Lagi A. - Il tesoro della Principessa (2002)

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CAMPANIA FELIX

anno IV • n. 1 English extracts

SPECIALE MAGGIO DEI MONUMENTI

Comune di Buccino Assessorato al Patrimonio Archeologico, Architettonico e Ambientale via Vittime del 16 Settembre 1943 84021 Buccino (SA) tel. +39.0828.951008 • 0828.752311

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Arch. Giovanni Sacco

Spedizione in a.p.- 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Direzione Commerciale Campana

NAPOLI, I LUOGHI DELLA PIETA

Anno IV • N. 1 • maggio 2002 • E 5,00 •

Dalla scoperta, dalla tutela e dalla valorizzazione del Patrimonio Archeologico, Architettonico e Ambientale, la strada maestra per un vero e duraturo sviluppo economico e culturale della comunità buccinese. In una più ampia visione, l’ideazione e il f inanziamento di un Progetto Integrato Territoriale (PIT) denominato “Itinerario Territorio Antica Volcei”, progetto approvato dalla Regione Campania nell’ambito del P.O.R. Campania 2000-2006 Asse II-Beni Culturali. Tale itinerario coinvolge intorno al Polo Archeologico di VolceiBuccino altri quindici paesi facenti parte dell’ager Volceianus. A Buccino è già stato assegnato il finanziamento di 7.390.000,00 Euro per la realizzazione del Museo Archeologico e di 2.070.000,00 Euro per la valorizzazione del Parco Archeologico dell’antica Volcei.

ANNO IV • N. 1• MAGGIO 2002

ITINERARI ALLA SCOPERTA DELLA REGIONE

LUOGHI PAESI E CITTA

VENTAROLI, S. MARIA IN FORO CLAUDIO FRIGENTO ANTICHE PRESENZE BENEVENTO L’ARCO DI TRAIANO POLLA, IL SANTUARIO DI S. ANTONIO

LA TOMBA DEGLI ORI A BUCCINO I GIARDINI DELLA MINERVA A SALERNO MICCO SPADARO IL CASTELLO DI CICALA GLI ANTICHI TRATTURI DELLA DAUNIA


Il tesoro della Principessa

I LUOGHI DELLA MEMORIA

La tomba degli ori a Buccino

testo: Adele Lagi * foto: Soprintendenza Archeologica di Salerno

In alto: monili della tomba degli ori. Pagina successiva. In alto: ricostruzione della tomba degli ori, nell’Antiquarium di Buccino-Volcei In basso: parte di un servizio per cosmesi d’argento.

Nel giugno del 1995 a Buccino, in un piccolo campo posto ai margini dell’area archeologica di Santo Stefano, un aratro riportò in superficie un blocco di pietra squadrata. Fortunatamente, uno dei primi a vederlo fu un collaboratore locale della Soprintendenza Archeologica di Salerno, che notò la somiglianza tra questo e le lastre di calcare con cui era costruita la tomba 104, scavata negli anni Ottanta a poca distanza da lì, all’epoca dei lavori eseguiti dopo il terremoto e che, per la prima volta, avevano rivelato la grande ricchezza archeologica dell’area. Ebbe così inizio, grazie a questa casualità, ma grazie soprattutto all’attenzione che si era venuta creando nella comunità buccinese per la ricerca archeologica in corso in quegli anni, lo scavo della tomba 270, la tomba

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degli ori, la più ricca tra quelle scavate finora a Buccino. La possibilità di un intervento tempestivo fu garantita dalla grande disponibilità dei proprietari del terreno, che lo misero immediatamente a disposizione della Soprintendenza e che, con cordialità e partecipazione, ci seguirono giorno per giorno, tanto che negli occhi cerulei della nonna, vera matriarca della famiglia, divenuta per tutti noi “zia Filomena”, vedemmo passare l’ansia della ricerca, l’aspettativa e la certezza del risultato e, infine, l’orgoglio delle radici ritrovate. Lo scavo, nelle prime fasi, mise in luce un cumulo di pietre di diverse dimensioni, testimonianza di un’enorme frana che aveva coinvolto, come scoprimmo più tardi, tutta l’area del Santuario di Santo Stefano. Dopo aver rimosso gli strati di crollo, finalmente,

vedemmo emergere dal terreno i primi blocchi in situ di un edificio, che si rivelò essere una tomba a camera di cui restavano la parete sud e parte della parete est dove la struttura era stata ricavata da una roccia emergente dal terreno, così come l’accesso (dromos) alla sepoltura. Al di sotto di un sottile strato di calce, residuo dell’intonaco delle pareti, era conservato il corredo, organizzato per gruppi omogenei (le ceramiche, i bronzi, i monili), ordinatamente disposto intorno al letto funebre e sulla defunta, fermato al suo posto e preservato da violazioni, dal crollo della struttura stessa. Così le ceramiche a vernice nera, tutte di produzione apula, di diverse forme, erano disposte intorno al vaso più significativo: il bel lèbes gamikòs, il vaso della sposa, dalla complicata costruzione, con la decorazione

plastica a foglie e boccioli di loto; o il candelabro con la lucerna, disposto vicino alla porta e i monili probabilmente poggiati sul corpo della defunta. Proprio il letto funebre e gli oggetti personali deposti con la defunta sembravano aver subito il maggiore sconvolgimento a causa della frana, tanto che il cranio della defunta e i frammenti della corona della stessa si rinvennero fuori della sepoltura. Fortunatamente, i blocchi della parete in sito avevano trattenuto un prezioso set di vasi in metallo pregiato, probabilmente parte di un servizio per cosmesi d’argento, comprendente una bottiglia e una coppa in argento decorate con corone di edera lavorate a niello, uno strigile, alcune pinzette e spatoline, due laminette d’argento dorato con grifi e leoni affrontati, una conchiglia portabelletti del

genere cardium. Insieme a questi erano gli ornamenti personali costituiti da una ricca parure di oreficeria di produzione tarantina: due orecchini a doppia protome di leone e di ariete, due borchie circolari decorate da motivi vegetali in filigrana, una collana a maglia piatta e pendenti lanceolati, un bracciale in lamina con anima in rame e terminazioni a protomi leonine, decorate a filigrana e smalto colorato, due anelli digitali, uno dei quali conservava ancora il castone in corniola incisa con Afrodite ed Eros. Alcune testine in argento potrebbero far parte di una collana simile a quella rinvenuta nella tomba di Roccagloriosa, o essere decorazioni dell’abito o di una cintura. Il vasellame in bronzo era invece disposto a lato del letto funebre: due vasi per liquidi (olpai) con

coperchio e colino, un bacile con doppia ansa con attacco a palmette traforate, e un’applique con un leone che assale un cervo, un candelabro con piedi leonini nascenti da teste di grifo. Un bell’esemplare di specchio a teca, con coperchio ornato da una figura di Tritone che cavalca un mostro marino, doveva far parte dell’insieme per cosmesi, anche se fu rinvenuto presso l’angolo sudovest della tomba. La presenza di tombe di grande ricchezza - la tomba 104, a pochi metri di distanza da quella degli ori, ha restituito, tra l’altro, un vaso firmato dal ceramografo pestano Assteas - denota l’emergere, alla metà del IV sec. a.C., di un nuovo ceto dominante, da identificare, verosimilmente, con quello che “fondò” la città ed eresse le mura sul finire dello stesso secolo. Di

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Ai confini della Daunia

NATURA DA SCOPRIRE

Alla ricerca degli antichi tratturi testo e foto: Andrea Perciato

In alto: parte del corredo funerario. In basso: frammento di lekythos con firma del ceramografo Assteas, IV sec. a.C.

tale classe dominante era dunque membro la signora degli ori. Ancora più intrigante e complesso sembrò il suo ruolo quando l’ampliamento dello scavo nell’area circostante la tomba mise in luce, a pochissimi metri di distanza, una struttura sacra cui essa non poteva non essere legata. In una piazza lastricata con basoli di pietra locale e delimitata da muri in opera poligonale (grossi blocchi irregolari montati a secco) erano ricavati due pozzi per l’acqua, mentre uno stretto podio, leggermente rilevato, conduceva a una vasca, quasi una depressione nel piano basolato, dove si raccoglieva l’acqua proveniente da uno speco nel muro, vasi per attingere l’acqua erano invece disposti lungo i muri perimetrali. La funzione sacra dell’area, confermata dal rinvenimento di alcuni oggetti votivi, risulta chiaramente legata alla presenza dell’acqua e per il confronto con simili complessi in territorio lucano (per esempio il Santuario di Macchia di Rossano di Vaglio) è possibile ipotizzare un culto di Mefite, una divinità che fa da tramite tra il cielo e la terra, colei che sta in mezzo (osco mefia equivale al latino media e al greco mese) e dunque divinità dei vivi e dei morti, sempre legata alla pre-

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senza dell’acqua. Sembra chiara conferma dell’aspetto ctonio (sotterraneo, legato al mondo dei morti) del culto, il rinvenimento di un melograno carbonizzato tra i resti di un sacrificio su un altare sotterraneo, identificato nel recinto sacro che aveva preceduto, in età tardo arcaica (fine VI-inizi V sec. a.C.), la piazza lastricata. La signora degli ori, membro dell’aristocrazia dominante, fu verosimilmente sacerdotessa di Mefite

nel complesso del grande Santuario a terrazze di Santo Stefano, e per questo fu sepolta nell’ambito della stessa area sacra, così come avvenne per il defunto deposto nella tomba 104 sulla terrazza superiore del santuario, dove sembra attestato l’aspetto maschile del culto. *Funzionario della Soprintendenza Archeologica per le province di Salerno, Avellino e Benevento

Info pag. 78 English extract page 72

La vasta zona qui considerata comprende l’estremità orientale dell’avellinese, racchiusa tra i corsi fluviali del Miscano, del Cervaro, del Calaggio, dell’Ufita e del Calore. In questo territorio, in gran parte collinoso, si trovano i principali valichi della Campania che s’affacciano al Tavoliere, lungo i quali si è progressivamente sviluppata la viabilità antica, passando dai primitivi tratturi alle vie romane, dalle strade medievali alle moderne autostrade. In questa area - che spazia dalle zone meridionali ai rilievi del Sannio, dalle greggi del Tavoliere occidentale a quelle del Molise meridionale transitava una via, poco conosciuta dallo stradario delle “consolari” romane e che, indicata come la Minucia (o Minutia), da un’antica e nobile famiglia romana, proseguiva nelle stesse direzioni delle rotte tansumanti. Ma, ancor prima

che i Romani frequentassero questi territori, i Sanniti trovarono questi percorsi già modificati dall’uomo e già battuti dalle greggi. Dopo la romanizzazione del Sannio, i coloni edificarono le loro dimore nelle vallate, costellando il paesaggio di una miriade di pagi (villaggi), che determinarono la deviazione della vecchia strada Egnazia (che scorreva sui crinali montuosi) e la creazione di altri collegamenti. In seguito, i Romani proposero una regolamentazione per queste vie armentizie, definendole calles pubblicae (vie pubbliche) ed emanando leggi e decreti che tutelavano, lungo il loro percorso, mandrie e mandriani, pecore e pastori, ben intuendo l’enorme ricchezza che poteva derivare da queste attività. Fu così che il destino dei tratturi divenne strettamente collegato all’evoluzione della transumanza. Queste piste

erano di vitale importanza per lo sviluppo della pastorizia, e ad esse fu destinato un razionale sfruttamento delle locazioni, relativo ai territori riservati al pascolo. Lungo queste vie, numerosi furono quei punti di sosta (conosciuti oggi come taverne) individuati come stationes, lungo i quali sono andate formandosi le attuali contrade di campagna. Dal XVI secolo in poi le tracce dei tratturi cominciarono progressivamente a scomparire, sostituite da coltivazioni. L’architettura di questo paesaggio oggi è costituita essenzialmente da dolci declivi collinari ricchi di vegetazione arborea. Coloro che oggi vivono in quest’area - il cui ricco sottosuolo ha restituito alla luce antiche monete, servite sicuramente come dazio per il passaggio - si raccolgono in pochi e sparsi nuclei familiari, dislocati in un paesaggio che, durante i bianchi e

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I declivi di Fiego visti dal Regio Tratturo.


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