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GFE - Giovani Federalisti Europei

Una conferenza per la riforma dell'Europa


So m m a r i o

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Conferenza sul Futuro dell’Europa: una scommessa da vincere

Patrick Zaki e la lotta per la libertà

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USA chiedono nuove indagini sull’origine del Covid-19

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Il Summit di Biden sul clima e la credibilità degli USA nel mondo

Albert Camus l’europeista

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Turchia ed Europa: una storia complicata

Rubrica Erasmus: Timisoara (Romania)

Stampato da

Per collaborare con noi, contattaci a: gfe.verona@gmail.com! Rivista del gruppo studentesco GFE - Giovani Federalisti Europei Con il contributo dell’Università degli studi di Verona. Responsabile del gruppo studentesco: Maddalena Marchi. Co-direttori: Maddalena Marchi, Salvatore Romano. Collaboratori: Gianluca Bonato, Carlo Buffatti, Caterina Cognini, Lea Dietzel, Gabriele Faccio, Francesco Formigari, Andrea Golini, Sofia Gonzato, Filippo Pasquali, Filippo Sartori, Andrea Stabile, Alice Tommasi, Alberto Viviani, Filippo Viviani, Sofia Viviani, Andrea Zanolli. Redazione: Via Poloni, 9 - 37122 Verona • Tel./Fax 045 8032194 • www.mfe.it • gfe.verona@gmail.com • Progetto grafico: Bruno Marchese. GFE - Giovani Federalisti Europei

Articolor Verona Articolor Verona srl srl Via Olanda, 17 ComuniCazione GrafiCa 37135 Verona Via Olanda, 17 37057 Verona Tel. 045 584733 Tel. 045 584733 Fax 045 584524 articolor@articolor.it P.I.email: C.F. 04268270230 REA 406433

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di lli And rea Zano

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Conferenza sul Futuro dell’Europa: una scommessa da vincere • Tempo di lettura: 3 minuti

inalmente, in occasione della Festa dell'Europa, il 9 maggio è stata inaugurata la Conferenza sul Futuro dell’Europa. Dopo tanta fatica e alcuni rinvii, ora la Conferenza è avviata ufficialmente, anche se purtroppo le opinioni pubbliche nazionali non sembrano averne ricevuto la notizia. E questo potrebbe sembrare già un piccolo fallimento. Perché la sfida di questa Conferenza è proprio coinvolgere quelle fette di cittadini che parlano vagamente di “Europa” e che non ne conoscono i funzionamenti, le potenzialità e gli spazi aperti per i cittadini. Allo stato attuale, la Conferenza sembra essere ancora una scommessa, più che una solida vittoria. Ma è sulle potenziali opportunità che l’impegno dei federalisti deve concentrarsi. Per vincere la scommessa. L’opportunità maggiore, credo, sarà la possibilità di coinvolgere un ampio numero di cittadini, magari con una prospettiva più europea che nazionale, per discutere delle istituzioni e del progetto europeo. Questo punto deve essere alla base dei lavori della Conferenza ed è imprescindibile. Infatti, se il dibattito resterà nelle mani delle istituzioni già esistenti, dei governi nazionali o al massimo di quei movimenti già vicini al mondo europeo, allora le potenzialità della Conferenza non verranno sfruttate e il tutto si risolverà in un poco di fatto. Il vero valore aggiunto, invece, sarà dato se vi sarà una ampia partecipazione delle opinioni pubbliche, le quali, nella migliore delle ipotesi, potrebbero arrivare a spingere i leader politici nazionali e la stampa a esprimersi pubblicamente sulla Conferenza e sulle proposte messe in campo. A tal fine, forse non sarà fondamentale concentrarsi anzitutto sulle varie politiche che l’Unione Europea può perseguire, come quella ambientale, quella fiscale, quella migratoria, quanto su cosa i cittadini si attendono dall’Unione. Da qui il passo successivo sarebbe il come costruire un’Unione Europea in grado di agire nella maniera sperata, includendo così il piano istituzionale, essenziale in vista di una necessaria riforma dei trattati. Dopo il successo della risposta alla pandemia, in particolare con l’accordo per il Next Generation EU, la fiducia dei cittadini nell’Unione è tornata a salire. L’apertura del-

la Conferenza in questo scenario la rende ancor più una scommessa che val la pena vincere (o forse che non si può perdere). Infatti, credo che un processo dal basso all’alto, abbia più probabilità di riuscita adesso rispetto a quante ne avesse prima della pandemia, perché una più ampia fascia di cittadini potrebbe essere aperta a discutere delle prospettive comunitarie. Tuttavia, allo stesso tempo, questa rinnovata fiducia nei mezzi dell’Unione non può essere tradita un’altra volta. Dopo diversi avvenimenti percepiti come fallimenti dell’Europa, oggi la Conferenza deve porsi come piazza che raccolga tutte le critiche e le proposte dei cittadini per aggiustare l’Unione. E ciò deve accadere concretamente, riuscendo prima di tutto a infrangere quel filtro silenziatore che sono le stampe nazionali e le agende politiche nazionali. Arrivare all’opinione pubblica, aprire un vero e democratico dibattito fra i cittadini e permettere di avanzare proposte dal basso sarà la chiave per poter poi riformare concretamente la struttura dell’Unione. Un nulla di fatto o addirittura un fallimento potrebbero essere esiziali per l’Unione, non tanto per la sua sopravvivenza, quanto per la sua reputazione e per le prospettive di maggiore integrazione. E per noi federalisti, questo può essere un momento rivoluzionario.

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di to Sofia Gonza

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USA chiedono nuove indagini sull’origine del Covid-19 • Tempo di lettura: 3 minuti

ono passati più di 15 mesi da quell’11 marzo 2020, quando l’OMS dichiarò il SARS-CoV-2 una pandemia; un virus che si era diffuso nel mondo dalla Cina, dove il primo paziente confermato che presentava i sintomi risale al 1 dicembre 2019, anche se poi numerosi approfondimenti chiariranno che il virus circolava già da numerose settimane, se non addirittura mesi. Certo è che fino ad oggi però rimane ancora non dimostrata la reale origine di questa malattia, cioè se si tratti, come si era sostenuto all’inizio, di un contatto umano con un animale, oppure se sia fuoriuscita da un laboratorio di Wuhan, la città cinese in cui si registrarono i primi contagi.

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Oggi sembra però aprirsi uno spiraglio, e forse presto potremo finalmente conoscere la verità: lo scorso 26 maggio il Presidente americano Joe Biden ha infatti chiesto all’intelligence di svolgere un’ulteriore indagine sulle origini del Covid, chiedendo la partecipazione della comunità internazionale a quella che dovrà essere un’inchiesta completa e trasparente che sarà in grado di darci delle risposte esaustive. La richiesta di Biden si spiega innanzitutto in ragione dell’insuccesso dell’indagine svolta tra febbraio e marzo da parte dell’OMS in cui gli esponenti dell’organizzazione avevano concluso che la tesi della fuoriuscita del virus da un incidente di laboratorio risultava essere “estremamente improbabile”.


ll presidente americano Joe Biden

La rappresentanza degli Usa presso l’Onu a Ginevra aveva giudicato questo studio però del tutto insufficiente e inconcludente, perché non aveva fornito i dati necessari a dimostrare uno dei due scenari ritenuti plausibili, e cioè il contatto umano con un animale avvenuto presso il mercato di Wuhan o l’incidente di laboratorio. A giustificare il giudizio negativo sull’indagine vi era sicuramente l’atteggiamento ostile perpetrato dalla Cina: Pechino si era infatti dimostrata riluttante a concedere agli scienziati americani i visti necessari ad entrare nel Paese, ed era sorto anche il sospetto che il governo cinese avesse collaborato nella stesura del rapporto. La spinta finale verso la decisione della Casa Bianca è stata poi data da una lettera pubblicata a metà maggio sulla rivista Science dove diciotto scienziati muovono accuse piuttosto pesanti verso la ricerca condotta dall’Oms: si afferma infatti che lo studio è stato condotto solo sulla base dei dati forniti dagli scienziati locali, senza avere la possibilità di effettuare accertamenti sul campo, e si sostiene che il rapporto sia fortemente sbilanciato, in quanto prende in considerazione l’ipotesi dell’incidente di laboratorio solo in via marginale. La reazione della Cina alla notizia della nuova inchiesta non si è fatta attendere: il portavoce del Ministero degli esteri cinese ha affermato che è altamente improbabile che il virus provenga da un laboratorio di Wuhan, e ha attaccato gli Stati Uniti, accusandoli di voler strumentalizzare la pandemia al fine di scaricare la colpa sulla Cina, e di essere «irrispettosi nei confronti

della scienza e controproducenti per gli sforzi globali di lotta al virus». Il dibattito sulla reale provenienza del covid-19 si è riacceso anche a fronte delle forti dichiarazioni di Jamie Metzl, studioso di geopolitica ed ex direttore per gli affari umanitari al Dipartimento di Stato con Bill Clinton, il quale tende a sostenere l’origine non naturale, e ha recentemente affermato che vi è l’85% delle probabilità che il SARS-CoV-2 sia fuoriuscito da un laboratorio di Wuhan. L’autore specifica che è sempre stato fortemente critico nei confronti di Donald Trump, ma che i dubbi di quest’ultimo sulla verità in merito alla nascita della malattia fossero fondati. «La scienza,» dice Metzl, «ci ha dimostrato che Pechino mentiva nel dire che il virus proveniva dal mercato di Wuhan. Ora il mondo si sta svegliando». Lo studioso ritiene inoltre che sarebbe ideale avere una sincera collaborazione da parte della Cina, ma che laddove questa dovesse mancare, si dovrà proseguire nel condurre tutte le ricerche necessarie con la partecipazione di tutti i governi e di esperti internazionali. Forse finalmente queste nuove indagini richieste dal Presidente Biden, che dovranno svolgersi entro un termine di 90 giorni, daranno delle risposte definitive; certo è che l’istituto di virologia di Wuhan torna ad essere al centro dell’attenzione, ed è verosimile che questi ulteriori approfondimenti rischino di alterare l’equilibrio geopolitico e di intensificare le tensioni soprattutto tra Cina e Usa. Ma è altrettanto innegabile che tutto il mondo merita di conoscere la verità, qualunque essa sia, su quella che è stata (ed è ancora) una delle peggiori pandemie dell’era contemporanea. GFE - Giovani Federalisti Europei•Luglio 2021

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di io Gab riele Facc

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Il Summit di Biden sul clima e la credibilità degli USA nel mondo • Tempo di lettura: 5 minuti

li Stati Uniti di Biden sono di nuovo a bordo nella lotta contro il Cambiamento climatico, ma gli altri paesi sembra non si fidino più nel farsi guidare da loro. Questo, molto esemplificato, sembra il lascito della ‘due-giorni’ sul clima del 26 marzo scorso che ha riunito 40 tra capi di stato e di governo che hanno risposto all’appello dell'inquilino della Casa Bianca, e che ha visto la non scontata partecipazione di Cina e Russia coi loro rispettivi grandi leader all’evento. Il Summit, promesso in campagna elettorale dallo sfidante democratico, aveva come messaggio primario quello di affermare il ritorno degli Stati Uniti sulla scena internazionale come attore e guida nella lotta al Cambiamento climatico, ma, a conti fatti, le parole sono state molte e gli impegni presi assai esigui. Anche se l’amministrazione americana ha rilanciato la posta in gioco con nuovi e ambiziosi obiettivi di neutralità climatica che porterebbero gli USA a dimezzare le emissioni entro il 2030, raddoppiando quelli stabiliti da Obama, gli altri grandi partecipanti al convegno sembrano non aver raccolto il guanto di sfida di Biden e lasciato pressoché inalterati i loro impegni in tema di emissioni. Stiamo parlando soprattutto di Cina, India e Russia, paesi grandi emettitori di gas clima-alteranti che invocano il loro diritto a raggiungere sviluppo e prosperità attraverso la conveniente fonte fossile. Ma, al di là della retorica politica, il fallimento del convegno nell’indurre gli invitati a nuovi tagli alle emissioni sembra causato più da una diffidenza che gli altri attori internazionali hanno sviluppato nel corso degli anni nei confronti degli Stati Uniti in tema di politiche ambientali che da una sottovalutazione della crisi climatica. Basti ricordare il ritiro dell’amministrazione W. Bush dal Protocollo di Kyoto, che era stato sostenuto da Bill Clinton, oppure il ritiro di D. Trump dall’Accordo di Parigi, che era stato reso possibile dagli sforzi di B. Obama. Questa mancanza di continuità da parte statunitense ha reso il mondo, e soprattutto Cina e Russia, diffidenti dall’accettare la guida degli Stati Uniti in tema di politiche climatiche. Un altro punto debole della grande videoconferenza di Biden, che non ha risparmiato alcune tra le più comuni gaffe della diretta video, come tutti noi abbiamo appreso a conoscere nell’ultimo anno, è stato quello di non riuscire a stanziare fondi per la transizione ecologica ver-

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so i paesi in via di sviluppo, ovvero verso quei paesi con magari buoni e sinceri intenti, ma che non dispongono della potenza di fuoco finanziaria dei paesi sviluppati. Da questo punto di vista la Nigeria è un caso emblematico, essendo il primo produttore di petrolio e il secondo emettitore tra i paesi africani, ed esprime la grande sfida che rappresenta la transizione ecologica. Stiamo parlando di un paese con una popolazione enorme e in costante crescita, colpita da frequenti blackout, che ancora dipende da biocarburante (legno) come fonte di energia domestica che causa enorme deforestazione e con un’economia fortemente dipendente dall’estrazione di idrocarburi. In tutto questo la Nigeria subisce le pesanti conseguenze del Cambiamento climatico e il governo ne è consapevole e negli ultimi anni si è impegnato per obiettivi relativamente ambiziosi in tema ambientale. Ma la dipendenza dal settore petrolifero di questo paese è profonda, l'estrazione di gas e petrolio sono una risorsa essenziale di guadagni per le casse dello stato e dànno lavoro a una fetta consistente della popolazione. Il governo si trova, come accade in America, con una fetta consistente della popolazione, comunità intere, migliaia di persone che hanno bisogno dello stipendio a fine mese, migliaia di lavoratori che hanno bisogno di essere formati per lavorare al di fuori dell’attività che hanno fatto da sempre, tutti quelli che a vario titolo hanno interesse nel petrolio, anche solo attraverso la corruzione, contrari alla transizione della Nigeria fuori dal settore degli idrocarburi. Per non parlare della pressione delle multinazionali del petrolio e del loro peso economico sui governi di queste parti del mondo. La transizione ecologica è una questione di fondi, di soldi, e la Nigeria li chiede a gran voce alla comunità internazionale. Li ha chiesti al Summit di Biden, ma i paesi sviluppati hanno fatto orecchie da mercante. Questo sarà uno dei temi più spinosi degli anni a venire e della COP26 di novembre. Come portare avanti una vera transizione mondiale fuori dai combustibili fossili, come tagliare drasticamente e repentinamente le emissioni a livello globale, quando fette così consistenti di popolazione, già vulnerabili, non sono aiutate dalla comunità internazionale quando si impegnano a fare la loro parte? «Nessuna nazione può risolvere questo problema da sola», ha affermato il presidente Biden durante il Summit. Di certo questo vale anche per i paesi più ricchi e sviluppati con il resto del mondo.


In alto da sinistra: ll Presidente americano Joe Biden, il Presidente del Consiglio Mario Draghi, la Cancelliera Angela Merkel, ll Presidente Francese Emmanuel Macron, Primo ministro del Regno Unito Boris Johnson e il Presidente della Russia Vladimir Putin Almeno una nota positiva. Dal Summit si evince che i governi del mondo pare si stiano accorgendo che non possono fare a meno del settore privato. Questo è un segnale importante che lancia il Summit del 26 marzo, perché dimostra che la transizione ecologica, essendo un fenomeno di importanza storica in dimensioni e conseguenze per il futuro, non può essere portato a termine solo ed esclusivamente dalle istituzioni pubbliche, dai consumatori e dalle associazioni del terzo settore, ma è essenziale che anche il settore privato sia interessato dallo sforzo comune di transizione verso un modello di sviluppo che non ci porti a scenari catastrofici per la sopravvivenza umana. Le imprese, di ogni dimensione e natura, le multinazionali, tutte sono attori centrali delle nostre economie ed enorme causa di emissioni, rifiuti plastici e sovra-sfruttamento ambientale. Il loro ruolo è fondamentale per portare tecnologie, prodotti e modi di produzione innovativi e sostenibili che amplificherebbero in maniera determinante lo sforzo di governi, consumatori e ONG nel mantenere intatta la biosfera. Il settore privato deve essere, per interesse suo e di tutta la comunità umana, fatto partecipe in questa lotta. E questo Summit va nella giusta direzione. Concludendo, è un buon segnale il fatto che gli Stati Uniti, per il momento, abbiano fatto ritorno sulla scena internazionale in tema di lotta al Cambiamento climatico. A livello politico, il Summit è stato un buon tentativo per rilanciare il dialogo internazionale sul taglio delle emissioni, sui fondi per la transizione ecologica e sviluppare una collaborazione con le imprese. Molte voci critiche si sono

levate a fine dell’incontro, e a buon ragione, per la mancanza di azioni concrete. Ma possiamo ancora sperare. L’elezione di Biden e il suo evidente, seppur migliorabile, impegno sul clima non erano così scontati solo qualche mese fa. Il mondo non può fare a meno degli Stati Uniti nella lotta al Cambiamento climatico non solo perché rappresentano il secondo inquinatore mondiale, ma anche e soprattutto per il peso politico, diplomatico, economico e simbolico che rappresentano a livello internazionale, per il loro potere nel mobilitare risorse e nazioni. Gli Usa probabilmente non sono più i soli ‘a guidare’, ma se vogliono essere credibili devono riconquistarsi la fiducia degli altri partner con impegni che non possono essere ‘disfatti’. Devono mettere nero su bianco, come ha fatto l’Unione europea, nella legge, i loro impegni e i loro obbiettivi per la transizione verde. Gli USA devono come primo passo approvare il maxi-piano da 2.250 mld di dollari di Biden (Major infrastructure package) che include spese record per la trasformazione dell’economia americana e una nuova politica industriale a favore delle tecnologie avanzate, la sostenibilità e le energie rinnovabili. Così gli Stati Uniti possono arrivare pronti alla Conferenza sul Clima di Glasgow di questo novembre, quella sì cruciale per salvare la Terra dal surriscaldamento, e collaborare con la comunità internazionale in un clima di fiducia. Una lezione quindi per ogni paese, impresa o consumatore sul tema: la transizione ecologica è un processo lungo e di grandi dimensioni, ma parte dalle azioni di ciascuno. Adesso il mondo, come altre volte, resta a vedere cosa succede a Capitol Hill. GFE - Giovani Federalisti Europei•Luglio 2021

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Turchia ed Europa: una storia complicata di i Cat in erina Cogn

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ino all'inizio del nuovo millennio, l'Europa aveva visto i suoi confini progressivamente estendersi solo con l'ingresso di paesi "da questa parte" della cortina di ferro. La sua progressiva trasformazione era avvenuta in quattro ondate successive: nel 1973 con l'adesione di Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda, nel 1981 con l'ingresso della Grecia, nel 1986 con l'arrivo di Spagna e Portogallo, nel 1995 con l'ingresso dell'Austria, Finlandia e Svezia. Il successivo quinto allargamento è iniziato nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e la successiva fine della guerra fredda, che ha rimosso gli ostacoli ideologici e politici alla riunificazione del Vecchio Continente. Tuttavia, è iniziato formalmente nel 1993, con il vertice di Copenaghen, che ha aperto le porte dell'UE all'ingresso dei PECO (paesi dell'Europa centrale e orientale), disposti a diventare membri dell'Unione europea. Va detto che, nel quinto allargamento, è stata data particolare enfasi ai criteri politici, la cui mancanza avrebbe impedito l'apertura dei negoziati di adesione. Tuttavia, non si tratta di una novità, poiché la storia della comunità è caratterizzata da una costante e crescente attenzione ai diritti fondamentali, come base per legittimare l'UE. L'Unione Europea ha favorito l'ingresso di nuovi membri, sviluppando le sue relazioni con gli ex paesi d'oltremare. Infatti, dal 1993 al 1997 la strategia e le condizioni prima dell'ammissione all'UE sono state meglio chiarite, con i tre "criteri di Copenaghen", il cui rispetto era richiesto non solo ai dieci PECO ma anche a Malta, Cipro e Turchia, desiderosi di essere anch’essi candidati. L'allargamento dell'UE non ha sempre avuto successo nel suo funzionamento nel corso degli anni, a causa di diversi fattori che ne hanno influenzato l'efficienza. Il processo di adesione e le sue condizioni sono da tempo messe in discussione a causa della loro mancanza di chiarezza e determinatezza, che non consentiva ai candidati di avere alcuna certezza sull'esito della loro candidatura. Ciò non solo ha messo in dubbio la credibilità dell'Unione europea, ma ha anche creato una frammentazione all'interno del Consiglio e degli Stati membri. Inoltre, è importante tenere presente che, nella storia dell'allargamento dell'UE, ci sono stati casi in cui il percorso verso l'integrazione è stato molto più faticoso, rispetto agli altri, e ha ancora molta

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strada da fare. Il caso più eclatante è quello della Turchia, in cui è possibile notare che la buona volontà di un Paese, come verrà meglio spiegato in seguito, e il rispetto dei parametri economici non è sufficiente per concordare l'ingresso su un nuovo Stato membro. La Turchia ha cercato di approfondire le relazioni con la Comunità economica europea (oggi Unione europea) dal 1959 e dal 1964 è in vigore un accordo di associazione tra la Turchia e la CEE, l'Accordo di Ankara. Nel 1995 la Repubblica di Turchia e l'Unione europea hanno firmato un'unione doganale e, nel dicembre 1999, il Consiglio europeo di Helsinki ha riconosciuto la Turchia come status di candidato ufficiale per l'adesione all'Unione europea. Da allora, la Turchia ha avviato nei primi anni 2000 riforme di vasta portata come l'abolizione della pena di morte e della tortura, ma anche il riconoscimento della minoranza curda e il suo diritto di parlare la sua lingua. Tuttavia, il dibattito in Turchia sull'adesione all'Unione europea è diventato più complesso negli ultimi anni, in particolare dal 2002, quando il partito islamista moderato AKP vinse per la prima volta le elezioni. Appena salito al potere, l'AKP si è impegnato in una decisa campagna di riforme proUE, favorendo l'approccio deciso dell'opinione pubblica al tradizionale orientamento filoccidentale delle élite politiche, economiche e militari turche. Quello è stato il momento di maggior consenso in Turchia per l'adesione all'UE. Negli anni successivi, però, le cose sono cambiate notevolmente. Dopo l'inizio ufficiale il 3 ottobre 2005, i negoziati per la piena adesione hanno richiesto molto tempo, tra approcci, distinzioni e contraddizioni da entrambe le parti. In risposta a quelle che l'opinione pubblica europea considera misure repressive sproporzionate, adottate in Turchia a seguito del fallito colpo di stato del 15 luglio 2016, nel novembre 2016 il Parlamento europeo ha votato una risoluzione per sospendere i negoziati di adesione, motivando il mancato rispetto della libertà di stampa, diritti umani e stato di diritto. Questa risoluzione, sebbene non vincolante, rappresenta attualmente il maggiore ostacolo all'adesione della Turchia all'UE. Elementi come la difficoltà del processo di adesione, principalmente legato alla questione cipriota, la crescente percezione di una certa ambiguità nei confronti della Turchia da parte dell'UE, soprattutto di


La presidente della Commissione UE Von der Leyen, il Presidente del Consiglio Ue Charles Michel ed il Presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan

alcuni membri come la Francia, hanno portato ad un significativo raffreddamento del favore dell'opinione pubblica turca verso l'Unione Europea. Tuttavia, i principali attori politici ed economici turchi restano convinti dell'opportunità di proseguire il processo di adesione. Tra i motivi che si opporrebbero all'ingresso della Turchia, alcuni rilevano che solo il 3% del territorio turco si trova in Europa, e un allargamento dell'Unione oltre i confini del Continente favorirebbe l'ingresso di altri paesi del Maghreb e del Medio Oriente. Con oltre 80 milioni di abitanti, la Turchia avrebbe tanti seggi nelle istituzioni europee quanti ne ha la Germania, che attualmente ne detiene il maggior numero ed è quindi riluttante, se non ostile, a un allargamento che destabilizzerebbe i già difficili equilibri raggiunti internamente nelle istituzioni, o che piuttosto danneggerebbero il primato della stessa Germania. Da un punto di vista economico, a causa della vastità della Turchia e della sua recente crisi economica, il suo ingresso nell'UE concentrerebbe su di sé ingenti risorse economiche a scapito delle regioni più arretrate d'Europa, mettendo il sistema dei fondi strutturali e agricoli politica sotto stress, già sotto pressione a seguito dell'allargamento all'Europa orientale. Una parte dell'opinione

pubblica europea è inoltre contraria all'ingresso di un paese islamico e culturalmente in contraddizione con i costumi e le tradizioni occidentali dell'Europa. Inoltre, la Francia condiziona il proprio assenso all'ingresso della Turchia nel riconoscimento ufficiale del genocidio armeno del 1915 da parte del governo turco, mentre il governo turco rifiuta questo riconoscimento come requisito per l'adesione. Per quanto riguarda la questione cipriota, questa ruota attorno all'invasione di Cipro da parte della Turchia nel 1974, il conseguente movimento di profughi lungo entrambi i lati della linea verde e l'istituzione dell'autoproclamata Repubblica turca di Cipro del Nord, riconosciuta solo dalla Turchia. A ciò si aggiungono le difficili relazioni con la Grecia e il rifiuto del governo turco di consentire la libera circolazione di navi e aerei greco-ciprioti nell'ambito dell'unione doganale fino a quando l'UE non metterà fine all'isolamento internazionale di Cipro del Nord. D’altro lato, da dieci anni a questa parte, la prospettiva di adesione della Turchia si sta allontanando a causa di errori da entrambe le parti e sviluppi politici interni nel paese, così l'attuale governo soddisfa sempre meno i criteri per l'ingresso nell'UE. Oltre a questi motivi, l'UE - continua GFE - Giovani Federalisti Europei•Luglio 2021

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Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu attualmente non intende aprire le sue porte alla Turchia a causa delle misure adottate dal presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan a seguito del fallito colpo di stato militare nel luglio 2016 e a causa del referendum costituzionale del 16 aprile 2017, che consente una riforma costituzionale che trasforma la Turchia da repubblica parlamentare in repubblica presidenziale: abolendo la figura del primo ministro ed eleggendo direttamente il presidente con un mandato di due anni, il potere esecutivo si concentra nelle mani del capo dello stato, che ora può nominare e revocare ministri e per i quali il Parlamento non vota più sulla fiducia. Secondo l'Ue, Erdogan sta trasformando la Turchia in un regime almeno autoritario, il che allontana ulteriormente la prospettiva di adesione. Tutte queste considerazioni possono essere messe in relazione con la dichiarazione di un’intervista dell'ex presidente della Commissione europea Prodi, che ha dichiarato: «La mia idea dei confini dell'Europa inizialmente comprendeva i Balcani e anche la Turchia. Oggi la Turchia è diventata una potenza regionale la cui politica ambivalente è incompatibile con quella dell'Unione. Il progetto di 20 anni fa è oggi impensabile, eppure teoricamente resta importante per il raggiungimento della pace in un'area cruciale per l'Europa». Da allora, la Turchia ha subito una trasformazione, che ha gradualmente plasmato la sua politica estera in una politica personalizzata, caratterizzata da un forte antioccidentalismo. Il presidente turco Erdogan è sicuramente uno dei principali protagonisti di questa nuova era per la politica estera turca. In effetti, è stato anche il principale promotore di questa nuova concezione che vede l'Unione Europea, e l'Occidente nel suo insieme, come un danno piuttosto che un modello per la popolazione turca. Oltre a questo, abbracciare i valori islamici conservatori e dare potere alla maggioranza musulmana è un altro fattore fondamentale che ha ca-

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ratterizzato l'orientamento dato alla Turchia dalla Presidenza di Erdogan nell'ultimo decennio. Di conseguenza, il presidente Erdogan non ha reindirizzato solo la politica estera della Turchia, ma anche quella interna, diventando il fautore della nuova Turchia islamica e antioccidentale. In questo contesto, la crisi della migrazione di massa siriana è stata un evento chiave per la cooperazione tra l'Unione europea e la nuova Turchia populista. L'idea che milioni di rifugiati si dirigessero verso l'Europa ha costretto le istituzioni europee a stringere un accordo con la Turchia. Successivamente, la Turchia ha approfittato della situazione, utilizzando la crisi migratoria e l'accordo come «strumento di politica estera con cui opporsi alla condizionalità dell'UE». Nonostante ciò, per capire quanto siano contorti i rapporti tra Turchia e Unione europea, è sufficiente aver letto i giornali dei mesi scorsi. Erdogan e funzionari turchi sono stati oggetto di critiche dopo le immagini virali del suo incontro con la Presidentessa della Commissione europea Von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ad Ankara. La sala ben arredata in cui sono entrati i tre leader aveva solo due sedie disposte accanto alle corrispondenti bandiere dell'UE e della Turchia. Erdogan e Michel si sedettero rapidamente mentre Von der Leyen, il cui grado diplomatico è lo stesso dei due uomini, rimase in piedi. Le immagini ufficiali in seguito la mostrano seduta su un divano di fronte a quello del ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu. Cavusoglu ha affermato che le critiche mosse alla Turchia per l'errore diplomatico sono "ingiuste" in quanto la disposizione dei posti a sedere è stata effettuata in linea con il suggerimento dell'UE. Lo scivolone diplomatico è stato immediatamente etichettato come “sofagate”. L'incontro aveva l’obiettivo di dare un tono più positivo alle relazioni dopo mesi di confronti. Ma il risultato è stato l’accusa collettiva dei funzionari europei contro la Turchia di maschilismo, soprattutto dopo il ritiro di quest’ultima dalla storica Convenzione di Istanbul sulla lotta alla violenza di genere. Tali critiche hanno investito anche Michel, interrogandosi sul perché non avesse lasciato il posto a Von der Leyen. La stessa Von der Leyen ha riferito in una conferenza stampa di aver avuto una discussione dettagliata con Erdogan sui diritti delle donne in Turchia. Vista la corrente situazione dei rapporti tra Turchia ed Unione Europea, è difficile prevedere quali saranno le prossime mosse di Erdogan, che certamente non ha apprezzato le accuse di Mario Draghi di essere un “dittatore”. Nonostante ciò, la Turchia ha bisogno dell’Unione europea e l’Unione europea ha bisogno della Turchia, non solo per quanto riguarda i trattati commerciali, ma anche per l’accordo sulla migrazione siriana del 2016, primo passo di riconciliazione dopo lo scivolamento populista turco.


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Patrick Zaki e la lotta per la libertà

eA ndrea Stabile

per studiare ed essere libero, si è atrick Zaki rimane in schierato dalla sua parte. A concarcere. Il rinnovo deltribuire alla richiesta per la cittadila custodia cautelare si nanza italiana per Patrick è stata ripete ormai da più di • Tempo di lettura: 2 minuti la presenza in aula e la firma di Li16 mesi. È passato più liana Segre, firma e presenza che sono simbolo della lotta di un anno dal giorno in cui Patrick, studente contro l’indifferenza, contro ogni totalitarismo, discriminaegiziano dell’Università di Bologna, è stato arrestato all’azione e violazione dei diritti umani e civili. È il momento per eroporto del Cairo con l’accusa di propaganda sovversil’Italia, ma anche per l’Europa, di dimostrare che lo stato di va (fatta tramite dei presunti post su Facebook). Più di un diritto è una frontiera irrinunciabile e non derogabile. anno in cui il regime egiziano ha continuato con arresti La sorella di Patrick ha ringraziato pubblicamente con ingiustificati, detenzioni arbitrarie, torture e violazione dei un video tutta la comunità di studenti e di persone che diritti fondamentali, infatti Patrick purtroppo non è il continuano a supportare la battaglia per la liberazione del solo. fratello. Di recente Patrick ha lasciato a sua sorella, scritto L’Italia e l’Europa hanno cercato di fare pressione sull’Etra le pagine del libro Cent’anni di solitudine, un messaggitto ma non è abbastanza. Occorrerebbe una posiziogio in italiano, rivolto a noi, che dice «ancora sto resistenne coordinata e decisa che sanzioni e condanni gli stati do, grazie del supporto a tutti». che, come l’Egitto, usano come mezzo di politica e di poCome ha detto il senatore Verducci in Senato, presentere la costante violazione dei diritti umani. tando la mozione per il conferimento della cittadinanza Lo scorso aprile è stata approvata in Senato la mozione italiana, abbiamo il dovere di non smettere mai di per conferire la cittadinanza italiana a Patrick Zaki. Il lottare per la sua libertà e di non lasciare nulla di inprocesso è lungo e complesso ma ha di certo un importentato. tante valore simbolico: l’Italia, il paese che Zaki ha scelto

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Europa e Mediterraneo: soccorso e responsabilità

eA ndrea Stabile

ndifferenza. Succede così, Frontex (agenzia europea della un po’ per volta, di norguardia di frontiera e costiera), • Tempo di lettura: 6 minuti malizzare eventi (o meglio contattata da Alarm Phone, ha stragi) che si verificano con alta frequenza; ed è così fatto appello alle autorità maltesi e italiane per continuache ci dimentichiamo che dietro alla notizia di 130 re le ricerche. morti nel mediterraneo ci sono 130 volti, 130 stoSolo più tardi, come comunicato da Alessandro Porrie, 130 vite, tutte finite in quella tragedia. ro (Presidente di SOS Méditerranée Italia), diverse ONG, La notte tra il 21 e il 22 aprile 2021 ha avuto luodopo una ricerca auto-coordinata, senza nessun supporgo l’ennesima strage al largo delle coste libiche. Tre to da parte delle autorità, trovano il relitto del gommone erano le imbarcazioni coinvolte nella tempesta e nelle e si ritrovano a navigare in un mare di cadaveri. onde di quella notte, un gommone si è ribaltato, un altro Anche un aereo di Frontex arriva sulla scena, ma ormai, è stato riportato in Libia con due cadaveri (di una donna in un pesante senso di responsabilità collettivo, si capisce e di suo figlio) e di una terza barca si sono perse le tracce. che non è più possibile fare nulla. Alarm Phone, che si offre come contatto di emerLa responsabilità dell’Italia e dell’Europa, in sigenza in supporto alle operazioni di salvataggio, è stata tuazioni come quella appena descritta, è inderoallertata la mattina del 21 aprile da dei pescatori locali gabile. Per ogni situazione di pericolo in mare di cui che avevano avvistato una barca in pericolo al largo delsi abbia conoscenza, il soccorso è obbligatorio, non è la Libia. A seguire gli sviluppi e le complicazioni è stato quindi solo lecito ma è anche dovuto. Nell’osservanza proprio Alarm Phone, che ha allertato e tentato di medella normativa nazionale, europea ed internazionale, diare i soccorsi, assicurandosi che gli MRCC (centro di l’attività di soccorso di migranti in mare dovrebbe infatti coordinamento del soccorso marittimo) di Italia e Malessere richiesta e coordinata dallo Stato. ta, la guardia costiera libica e l’UNHCR (United Nations Oltre a ciò, non possiamo negare di essere teHigh Commissioner for Refugees) fossero a conoscenza stimoni consapevoli delle continue violazioni dei dell’imbarcazione in pericolo. diritti umani in Libia. È incalcolabile il numero di miRiuscendo a contattare il gommone, Alarm Phone granti e richiedenti asilo che subiscono torture di ogni ottiene le coordinate GPS e viene a conoscenza del nutipo e abusi nei numerosi centri di detenzione, in diverse mero di persone a bordo, procede quindi informando le città del Paese. autorità e facendo pressione mediatica. Già nel 2018 due ricercatrici di Human Rights Watch Nel corso della giornata viene avvistato in zona un avevano riportato le condizioni disumane di alcuni centri mercantile italiano che nonostante le sollecitazioni non di detenzione a Tripoli, Misurata e Zuwara: sovraffollainterviene e continua la rotta. L’MRCC d’Italia avverte mento, igiene precaria, malnutrizione, carente assistenAlarm Phone di contattare la Libia da cui poi un ufficiale za sanitaria e violenze che i detenuti subiscono dalle comunica di essere a conoscenza delle tre imbarcazioni guardie (uso di scariche elettriche, frustate, pestaggi…). in pericolo e di star attuando una ricerca con una moIn questo contesto, neanche i bambini vengono rispartovedetta. miati da abusi sessuali e pestaggi da parte di guardie e Non essendoci sviluppi o soccorsi, nonostante gli agtrafficanti. giornamenti sulla posizione dell’imbarcazione, la ONG È in questo modo che, nell’inumano mercato del trafViking comunica la decisione di dirigersi verso il gommone. fico di migranti, vengono sfruttati e demoliti i bisogni Col passare delle ore la comunicazione dell’MRCC essenziali di ogni singolo individuo: il bisogno di sodi Roma con la Libia si fa sempre più difficile e inpravvivenza e di avere una dignità. fruttuosa, Alarm Phone perde i contatti col gomAttualmente la situazione non è di certo migliorata, mone e le condizioni in mare si fanno sempre più infatti sono continue e allarmanti le segnalazioni insostenibili, tanto che la Guardia costiera libica da parte dell’ONU. Il rappresentante a Tripoli dell’Orinterrompe i soccorsi. ganizzazione delle Nazioni Unite ha incoraggiato la La mattina del 22 aprile riprendono le ricerche, comunità internazionale a fare di più, affermando che

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nel rispetto dei diritti umani si riscontra un crescente deterioramento. Da un lato le autorità libiche hanno la responsabilità per gli abusi commessi e non sanzionati, dall’altro le istituzioni europee offrono il loro supporto al Paese affidando alla Guardia Costiera libica il compito di intercettare i migranti e i richiedenti asilo per farli ricondurre in Libia (questo con l’aiuto di Frontex, che segnala l’avvistamento di eventuali imbarcazioni). Sembra inoltre che i fondi stanziati dall’Ue per la formazione della Guardia Costiera libica finiscano nelle mani di organizzazioni criminali e paramilitari. L’accordo tra Ue e Libia, che mirerebbe a ridurre il traffico illecito di migranti, non fa altro che contribuire a un circolo vizioso che riporta le persone alle condizioni disumane dei campi di detenzione. Il dovere di soccorso dei migranti non potrebbe però dirsi adempiuto se non con lo sbarco in un porto sicuro delle persone recuperate in mare, a stabilirlo è la Corte di Cassazione (con sentenza 16 gennaio 2020 n. 6626[3]). Come delineato dal Consiglio d’Europa (risoluzione n. 1821/2011), la nozione di “luogo sicuro” non si limita alla protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali. La stessa Presidentessa della Commissione europea Von der Leyen ha dichiarato: «Il soccorso in mare non è un optional», ma nonostante queste parole si possono contare dal 2014 più di 20.000 persone morte o scomparse nelle acque del Mediterraneo, col primato della rotta immigratoria più mortale al mondo. Nell’appello che diverse ONG (Alarm Phone, Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Open

Arms, Sea-Watch, SOS Méditerranée) hanno rivolto al Presidente del Consiglio Mario Draghi, si comprende il ruolo chiave che l’Europa deve assumere: «Come ONG siamo in mare a colmare un vuoto, ma saremmo pronte a farci da parte se l’Europa istituisse un efficace meccanismo istituzionale e coordinato di ricerca e soccorso che abbia come scopo primario quello di soccorrere persone in mare.» David Sassoli, Presidente del Parlamento europeo, si è rivolto in modo diretto agli Stati membri dicendo: «I governi nazionali diano poteri e mandato all’Unione europea per intervenire, salvare vite, realizzare corridoi umanitari e organizzare un’accoglienza obbligatoria». In seguito ai recenti avvenimenti si è dimostrato necessario che l’Unione Europea istituisca un meccanismo istituzionale di ricerca e soccorso efficace e coordinato, il cui obiettivo principale e inderogabile sia quello di soccorrere le persone in mare. La gestione del salvataggio, come si è visto nel tempo, non può più essere lasciata ai singoli stati membri che, invece di assumersi la responsabilità, tendono ad affidarsela a vicenda, rimanendo immobili mentre le vittime nel Mediterraneo aumentano spaventosamente. L’Italia e l’Europa hanno la responsabilità per il sistema che aiutano, pertanto non possiamo ignorare o voltare le spalle a chi, già privato di ogni dignità, ci chiede protezione e salvezza a costo di mettere in pericolo la propria vita. Una soluzione politica a livello europeo può fare la differenza non solo per il soccorso in mare dei migranti ma anche per un progetto esteso e coordinato di integrazione e gestione dei flussi migratori. Anche su questo fronte solo un’Europa veramente unita può fare la differenza. GFE - Giovani Federalisti Europei•Luglio 2021

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Camus l’europeista di ri Fra ga i nces m co For

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uando si evoca la figura di Albert Camus (1913-1960), premio Nobel nel 1957, la mente subito corre alla schiera di pensatori che consolidate abitudini manualistiche hanno congiunto alla figura dello scrittore: in altri termini, gli esistenzialisti. Nel contesto del secondo dopoguerra, squarciato da una cupa impressione d’orrore e smarrimento, i temi cardinali delle riflessioni legate alla corrente filosofica in questione registrarono notevoli attenzioni. Affiancandosi (seppur temporaneamente) a pensatori come Jean Paul Sartre (1905-1980) e Simone de Beauvoir (1908-1986), Camus contribuì alla definizione di tale congenie con acute meditazioni intorno alla condizione umana, spesso veicolate tramite forme dal carattere letterario: si considerino, in questo senso, testi di ragguardevole rilevanza come Il mito di Sisifo (1943), concentrato sul tema dell’assurdità in relazione al contrasto tra infinità delle aspirazioni e limitatezza delle possibilità tipico dell’esistenza umana, e L’uomo in rivolta (1951), dedicato a una singolare rivolta metafisica e a una forma nuova d’individualismo. Camus, tuttavia, non fu solamente un esistenzialista – ruolo che comunque lo scrittore esercitò secondo modalità sui generis. Per apprezzare le posizioni dello stesso in relazione a tematiche diverse da quelle tipicamente legate all’ambito esistenzialistico, ciò che costituisce uno degli scopi intrecciati alle presenti righe, è necessario considerare un singolare momento della sua vita. Quando, tra il 26 aprile e il 16 maggio 1955, si recò in Grecia per compiere quel viaggio nella culla dell’Occidente cui aveva dovuto rinunciare nel ’39 a causa della guerra, Camus raggiunse il territorio ellenico in sconfortanti condizioni psichiche. Diversi fattori avevano contribuito alla destabilizzazione dello scrittore: la disaffezione verso Parigi, le polemiche legate a L’uomo in rivolta, l’allontanamento da Sartre, le divisioni politiche dell’Europa di allora, l’inizio del conflitto in Algeria... Nonostante ciò, presto rinfrancato dal contesto greco (rispetto al quale lo scrittore si paragonerà a un «prigioniero, che si ritrova all’improvviso su una nuda montagna che si staglia in cielo aperto»), durante il suo viaggio Camus decise di partecipare ad alcune conferenze in seno alle quali si confrontò con tematiche dalla consistente densità. Tra tali conferenze, l’unica a esserci pervenuta è quella che si tenne il 28 aprile ad Atene ed ebbe come argomento di discussione il futuro della civiltà europea (oggi il testo di tale

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conferenza è accessibile tramite un libriccino pubblicato da Castelvecchi che si giova della cura di Alessandro Bresolin). La conferenza in esame, organizzata dall’Union Culturelle Gréco-Française e diretta dal professor Angelos Catacouzinos, fu animata da un serrato confronto tra Camus e un insieme di illustri personalità appartenenti al panorama culturale ellenico: dal filosofo Euangelos Papanoutsos al costituzionalista Phedon Vegleris, passando per figure come quella di Georgios Theotokas, descritto dal già citato Bresolin come un «rappresentante della generazione dei giovani arrabbiati degli anni Trenta che nel dopoguerra divenne direttore del Teatro Nazionale greco». Durante il dibattito la questione relativa al futuro della civiltà europea non fu discussa soltanto attraverso una prospettiva di carattere politico, ma anche mediante argomenti di matrice squisitamente culturale: a Camus, volendo formulare en passant qualche esempio, venne domandato di esporsi intorno alla libertà dell’artista oppure in relazione alle tecniche di pittura di artisti come il suo connazionale Georges Braque (1882-1963). Ad ogni modo, non sono le posizioni di Camus a proposito dei sopracitati argomenti ciò che qui pare significativo porre in evidenza. In questa sede, infatti, risulta ben più rilevante soffermarsi sulle idee politiche dello scrittore per illuminarne tanto il convinto europeismo quanto la brillante lungimiranza. Ciò tenendo a mente che l’Europa cui fece riferimento Camus nei propri discorsi era non soltanto un’Europa da pochi anni uscita dal secondo conflitto mondiale, cioè un’Europa visceralmente sconquassata da una delle più logoranti tragedie del XX secolo, ma anche un’Europa dall’assetto politico molto diverso rispetto a quello odierno. All’epoca il Manifesto di Ventotene (1944) redatto da Altiero Spinelli (1907-1986), Ernesto Rossi (1897-1967) ed Eugenio Colorni (1909-1944) era già stato pubblicato, il Congresso dell’Aia che avrebbe condotto all’istituzione sia del Movimento Europeo Internazionale sia del Consiglio d’Europa già si era svolto, e nel 1952 era stata fondata anche la Comunità europea del carbone e dell’acciaio su iniziativa di statisti quali Alcide de Gasperi (1881-1954), Jean Monnet (1888-1979), Robert Schuman (1886-1963) e Paul-Henri Spaak (1899-1972); tuttavia, l’Europa di allora era un’Europa in cui ancora non si era concretizzato il fondamentale Trattato di Roma (1957), che avrebbe istituito la Comunità economica europea (CEE) dalla quale nei decenni seguenti, trattato dopo trattato, sarebbe sorta l’attuale


Unione Europea. Oltre a questo insieme di dati, dev’essere tenuto a mente che Camus, tra il ’44 e il ’48, soprattutto in relazione all’esperienza della Resistenza, si era schierato con il movimento Combat fondato da Henry Frenay (1905-1988), un gruppo che affermava con decisione la necessità di una federazione europea. Il primo punto affrontato da Camus durante la conferenza sopracitata corrispose alla questione relativa alla «vera fisionomia della civiltà europea», sollevata da Papanoutsos. Camus, sempre pronto a riconoscere con umiltà i confini delle proprie conoscenze (in tutte le sue risposte fanno capolino formule volte a comunicarne la modestia: «[...] servirebbe una cultura che non ho», «[...] mi sento molto intimidito davanti a questa domanda», «[...] mi dispiace di dovermi confrontare di continuo con delle questioni che vanno al di là della mia competenza», etc.), sostenne che il tratto in grado di identificare maggiormente la civiltà europea, più che risiedere nell’«umanizzazione della natura» o nel «concetto di persona umana», albergasse nella sua essenza di «civiltà pluralista». In particolare, Camus affermò che «il contributo più importante della nostra civiltà» coincidesse con «quel pluralismo che è sempre stato il fondamento della nozione di libertà europea». Una simile concezione di identità della civiltà europea, la quale certo non esclude che nella stessa siano presenti anche i due elementi menzionati in precedenza, sembra congiungersi armoniosamente con l’insegnamento che la filosofa Hannah Arendt (1906-1975) estrasse da una delle figure più rilevanti rispetto alla storia del pensiero occidentale, ossia la figura di Socrate. In alcuni appunti stesi per un corso che la filosofa tenne presso la Notre Dame University (USA) nel 1954 la stessa asserì infatti quanto segue: «I filosofi, se vorranno arrivare a una nuova filosofia politica, sfidando il loro necessario straniamento dalla vita quotidiana, dovran-

no però assumere come oggetto del thaumazein (ossia, nella concezione della Arendt, la meraviglia per ciò che è così com’è, ndr) la pluralità degli uomini, dalla quale sorge, nella sua grandezza e nella sua miseria, l’intera sfera degli affari umani». Il dato della pluralità, una pluralità che secondo Camus mai perviene a una sintesi tale da arrestarne il dialettico moto, per certi versi può addirittura essere considerato come la conditio sine qua non degli altri elementi candidati al ruolo di tratti fondanti dell’identità europea: senza riconoscimento della pluralità umana, infatti, pare impossibile qualsiasi forma di dignità della persona umana; inoltre, sempre la pluralità umana, intesa nel suo dibattere e discutere, pare configurarsi come la chiave d’accesso a quella scienza positiva che con le proprie tecniche ha consentito i grandiosi progressi sorti in seno alla dimensione europea. Cartesio (1596-1650), più volte menzionato nel corso della conferenza da Camus e dagli altri intellettuali presenti, aveva sottolineato tra le pagine del suo Discorso sul metodo (1637) la necessità di una scienza che avanzasse tramite i virtuosi sforzi di una comunità di scienziati. Altro denso punto rispetto al quale Camus si pronunciò fu quello riguardante l’eredità e il contributo del pensiero ellenistico rispetto all’Europa contemporanea. A tal proposito Camus avanzò una decisa rivalutazione del concetto di misura – nella filosofia greca, metron. Non condividendo la posizione degli intellettuali francesi che all’epoca scorgevano nella misura soltanto l’emblema della «diabolica moderazione borghese», Camus definì tale nozione come «il riconoscimento della contraddizione e la decisione di assumerla», una formula legata a un certo «eroismo» nonché «un metodo per affrontare l’analisi dei problemi che ci vengono posti e per avviarci verso un futuro tollerabile». Insistendo sul concetto di misura, Camus giunse a individuare un’Europa borghese afflitta da un pericoloso «nichilismo individualista» (cioè un’Europa che, rigettando qualsiasi forma di vita, si limita a vegetare) e una «lezione che ci viene dall’Est» avente come elemento di maggior rilevanza il «senso di partecipazione a uno sforzo comune» legato alle «democrazie popolari». Ebbene, tra tali estremi deve intervenire il metron di matrice ellenistica: «La posizione dell’Europa borghese [...] rivendica unicamente i diritti dell’uomo. Certo sono diritti che dobbiamo difendere, ma non se significano la negazione dei doveri. E viceversa. I doveri dell’uomo che vengono decantati a Est non li accettiamo se significano la negazione di tutto ciò su cui si basa il diritto dell’uomo a essere ciò che è». Camus si spinse a identificare proprio nel concetto di misura un «seme» dal quale sarebbero potuti nascere i frutti in grado di salvare la civiltà europea: «[...] l’equilibrio costituisce uno sforzo e un coraggio continuo. La società che avrà questo coraggio sarà la vera società del futuro». Sempre alla nozione di metron, inoltre, possono essere rapportate le riflessioni esposte da Camus intorno alla diade composta dai concetti di libertà e di giustizia. Formulata una premessa riguardante la predilezione per la libertà tipica dell’Ovest - continua GFE - Giovani Federalisti Europei•Luglio 2021

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e la preferenza per la giustizia tipica dell’Est, il filosofo così si espresse: «Si arriverà [...] a quel concetto [...] che consiste nel riconoscere che la libertà ha un limite, che anche la giustizia ne ha uno, che il limite della libertà risiede nella giustizia, cioè nell’esistenza dell’altro e nel riconoscimento dell’altro, e che il limite della giustizia si trova nella libertà, cioè nel diritto della persona di esistere così com’è in seno alla collettività». La posizione di Camus, dunque, si delinea come una posizione che raccoglie con intensità gli insegnamenti derivanti dalla tradizione ellenica, riproponendoli nel ruolo di chiavi mediante le quali accedere a una rifondazione etica della civiltà europea. Il dibattito svoltosi durante la conferenza non poté esimersi dalla considerazione della questione relativa all’unità dell’Europa. Camus, posta in evidenza la difficile condizione della stessa rispetto all’affermazione allora già netta di superpotenze extraeuropee come gli Stati Uniti («L’Europa, che ha concepito di sana pianta le ideologie che oggi dominano il mondo, che oggi le vede voltarsi contro di essa, essendosi incarnate in paesi più grandi e più potenti industrialmente [...]»), esternò in tal senso un’opinione decisamente ferma: «[...] bisogna lottare per riuscire a superare gli ostacoli e fare l’Europa, l’Europa finalmente, dove Parigi, Atene, Roma, Berlino saranno i centri nervosi di un impero di mezzo, oserei dire, che in un certo qual modo potrà svolgere il suo ruolo nella storia di domani». Un appello nitido e retto da encomiabile lucidità, oggi più che mai attuale. Altrettanto brillante si rivelò il giudizio espresso dal filosofo in relazione alle eventuali problematiche discendenti dalla diversità insita nel contesto europeo: «La diversità ha degli inconvenienti, è evidente. Sono gli stessi inconvenienti della libertà. Ci sono anche quelli della lealtà e dell’obiettività. [...] Però, in verità, credo che le difficoltà degli imperi o dei continenti più solidi possano essere almeno altrettanto grandi, per ciò che riguarda il loro sviluppo futuro, di quanto non lo siano quelle generate dalla diversità europea». Di qui una notevole considerazione a conclusione del percorso ragionativo: «[...] secondo me il principale nemico di una civiltà è generalmente sé stessa». Per Camus, dunque, la critica posizione dell’Europa rispetto allo scacchiere mondiale dipendeva sì da minacce concrete, ma anche – se non soprattutto – dalla condizione di debolezza interna dell’Europa stessa. L’unità propugnata da Camus, inoltre, non era certo legata alla realizzazione di flebili forme di collaborazione: il progetto di unità europea immaginato dal filosofo, infatti, prevedeva la creazione di istituzioni comuni in grado di saldare con decisione gli attori del teatro europeo. Contro le obiezioni, un acuminato ragionamento: «Un marsigliese è certo più simile a un napoletano che a un abitante di Brest. C’è una grande differenza tra un abitante di Perpignan e uno di Roubaix. Ciò non toglie che l’unità della Francia è stata fatta e che Perpignan e Roubaix eleggono oggi uno stesso governo, buono o cattivo che sia». Meritevoli d’attenzione, infine, paiono i ragionamenti che durante la conferenza Camus sviluppò intorno alle diversità tra civiltà europea e civiltà statunitense. Posto

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che all’epoca, secondo lo scrittore, tra Europa e Stati Uniti intercorreva un «pacifico confronto» (oggi, a poca distanza dalla conclusione di un periodo turbolento quale la presidenza di Trump, come si dovrebbe inquadrare il rapporto tra le due dimensioni?), Camus definì gli Stati Uniti come «la realizzazione delle speranze del Diciottesimo secolo francese». Effettivamente, i contatti tra philosophes e illuministi anglosassoni furono rigogliosi: in questo senso, pare sufficiente rammentare la singolare parabola biografica del Marchese di La Fayette (1757-1834). Camus, invece, menzionò la centralità della felicità tanto nelle riflessioni degli «enciclopedisti» quanto nei costumi diffusi in America. Ad ogni modo, nel proprio discorso lo scrittore si concentrò sulle profonde incongruenze sussistenti tra il sistema europeo e il sistema statunitense: agli americani, nella loro volontà di felicità e nel loro rifiuto dell’infelicità, manca il «gusto» – concetto di cui proprio un illuminista della prima generazione, ossia Montesquieu (1689-1755), aveva elaborato una definizione destinata a essere ospitata nell’Encyclopédie –, che Camus definì attraverso Constant (1767-1830) come qualche cosa di simile al concetto di misura; inoltre, lo stesso Camus sostenne che «il rifiuto sistematico per l’ideale» costituisse un notevole elemento di lontananza tra le due civiltà poste in esame: il filosofo riteneva che proprio da tale «gusto per la concretezza» derivasse agli statunitensi il «rifiuto di tenere in considerazione certi fondamentali della tragedia europea, i fondamentali ideali e metafisici». Quest’ultimo fu l’elemento sul quale lo scrittore pose maggiormente la propria attenzione, identificandolo come un rischio tale da generare fenomeni deleteri: «[...] il tipo di pericolo che può venire dall’America sta proprio in questa tendenza a spingerci al livello diretto dei fatti della vita così come accade, e che [...] rischia di ridurre un certo numero di sensibilità a dei livelli in cui non è auspicabile che delle sensibilità siano ridotte». Critica e rivendicazione, dunque, all’interno della medesima posizione. Oltre alle considerazioni evidenziate, durante la conferenza del ’55 ad Atene Camus ne sviluppò altre: parlò dei rapporti sussistenti tra esistenzialismo ed intellettuali francesi, del carattere proprio del romanzo, dell’irrazionale in ambito scientifico, della rilevanza legata ai limiti geografici, e di altri argomenti ancora. In questa sede, tuttavia, è parso opportuno sottolineare i ragionamenti di cui sopra, i quali lasciano trasparire ciò che globalmente la conferenza asserì: Camus fu un europeista di orientamento federalista, nonché una mente capace di interpretare il proprio tempo con lucidità e lungimiranza («Ho il senso del presente, in modo abbastanza acuto e forte [...]»). Il pluralismo connesso alla scienza positiva e alla dignità umana, il concetto ellenistico di misura come ideale di rigenerazione, l’equilibrio nell’inestinguibile dialettica tra libertà e giustizia, la forte necessità di unità e istituzioni comuni, il gusto e i fondamenti idealistico-metafisici. Le dense riflessioni di Camus, forti della loro ragguardevole attualità, smuovono inevitabilmente gli animi: dei più giovani in particolare. Riusciranno a costruire solide navi con le quali veleggiare verso una florida Europa, un’Europa futura?


Rubrica Erasmus: Timisoara (Romania) di n Enr ico Stinghe

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o partecipato al programma Erasmus nel 2019 a Timisoara, cittadina ad ad ovest della Romania nota per la produzione della birra Timisoreana, il più antico marchio nel paese (e vero orgoglio locale), e per i suoi splendidi parchi. Il mio Erasmus non iniziava con le aspettative migliori del mondo: soli esami a scelta riconosciuti (oltre a due esami da dare in Italia prima della laurea), scetticismo da parte di professori/amici e parenti, luogo sconosciuto e poche informazioni sulla città molto spesso condite da luoghi comuni. Tuttavia, ero desideroso di ribaltare questa condizione iniziale di svantaggio e farne un’esperienza memorabile. Il grande sogno nel cassetto che coltivavo dal mio precedente Erasmus a Riga (Lettonia) era di continuare il viaggio nei paesi della Mitteleuropa, innamorato dalla letteratura di Magris (Danubio). In questo senso, Timisoara era loca-

lizzata in una posizione ideale: confinante con la Serbia, vicina a Ungheria, Slovacchia e Austria (l’influenza austriaca sulla città infatti è evidente nell’architettura e nel cibo). Inoltre, la città era dotata di un aeroporto internazionale con molte compagnie low-cost e di un costo della vita super economico. Con studenti francesi, tedeschi, portoghesi e spagnoli conosciuti al campus universitario, abbiamo organizzato viaggi con i mezzi più disparati: in Flixbus fino a Vienna, in treno-notte fino a Budapest, in car-sharing fino a Chisinau, in aereo per Francoforte, in macchina a Belgrado-Budapest-Praga. Viaggiare e condividere esperienze all’estero insieme a ragazzi internazionali è difficilmente ripetibile durante la vita lavorativa, per cui reputo - continua -

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preziosissima questa esperienza per la crescita umana e di scoperta di nuove culture e tradizioni diverse dalle mie. A posteriori, considero questi viaggi fondamentali per la capacità di stare con gli altri, di adattamento ed empatia che mi hanno aiutato anche nel mondo del lavoro con i vari colleghi avuti negli ultimi anni. Inoltre, alla luce della recente pandemia che ha limitato i nostri spostamenti, credo che il viaggio sia il sale della vita: ricordo ancora con entusiasmo le sere elettriche in ostello nel raccontarci particolari delle città visitate. Inoltre, questa esperienza mi ha dato ha dato un grande insegnamento: sforzarsi di parlare e conoscere la gente locale e approfondire la loro cultura,

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tradizioni e cibi può essere un’opportunità incredibile! Ricorderò per sempre le persone locali conosciute durante il mio soggiorno, di una grande bontà e sincera simpatia nei miei confronti, con cui ho condiviso splendide cene a base di ciorba (zuppa di verdure e carne), sarmale (involtini con riso macinato di maiale, verdure e spezie), papanasi (frittelle con panna montata e salsa di frutti di bosco) e rakija (distillato). E sicuramente, una volta possibile, tornerò a visitare quella cittadina verde e le persone che vi ho conosciuto! «Bella e non priva di malinconia, nonostante il suo verde, Timisoara racconta in ogni pietra una storia plurisecolare e aggrovigliata.» (Claudio Magris, Danubio).


Questa nuova rubrica di Eureka nasce con l’intento di fornire un angolo sul faceto della politica europea. Eurelax - la parte relax di Eureka - come la tanto declamata marca di materassi, vi allieterà nei momenti di stanchezza regalandovi un sospiro di rilassatezza. Non perdetevi allora la nostra parte Eurelax!

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«[...] La grande posta in gioco non è un governo di sinistra o di destra in tale o tale paese. La posta è la rinascita della libera civiltà democratica europea che può avere luogo solo sulla base di una Europa unita.» Dal discorso tenuto da Altiero Spinelli al 1° Congresso UEF del 27 agosto 1947

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