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Universitari per la Federazione europea

Dopo le elezioni europee: stallo o rilancio?


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Il quadro dei prossimi cinque anni europei

Elezioni greche e cambi d’abito

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“Soli contro tutti”

Le elezioni in India: la vittoria di Modi e una lezione per l'Europa

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7 Take back control?

Rubrica Erasmus: Tartu (Estonia)

Stampato da

Per collaborare con noi, contattaci a: gfe.verona@gmail.com! Rivista degli Universitari per la Federazione europea Con il contributo dell’Università degli studi di Verona: Responsabile del gruppo studentesco: Marco Barbetta. Co-direttori: Salvatore Romano e Filippo Sartori. Collaboratori: Gianluca Bonato, Giovanni Coggi, Francesco Formigari, Andrea Golini, Maddalena Marchi, Filippo Pasquali, Alice Tommasi, Sergio Varesco, Alberto Viviani, Filippo Viviani, Sofia Viviani, Andrea Zanolli. Redazione: Via Poloni, 9 - 37122 Verona • Tel./Fax 045 8032194 • www.mfe.it • gfe.verona@gmail.com Progetto grafico: Bruno Marchese. Universitari per la Federazione europea

Articolor Verona Articolor Verona srl srl Via Olanda, 17 ComuniCazione GrafiCa 37135 Verona Via Olanda, 17 37057 Verona Tel. 045 584733 Tel. 045 584733 Fax 045 584524 articolor@articolor.it P.I.email: C.F. 04268270230 REA 406433

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di lli And rea Zano

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Editoriale: La necessità del Parlamento europeo

i analisi sui risultati delle scorse elezioni europee ce ne sono state a iosa. Quello che pare certo a tutti è che i veri vincitori a livello europeo sono l’affluenza, i Verdi e i Liberali. I partiti nazionalisti, invece, si ritrovano in netta minoranza, considerando che anche unendosi in un unico gruppo parlamentare anti-Unione raggiungerebbero solo il 18% dell’emiciclo. Accanto a ciò, siamo costretti a considerare la particolare situazione italiana. Consideriamo due fatti: l’affluenza è calata e le forze nazionaliste ed euroboh sono in costante crescita. E aggiungendo anche le nomine dei capi di governo per le principali cariche delle istituzioni europee, constatiamo che l’Italia è isolata e non conta nulla, perché in minoranza e perché i suoi governanti si divertono a vilipendere i propri colleghi europei. A circa un mese dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, i capi di governo si sono rinchiusi nelle loro stanze per proporre, in particolare, i nomi per la Presidenza della Commissione, la Presidenza del Consiglio Europeo, il ruolo di Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza e la Presidenza della Banca Centrale Europea. Ore di colloqui e poi sono usciti i nomi. Ursula von der Leyen alla Commissione, Charles Michel al Consiglio Europeo, Joseph Borrell come Alto rappresentante e Christine Lagarde alla BCE. Concentriamoci soprattutto sul ruolo che per la prossima riflessione ritengo più rilevante: Ursula von der Leyen, attuale Ministro della difesa tedesco. Calpestati e, forse, dimenticati gli Spitzenkandidaten, ora von der Leyen si presenterà davanti al Parlamento Europeo e necessiterà del voto maggioritario della rinnovata aula per diventare a tutti gli effetti la prima donna alla guida della Commissione (ndr: articolo chiuso prima del voto di fiducia del Parlamento europeo). Accadrà o non accadrà? Von der Leyen propone un programma rivolto al federalismo o allo status quo? Questioni interessanti che meritano di essere approfondite, ma non qui e ora. Qui e ora contano maggiormente il metodo e le istituzioni. Cosa sceglierà di fare il Parlamento Europeo? Accetterà inerte la proposta dei capi di governo, oppure deciderà di fare valere il voto dei propri cittadini reclamando la propria voce nella questione? Mi spingo

a sostenere che la scelta fra le due alternative sia di esistenziale rilevanza per il futuro dell’Unione Europea. Davanti alla nomina del prossimo Presidente della Commissione, il Parlamento troverà sulla propria strada un bivio decisivo almeno per i prossimi cinque anni. Cosa sceglieranno di fare i grandi gruppi partitici europei, che nelle persone dei propri capi di governo nazionali hanno trovato un grosso accordo intergovernativo? Nel caso in cui il Parlamento si piegasse alle decisioni del Consiglio Europeo, i parlamentari europei abdicherebbero parte del proprio ruolo, rischiando di aumentare ulteriormente la sfiducia degli europei nei confronti delle istituzioni comunitarie. Non solo. Una legislatura che cominciasse con un tale atto marcherebbe indelebilmente la minima ambizione del Parlamento, consegnando di fatto le chiavi della legislazione europea dei prossimi cinque anni ai governi nazionali e al metodo intergovernativo. A maggior ragione dopo che nel 2014 si seguì il metodo degli Spitzenkandidaten, tramite il quale si elesse come Presidente della Commissione il candidato dei Popolari, primi nelle urne. Inoltre, un Parlamento Europeo che reclami il proprio diritto democratico a farsi coinvolgere nelle negoziazioni potrebbe dare all’aula una forza straordinaria. Quella forza indispensabile per spingere verso le riforme dei trattati necessarie all’Unione Europea. Quelle riforme che tutti i partiti hanno ostentato nel corso delle campagne elettorali, in cui lo slogan comune a tutti era “Questa Europa va cambiata”. È giunto il momento di farlo e non si può con un Parlamento relegato a un ruolo di secondo piano. Ma se la posizione assunta dai parlamentari nei confronti del Consiglio Europeo sulle nomine delle istituzioni europee fosse di arretramento, allora il Parlamento non avrebbe alcun peso politico per proporre riforme ambiziose del malfunzionante status quo. In un’istituzione come l’Unione Europea, in cui la trasparenza e la vicinanza ai cittadini sono richiestissime, il Parlamento non può concedere alcun passo indietro a vantaggio dei governi nazionali. Il Parlamento deve reclamare il proprio ruolo di perno della democrazia europea, cerando di minare le basi del metodo intergovernativo e non acconsentendone le decisioni. Come fa da quando è stato istituito.

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di S ofia Viviani

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Il quadro dei prossimi cinque anni europei

l 26 maggio i cittadini europei sono andati alle urne per decidere i nuovi europarlamentari, in carica fino al 2024. Il Parlamento Europeo è composto da 751 deputati, ogni stato membro ha la possibilità di eleggerne una parte in proporzione alla popolazione; all'Italia spettano 73 seggi, con la possibilità di arrivare a 76, se l'uscita della Gran Bretagna diventerà effettiva durante il corso della legislatura. I parlamentari europei sono poi divisi a Strasburgo per appartenenza politica in gruppi: nella scorsa legislatura, il Partito Popolare Europeo, il gruppo dell'Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici, il gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei, il gruppo dell'Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l'Europa, il gruppo Europa delle Nazioni e della Libertà, Il gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta, il gruppo dei Verdi - Alleanza Libera Europea, Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica e il gruppo dei non iscritti. L'elettore al seggio doveva però porre la croce non sui simboli dei gruppi appena citati, ma su

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quelli dei partiti nazionali, i quali a loro volta confluiscono negli eurogruppi scelti di appartenenza. Nel 2019 le elezioni democratiche europee hanno compiuto quarant'anni, le prime infatti risalgono al 1979, quando i paesi membri della Comunità europea erano solamente nove. Oggi invece hanno votato 28 paesi, ognuno con il sistema elettorale scelto; per quanto riguarda l'Italia il sistema impiegato è di tipo proporzionale, regolato dalla legge italiana del 1979, modificata nel 2009 per la soglia di sbarramento posta al 4%, e successivamente nel 2014 per i voti di preferenza. Il territorio italiano è diviso in cinque circoscrizioni plurinominali (Italia nord-occidentale, Italia nord-orientale, Italia centrale, Italia meridionale e Italia insulare), a ognuna delle quali è assegnato un numero variabile di seggi, in proporzione alla popolazione. La legge prevede quindi la possibilità di esprimere il voto di preferenza. Infatti ogni elettore può indicare fino a tre candidati della lista circoscrizionale votata. Per rafforzare la rappresentanza di genere, la seconda e la ter-

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za preferenza sono annullate qualora l'elettore indichi tre candidati dello stesso sesso. Le elezioni del 2019 hanno subito registrato un dato positivo: l'affluenza nell'Europa a 28 è stata in crescita, al 50,95% (nel 2014 era del 42,61%). I risultati italiani hanno visto vincente la Lega di Matteo Salvini con il 34,26% di voti, seguito dal Partito Democratico di Nicola Zingaretti con il 22,74% e dal Movimento 5 Stelle di Luigi Di Maio con il 17,06%. Date queste percentuali si può subito notare come l'Italia sia contro tendenza in Europa. Il nostro primo partito nazionale è la Lega, la quale fa parte, all’interno del Parlamento europeo, e del nuovo gruppo Identità e Democrazia (erede dell’Alleanza Europea dei Popoli e delle Nazioni), insieme, fra gli altri, al Rassemblement National di Marine Le Pen; il gruppo però nel nuovo Parlamento possiede 73 seggi su 751, pari al 9,72%. In Italia l’attenzione è catturata dal risultato nazionale, ma se come ha detto Matteo Salvini le elezioni europee erano un referendum sull’Unione, allora a livello europeo è chiaro che ha vinto l’Europa. Questo 9,72% dimostra chiaramente che i nazionalisti non sfondano, al contempo sappiamo con certezza che ci sarà una ampia maggioranza europeista: Popolari e Socialisti da soli non hanno più la maggioranza, ma restano il primo e secondo gruppo con 179 e 150 seggi rispettivamente. A livello europeo i nazionalisti complessivamente

I leader nazionalisti dei principali Paesi europei sul palco di Milano del 18 maggio 2019 salgono di 18 seggi, le principali forze tradizionali, Popolari e Socialisti, ne perdono 71, ma Verdi e Liberali, che si sono invece caratterizzati per un messaggio fortemente europeista, aumentano di 56. In sostanza lo spostamento complessivo rispetto alla legislatura precedente è minimo: le forze europeiste perdono 15 seggi e quelle nazionaliste ne guadagnano 18. Ma le prime mantengono insieme una maggioranza di quasi 2/3 e i nazionalisti non arrivano al 20% dei seggi. In Italia la percezione è opposta perché il successo delle forze nazionaliste è evidente, ma la loro forza nazionale non comporterà una rilevanza europea. Lungi dal rafforzare la capacità di influenza dell’Italia in Europa, rischia invece di accentuare l’attuale isolamento del governo italiano. L’ennesimo paradosso dei nazionalisti, che chiedono il voto per difendere gli interessi nazionali, ma sono nella peggior posizione per farlo. Il futuro dell'Unione per adesso non sembra destinato necessariamente a una ricaduta nazionalista, ma dipenderà tutto dalle forze europeiste, che negli ultimi anni hanno aperto le porte al nazionalismo, restando immobili e non dando risposte efficaci ai cittadini europei sui grandi temi dell'ambiente, della politica estera, della finanza, dell'immigrazione e non solo.

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“Soli contro tutti” di Andr Golini ea

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ono in macchina fermo ad un semaforo. È rosso e mentre aspetto mi supera un motorino. Sul casco del guidatore c'è una scritta: “soli contro tutti”. A parte lo sfondo della scritta con i colori palesemente dell’Hellas, quella scritta mi ha ricordato lo spirito di molti italiani. Come possiamo essere da soli contro tutti? In Europa ci siamo, ne facciamo parte ma ci sentiamo isolati. Da soli in un continente in cui viaggiano merci e persone “straniere” continuamente pensiamo di non avere le cose sotto controllo. Giusto, il “controllo”. La maggioranza degli europei ha espresso il consenso per proseguire il cammino comunitario ma in alcuni paesi, come l’Italia, la sensazione sembra quella di essere sempre più isolati. Una cosa che vorrei capire è se qualcuno ci abbia isolato o se ci siamo isolati da soli. Nel mondo c'è ancora spazio. Ma per chi è più pigro e non si vuole “muovere” la soluzione è stare fermi e allontanare chi si avvicina e cercare di risolvere i problemi da soli. Soli contro tutti. Quando le cose sono complicate si cerca di andare “contro” di esse per eliminarle alla svelta. Via, cacciamo i problemi. Chi è con me è nel giusto: siamo contro tutti gli altri. E per darci forza ci uniamo. Una fantastica con-

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traddizione. Si investe su identità sempre più piccole a discapito di una più grande. Paesi che si uniscono cercando di puntare sulla loro identità per dividere l’identità comune, quella europea. Aiuta moltissimo l’informazione. Sto seguendo il torneo di Wimbledon (tennis), un giorno sono in Italia e le notizie riguardano i tennisti italiani, peccato per Fognini, eliminato, che spera che scoppi una bomba nel campo per far saltare in aria quei maledetti inglesi. Il giorno dopo sono in Spagna e le notizie riguardano i tennisti spagnoli. In fondo che me ne frega del tennista kazako anche se è più bravo del mio connazionale. Si punta al ribasso. E quindi va bene, accettiamo miseramente questo fatto. Cerchiamo ragionando da italiani di capire la convenienza o meno di vivere nella comunità europea. Ci serve riottenere il controllo? O ci serve contare qualcosa? Queste bellissime micro-identità, questi gruppi di “soli contro tutti” come pensano di convivere? Non lo pensano. Ma per fortuna c'è chi lo pensa. Come te caro lettore, non penserai mica che si possa vivere e lasciare vivere senza un minimo di organizzazione della convivenza? E non c'è convivenza con i conflitti. Non si può convivere con chi vuole essere “contro” qualcuno. Allora cosa fare? Fare quello che incredibilmente fanno loro: unendosi. Io ho grandi aspettative per questa nuova Commissione europea. Mi aspetto che Ursula Von der Leyen promuova quello che più serve per la convivenza europea: uno stato federale. Bisogna dirlo. Voglio che i giornali parlino della possibilità di spingersi oltre le nazioni attuali. Dobbiamo dire che l'Italia va ascoltata in Europa, deve contare come parte di essa e non come straniera. Ma non dobbiamo essere contro qualcuno. Collaborare è l'unico modo che abbiamo per affrontare tematiche comuni. Una persona che pensa di risolvere un problema comune da solo lo potrà fare solo se eliminerà tutti gli altri. Solo se ci eliminerà. L'uomo ci proverà, di nuovo.

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Take back control? di o Sal vatore Roman

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a data fissata era il ventinove marzo scorso. Brexit avrebbe dovuto essere già un ricordo, storia passata. Gli europei avrebbero già digerito il boccone amaro, lasciando l’isola andare alla deriva sicura della sua splendid isolation. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, un po’ per tutti. La premier Theresa May il ventinove marzo di due anni fa, invocando l’art.50 del Trattato di Lisbona, preparava l’uscita del suo Paese dall’Unione europea. Due anni di trattative. Due anni di colloqui con Bruxelles, con il caponegoziatore dell’Ue per la Brexit, Michel Barnier, due anni spesi a serrare le fila del partito conservatore, a cercare di esserne leader e non capro espiatorio di quei fuoriusciti che la incolpavano di un accordo non vantaggioso per il Regno Unito, quelli che adesso, dopo le sue dimissioni, ne rivendicano la poltrona. Boris Johnson per esempio, ex ministro degli Esteri del gabinetto May, promotore della campagna “take back control” nell’estate del 2016 e mandante di quel suicidio politico in cui la Brexit si sta trasformando. Due anni rivelatisi infruttuosi fino adesso. Alla fine dei quali la Brexit rimane ancora un titolo da prima pagina per i quotidiani della stampa internazionale, ma niente più di questo. Lo slogan con cui i leavers accompagnano la rivendicazione della propria autonomia dal continente europeo, delle mai sopite ambizioni imperiali. Un titolo onorifico, “brexiters”, ma che piomba sul capo del Regno Unito come una corona di spine. “Take back control”, dunque. Una versione più edulcorata di “prima gli italiani” e “America first”? O forse gli inglesi, come molti popoli europei e non, si sono riscoperti nazionalisti? Se così fosse, sarebbe un tradimento delle proprie origini, perché, come scrive il sociologo Krishan Kumar sul mensile Limes ne “Lo strano caso dell’imperialismo britannico e del nazionalismo inglese”, gli inglesi sono sempre stati un popolo imperiale, non hanno mai percepito se stessi come una nazione. Citando il poema satirico di Daniel Defoe, “Il vero inglese”, ricorda che lo scrittore sentenziava: «un vero inglese è una contraddizione [...] una metafora usata per descrivere un uomo assimilabile all’intero universo». Ma l’immagine che gli inglesi restituiscono ai popoli europei dopo la consultazione referendaria del 2016 è proprio in contraddizione con la loro storia, anche

se per il momento è quella che ha prevalso. Così come nell’opinione pubblica l’espressione “Brexit” si è imposta con autorevolezza. Un’affermazione però non sostenuta da fatti che raccontano un’altra storia. Infatti Brexit, continua ancora Krishan Kumar, «lascia intendere che siano la Gran Bretagna e i britannici che vogliono abbandonare l’Unione europea, Boris Johnson mentre in realtà sono soprattutto gli inglesi e l’Inghilterra a voler uscire dall’Ue». Se si guarda ai risultati, si scopre che scozzesi e nordirlandesi hanno votato per il cosiddetto “remain”, la permanenza del Regno Unito nell’Ue, con percentuali rispettivamente del 62 e 55,78 per cento. La conseguente vittoria del “leave” ha, da una parte, provocato la reazione di Edimburgo di voler indire un altro referendum, dopo quello del 2014, sull’indipendenza dal Regno Unito, e, dall’altra, ha involontariamente riacceso la questione nordirlandese. L’uscita del Regno Unito dall’Ue si porterebbe dietro la comparsa di un limes tra la Repubblica d’Irlanda (Paese membro dell’Ue) e l’Irlanda del Nord, attraverso cui i beni, le merci e le persone non potranno più circolare liberamente, come fanno dagli accordi del Venerdì Santo del 1998, ma si troverebbero sottoposti ai controlli di frontiera come succede con i Paesi non facenti parte dell’Ue. Per scongiurare questa ipotesi, ed evitare che un hard border possa essere la miccia per un’altra guerra civile, un’altra stagione infausta, come quella causata dai troubles degli anni Sessanta, May aveva trovato un accordo con Bruxelles. Veniva garantita la permanenza del Regno Unito nell’unione doganale, e per l’Irlanda del Nord veniva assicurata la permanenza anche nel mercato unico. A queste condizioni sarebbe dovuta avvenire la Brexit il ventinove marzo scorso, se la Camera dei Comuni avesse dato il via libera. Ma questo non è accaduto. Poco dopo Theresa May si è dimessa dal suo ruolo di primo ministro. Per ora il Paese è ancora fuori controllo.

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Elezioni greche e cambi d’abito di ri Fra ga i nces co Form

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Articolo già pubblicato sul blog Eurovicenza.eu

unedì 8 luglio il giuramento, in linea con le coordinate rientranti nell’identità del suo partito: Kyriakos Mitsotakis, leader della forza di centro-destra Nea Dimokratia, ha scelto di includere nella cerimonia che lo ha ufficialmente reso il nuovo primo ministro della Repubblica Ellenica non soltanto la firma dei documenti con il presidente Paulopoulos, ma anche il rituale facente riferimento al capo della Chiesa ortodossa Ieronimos II, che il predecessore di Mitsotakis – ossia Tsipras, il leader del partito di sinistra Syriza – preferì invece rifiutare. Il trionfo ottenuto dal discendente di una delle più influenti famiglie del panorama politico greco, verificatosi in corrispondenza delle elezioni di domenica 7 luglio, ha condotto il medesimo a una posizione nettamente favorevole: grazie al 39,85% dei voti e a un premio di cinquanta seggi previsto dalla legge greca, Mitsotakis e la sua fazione potranno governare con la maggioranza assoluta all’interno della Boulé, ossia il parlamento monocamerale proprio dell’ordinamento greco. Il diretto avversario di Mitsotakis, cioè Tsipras, è stato sconfitto, ma non in maniera umiliante: Syriza, infatti, ha riscosso il 31,5% dei voti, percentuale che assicurerà alla fazione più rilevante della sinistra greca la possibilità di operare una consistente opposizione nei confronti di Nea Dimokratia. Accanto a Syriza, in funzione contraria ai conservatori di Mitso-

Il premier neoeletto, Kyriakos Mitsotakis, e l'uscente Alexis Tsipras

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takis, si schiereranno anche KINAL, coalizione di centro-sinistra che ha raggiunto l’8,1% dei consensi, i comunisti del KKE e MeRA25, il partito dell’ex ministro dell’Economia Yanis Varoufakis, che si separò da Syriza quando Tsipras decise, contrariamente a quanto dichiarato durante la propria campagna elettorale, di accogliere le gravose richieste avanzate dall’UE. La nuova configurazione del parlamento greco ospiterà anche alcuni esponenti di Soluzione Greca, fazione legata alla destra nazionalista che è riuscita a superare la soglia di sbarramento. Dalla Boulé sono stati esclusi, invece, gli esponenti di Alba Dorata, il partito neofascista che durante le ultime tornate elettorali aveva registrato un allarmante incremento dei propri consensi: secondo i commentatori, il fatto che la polarizzazione dello scontro politico relativo alle elezioni del 7 luglio abbia individuato i propri estremi nella sinistra di Tsipras e in Nea Demokratia ha neutralizzato il mordente dei partiti accostabili alle frange più pericolose dello scacchiere. Al di là delle considerazioni inerenti alla nuova conformazione del parlamento, il lato più singolare delle elezioni appena giunte a conclusione è il seguente: come emerge dal profilo che dei due principali avversari hanno tracciato le maggiori testate, la sconfitta di Tsipras e la vittoria di Mitsotakis sembrano il frutto di un curioso cambio d’abiti. Come se, sulla scena costituita dall’agone politico ellenico, i due attori protagonisti avessero scelto di mutare i propri panni e di interpretare personaggi ben diversi da quelli che rappresentavano anni fa, all’altezza delle elezioni del 2015. Si è così verificato un incrocio di destini tanto bizzarro quanto epocale. Da un lato, il premier uscente. Alexis Tsipras, classe 1974, leader del partito che nel 2015, opponendosi con forza dirompente e un linguaggio nuovo agli instabili governi che negli anni precedenti avevano trascinato la Grecia verso un abissale tracollo, promise ai cittadini ellenici tanti cambiamenti e, soprattutto, una ferma resistenza ai diktat di matrice sovranazionale. Tsipras e il suo schieramento vinsero così le elezioni, ma negli anni seguenti – anche a costo di perdere alcuni dei più noti esponenti del proprio governo, come il già citato Varoufakis – decisero di assecondare svariate procedure finalizzate al salvatag-

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gio dal debito, le quali imposero alla Repubblica Ellenica un rigoroso, nonché mal sopportato, regime di austerità. Nonostante i risultati effettivamente conquistati da tali scelte – tra i vari, la Grecia è rimasta nell’Eurozona, dall’anno scorso non è più sotto tutela ed è riuscita a riattivare la propria crescita economica –, il governo Tsipras si è gradualmente procurato l’antipatia della classe media, è stato accusato di disonestà e ha subito un grave smacco quando ha deciso di gestire la questione legata al nome della Macedonia in maniera opposta rispetto alla preferenza della maggioranza della popolazione o quando non sono parse efficaci le misure prese per contrastare i tragici incendi dello scorso anno nella zona di Rafina. Dall’altro lato, il premier neoeletto. Kyriakos Mitsotakis, classe 1968, prestigiosi studi a Stanford e ad Harvard, carriera negli ambienti dell’alta finanza internazionale, membro di una delle più blasonate famiglie della recente storia greca: i Mitsotakis-Bakoyannis, che annoverano al proprio interno tre primi ministri, diversi ministri, parlamentari e governatori regionali. Mitsotakis assistette alla vittoria di Syriza dalla peggiore delle prospettive: la posizione delle fazioni sconfitte dall’ascesa di Tsipras perché accusate di aver causato il debito greco e di essere le responsabili delle rigide misure di austerità alle quali la Grecia era

quindi stata costretta. La campagna che ha permesso a Mitsotakis di ottenere la clamorosa rivincita del 7 luglio ha inglobato al proprio interno alcuni degli elementi più tipici del centro-destra conservatore e anche qualche elemento vagamente innovativo: una ricetta economica liberista volta a concedere più respiro all’economia greca, un deciso taglio alle tasse finalizzato a favorire diversi settori dell’economia (in testa l’impresa), l’intenzione di ridefinire la posizione della Grecia negli ambienti internazionali, il favore della Borsa, una certa attenzione rivolta ai giovani che hanno abbandonato la Grecia e un atteggiamento che molti giornali hanno definito come quello di un “riformatore moderato”. Una sorta di torbido, complesso ed enigmatico chiasmo retto da un intreccio cronologicamente ingarbugliato. I più pessimisti (forse i più realisti?) sostengono che Mitsotakis, come Tsipras, poco potrà fare rispetto alle stringenti corde che oggi avvolgono ancora l’impianto della Repubblica Ellenica. La domanda da porsi, allora, è una: Mitsotakis riuscirà a realizzare le proprie promesse o tra qualche anno, costretto all’ennesimo cambio d’abito, finirà a sua volta per interpretare il ruolo dello sconfitto, come se la recente storia politica della Grecia nient’altro fosse che una tragedia?

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di gi Gio vanni Cog

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Le elezioni in India: la vittoria di Modi e una lezione per l'Europa

o scorso 19 maggio si sono concluse le elezioni generali in India, che hanno visto la schiacciante vittoria del Partito del Popolo Indiano del primo ministro uscente Narendra Modi. Della tornata elettorale della più grande democrazia del mondo se ne è parlato molto poco sui giornali italiani, appiattiti come sempre su tematiche strettamente nazionali. Al contrario la politica indiana andrebbe molto approfondita, essendo l'India uno straordinario e (quasi) unico esempio di stato post-coloniale novecentesco che è riuscito ad attuare la transizione verso una (seppur imperfetta) forma di democrazia. Come detto prima, di queste elezioni se ne è parlato poco e anche nelle poche notizie relative all'India si è incorsi nel classico errore degli analisti politici occidentali: analizzare la situazione politica di un paese non occidentale con categorie concettuali proprie solo dell'Occidente, per l'appunto. Se è vero che una direttrice molto importante, se non fondamentale, del conflitto politico europeo è la dicotomia destra-sinistra, o quella nazionalisti-internazionalisti (diremmo noi, federalisti), ciò non può essere del tutto esatto per quanto riguarda paesi al di fuori della cultura occidentale. Dipinto dai giornali europei e nordamericani come xenofobo e nazionalista hindu, Modi in realtà ha significato

Narendra Modi, Primo ministro dell'India e Rahul Gandhi, Presidente dell’Inc (Indian National Congress)

per tanti indiani un segno di cambiamento. Infatti il neo Primo ministro, più che come integralista hindu, si è posto come oppositore dei privilegi. Nell'implementare le sue politiche pubbliche non ha fatto distinzioni fra etnie e religioni; per questo, alle elezioni è stato premiato in modo trasversale rispetto alle divisioni etniche dell'elettorato indiano. Dunque una nuova frattura che va oltre le differenze ideologiche, ossia quella popolo-élite. Il popolo era Modi e l'élite era Rahul Gandhi (del partito di centrosinistra del Congresso Nazionale Indiano). Una divisione che va oltre le divisioni ideologiche, oltre il problema religioso o etnico. Al di là dell'effettiva peculiarità della politica indiana (e asiatica in generale), l'analisi di culture e pratiche politiche differenti da quelle europee e occidentali è fondamentale nell'ottica di una più efficiente governance dei problemi più rilevanti dell'agenda politica internazionale - dal tema ambientale, a quello del commercio internazionale, fino al problema migratorio - e anche nell'analisi di ciò che sta succedendo in Europa. Riguardo a quest'ultimo punto, è da sottolineare come i partiti sovranisti euroscettici abbiano fatto leva proprio sulla divisione che è stata fondamentale nelle elezioni indiane: quella, appunto, tra popolo ed élite. Il problema diffuso, quindi, è quello della vicinanza delle istituzioni ai cittadini e la capacità della politica di ascoltare e risolvere i loro problemi. Questa divisione - dimostrandosi applicabile in diversi contesti - è stata fondamentale nell'ascesa di Trump, nell'esperienza di Putin in Russia, nella politica latino-americana, e ora è una direttrice forte della politica europea. Il tema è quindi opporre a quella che è a tutti gli effetti una "malattia" della politica contemporanea non un ritorno al passato, ma uno slancio verso il progresso e la gestione condivisa dei problemi. Proprio in questo senso, almeno in Europa, la riforma delle istituzioni dell'UE in senso democratico e federale darebbe una risposta alle esigenze dei cittadini e attenuerebbe, appunto, la frattura tra popolo ed élite.

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Rubrica Erasmus: Tartu (Estonia) di Filip ali po Pasqu

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he immagino non accenda alcuna lampadina. Per intenderci, paese grande il doppio del Veneto, affacciato sul freddo Baltico. Popolazione poca e sparsa. Orsi parecchi. Luce molto poca, foreste. Insomma, un mix terrificante per tutti gli appassionati della sangria. Eppure a me la Spagna non piace, perciò, ignorando le quaranta mete disponibili della penisola iberica, mi sono fiondato sull’unico posto in lista di questo paese un po’ più remoto. In realtà la prima scelta era l’Olanda, ma questo è un altro discorso. La penisola scandinava invece ha prezzi da capogiro, via. Venendo al dunque, Tartu. Un tempo Dorpat, fondata da Cavalieri Teutonici, poi città anseatica, sempre mantenendo un carattere molto tedesco. Pure l’università – oggi la più grande e prestigiosa di tutti i baltici – nata per concessione svedese nel XVII sec. Mantenne sempre corsi in tedesco. Una caratteristica comune di tutto il paese, che ha poco da spartire con il suo ingombrante vicino – la Russia – e un’identità unica al mondo preservata nei secoli, di origine ugrofinnica come i ‘cugini’ finlandesi. Niente male per un paese che al mio arrivo in autunno spegneva le candeline del suo centenario. Dormitorio Erasmus? Bellissimo, moderno, pieno di confort. Costicchia, adocchio un casermone sovietico costruito sul modello ‘alveare’, prezzo nullo. Spaziale, lo prendo. Stupefacente pure la burocrazia: una firma iniziale all’ufficio comunale e poi tutto via internet, quanto mi è stata cara l’e-stonia. Invece l’università dicevo, fu la seconda della Svezia, contagiata da influenze nordiche, indigene, tedesche e poi russe. È sorprendente infatti l’aria internazionale che si respira. Studenti provenienti da ogni parte del mondo, non solo europei. La città stessa era a misura di studente: considerato che un abitante su quattro non era altri che un

iscritto all’università. Locali, eventi, feste, cinema. Una frenesia inimmaginabile a priori per un posto del genere, che mi trascinò in una media di cinque ore giornaliere di sonno. Grazie al weekend. All’inizio – chi lo nega mente sapendo di mentire – lo spaesamento è garantito. Tutti i riferimenti persi, 2000 chilometri di lontananza da casa, due ore di bus dall’aeroporto durante la notte e per giunta in mezzo ai boschi. Tuttavia, è un sentimento che dura pochissimo: il tempo che l’euforia della nuova routine si imponga come tabella di marcia, che m’ha permesso di entrare in contatto con molte culture e stringere amicizie con ragazzi e ragazze di tutte le nazionalità. Molti stereotipi sono saltati devo ammettere, come sui tedeschi: i migliori di spirito e in amicizia. La narrazione nazionalpopolare ci ha abituato ad una ‘Crucchia’ arcigna, fredda e meccanica. Nulla di tutto ciò. E così allo stesso modo con russi, polacchi, ungheresi, turchi, portoghesi – mitici loro! Il mio coinquilino, uno studente egiziano. I vicini giordani, francesi, spagnoli. Era sì una bolla, ma di quelle dove ci si lascia il cuore, dove non importa chi tu sia e da dove provenga, perché tutte queste persone meravigliose sono unite dalla bellezza dello studiare insieme.

Luglio 2019•Universitari per la Federazione europea

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«[...] La grande posta in gioco non è un governo di sinistra o di destra in tale o tale paese. La posta è la rinascita della libera civiltà democratica europea che può avere luogo solo sulla base di una Europa unita.» Dal discorso tenuto da Altiero Spinelli al 1° Congresso UEF del 27 agosto 1947

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