nuova linfa agli affannati Stati nazionali. A tal fine, i governi nazionali dovrebbero condividere sovranità in alcuni settori (a partire da una politica economica comune che accompagni la politica monetaria, oltre che una politica estera e di difesa unica), secondo un modello di democrazia europea federale – degli Stati Uniti d’Europa. Questa è probabilmente l’ambizione sulla base della quale si può costruire un rinnovato rapporto di fiducia di giovani e meno giovani con la politica. Questa è peraltro l’ambizione di fondo per cui è nato il progetto di integrazione europea, che ambisce a una «unione sempre più stretta fra i popoli europei».

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Quale politica, quali politici di gi Gio vanni Cog

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Articolo pubblicato sul blog Eurovicenza.eu

lla fine Sergio Mattarella è stato nuovamente eletto presidente della Repubblica per altri sette anni. Dopo una settimana di empasse e un tentativo di accordarsi su un successore mai realmente in procinto di essere concluso. Molti politici hanno esultato alla rielezione del presidente uscente, molti altri hanno (giustamente) motivato la scelta di rieleggere Mattarella come una sconfitta della politica italiana. Come giustamente nota il costituzionalista Gaetano Azzarriti sul Manifesto del 29 gennaio, con un semplice divieto di rielezione non staremmo parlando né dell’una, né dell’altra fazione. Fatto sta che l’incapacità del Parlamento di eleggere per due volte consecutive una figura

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di unità nazionale, è significativo del momento che stanno passando le democrazie occidentali. Come afferma lo stesso Azzarriti il parlamento oggi «non legifera, non controlla, non indirizza» e nemmeno elegge il Presidente della Repubblica. La assoluta preponderanza del potere esecutivo su quello legislativo è una tendenza che ormai pare inarrestabile nelle democrazie occidentali, ma il caso italiano rappresenta un esempio del tutto particolare di questo fenomeno. Negli altri paesi, infatti, il presidente del consiglio gode di una investitura democratica più o meno diretta – a seconda della forma di governo – mentre il caso italiano è noto per dare spesso spazio a persone in secondo piano nello scenario politico (nel caso dell’ex premier conte, addirittura sconosciuto an-

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Il Presidente della Camera Roberto Fico, Il rieletto Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati

che agli addetti ai lavori), oppure di figure istituzionali e tecniche (Ciampi, Dini, Monti, Draghi). Questa incapacità di produrre una classe dirigente adeguata ai problemi del paese e a dare un minimo di continuità istituzionale. E l’ultima elezione del capo dello stato si è inserita in questo contesto già molto critico. Oltre all’incapacità di trovare l’accordo su una figura comune, la prova della crisi della nostra politica è data dal fatto che la persona più vicina per giorni a essere eletta è stata la donna al vertice dei servizi segreti Elisabetta Belloni: una figura totalmente esterna alla politica e per di più inopportunamente avvicinata a una posizione di così alta visibilità mediatica. In questo corto circuito si inserisce quella che è la questione che unisce tutti i problemi finora discussi: l’incredibile disgusto per tutto ciò che concerne “la politica come professione”. Parlare di classe dirigente e politicizzare le questioni cruciali del nostro tempo sembrano diventate delle pratiche “pro casta”, che non hanno a cuore il vero interesse del popolo. L’insistenza su concetti generici e immensamente spoliticizzati (“popolo”, “interesse del paese”, “interesse di tutti”) è ciò da cui una politica sana dovrebbe fuggire. Il valore delle democrazie occidentali

fino a tempi recenti è stato quello di saper valorizzare il conflitto e di sapere tessere le reti di una democrazia autenticamente sociale. Al governo di questa democrazia sociale era necessario costruire una classe politica che sapesse organizzare l’articolazione societaria degli interessi diversificati della società civile. Credo che, nolenti o volenti, il futuro del sistema politico passi da questa capacità di rimettere al centro il conflitto e la diversità di esigenze. In queste parole non c’è nostalgia per il periodo fordista e per il neocorporativismo insito in molte dinamiche dell’Etait providence della seconda metà del Novecento. Tuttavia, guardare al nostro passato e a come un sistema riusciva a tenere insieme dignità della politica, sicurezza sociale e continuità istituzionale, può essere un’indicazione per agire a livello di sistema-paese. Le considerazioni fin qui fatte si riferiscono al contesto italiano (in virtù delle sue sopracitate particolarità), ma anche a quello europeo. La tendenza alla depoliticizzazione di tempi fondamentali e alla mortificazione del professionismo della politica è presente in tutto l’Occidente. E ciò, a parere di chi scrive, rappresenta una delle maggiori problematiche per i nostri sistemi istituzionali.

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La prismatica gauche d’oltralpe di ri Fra ga i nces m co For

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ra i fitti meandri dell’immaginario contemporaneo rientra a pieno titolo l’elaborazione grafica che nel 1973 i Pink Floyd scelsero per presentare al mondo uno dei loro album più celebri, ossia The Dark Side of the Moon: su fondo nero, un raggio di luce che colpisce un prisma vitreo di forma triangolare scomponendosi in uno spettro di colori. Mutatis mutandis, nulla impedisce di scorgere in tale immagine una valida metafora della condizione in cui attualmente versa la sinistra francese. Prima di meglio sondare tale rappresentazione, però, urgono alcune premesse. Alle prossime elezioni presidenziali non manca molto: il 10 aprile si svolgerà il primo turno, mentre il 24 aprile avverrà il ballottaggio tra i due candidati più votati nella fase precedente. Stando ai sondaggi,

Il presidente Francese Emmanuel Macron

l’attuale presidente Emmanuel Macron (La République En Marche!) può essere considerato come il favorito tra i pretendenti alla carica, benché ancora non abbia ufficializzato la propria candidatura. Nonostante le dure dichiarazioni contro la schiera dei no-vax ne abbiano scalfito la popolarità, Macron pare capace di aggregare attorno alla propria figura il 25% dei consensi. Il corrente inquilino dell’Eliseo, eletto nel 2017, sembra il favorito per la vittoria anche in relazione allo scenario del ballottaggio. I maggiori contendenti di Macron, seppure non vi sia piena concordanza tra le cifre evidenziate dai sondaggi, non paiono essere più di tre. Marine Le Pen (Rassemblement national) e Valerie Pécresse (Libres!), rispettivamente legate alla destra nazionalista e al centro-destra di ascendenza repubblicana, si attestano entrambe al 1618% delle indicazioni di voto. Il più che discutibile Éric Zemmour (Reconquête), recentemente condannato da una corte parigina per istigazione all’odio, è associato invece al 13-15% delle preferenze. Anche Zemmour rientra nell’universo della destra francese: è il rappresentante delle frange più estreme di tale area politica, un controverso giornalista che ha più volte parlato della necessità di sopprimere qualsiasi forma di multiculturalismo e di apertura verso l’alterità. Dal sintetico quadro proposto emerge subitaneamente un dato: nessuno, tra i rivali di Macron, proviene dalla gauche d’oltralpe. Il rosso lume della sinistra francese, volendo tornare alla metafora espressa in precedenza, ha incontrato un prisma e si è scisso in un variegato plesso di raggi. Nessuno, tra i partiti derivanti da tale dispersione, è oggi in grado di superare i dieci punti percentuali: segno netto di una condizione oltremodo critica. Tra il 27 e il 30 gennaio, con lo scopo di ricondurre i raggi al di qua del prisma, si è tenuta una consultazione denominata primaire populaire: allestita da una compagine di cittadini e simpatizzanti, la stessa è riuscita a coinvolgere 392.738 persone, le quali hanno dovuto esprimere un giudizio intorno ai vari candidati della sinistra – in particolare, agli elettori è stata concessa la possibilità di attribuire le seguenti valutazioni ai candidati: “molto buono”, “buono”, “abbastanza buono”, “passabile”, “insufficiente”. Prima che la “primaria” si svolgesse, forti dichiarazioni di rigetto erano state pronunciate dai politici posti in competizione: anche la sindaca di Parigi Anne Hidalgo (Parti socialiste), pur avendola inizialmente sostenuta, era giunta infine

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Marine Le Pen

Christiane Taubira

al rifiuto della consultazione. L’unica figura a dimostrare entusiasmo nei confronti della tornata elettorale era stata quella di Christiane Taubira, ex ministro della Giustizia nel governo Hollande: candidatasi ufficialmente durante un comizio a Lione tenutosi il 15 gennaio, l’esponente della formazione socialista Walwari aveva vincolato la propria candidatura alla vittoria della “primaria”. Al termine delle operazioni di scrutinio dei voti, la stessa Taubira si è rivelata essere la prediletta dagli elettori. Dietro di lei Yannick Jadot (Group des Verts), ambientalista al quale i sondaggi associano il 7% delle preferenze, e il navigato Jean-Luc Mélenchon, fondatore de La France insoumise, formazione vicina alla sinistra radicale ed estrema. A seguire: Pierre Larrouturou, eurodeputato coinvolto nel movimento progressista Nouvelle Donne; la summenzionata Anne Hidalgo, la cui scarsa popolarità (35% delle intenzioni di voto) ha generato angosce tali da ipotizzare una sua sostituzione con Hollande; Charlotte Marchandise, esperta di questioni riguardanti il settore sanitario ai più pressoché ignota; Anna Agueb-Porterie, giovanissima attivista votata alla causa ambientale. A latere, benché non coinvolto nella consultazione, merita una menzione anche Fabien Roussel, esponente del Parti communiste français: i sondaggi non gli attribuiscono più del 2% delle preferenze. Com’era facilmente pronosticabile, l’esito della primaire populaire è stato respinto da tutti i candidati a eccezione della vincitrice. In seguito al proprio trionfo Taubira ha espresso il desiderio di risolvere il caotico quadro prodottosi in seno alla sinistra francese – «I nostri ideali sono comuni, assumono forme diverse. [...] Faccio un appello per l’unione e le rassemblement» –, ma le sue parole hanno innescato solamente salaci reazioni: Mélenchon, unico esponente della sinistra al quale i son-

daggi concedano una quota del 9-10% delle intenzioni di voto, l’ha liquidata come l’ennesima candidata rientrante nel macrocosmo della gauche. Al di qua del prisma, come unico lume, la sinistra francese conterebbe il 26% delle intenzioni di voto. Al di là del prisma, come disomogeneo turbinio di colori, la sinistra francese rischia di cadere definitivamente in una condizione di irrilevanza politica. Nel maggio del 2017, quando la Francia lo elesse presidente, Emmanuel Macron festeggiò sulle note dell’“Inno alla gioia” di Beethoven: da allora la sua vicinanza al consesso delle istituzioni europee non ha mai subito allarmanti scosse. In caso di rielezione, quindi, l’Unione non si ritroverebbe a fronteggiare uno scettico o, peggio ancora, un nemico. Tuttavia, che in un Paese dalla forte tradizione democratica come la Francia lo scenario politico sia giunto ad assistere alla marginalizzazione di una delle sue principali voci, cioè quella della sinistra, solleva alcuni timori. Sia perché qualsiasi dialettica democratica necessita di un confronto dal carattere pluralistico sia perché coloro che oggi rappresentano la destra francese, Le Pen e Zemmour in primis, sono limpidamente riconducibili a un plesso valoriale che ha ben poco da condividere con gli ideali propri dell’essenza europea. Quale il prisma che ha provocato lo stato di dispersione in cui vivacchia la gauche d’oltralpe? Questa è la domanda intorno alla quale dovrebbero concentrarsi i suoi maggiori esponenti. Nella speranza che un solido processo di ricostruzione, la cui ineluttabilità è stata posta definitivamente in luce dall’attuale corsa per la carica presidenziale, riconduca la sinistra francese a un ruolo primario rispetto al dibattito democratico. Soltanto se all’interno degli Stati dell’Unione si affermano i valori propri della civiltà europea è possibile immaginare un’Europa autenticamente fiorente.

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di L ea Dietzel

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Patrick Zaki: «Fatemi tornare a studiare» • Tempo di lettura: 5 minuti

al 7 febbraio 2020 Patrick Zaki, studente egiziano dell’Università di Bologna, si trovava nel carcere di Tora in Egitto per le accuse di sovversione, diffusione di notizie false e terrorismo. Il centro di detenzione di Tora è purtroppo conosciuto per le pessime condizioni di vita dei carcerati, le torture e gli abusi che vengono raccontati anche dagli stessi che li hanno subiti. Dal 2013 al 2020, sotto il regime di Al-Sisi, sono stati registrati più di 1050 casi di persone morte nelle prigioni egiziane per cure negate, torture, suicidi e pessime condizioni di detenzione. Con l’attuale regime è considerevolmente aumentato in carcere il numero di attivisti, giornalisti, avvocati, difensori dei diritti umani e tanti altri che, come Zaki, vengono considerati nemici del governo. L’incarcerazione arbitraria e le torture diventano non solo un modo spietato per punire i singoli, ma un messaggio di repressione del dissenso rivolto all’intero Paese. La vicenda di Zaki in Italia è stata seguita con molta partecipazione emotiva, non solo presso l’Università di Bologna, a partire dai suoi studenti, ma anche nell’intero Paese. Numerosi Comuni, tra cui Roma, Bologna, Firenze e Milano, hanno conferito la cittadinanza onoraria a Patrick, ribadendo che i diritti della persona e la libertà di pensiero critico sono elementi essenziali da difendere e riconoscere anche al di là dei nostri confini nazionali. La vicenda giudiziaria di Patrick ha avuto in Italia una risonanza straordinaria e ha colpito la sensibilità di molti che si sono sentiti in qualche modo vicini a lui. Potrebbero aver contribuito alcuni aspetti: essere uno studente Erasmus dell’Università di Bologna, appartenere alla minoranza cristiana copta, avere un nome simile ad un nome occidentale, il suo ruolo di attivista e difensore dei diritti umani e, in particolare, lgbt+. Tutti questi elementi potrebbero far riflettere sul modo in cui viene scelta e sostenuta una causa, il sentirsi in qualche modo “simili” a qualcuno gioca sicuramente un ruolo nel volerne difendere i diritti. Bisogna ricordare anche che l’arresto di Patrick Zaki è avvenuto in un momento in cui l’Italia era ancora scossa per l’omicidio di Giulio Regeni, lo studente e ricercatore italiano rapito, torturato e ucciso dai servizi segreti egiziani nel 2016. L’arresto di Patrick sembrava avere molti aspetti comuni col caso Regeni e faceva temere le terribili conseguenze della repressione da parte del regime egiziano, spietato nei confronti di giovani studenti,

ricercatori e attivisti, che considera i valori occidentali pericolosi per la sua sopravvivenza. La visibilità mediatica internazionale, specialmente nell’ultimo anno, può aver avuto un ruolo importante nell’evolversi dei fatti. Le iniziative sono state moltissime e la mobilitazione è arrivata da parte di artisti, musicisti, politici, attivisti, studenti e tanti altri. Ciò ha permesso di aprire in Italia un dibattito più esteso sul tema dei diritti umani e Patrick è diventato simbolo di tutti i prigionieri di coscienza detenuti ingiustamente in Egitto. Tra le varie forme di mobilitazione, diversi artisti si sono impegnati per fare in modo che la storia di Patrick venisse raccontata. In diverse città l’attivismo si è fatto attraverso l’arte figurativa: poster, disegni, illustrazioni e murales hanno raccontato, in modo diverso, l’ingiustizia, la sofferenza, il senso di responsabilità e la speranza. A Roma nel febbraio 2020, presso l’ambasciata egiziana, l’artista Laika ha affisso un poster che raffigurava Zaki e Regeni abbracciati, con Giulio che dice «Questa volta andrà tutto bene». Il poster è stato rimosso tre giorni dopo. Questo dicembre il poster è ricomparso modificato nello stesso punto, questa volta con Giulio che gli dice »Ci siamo quasi» e Patrick che risponde «Stringimi ancora». Sullo sfondo, la luce in fondo al tunnel e la parola araba “innocente”. L’artista e attivista Gianluca Costantini (in arte Channeldraw) ha usato invece i suoi disegni per colmare e ricordare l’assenza di Zaki. Il volto di Patrick avvolto dal filo spinato è comparso a Bologna come gigantografia

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in Piazza Maggiore e le sue sagome di cartone, oltre ad aver riempito ogni angolo dell’Università di Bologna, sono comparse in numerose biblioteche italiane, in aule studio, e teatri. Costantini ha fatto in modo che il suo disegno fosse usufruibile da chiunque volesse scaricarlo e utilizzarlo. “Devo dire che è stato emozionante vedere come questo ritratto è stato preso in mano da cittadini e cittadine di ogni età e tipologia, utilizzata per dire una cosa necessaria e urgente, liberatelo” e ha aggiunto “Sento che quel gesto semplice che faccio, arcaico, che è il disegnare, può dare il suo contributo alla vita di qualcuno che non conosco direttamente”. Sul fronte europeo, non sono stati fatti significativi passi avanti, anche se, come Presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli si era espresso più volte per la liberazione di Patrick Zaki e dei prigionieri di coscienza in Egitto. Il 7 luglio 2021 la community “Station to Station” ha consegnato nelle mani di Sassoli a Strasburgo le oltre 270 mila firme che chiedevano all’Italia di conferire a Patrick la cittadinanza italiana; ricordiamo le parole con cui David Sassoli le ha accolte: «La cittadinanza italiana si traduce anche nella cittadinanza europea, per cui il vostro gesto di consegnare la petizione al Parlamento Europeo ha un valore molto importante, non solo perché vogliamo essere vicini a questo ragazzo che sentiamo come uno dei nostri ma anche perché riconsegna all’Europa una forte carica di difesa dei valori fondamentali». Dopo quasi due anni di detenzione e di processi rinviati, l’8 dicembre 2021 Patrick Zaki è stato rilasciato. Le immagini diffuse poco dopo su Twitter, di Patrick che sorride abbracciato alla sorella, sono emozionanti. «Aspettavamo di vedere quell'abbraccio da ventidue mesi e quell'abbraccio arriva dall'Italia, da tutte le persone, tutti i gruppi e gli enti locali, l’università, i parlamentari che hanno fatto sì che quell'abbraccio arrivasse», ha dichiarato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. La sua libertà, seppur provvisoria e parziale (infatti Patrick rimane sotto processo), è stata vissuta da tutti come un momento pieno di gioia e di speranza. Vedere Patrick sorridere e fare il segno della vittoria nelle foto ha fatto intendere a molti la sua (per nulla scontata) capacità di resilienza e la sua immensa voglia di tornare a vivere e a fare quello che ama dopo ventidue mesi di detenzione. Il processo che ha seguito il rilascio si è tenuto l’1 febbraio e si è concluso con il rinvio dell’udienza al 6 aprile 2022. Zaki al momento, per l’accusa di diffusione di notizie false in merito ad un articolo del 2019 sulle discriminazioni in Egitto della minoranza cristiana, rischia una condanna di altri 5 anni di carcere in Egitto. Le accuse precedenti di istigazione al terrorismo, che gli avrebbero fatto rischiare 25 anni di reclusione, si sperano decadute e non sembra probabile che vengano riaperte. Tali accuse si basavano su dei presunti post su Facebook dichiarati falsi dalla difesa. La strada verso l’assoluzione sembra quindi ancora lunga e delicata. A febbraio è uscita la graphic novel Patrick Zaki, una storia egiziana (edito da Feltrinelli Comics), dise-

gnata da Gianluca Costantini e scritta da Laura Cappon, inviata Rai ed esperta di Medio Oriente. Alla presentazione del fumetto Patrick ha potuto presenziare via web e intervenire con parole di profondo ringraziamento: «Sono molto contento di essere nella mia città per questa presentazione. L’arte e la letteratura sono state molto importanti durante la prigionia. E il mio caso è la prova vivente di quanto siano state importanti per portarmi qui libero, anche se solo parzialmente. Grazie per il supporto degli ultimi due anni. Ho deciso di essere a Bologna perché per me significa tanto, è la città alla quale appartengo». Sicuramente Bologna e la sua Università sono state fondamentali nel supportare Patrick in questi mesi, la costante mobilitazione infatti non solo gli ha fatto sentire di non essere solo ma ha anche radicato in lui un toccante senso di appartenenza per la città. Il sindaco di Bologna Lepore ha dichiarato di essere emozionato e fiero di rappresentare la comunità di Bologna, che oggi più che mai è stata capace di gioire per un suo concittadino di un altro paese, rendendo così la città priva di confini. La partecipazione di Bologna e di tante altre città e cittadini italiani è stato un esempio di come la difesa dei diritti fondamentali possa e debba oltrepassare i nostri confini. Non solo molti hanno rivisto in Patrick un concittadino con cui condividevano valori fondamentali, per cui lui stesso lotta nel suo Paese, ma anche Zaki ha rivisto nell’Italia, e più in particolare in Bologna, un Paese e una città che hanno riconosciuto i suoi diritti e a cui sente di appartenere. L’origine di questo senso di appartenenza, non si limita infatti al trovarsi o al nascere in un certo luogo, ma si rifà a qualcosa di più, che riguarda il sentirsi protetti dal proprio ambiente e il sentire che c’è qualcuno che difenderà i nostri diritti fondamentali quando questi saranno violati o minacciati. Ci fa sentire europei non solo la condivisione di valori, ma anche la consapevolezza che l’Unione Europea è uno spazio in cui i nostri diritti vengono difesi. Affinché questo senso di appartenenza sia possibile, l’Europa deve dimostrare di essere pronta e unita di fronte alla violazione dei diritti di ogni singolo cittadino (naturale o acquisito). La comunità europea nasce per questo: «da noi ragazze e ragazzi possono viaggiare, studiare, amare senza costrizioni; nessun europeo può essere umiliato, emarginato per il proprio orientamento sessuale; nello spazio europeo, con modalità diverse, la protezione sociale è parte della nostra identità» (David Sassoli).

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L’importanza di credere nella scienza di hi Ma ddalena Marc

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erché credere ai vaccini? Perché assumere farmaci su farmaci prescritti dai medici? Perché credere sempre e comunque quando si sente la frase «è dimostrato da studi scientifici»? Prendiamola larga. Non esiste una sola scienza, quella che si fa in laboratorio con beute e sostanze tossiche. È definibile scienza tutto ciò poggia le sue fondamenta sul metodo scientifico. Questo è stato introdotto da Galileo Galilei nel XVII secolo e delinea una serie di fasi da attuare al fine di formulare una tesi definibile vera. Si parte dall’osservare con attenzione e curiosità una piccola parte di realtà, un fenomeno. Non essendo noi esseri umani onniscienti, sicuramente qualcosa sfuggirà alla nostra comprensione e quindi verrà naturale porci delle domande. Da queste si arriverà alla formulazione di un quesito e poi di una risposta, un’ipotesi, che soddisfi le nostre aspettative. Inizierà quindi la ricerca verso la verità. Si parte da una osservazione più mirata di quel piccolo frammento di realtà, in modo da raccogliere la maggiore quantità di dati necessaria a descrivere il fenomeno. Seguiranno una serie di esperimenti per capire come funziona questo. Basandoci sui dati raccolti saremo poi in grado di dire se la nostra ipotesi era errata oppure corretta. E

chiunque, in qualunque parte del mondo, mosso dalla nostra stessa curiosità verso il medesimo fenomeno deve giungere alla nostra precisa conclusione. Gli esperimenti che noi attuiamo devono essere riproducibili e portare sempre e comunque agli stessi identici risultati. Tuttavia, alle volte persone diverse giungono a risultati differenti. Questo accade o per un errore umano o per un errore degli strumenti utilizzati. Come si fa quindi a decretare chi ha ragione? Si continua a studiare il fenomeno, prendendolo magari da altri punti di vista o utilizzando diversi strumenti, fino a quando non si arriverà a un risultato accettato dalla maggior parte degli studiosi di quel fenomeno e, ancora più importante, a un risultato statisticamente rilevante. Credere a ciò che è dimostrato da studi basati sul metodo scientifico ci dà l’opportunità di accettare verità inconfutabili dalle conoscenze e competenze presenti in un determinato periodo storico.

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di to Gio vanni Piga

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Rubrica Erasmus: Nottingham (Regno Unito) • Tempo di lettura: 3 minuti

ai muoviti, siamo in ritardo!» Con queste parole mio padre mi sollecitava il 9 settembre 2019 a caricare la valigia da 20 kg, il trolley e lo zaino nel portabagagli della nostra autovettura, salire nel sedile posteriore destro, al fianco di mio fratello, per partire alla volta dell’aeroporto Antonio Canova di Treviso. L’Alfa Romeo bianca di mio padre sfrecciava per le statali e le provinciali, sull’asfalto di una giornata di fine estate, rovente a giudicare dal calore emesso in grado di sfocare la vista all’orizzonte. Ripensandoci ora mi sembra una follia, ma all’epoca ero molto spaventato. Non avevo mai trascorso un periodo così duraturo in un paese estero, neanche in compagnia, figuriamoci da solo. Probabilmente per quello mi ero preso tardi. Nonostante si trattasse di un’esperienza che assolutamente mi ero imposto di fare, il passare dal lato teorico al pratico, l’uscire dalla “comfort zone”, come sempre, non è mai scontato. Logicamente arrivammo in tempo e io quell’aereo diretto in Inghilterra, precisamente a Nottingham, lo presi, e per fortuna, sennò non sarei qui a scrivervi questo articolo per raccontarvi per quale motivo mi accodo anche io a quella fila infinita di ragazzi che continuano a definirla come «uno dei periodi più belli della loro vita» … per non essere più assolutistici.

Tuttavia, non fu tutto semplice e nel mio caso, come spesso le esperienze più belle sono, lo realizzai col tempo, arrivando a rimpiangerne la fine. Ecco, la fine, forse non l’inizio… La sera del mio arrivo nella patria di Robin Hood dovetti recarmi, come concordato precedentemente, nella sede dell’agenzia che gestiva il mio appartamento. Sceso dal taxi di fronte a quell’enorme portone di legno nero – sì, lo ricordo molto bene – non credo immaginiate il mio stupore nel realizzare che, nonostante avessi chiamato e avvertito nei giorni precedenti, gli uffici fossero completamente chiusi e nessuno si degnasse a rispondere alle mie chiamate. Erano circa le 18 di sera o 6 PM, come è meglio dire da quelle parti, e passarono molti altri minuti finché un uomo in completo elegante scese da una Mercedes grigia, si avvicinò e scusandosi, con un marcato accento britannico, disse che avevano capito male, non mi aspettavano quel pomeriggio e, solo per caso, passando davanti all’ufficio mi aveva notato. Non era finita qui: non appena giungemmo alla residenza, con la mia più assoluta incredulità, mi confessò che non trovava le chiavi della mia stanza, di passare la notte in un ex ripostiglio fornito provvisoriamente con un letto per la notte e che il giorno successivo sarebbero tornati a consegnarmi le chiavi della mia stanza. Insomma, «non proprio un buon inizio» come direbbe Alessandro Borghese, tuttavia se ve lo sottolineo non è assolutamente per scoraggiarvi o sconsigliarvelo, ma, al contrario, per dirvi che nonostante queste disavventure il mio Erasmus fu fantastico. Riflettendoci, forse proprio queste peripezie lo hanno reso così unico e personale per me. Dallo “shock” dell’arrivo, i mesi successivi furono assolutamente indimenticabili: sin dai primi giorni, l’organizzazione “International Nottingham City Life” programmò serate per i ragazzi in Erasmus, dove sin da subito legai con coetanei da tutta Europa e con cui condivisi lezioni, viaggi verso tutte le principali città inglesi e, ovviamente, anche molte bevute e serate in pubs/disco. I legami che si creano durante un’esperienza simile sono molto forti, tant’è che ancora oggi, COVID-19 permettendo, organizziamo reunions in varie città europee. E vi assicuro che, in quelle occasioni, mio padre non ha più avuto più alcuna necessità di spronarmi ad essere più celere.

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«[...] La grande posta in gioco non è un governo di sinistra o di destra in tale o tale paese. La posta è la rinascita della libera civiltà democratica europea che può avere luogo solo sulla base di una Europa unita.» Dal discorso tenuto da Altiero Spinelli al 1° Congresso UEF del 27 agosto 1947

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