Universitari per la Federazione europea
Europa oltre i muri
Som m a r i o
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Ursula accerchiata
Imbarazzo europeo: l’Unione degli interessi nazionali volta le spalle al popolo curdo
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Estremo Vicino Oriente
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12/13 Giro a la izquierda in America latina
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Cosa sta succedendo a Hong Kong
Tear down this wall!
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Trump, simulacro d’un tempo di fumo Stampato da
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Rubrica Erasmus: Würzburg (Germania) Per collaborare con noi, contattaci a: gfe.verona@gmail.com! Rivista degli Universitari per la Federazione europea Con il contributo dell’Università degli studi di Verona: Responsabile del gruppo studentesco: Maddalena Marchi. Co-direttori: Maddalena Marchi, Salvatore Romano. Collaboratori: Gianluca Bonato, Giovanni Coggi, Riccardo Dal Ben, Francesco Formigari, Andrea Golini, Filippo Pasquali, Filippo Sartori, Nicola Tenuti, Alice Tommasi, Sergio Varesco, Alberto Viviani, Filippo Viviani, Sofia Viviani, Andrea Zanolli. Redazione: Via Poloni, 9 - 37122 Verona • Tel./Fax 045 8032194 • www.mfe.it • gfe.verona@gmail.com Progetto grafico: Bruno Marchese. Universitari per la Federazione europea
Articolor Verona Articolor Verona srl srl Via Olanda, 17 ComuniCazione GrafiCa 37135 Verona Via Olanda, 17 37057 Verona Tel. 045 584733 Tel. 045 584733 Fax 045 584524 articolor@articolor.it P.I.email: C.F. 04268270230 REA 406433
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Universitari per la Federazione europea•Novembre 2019
di Andr Golini ea
A
Editoriale: Una nuova Commissione europea
utunno inoltrato e il forte caldo degli eventi politici estivi si trasforma in tepore. Una nuova Commissione europea sta per prendere l’eredità di Jean Claude Junker, gli Stati nell’Unione europea designano gli ultimi commissari, promossi dal Parlamento europeo come Paolo Gentiloni all’Economia, e bocciati come Sylvie Goulard, proposta dal Presidente francese. Il Parlamento europeo, unica istituzione che rappresenta direttamente i cittadini europei, approva i commissari solo dopo il Trattato di Maastricht del 1992, prima il Parlamento taceva. Per i prossimi cinque anni avremo un’UE che «seguirà la via europea» come dichiarato dalla neoeletta Ursula Von der Leyen a Presidente della Commissione europea. Il Parlamento elegge il presidente della commissione solo dopo il Trattato di Lisbona del 2009, prima il Parlamento taceva. Ora che tutto sembra formarsi seguendo il tepore dobbiamo solo continuare ad osservare al riparo, mantenendo la solita calma europea, e aspettare che le promesse, molto generiche e poco discusse dai media nazionali, vengano mantenute o smentite. Si parlerà di un “green deal europeo” per l’ambiente e vedremo con quale spinta verrà trattato questo tema da parte del futuro commissario Frans Timmermans. Si parlerà di nuovi interventi per la difesa europea per colmare un vuoto di competenze per la gestione dei flussi migratori, sperando che non ci sia davvero l’intenzione di “difendere lo stile di vita europeo”. Si parlerà della Nuova via della seta promossa da un gigante politico come la Cina ma che
potrebbe coinvolgere fino a 70 paesi molto più piccoli e fragili, incapaci di negoziare equamente con lo Stato per ora più popoloso al mondo, proprio mentre le rivolte ad Hong Kong mettono in luce il regime cinese antidemocratico. Soprattutto fuori dall’UE le istituzioni del mondo sembrano allontanarsi dal sentimento democratico capace di dare pensiero e parola a tutti i cittadini: in Venezuela la crisi economica e politica persiste; in Russia gli oppositori politici continuano ad essere censurati; negli Stati Uniti la posizione del Presidente si fa sempre più lontana da quella degli americani; in Siria gli scontri vanno avanti e la Turchia è pronta ad eliminare i vicini curdi; in Brasile si continua a disboscare l’Amazzonia anche se dovrebbe essere ritenuta un patrimonio dell’umanità e non un patrimonio brasiliano; in molti paesi dell’Africa la corruzione che vincola le competenze a poche persone non permette la crescita democratica e sociale. Circondata da questi fenomeni, l’Europa si trova in una situazione un po’ diversa: il continente europeo è in una fase di auto-identificazione e appare evidente che sia in cerca di una nuova struttura organizzativa per poter parlare con la proporzionata voce europea. È un momento in cui l’Unione europea sta prendendo atto che non le basta più essere “unita” nel nome. L’Europa di fronte ai fenomeni antidemocratici sarà chiamata ad agire. Nei fatti l’Europa dovrà decidere e per farlo dovrà essere organizzata. Per esserlo non c’è altra soluzione che il superamento dell’attuale Unione europea con la creazione di uno Stato politico europeo. Vedremo se noi europei faremo qualcosa.
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Ursula accerchiata di Filip ali po Pasqu
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utti quegli auspici che la nuova Commissione poteva portare stanno cadendo come birilli. Nata tra molte turbolenze sin dal principio, sembra già aver perso la sua forza propulsiva ancora prima di insidiarsi. Sempre che ce ne sia mai stata. La presidente Ursula von der Leyen arrivò a Bruxelles con le credenziali di una fedelissima di Angela Merkel, ma circondata dai dubbi di chi l’ha già vista traballante come ministra della Difesa. Le cronache recenti dai corrispondenti la descrivono già come isolata, incapace di dare una sterzata al corso degli eventi che stanno spazzando via ogni ventata riformatrice. Si vede poco in giro, parla anche meno, vive chiusa nel palazzo Berlaymont sopra il suo ufficio. A luglio in seguito alla contestata nomina calata dall’alto da parte del Consiglio Europeo – Ursula non era candidata a nulla – si presentò al Parlamento Europeo con un discorso molto apprezzato, auspicando un rinnovato slancio europeista: difesa unica, riforma dei trattati, European Green Deal e una Commissione composta per la metà da donne. Ciononostante, passò per un soffio, con molte diserzioni tra i Socialisti, Liberali e tutti i Verdi. Da lì in poi sempre più buio: ha subito una Commissione imposta tout court dai paesi membri, formata con una lentezza impressionante quasi a certificare lo stato di confusione. Ha rimosso il potente Direttore Generale di Junker – il tedesco Martin Selmayr – senza però averlo ancora sostituito. Alla stessa maniera il suo staff mancava ancora di figure chiave a pochi giorni dalla supposta data di insediamento, il 1° novembre. Nel mezzo, una sequenza di scivoloni: dal Commissario per la “European Way of Life”, chiaro ammiccamento alla destra nazionalista e tradizionalista, il siluramento di ben tre Commissari da parte del Parlamento senza che von der Leyen si fosse mossa per sostenerli attraverso le forche caudine. In nessuna di queste occasioni si è mai esposta personalmente per difendere le proprie scelte, esponendo il fianco alle voci che la danno già debole e bloccata. Addirittura la sua Commissaria più importante ed allo stesso tempo più europeista – la francese Sylvie Goulard – è stata bocciata dal parlamento scatenando le ire del suo supporter Macron, dando agito alla stampa che il mandato della tedesca fosse già
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al capolinea. Nemmeno in quell’occasione ha preso contromisure, certificando il sospetto di essere in balia della sua litigiosa maggioranza e senza alleati. Infatti, mentre il predecessore Junker poteva contare sull’amicizia con il socialista Schulz e il supporto del liberale Verhofstadt, Ursula deve invece convivere con il risentimento del socialista Timmermans e la divisione dei Popolari di Weber. Poco apprezzata anche dai liberali di Renew Europe scossi da Macron, mentre i Verdi si sono già chiamati fuori nonostante le sue promesse. Proprio il suo programma ambientalista, ovvero un ambizioso piano da 1 triliardo di euro da investire in 10 anni per la conversione green, viene già dato morto schiacciato dall’opposizione dei paesi dell’Est, non ancora pronti alla transizione. Eredita inoltre la patata bollente del problema immigratorio, dove perfino lo spirito d’iniziativa è tornato prerogativa degli stati nazionali. Molto impalpabile pure sulla Brexit: non una linea guida, nemmeno un commento nonostante le riunioni quasi settimanali con il negoziatore Michel Barnier. La preoccupazione è che questo metodo ‘sommergibile’ sia il preludio di un mandato à la Barroso, dove la linea viene decisa a Parigi o Berlino senza appelli. Tuttavia, va detto che non tutto è immobile: Ursula infatti si premura di non mancare un incontro al Club d’equitazione del Parlamento Europeo.
Universitari per la Federazione europea•Novembre 2019
Estremo Vicino Oriente di o Sal vatore Roman
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on lo si chiami più Estremo, sarebbe anacronistico. Ormai è quanto di più vicino ci sia agli occidentali oggi. La vecchia toponomastica non serve più, anche il solo nome Oriente sarebbe un imbroglio. Lo si dimentichi, si cambino i manuali di geografia, si aggiornino le mappe e, in attesa delle nuove definizioni, ci si accontenti di una mimica muta. Il dualismo noi-loro, Occidente-Oriente, non esiste più. Persi i valori di riferimento, le identità sono solo vuote etichette. I Paesi e i cittadini europei lo hanno dimostrato in queste settimane con l’indifferenza per le sorti del popolo curdo. Occidente non dice nulla di più di Oriente, o di diverso. Come dopo un big bang, il mondo sembra costretto tutto in un solo punto, i suoi abitanti più vicini di quanto vogliano ammettere. “Tutto in un punto” era il titolo di un racconto delle Cosmicomiche di Calvino, in cui Qfwfq raccontava l’universo prima dell’esplosione da cui la sua storia ha avuto inizio; e forse, dopo tanti secoli, dopo quello che è stato definito “un cambiamento d’epoca, più che un’epoca di cambiamenti”, in un punto ci si è ridotti senza alcun progetto per il futuro, o ricordo del passato. La Cina ha realizzato quella fantasia con mezzi concreti. Un piano di investimenti in infrastrutture materiali e digitali per costringere il mondo in unica rete di connessione. La Bri, Belt and road initiative, più comunemente nota come “Nuova via della seta”, nata nel 2013 sotto l’egida del presidente Xi Jinping, si è già affermata in Africa. Sessanta miliardi di dollari per la costruzione di strade, ferrovie, aeroporti e porti. Ma il Dragone è penetrato anche in Europa. Il ciclo di incontri che il presidente della Repubblica popolare, hanno avuto nell’ultimo anno con i leader di mezza Europa la dice lunga sull’importanza strategica che il Vecchio Continente riveste agli occhi della Cina. Nel luglio 2018 il vertice Cina-Ue, poi la visita di Li Keqiang in Bulgaria, Germania, Olanda e Belgio. A novembre,
Xi JInping visita Portogallo e Spagna, e a marzo di quest’anno la visita in Italia culminata nella firma da parte di Conte del memorandum d’intesa sulla Belt and road initiative. Successo importante dal punto di vista simbolico per Xi Jinping che ha ottenuto, per la prima volta, l’adesione al progetto di un governo di un paese del G7. Scelta quella italiana che ha fatto storcere il naso a Francia e Germania, per la mancata volontà di concordare una strategia comune ed affrontare insieme lo strapotere economico della Cina. L’intenzione dell’Italia e degli altri ventidue governi dell’Europa, di cui sedici dell’Unione europea, che hanno firmato il memorandum, è quello di accaparrarsi una fetta importante di investimenti per rilanciare un’economia stagnante. E a finire sotto l’ala del Dragone sono infatti i Paesi che crescono poco, e che vedono con favore l’arrivo di capitali esteri. Il vertice tra Repubblica popolare e Paesi dell’Europa centrorientale dell’aprile scorso, tenutosi in Croazia, ha aggiunto alla lista dei debitori della Cina anche la Grecia. Se Xi Jinping stia seguendo o meno la logica del “divide et impera”, si scoprirà presto, così come se dietro l’onda gigante degli investimenti non si nasconda invece uno tsunami, quello dell’influenza politica.
Novembre 2019•Universitari per la Federazione europea
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Cosa sta succedendo a Hong Kong di n Ric cardo Dal Be
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Articolo pubblicato su Eurovicenza.eu
da alcuni mesi ormai che Hong Kong e la Cina sono sui radar di tutto l’occidente per via di alcune violente proteste che stanno scuotendo la penisola dal marzo scorso. Sulla natura e il perché di queste rivolte urge fare un po’ di chiarezza data la molteplicità delle voci in campo e la complessità del background culturale che lega Hong Kong alla Cina continentale. L’esistenza e lo stile di vita di Hong Kong si basa sul principio “Una Cina, due sistemi”; Hong Kong, sebbene sia di fatto parte del territorio cinese, vanta di un’autonomia e una libertà “d‘ispirazione occidentale”; con un sistema economico fortemente capitalista, si tratta infatti di una regione amministrativa speciale. Hong Kong è stata una colonia britannica sino al 1997, quando venne ceduta alla Repubblica Popolare Cinese a patto che la penisola conservasse la sua legislazione e un alto grado di autonomia per almeno 50 anni. È infatti dal 2047 che
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Hong Kong verrà annessa alla Cina. La volontà cinese di annettere Hong Kong integralmente al continente non è certo un mistero. Già nel 2014 aveva provato a pilotare le successive elezioni locali del 2017 cercando di imporre candidati fedeli al partito comunista cinese, scatenando la rivolta della popolazione che prenderà il nome di “Rivoluzione degli ombrelli”. L’ingerenza cinese a Hong Kong è ripresa all’inizio dell’anno quando il governo centrale ha approvato una legge grazie alla quale qualsiasi decisione presa dal governo centrale sarebbe stata immediatamente recepita da quello hongkonghese e viceversa, fatto che però non ha provocato una forte reazione fra la popolazione. Ciò che invece ha scatenato le rivolte nel marzo scorso è stata la proposta di un disegno di legge riguardante l’estradizione di latitanti verso paesi dove non vi sono precedenti accordi in merito. Il processo di definitiva annessione di Hong Kong alla Cina continentale è molto complicato e di importanza fondamentale in ottica internazionale e la Cina ha enormi interessi perché ciò avvenga nel modo più indolore possibile, cercando di evitare in tutti i modi che le potenze internazionali interferiscano con esso o che sostengano i manifestanti. Oltre ai celebri casi di censura in cui sono state coinvolte la compagnia videoludica Blizzard e l’associazione sportiva NBA, che hanno enormi interessi economici in Cina, il governo cinese e quello hongkonghese durante le scorse settimane si sono anche adoperati per pubblicare nei maggiori quotidiani occidentali intere pagine in cui viene descritta la situazione e si invitano i lettori a non giudicare gli ultimi avvenimenti senza conoscere la particolarità della situazione culturale caratterizzante Hong Kong (in Italia il 3 Ottobre è stata pubblicata un’inserzione pubblicitaria in merito ne Il Sole 24 ore). La volontà dei manifestanti di mantenere lo status quo può essere un grosso problema per le autorità cinesi che si sono trovate in grande difficoltà a contrastarli, ma quasi sicuramente non riusciranno a fermare un processo che sembra inevitabile in quanto la classe dirigente hongkonghese è già largamente vicina al governo continentale senza contare che ormai la spinta espansionistica cinese è avviata ed è pressoché impensabile un suo sostanziale rallentamento.
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Trump, simulacro d’un tempo di fumo di ri Fra ga i nces co Form
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futuro certo che il presidente Donald Trump non ricorderà la giornata del 31 ottobre 2019 con piacere: nella data coincidente con la festività tutta statunitense legata alla paura, infatti, Trump è stato costretto a ricevere ciò che la giornalista de La Repubblica Anna Lombardi ha definito eloquentemente come una “mela stregata”. Fuor di metafora, l’oggetto in discussione è costituito dalla risoluzione attinente alla procedura di impeachment che proprio il 31 ottobre la Camera del Congresso ha ufficialmente approvato con larga maggioranza – ossia 231 voti a favore contro 194 a sfavore. La risoluzione, che ha consegnato il nome di Trump all’ignominiosa lista dei presidenti sottoposti alla procedura di impeachment (oltre al summenzionato, si ricordino Johnson nel 1868, Nixon nel 1974 e Clinton nel 1998), segna un momento decisamente rilevante rispetto all’iter che nel più clamoroso e sconvolgente dei casi comporterebbe la destituzione di Trump dalla carica. L’importanza del documento di otto pagine i cui contenuti sono stati concordati dal House Rules Committee (che è composto da nove democratici e quattro repubblicani) alberga in un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, è opportuno evidenziare che la funzione della risoluzione risiede nel garantire la trasparenza delle indagini relative all’Ucrainagate, delle quali si stanno occupando sei commissioni parlamentari, e nel disciplinare le regole legate al procedimento che coinvolgerà la figura di Trump. Il testo, ad summam, è volto ad assicurare ciò che secondo il diritto costituzionale statunitense, come spiegato dal professor William Banks alla CNN, si configura come un “due process” caratterizzato da “fair procedures”. Per questo motivo, dunque, la risoluzione contiene anche delle regole riguardanti i diritti spettanti alla difesa di Trump: i legali del presidente potranno presenziare alle venture audizioni, chiedere mandati per altri testimoni, e raccogliere altra documentazione. Non soltanto diritti, però: nella risoluzione, infatti, è precisato che se il presidente si rifiuterà ingiustamente di cooperare alle richieste avanzate dal Congresso il diritto di partecipazione esteso all’amministrazione Trump sarà sottoposto al vaglio del Committee Chairman. In secondo luogo, la rilevanza legata alla risolu-
zione in esame è sorretta dal fatto che l’approvazione della stessa ha determinato l’avvio della seconda fase della procedura di impeachment: dopo le audizioni a porte chiuse nell’aula-bunker di Capitol Hill svoltesi nelle ultime settimane, grazie alla risoluzione cominceranno le audizioni pubbliche al termine delle quali la Commissione di Intelligence stenderà un rapporto sul quale si pronuncerà la Commissione di Giustizia. Da tale commissione, infine, dipenderà l’apertura del processo al Senato che potrebbe causare la caduta di Trump – ipotesi, quest’ultima, che secondo alcuni commentatori dev’essere considerata come poco probabile: al Senato, infatti, la maggioranza è attualmente tra le mani dei repubblicani. L’accoglienza riservata all’approvazione della risoluzione, com’era lecito aspettarsi, è stata segnata da ampie divisioni e aspre polemiche: non casualmente, il giornalista di ABC News Teddy Moran ha parlato di «solid and unmoving battle lines». I democratici, tra i quali ultimamente si respira un clima di vivace speranza, hanno accolto tale approvazione con entusiasmo: d’altronde, secondo un sondaggio diffuso dalla stessa ABC News e dal Washington Post, il 49% degli americani sarebbe favorevole al processo di impeachment contro Trump. La democratica Nancy Pelosi, in una puntata del late-show di Stephen Colbert diffuso dalla CBS, ha difeso la legittimità della risoluzione sostenendo che «it gave them (ossia ai repubblicani, ndr) more rights than we ever received in any of the other impeachment proceedings.» Limitatamente alla figura di Nancy Pelosi, è bene ricor-
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dare che proprio la stessa, in qualità di speaker della Camera, il 24 settembre ha annunciato l’inizio di una “formal impeachment inquiry” ai danni di Trump accusando il presidente di un triplice tradimento: del suo giuramento d’ufficio, della sicurezza nazionale, e della integrità delle elezioni statunitensi del 2016. Sempre Nancy Pelosi, esprimendosi però intorno alle votazioni concernenti la risoluzione, ha parlato dell’importanza di difendere la Costituzione americana e ha spiegato il cuore del processo di impeachment dichiarando: «This – that is what this vote is about. It is about the truth.» Parole che, allargando per qualche istante la prospettiva del discorso, hanno toccato con pieno nitore il tema della verità, il quale si pone ormai da tempo come uno dei temi più significativi rispetto alla presidenza di Donald Trump: allo stesso si tornerà più avanti. La reazione manifestatasi tra i repubblicani individua il suo più nitido emblema nell’esito delle votazioni svoltesi il 31 ottobre: in tale occasione i repubblicani hanno difeso con la compattezza di una falange oplitica la figura del presidente. Nelle ultime settimane, poi, alcuni esponenti del partito repubblicano hanno tentato di ostacolare le audizioni dei testimoni presentandosi nell’aula di Capitol Hill con intenti ostruzionistico-intimidatori, mentre qualcuno tra i più ferventi praticanti del culto trumpiano è giunto persino ad avallare pubblicamente le dubbie dichiarazioni di Trump. Allo stesso Trump si deve guardare se si intendono focalizzare le maggiori manovre compiute in opposizione ai democratici. Prima che si giungesse all’approvazione della risoluzione, la difesa di Trump dalle accuse di “abuse of power” era basata sulla cruda e brutale negazione dei fatti attestati dalle audizioni e su manovre quali il rifiuto a cooperare con le indagini esternato dalla Casa Bianca. Dopo la consegna della “mela stregata”, la linea sostenuta dal presidente e dalla sua amministrazione si è evoluta. È bene ricordare, però, che l’evoluzione in questione è
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stata accompagnata anche dal rilascio di alcune dichiarazioni, come sempre, furenti: su Twitter – che è uno dei suoi strumenti di lavoro prediletti – Trump ha definito la procedura di impeachment una caccia alle streghe e ha agitato lo spauracchio economico scrivendo che «the impeachment hoax is hurting our stock market»; l’addetta stampa della Casa Bianca Stephanie Grisham, invece, ha bollato come “unconstitutional” la risoluzione. L’evoluzione propriamente tale della difesa di Trump, ad ogni modo, si è sviluppata in relazione alla necessità di coniugare il contrasto alle accuse con la promozione della figura dello stesso presidente, essendo sempre più vicina la scadenza del mandato e sempre più vivo lo scontro legato alle presidenziali del prossimo anno. Secondo quanto riportato dalla CNN, l’amministrazione Trump ha optato per un “audacious re-election pitch” finalizzato a presentare lo stesso Trump come un «tough guy president beset by corrupt elites and boosting the US abroad» avente uno dei propri “talking points” più efficaci nell’economia: dunque, una manipolazione della realtà tesa (ancora una volta) a raccontare Trump come se quest’ultimo fosse il muscoloso e invincibile salvatore degli interessi nazionali. Nella direzione evidenziata procede chiaramente lo spot elettorale pro Trump andato in onda per la prima volta durante una partita delle World Series 2019: in tale spot una voce stentorea annuncia roboante che «he’s no Mr. Nice Guy (il “lui” in questione è Trump, ndr) but sometimes it takes a Donald Trump to change Washington». Allo sforzo in esame ha partecipato via Twitter anche la discussa figlia del presidente Ivanka Trump, che si è schierata a difesa del padre citando Thomas Jefferson e cercando di alimentare la narrazione volta a ritrarre Trump secondo il topos della vittima di bugiardi e di attacchi infondati. In sintesi, si può sostenere che la risposta di Trump alle accuse e alle necessità di campagna elettorale è stata finora rappresentata dalla creazione di una tanto
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paradossale quanto normalizzante “alternative reality” – ecco tornare il tema della verità di cui prima. Pervenuti a questo punto, è inevitabile specificare che un elemento dalla capitale importanza ancora non è stato esaminato: si tratta della causa che ha permesso ai democratici di avviare delle audizioni a porte chiuse prima e di giungere a una risoluzione legata al procedimento di impeachment poi. Illustrare tale causa postula la formulazione di una premessa: tra i più temibili avversari di Donald Trump attualmente è possibile annoverare Joe Biden, democratico già vice-presidente durante l’era Obama. Ebbene: secondo una narrazione tanto popolare tra i repubblicani quanto infondata, Joe Biden avrebbe protetto con indebite ingerenze il figlio Hunter da alcune inchieste anti-corruzione ai tempi in cui quest’ultimo lavorava per una compagnia energetica ucraina chiamata Burisma. Ora, così com’è stata ricostruita dalle audizioni degli stessi testimoni, comincia la realtà: convinto di poterne trarre dei vantaggi politici, tra l’aprile e il maggio 2019 Trump ha esercitato delle pressioni sul governo ucraino affinché quest’ultimo avviasse una scomoda inchiesta intorno ai Biden. Tali pressioni sono culminate con la scandalosa chiamata del 25 luglio 2019 tra Trump e il presidente ucraino Volodimir Zelensky, i cui contenuti sono stati resi accessibili dalle parole dei testimoni e poi pubblicate dai maggiori media. Se Zelensky non avesse avviato l’inchiesta contro i Biden, Trump non avrebbe permesso allo stesso Zelensky di far visita alla Casa Bianca e avrebbe sospeso – come poi è effettivamente accaduto – gli aiuti militari statunitensi all’Ucraina, tuttora in guerra con la Russia. Secondo il The Guardian, tali aiuti sarebbero ammontati a 391 milioni di dollari. La rete di pressioni menzionata è stata orchestrata da Trump attraverso diverse figure: in primo luogo, l’avvocato del presidente Rudy Giuliani; con lo stesso, poi, hanno collaborato l’ex ministro dell’Energia Rick Perry, l’ambasciatore statunitense presso l’UE Gordon Sondland, l’inviato speciale in Ucraina Kurk Volker e da parte ucraina il consigliere di Zelensky, ossia Andriy Yermak. Secondo Il Post, per meglio perseguire il proprio obiettivo Trump avrebbe abusato del suo potere anche nei confronti di Marie Yovanovitch, ambasciatrice statunitense in Ucraina rimossa dall’incarico proprio a maggio a causa dell’ostilità palesata dalla stessa e segnalata a Trump da personaggi come Giuliani. Come evidenziato nelle righe precedenti, l’intera trama della torbida vicenda è stata rivelata gradualmente dai testimoni coinvolti nelle audizioni. Il 12 agosto 2019 un informatore anonimo ha denunciato all’ispettore generale dell’Intelligence il contenuto della chiamata Trump-Zelensky risalente al 25 luglio, avviando così il caso che in seguito è stato ribattezzato dalla stampa “Ucrainagate” e l’iter che nel mese di ottobre ha convocato a Capitol Hill diversi testimoni illustri. Volker ha testimoniato il 4 ottobre, mentre il 14 ottobre è stato il turno di Fiona Hill: quest’ultima,
senior director per l’Europa e la Russia nel Consiglio di Sicurezza Nazionale, durante la propria audizione ha parlato di «shadow foreign policy in Ukraine». Il 17 ottobre è stato ascoltato Sondland, che ha rilasciato un’ambigua testimonianza: secondo il medesimo, che ha poi corretto le proprie dichiarazioni, non si sarebbe verificato alcun qui pro quo tra Stati Uniti e Ucraina. Il 22 e il 29 ottobre hanno deposto rispettivamente William Taylor, career ambassador a capo dell’ambasciata situata a Kiev, e il colonnello Alexander Vindman: entrambi hanno manifestato dubbi e timori rispetto alle scelte di Trump, Taylor parlando di una «irregular, informal policy» tra i due Paesi e Vindman dell’orientamento personalistico delle mosse presidenziali. Tra i testimoni non ancora pronunciatisi un ruolo di notevole importanza è attribuito dai commentatori a John Bolton, ex consigliere per la Sicurezza Nazionale licenziatosi il 10 settembre in seguito a delle presunte divergenze riguardanti l’affaire ucraino: Bolton ha dichiarato che comparirà soltanto se obbligato da un mandato. Nonostante tutto e tutti, dopo l’approvazione della risoluzione sulla quale si è concentrata la parte iniziale di questo testo Trump, incrollabile, ha dichiarato alla britannica LBC Radio che la chiamata con Zelensky è stata una «perfect phone call» e che i democratici «have got nothing going». In tali parole è possibile scorgere nuovamente il tema della verità sottolineato in precedenza. Da quando il suo mandato è iniziato, Trump è stato il protagonista indiscutibile e oltremodo discusso di numerosi scandali: è sufficiente pensare agli indecenti episodi relativi alla pornostar Stormy Daniels e alla playmate Karen McDougal, oppure alla losca faccenda riguardante i rapporti con la Russia che è stata oggetto della temuta, ma poi non così esplosiva, inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller. Sempre al di là di tutto, Trump ha continuato e continua tuttora a vivere ritraendo sé stesso in maniera grottescamente irrealistica: di tale narrazione non cessano di nutrirsi i suoi sostenitori, ciechi servi di una retorica fatta d’invenzione assoluta. Trump, allora, non corrisponde soltanto alle fiamme paventate da Tom Cole, deputato conservatore dell’Oklahoma che si espresse in maniera critica nei confronti di Trump ai tempi del Russiagate. Trump è anche fumo: in tempo di liquide fake news che si spargono a macchia d’olio e verità atomisticamente post-moderne, il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti si erge a simulacro del fumo che ottenebra gli sguardi e le menti generando mostri. A ben pensarci, lo stesso Trump sembra un mostro: uno di quei mostri in completo che spesso figurano, patinati, in un’opera brillante e arcinota quale “Il processo” di Kafka. Forse il 2020 segnerà la sua caduta. Se così accadrà, questo simulacro d’un tempo di fumo non dovrà essere dimenticato. Come un monito la sua immagine dovrà sedimentarsi tra le coscienze – critiche e libere, si spera – delle generazioni future.
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di ri Filip po Sarto
Imbarazzo europeo: l’Unione degli interessi nazionali volta le spalle al popolo curdo
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a quando la crisi curda è iniziata, gli occhi di tutto il mondo si sono rivolti verso l’Unione Europea: gli USA avevano appena annunciato il ritiro delle loro forze dal confine nord della Siria, sancendo quindi l’abbandono del sostegno ai combattenti curdi e, di fatto, girando le spalle a ciò che sarebbe successo di conseguenza. Naturalmente, quindi, quando il presidente-dittatore turco Recep Tayyip Erdogan ha deciso di inviare le truppe oltre il confine, per dare la caccia ai combattenti curdi, tutti si sono affidati all’Unione Europea in cerca di una presa di posizione dura, attiva nei confronti della Turchia. Questo perché? I combattenti curdi si sono schierati in prima linea nella guerra al sedicente “Stato islamico” (Isis), sacrificandosi in una lotta al terrorismo
che ha ricevuto elogi profusi dai rappresentati dei vari Paesi europei. La reazione, riassumibile nelle conclusioni del Consiglio europeo del 14 ottobre scorso, è l’ennesimo proclama privo di significato, parole vuote di condanna alle quali non è riuscita a seguire una decisione unanime neppure nello stop (di facciata) alla vendita di armi alla Turchia. Questo provvedimento, adottato da alcuni Paesi in maniera autonoma, ha molto di “pubblicitario”, ma gran poco di effettivo e concreto, considerando che i contratti in essere non vengono toccati e che l’interruzione riguarda solo il momento attuale di tensione. L’ennesima crisi internazionale pone l’Europa di fronte alle sue mille contraddizioni: culturalmente (auto)destinata a guidare il pianeta intero, si ritrova schiava delle singole posizioni ma, ancor peggio, della dura e cruda politica della convenienza. In un continente dove i movimenti di estrema destra spopolano e sfruttano un pericoloso vento, i rappresentanti di tutti gli schieramenti si trovano nell’imbarazzo di dover gestire la questione migratoria senza però poter perdere troppi voti. E in questa questione, la Turchia rappresenta una potenziale bomba per l’UE: 4 milioni di profughi, quasi tutti provenienti da paesi dilaniati da conflitti e dunque possibili beneficiari dello status di rifugiato, vengono trattenuti entro i confini turchi, concedendo di fatto ad Erdogan la possibilità di effettuare qualsiasi sospensione della democrazia a suo piacimento, di invadere un Paese limitrofo e sterminare un popolo che, a sentire le dichiarazioni di qualche anno fa, sacrificava la vita per difendere valori comuni a tutti. La situazione, nel frattempo, ha raggiunto il culmine con i bombardamenti effettuati dalle forze armate turche e l’accusa di utilizzo di armi chimiche sulla popolazione civile. Solo l’intervento della Russia sembra aver posto qualche incertezza al dittatore turco, che nonostante il cessate fuoco non smette di chiedere la testa dei comandanti curdi. Ancora una volta, sono Russia e Stati Uniti, nel bene e nel male, ad avere l’influenza necessaria per alterare gli equilibri internazionali – ovviamente secondo le convenienze dell’uno o dell’altro. L’Unione resta ostaggio dei singoli membri, soffo-
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cata dall’incapacità di adottare una strategia a lungo termine di sostegno agli Stati di partenza dei migranti, in imbarazzo nella gestione di disperati già presenti sul territorio – a Lesbo e nel Mediterraneo, sono i volontari e le Ong a salvare quel che resta della reputazione del Vecchio continente –, tenuta in ostaggio dal Regno Unito nella questione Brexit, teatrino che si prolunga oramai da tre anni e che ha ampiamente superato il limite della decenza, scadendo nel tragicomico. Lo scenario politico nel nostro Continente preoccupa chi spera che, in un prossimo futuro, un’Unione forte possa intervenire nello scenario mondiale: la destra nazionalista spopola in molti Paesi, soprattutto nel blocco est e nei Paesi di confine, dove l’incapacità di gestire i flussi migratori ha creato malcontenti nella popolazione; la cosiddetta “spinta verde” rappresenta un fenomeno degno di nota soprattutto in Germania e Francia ma, in generale, i Verdi si mostrano in grado di smuovere le coscienze solamente sulle tematiche ambientali – importanti –, balbettando sulle altre questioni (anche qui, unica eccezione sono forse i Verdi tedeschi). E la sinistra europea? Da sempre dichiaratasi portatrice di una nuova idea di Europa, è incapace di esprimere una posizione su una crisi umanitaria e di democrazia di tale portata, incapace di raggruppare persone e organizzarsi, incapace di proporre quell’idea di Europa che millanta di avere, ma che in concreto nessuno sa come intenda realizzare. Oggi la sinistra si aggrappa alla figura di Greta Thunberg, cercando di cavalcare la piazza che manifesta contro il cambiamento climatico, per nascondere l’inconsistenza che la paralizza sulle tematiche storiche: diritti, lavoro, democrazia e, a suo dire, europeismo. Gli ideali di alcuni si scontrano dunque con la dura realtà: ancora una volta l’Europa si dimostra inadeguata ai suoi tempi, un’accozzaglia di Stati che finge di riconoscersi sotto la bandiera a 12 stelle, ma che guarda esclusivamente alle proprie convenienze. Un’U-
nione ostaggio di veti nazionali, ostaggio di un tiranno che minaccia il continente di lasciare andare 4 milioni di disperati, che ad oggi rappresentano la più grande paura della politica europea: nel 2015 l’arrivo di migliaia di profughi siriani mise alle corde i leader europei, Germania in primis, con un boom della destra ultranazionalista. Tutti sanno che, se si dovesse ripetere un fenomeno di tale portata – se non maggiore – niente potrebbe impedire a AfD, Lega e altri partiti nazionali sovranisti di salire al potere, decretando la fine del progetto europeo. Progetto che va però rivisto sin dalle fondamenta, in fretta e bene, perché servono risposte. Sono parole che sono già state dette e che probabilmente verranno inascoltate e ripetute. La verità è purtroppo dura da accettare, ma allo stato attuale delle cose, nessuna forza politica, in nessun Paese, ha intenzione di abbandonare la strada degli interessi nazionali per percorrere una riforma strutturale che cambi radicalmente l’assetto comunitario. Ogni crisi ha visto le stesse scene: impegno da parte delle istituzioni europee al cambiamento, politici che si riscoprono europeisti convinti e via vai di interviste a mezzo stampa su quanto l’Europa debba guidare l’opinione mondiale. Tutto ciò per una settimana, due, o quanto basta perché qualcun altro intervenga a risolvere l’ennesima crisi o fin quando l’attenzione mediatica non si sia spostata su qualche altro tema. Allora tutti possono tornare nei palazzi dei propri Stati, ad occuparsi dei loro problemi e a cercare il consenso a furia di tweet e post su Facebook. E il popolo del Rojava? A loro restano le stucchevoli parole di cordoglio, i proclami pubblici e la vuota solidarietà d’Europa, insieme ai sentiti ringraziamenti per il loro sacrificio a difesa dei valori comuni a tutto il mondo. Grazie, sì, ma ora che hanno svolto il loro compito di utilità, è tempo di tornare a piegarsi alla minaccia e alla sete di potere di un piccolo dittatore. Dei curdi, che ne faccia ciò che meglio crede, l’importante è che si tenga i migranti. Il trionfo della Realpolitik.
Novembre 2019•Universitari per la Federazione europea
Eureka 11
Giro a la izquierda in America latina di si Alice Tomma
C
on le ultime tornate elettorali l’America Latina ha mostrato un netto cambio di tendenza, con le vittorie della sinistra confermate dalla rielezione (con seguito di proteste) di Evo Morales in Bolivia e il trionfo di Alberto Fernandez in Argentina, così come le agitazioni di piazza in Cile e Ecuador. La regione latino-americana, dopo essere stata teatro di politiche progressiste intraprese da governi di sinistra sul finire degli anni 90, ha visto la battuta d’arresto delle forze socialiste a seguito dell’elezione, in tempi diversi e con idee di fondo diverse, di Mauricio Macri nel 2015 in Argentina e di Jair Bolsonaro nel 2018 in Brasile. La situazione è ulteriormente aggravata dai disequilibri politici di Ecuador e Bolivia: Lenin Moreno ha minimizzato gli investimenti pubblici e l’intervento statale, mentre Evo Morales perde costantemente consenso interno. Ecuador Il Presidente Moreno ha negli ultimi anni ridisegnato le politiche macroeconomiche del suo predecessore, in un’ottica di progressiva limitazione della spesa pubblica. Ciò ha avuto come conseguenza violenti manifestazioni che hanno interessato le maggiori città dell’Ecuador. Il recente culmine delle riforme è stato un piano – ribattezzato paquetazo – che si componeva di una serie di misure, concordate con il Fondo Monetario Internazionale in cambio di un credito di 4.2 miliardi, che comprendevano in ultima istanza la soppressione del sussidio statale sui combustibili. L’abolizione del sussidio, atto a garantire il livello dei prezzi del carburante relativamente basso, ha scatenato il 3 ottobre scorso lo sciopero nazionale da parte di Fenacotip (Federazione nazionale delle cooperative del trasporto pubblico), a cui sono seguite le violente proteste campeggiate da associazioni civili e studentesche e dai gruppi indigeni. I manifestanti, dopo dieci giorni ininterrotti di proteste che hanno contato sette morti e decine di
feriti, sono riusciti ad ottenere un negoziato con il governo che ha revocato il rincaro della benzina. Il caso è emblema della propulsione al progressismo che i governi del Sud America stanno manifestando nelle ultime elezioni: la significativa vittoria nello scorso anno di Andres Manuel Lopez Obrador in Messico, l’affermazione del Kirchnerismo alle primarie presidenziali argentine di questo agosto, e infine il rifiuto del ritorno alle ricette del Fondo Monetario Internazionale in Ecuador. Bolivia Il 24 ottobre scorso Morales aveva ottenuto il suo quarto mandato, confermando la linea di interventismo statale fino a quel momento perseguito. La rielezione, su cui giaceva il sospetto di brogli, ha tuttavia causato il dilagare di rivolte e contestazioni da parte, diversamente da quanto accade in Cile ed Ecuador, delle fasce più agiate della popolazione, rivendicanti i propri interessi compromessi dalle manovre governative. Il Presidente ha in un primo momento dichiarato lo stato di emergenza, ma in seguito, sotto pressione dell’esercito si è dimesso [nel momento in cui andiamo in stampa, ndr]. Cile Proprio come accaduto in Ecuador, anche in Cile sono scoppiate rivolte a causa dell’aumento del costo della vita. Le proteste ancora in atto chiedono le dimissioni del presidente Sebastian Piñera che, scusatosi per il “mancato ascolto”, ha promesso un ingente piano di riforme. Ma le promesse non convincono e le
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vittime delle manifestazioni salgono. La causa? L’ennesimo aumento del prezzo del biglietto dei mezzi pubblici, capro espiatorio della più estesa disuguaglianza sociale ed economica del Paese, risalente all’autoritarismo liberista di Augusto Pinochet. Argentina Lo scorso 27 ottobre il candidato di opposizione alle presidenziali in Argentina, Alberto Fernandez, ha vinto con il 47.82% dei voti contro il 40.67% del presidente uscente Maurizio Macri. Macri, fedele alle politiche economiche neoliberiste, aveva come obiettivi la restaurazione delle regole del mercato economico e finanziario e impedire l’aumento delle tasse. Tuttavia, l’inflazione è rimasta elevata, e l’aumento dei tassi di interesse USA tra il 2017-2018, determinanti l’apprezzamento del dollaro, ha provocato la fuga dei capitali e la svalutazione del peso.
È nel 2018 che è stato erogato il più grande salvataggio nella storia del Fondo Monetario Internazionale: 57 miliardi di dollari. I risultati non sono stati soddisfacenti, in primis l’impoverimento della popolazione (la popolazione sotto la soglia di povertà raggiunge il 32%). L’affermazione alle elezioni presidenziali del Fronte de Todos ha rappresentato un importante mutamento al governo di Macri: Fernandez sin da subito ha tentato di tranquillizzare i mercati sostenendo che non è in discussione il pagamento del debito nei confronti del FMI, ammettendo però una possibile rinegoziazione. L’agitazione che sta attraversando il Sud America è sintomo di un chiaro rigetto delle politiche economiche neoliberiste adottate negli ultimi decenni. Politiche che, per motivi anche molto differenti tra loro, quali gli scandali personali, le morti dei leader storici, l’arresto della crescita economica, la generale diffidenza da parte dei sostenitori di un tempo, hanno portato ad una brutale inversione di marcia. Qualunque sia la direzione politica dei governi dell’America latina, ancora una volta il problema sembra essere determinato dall’impossibilità di governare un mondo globalizzato, connotato da stati economicamente interconnessi, e dall’assenza di un governo unico.
Novembre 2019•Universitari per la Federazione europea
Eureka 13
di gi Gio vanni Cog
Tear down this wall!
C
osì il presidente americano Ronald Reagan recitava il 13 giugno 1987, durante il suo celebre discorso tenuto a Berlino insieme al segretario del Partito Comunista dell’Unione sovietica Michail Gorbaciov. Quel discorso, seppur con effetti più simbolici che reali, diede un impulso notevole al processo che avrebbe portato alla caduta del Muro di Berlino e, più in generale, alla fine della guerra fredda. Finite le tensioni, opinione diffusa era che fosse arrivata la “fine della storia” (cfr. Fukuyama) e che liberalismo e democrazia liberale si sarebbero imposte come l’unica forma istituzionale nel mondo. Tuttavia, a quasi trent’anni dalla caduta del muro questa prospettiva è lungi dall’essere compiuta: non solo il regime democratico si è dimostrato difficilmente esportabile, ma esso sta vivendo un momento di crisi proprio laddove ha vissuto il momento di massimo splendore, ossia l’Occidente. Come spiegare tutto ciò? Fin dall’Illuminismo la storia degli europei è sempre stata storia di civilizzazione e di ottimismo. Ciò ha fatto sì che la storia venisse concepita – e venga concepita ancora oggi nella sua gran parte – come una linea dritta che, pur con qualche oscillazione, porta sempre a un miglioramento delle condizioni iniziali: in una parola una storia di progresso. In questa visione ideale dell’evoluzione umana (sempre chiaramente eurocentrica) vi sono state diversi momenti in cui si pensava che il progresso fosse giunto. Uno di questi è stato l’inizio del Novecento, giusto prima della Prima guerra mondiale. Ma proprio quel periodo fu di presagio alle due guerre mondiali e ai regimi totalitari che sconvolsero il mondo. Pur con le doverose distinzioni, anche dopo la caduta del muro di Berlino – come detto sopra – il destino del mondo pareva destinato all’inesorabile propagarsi della democrazia liberale. Vuole quindi essere questa una sinistra allusione al rischio di un altro conflitto mondiale? Le premesse ci sarebbero in questo senso. Le principali
potenze mondiali sviluppano sempre più alti livelli di tecnologia militare e giorno dopo giorno l’ago della bilancia dell’equilibrio mondiale, cioè gli Stati Uniti, dimostra di disinteressarsi sempre più dell’armonizzazione degli assetti di interessi del mondo. Il suo presidente Trump in questo senso si è sempre più posto a capo della cosiddetta internazionale sovranista; ciò è risultato evidente in particolar modo dopo le recenti dichiarazioni su Brexit e UE, nonché dopo le guerre commerciali minacciate e iniziate contro Cina e Unione europea e dopo la ritirata dei soldati americani dal Kurdistan siriano. Il tentativo illuminista di spiegare il reale si è quindi ancora una volta dimostrato inadeguato a spiegare l’evoluzione della storia, la quale non è una forza a sé stante, spinta solo dalle forze del progresso materiale e spirituale, ma è il prodotto dell’azione coordinata delle istituzioni e degli uomini. Questo discorso ci ricollega direttamente a dove eravamo partiti, ovvero al trentennale della caduta del muro di Berlino. È interessante l’affermazione del già citato Gorbaciov in un articolo pubblicato dalla Novaja Gazeta e dal Time: «Quando mi chiedono chi considero protagonista principale di quell’epoca tumultuosa rispondo: il popolo». Non è stata una forza estranea che ci dirige (la si voglia chiamare motore della storia, progresso o Geist) a terminare l’esperienza sovietica e emancipare i popoli dell’Est; ciò è stato merito dei popoli, quindi dell’intervento umano nella storia e per la storia. Ciò che ci fa veramente progredire (nel senso etimologico del termine) in questo senso è la continua messa in discussione dei nostri paradigmi, delle nostre categorie concettuali: anche di quella di Stato moderno così come è pensato oggi. In questo passaggio ancora Gorbaciov può aiutare a capire i problemi del presente: «In Europa non è stato creato un meccanismo affidabile di prevenzione e di conciliazione dei conflitti». Il problema non sta (solo) nei contenuti, ma nella forma entro cui si muove la politica attuale. Questo non implica ovviamente lo scardinare i principi della democrazia liberale, né la negazione delle conquiste (in quanto a benessere e diritti) che la nostra epoca ha portato. Il ragionamento vuole piuttosto proporre un ripensamento radicale della rappresentanza globale degli interessi al fine di prevenire futuri scontri e conflitti.
Articolo pubblicato su Eurovicenza.eu
14 Eureka Universitari per la Federazione europea•Novembre 2019
di N i icola Tenut
A
Rubrica Erasmus: Würzburg (Germania)
bito con mia madre e mio fratello in un paesino di circa 4000 anime nel Basso Veronese e, al di fuori dello spaccio di Calzedonia, non è famoso per nient’altro. Un paesino e dintorni che offrono poco a noi ragazzi (luoghi d’incontro, attività ricreative e non, trasporto) e che, specialmente durante l’ultimo anno di triennale, sentivo sempre più stretto e confinante, distante delle molte possibilità a tutti i livelli offerte in altri luoghi. È stato principalmente questo senso di ristrettezza che mi ha portato alla decisione di partire per l’Erasmus, precisamente a Würzburg, Bassa Franconia, Germania. Prima esperienza abitativa all’estero. Dovevano essere 5 mesi. Sono diventati 10 mesi e 20 giorni. Dire che sono volati è riduttivo. Ma in questo articolo non mi fermerò a descrivere tutte le fantastiche esperienze vissute in Erasmus, perché ciò mi sarebbe impossibile. Devo dire che c’era una cosa che inizialmente mi spaventava. Non era né il fatto di andare ad abitare a più di 600 km di distanza da casa in un altro paese europeo né la possibilità di mangiare a pranzo e a cena menu a base di würstel, crauti e patate, né tutti i documenti da compilare necessari prima della partenza (che, vero, sono tanti, ma che non devono scoraggiare perché tutta questa fatica iniziale verrà ricompensata). Era “semplicemente” l’inglese. Avevo sì, una certificazione B2, ottenuta ancora ai tempi delle superiori, ma non avevo mai avuto la possibilità di praticare la lingua con qualcuno. Quando sono arrivato a Würzburg, faticavo, mi ingarbugliavo, mi mancavano le parole per esprimere ciò che volevo. Ovviamente provavo vergogna. Ma già dal primo giorno, il giorno del primo incontro con gli altri ragazzi Erasmus in questa cittadina tedesca, le cose cambiarono. Stavo provando a parlare con Gabriel, un ragazzo turco, per la precisione turco ma appartenente alla minoranza curda del Paese, proprio delle mie difficoltà nel parlare in inglese e lui mi disse delle parole che mi rimarranno impresse per sempre: «Don’t worry Nicola! We are talking in a language that is not ours!» (“Non preoccuparti Nicola! Stiamo parlando una lingua che non è la nostra”). Gabriel sarebbe diventato una delle davvero tante persone speciali che ho conosciuto in questi mesi.
Le persone. Le persone sono ciò che rende l’Erasmus un’esperienza così speciale. Arrivi in un posto che non conosci, lasciando famiglia e amici di una vita. Ma come te, arrivano tanti altri ragazzi. Siete nella stessa situazione, in cui dovete cominciare tutto da zero. Perciò fate amicizia e col tempo (ma ne basta davvero poco) ti accorgi che diventano la tua nuova famiglia. Nel momento del bisogno loro ci sono. Nei momenti di spensieratezza, che sono la maggior parte, ci sono. Nei momenti di studio in biblioteca… ci sono anche lì! Ora mi rivolgo a te, casuale lettore di questa rivista. Ho scritto questo articolo, purtroppo troppo breve per descrivere quello che è un Erasmus, per presentarti le mie motivazioni e paure e cercare di convincerti, nel caso ci stessi pensando (o anche se non ci stessi pensando) ad intraprendere un’esperienza simile, che sia un Erasmus o un qualsiasi altro progetto di studio / volontariato / lavoro all’estero. Di occasioni come queste ce ne sono a centinaia. Basta semplicemente coglierle! P.S.: quando parlate inglese e vi trovate in difficoltà, pensate alle parole di Gabriel!
Novembre 2019•Universitari per la Federazione europea
Eureka 15
«[...] La grande posta in gioco non è un governo di sinistra o di destra in tale o tale paese. La posta è la rinascita della libera civiltà democratica europea che può avere luogo solo sulla base di una Europa unita.» Dal discorso tenuto da Altiero Spinelli al 1° Congresso UEF del 27 agosto 1947
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