Cadillac 8 [24 giugno 15]

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CADILLAC # 8 | anno IV | giugno 2015 direttore responsabile Ruolo Scoperto redazione Cadillac hanno collaborato Claudio Bagnasco, Martin Hofer, Mauro Maraschi impaginazione Manfredi Damasco copertina Il Pistrice ringraziamenti Bernardo Anichini, Manfredi Ciminale, Andrea Mongia, Marco Rufus Petrella, Francesca Protopapa, Francesco Tagliavia

Pubblicazione casuale Cadillac Magazine https://cadillacmag.wordpress.com/ cadillacmagazine@gmail.com

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editoriale di

Quel che resta del giornale

Benvenuti nell’ultimo numero di Cadillac, e buona lettura.

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indice editoriale Janusz Rudnicki Morte di un cane ceko Marco Drago L’esoterismo dell’aspirapolvere Giacomo Verri Grandi grandi, dolci dolci Francesca Marzia Esposito Io mi salvo così Andrea Esposito La fine del mondo Claudia Bruno Le cose che non dico Danilo Soscia Il dio dei conigli Marco Rufus Petrella Teju Cole: “Ogni giorno è per il ladro” + “Città aperta” Diego Bertelli Denkmal Francesca Giannone Tra altri sedici anni Claudio Bagnasco Nel ripostiglio Francesca Santucci Le formiche le formiche Angelo Calvisi New Years Popstar Maria Renda Miss America Lucia Brandoli La coperta

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indice inserto

“ l ’ inquieto” [a cura di Anichini e Hofer]

Margareta Nemo L’amico fottesega Laura Salvai Tre escavatori gialli Lisa Biggi Tre monete d’oro Fabrizia Conti Un atteggiamento borghese C adillac 8 ½ [copertina di Manfredi Ciminale] Slawka G.Scarso Tiro al piattello Francesco Vannutelli Alessandro Sabina Rizzardi Denti a specchio Chiara Nuvoli Sofficini Anna Giurickovic Le rose di Leila Daniele De Serto La banda

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morte di un cane ceko Janusz Rudnicki

traduzione di Francesco Annicchiarico

U

n paio di anni fa gli zingari si misero a occupare il campo di concentramento di Bergen-Belsen. In questo modo lottavano per il riconoscimento del loro status di minoranza in Germania; per i risarcimenti, per quello che era successo a suo tempo. Bisognava farlo lì dove in passato si veniva uccisi, ecco perché Bergen-Belsen. Ecco perché c’era stato anche lo sciopero della fame a Dachau (!). Eppure, nessun pezzo grosso se ne fregò molto delle loro proteste, anche se così eclatanti. Questo il motivo che rese la protesta tanto lunga da indurli a mettersi comodi, letteralmente. Fino a che la polizia non li cacciò via, il campo di Bergen-Belsen divenne la loro nuova casa, per un lungo periodo. Le nove di mattina. Siedo a letto. Testa penzoloni. Occhi chiusi. Colpa dei colombi che tubavano, già dall’alba. Ancora una volta. Un solo colombo, in effetti. Il simbolo dell’amore, della pace e dello Spirito Santo. Il solista. Uno solo è peggio. Il solista è irritante, il coro soporifero. Quindi mi ristendo sulle mie vecchie spalle, bestemmiando.

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cadillac 8 Mi alzo, mi trascino fino alla buca delle lettere, una di queste è un volantino, è l’anniversario di “Grandi Affari”, quarantanove anni di attività. Mi dirigo verso “Grandi Affari”, magari compro qualcosa. Non compro niente, esco, passo davanti a una rosticceria, polli a prezzi da anniversario, mezzo per due euro, e un panino. Compro, mangio, sulla panchina, c’è sole ed è una bella giornata. Mangio con le mani, come piace a me. Passa un vecchio signore col suo vecchio cane, il cane zoppica e il vecchio zoppica, temo per il mio pollo, ma anche lui ha un pollo e il suo cane non si cura di me. Il vecchio signore si siede sulla panchina a fianco, dà da mangiare al cane, il cane mangia. Pure io. Mi squilla il telefono, nella tasca, non posso rispondere, ho le mani sporche, proprio perché mangio con le mani. Mangio e il telefono suona, una musichetta qualunque, era già impostato così, ogni volta voglio cambiarla con un trillo classico, ma mi chiamano tanto raramente che ogni volta me ne dimentico. Una panchina, il sole, il pollo e questa allegra musichetta imbecille. Passano due donne, parlano in polacco, sono polacche. La prima: - Se la spassa quel barbone, eh? La panchina, il sole, il pollo la musica, mica male come picnic. La seconda: - Che ne sai tu che è un barbone? La prima: - Come che ne so, non lo vedi anche tu? Scommettiamo. La seconda: - E come si fa a vedere chi ha ragione? La prima: - Gli do dei soldi. La seconda: - Ma smettila. Io dico che è uno zingaro. Passano, ripassano, ho mangiato, vado a casa. A casa mi stendo, sono sonnolente per colpa di quella sveglia sconquassata. Abbastanza riuscita questa prima mezza giornata. Neanche tanto male direi. Ce ne sono state di peggiori. Mah, tra mattinate o pomeriggi, quante giornate mi sono andate in malora per intero.

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Janusz Rudnicki, Morte di un cane ceko

Sarei rimasto a vedere cosa avrebbe portato l’altra metà del giorno. Se niente allora non mi sarei lamentato, del resto, poi, di pomeriggi e serate riuscite ne avevo avute molte, un uomo non dovrebbe pretendere troppo se già di suo è una boa solitaria sperduta nel mare della quotidianeità, vero? Avrei dormito, forse qualcosa mi avrebbe svegliato, se niente allora non mi sarei lamentato, neanche se lo avessi voluto, come ci si può lamentare mentre si dorme? Mi sveglia l’abbaiare di un cane, dal telefono. Il telefono mi sveglia, e nel telefono c’è un cane che abbaia. Mi ha chiamato un cane? Un istante dopo la voce di un uomo in primo piano. Disturbata, molle. Tanto molle da scivolargli tra le gengive. La voce di uomo anziano parla, chiede se sia stato io ad attaccare al palo quel volantino dove dicevo che potevo occuparmi dei cani. Io dico che sono io. Lui dice, appunto l’avevo chiamata oggi per questo motivo, ma non mi ha risposto nessuno. Io dico, beh, effettivamente qualcuno ha chiamato, ma stavo mangiando un pollo proprio in quel momento, con le mani, perché è l’anniversario di “Grandi Affari”, vicino casa, lei mi capisce, non potevo rispondere. Lui dice, “Grandi Affari”? Anche...anche io stavo lì, ho comprato un pollo per il cane e... Io dico, il suo cane zoppica, vero? Lui dice, sì! Anche io zoppico. Ma lei come fa a... Io dico, chiedo, e ha dato da mangiare del pollo al cane sulla panchina? Lui dice, proprio lì! Ma lei come fa...ah, quello era lei? Era lei seduto sulla panchina a fianco a mangiare? Io dico, sì, io. E chiedo, ma allora è stato lei a telefonarmi? Lui dice, proprio io. E chiede, e quella...quella musichetta... Io dico, è il mio telefono, ce l’ho al posto dello squillo, dimentico sempre di cambiare la suoneria, sa com’è, mi chiamano raramente...

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cadillac 8 Lui dice, da non credere, quant’è piccolo il mondo. Lei sulla panchina, io sulla panchina...E chiede, allora, può venire qui da me? Io dico, certo, e chiedo, quando? Lui dice, oggi, anche adesso, se può. Io dico, sì, posso. Ma...dove di preciso? Lui dice, ah sì, mi scusi, maledetta vecchiaia, ha da scrivere? Mi dà l’indirizzo, il cognome e parla ancora. Che il cognome sul citofono del palazzo l’ha scritto a mano, tutto storto, ma io, sa signore, dice, scrivo come parlo, e parlo così perché non ho i denti. Vado, porterò il cane a passeggio, perché no. Ho già avuto un cane una volta, lo avevo, poi è morto. Una femmina di boxer, Asta. Era malata, il veterinario mi disse che sarebbe venuto a sopprimerla, che le avrebbe fatto un’iniezione, un veleno. Era distesa immobile sul pavimento in cucina a guardarmi. Non le davo mai del pollo, per evitare che potesse farsi male con gli ossicini. Uscii, ne comprai mezzo allo spiedo, lo mangiò distesa. Arrivò il veterinario e le diede un sonnifero, dopo di che lei vomitò quell’ultima cenetta e morì. All’epoca abitavo in un palazzo molto vicino al bosco, andai nel bosco, scavai una buca, ritornai a casa, aspettai che fece buio, altrimenti sai che circo nell’isolato, la distesi su uno slittino, perché era già caduta la neve e lei era pesante, e mi avviai. Camminai avanti e indietro con lei, perché non ricordavo bene dove fosse il posto, ed era buio, cercavo quel buco, il buco non c’era. La lasciai, perché era difficile trascinare lo slittino in mezzo agli alberi, e continuai a cercare da solo, camminavo e mi bestemmiavo da solo, finché finalmente la vidi, l’avevo trovata, l’avevo scavata per lei e per poco non ci finivo dentro io, finalmente, andai a prenderla, camminavo e camminavo, non c’era, non riuscivo a trovarla! Che succede, che succede?! Asta?! L’urlo quasi mi squarciò la gola, ancora un altro così e me ne sarebbe rimasta solo per fischiare. Alla fine la trovai, quasi ci camminai sopra, e la seppellii, pensando che se un uomo ha un buco, allora non ha un cane, e se ha un cane allora niente buco, o no? E questo è quanto.

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Janusz Rudnicki, Morte di un cane ceko

Ci sono, citofono, entro, monto le scale, tante di quelle scarpe alle porte sui ballatoi che sembra Auschwitz. Mi presento. Lui dice che si sente male, miseramente, ma il cane bisogna portarlo fuori due volte al giorno, lui non ce la fa più. Dice di zoppicare, pure il cane zoppica, qualche volta bisogna trascinarlo per le scale, o riportalo a casa in braccio, è troppo pesante per lui. E poi ci sono tante di quelle scarpe in mezzo alle scale che non si può passare, ci abitano i turchi qui, ecco perché. Mi dice di dargli da mangiare, gli ha dato la sua ciotola, così si abituerà presto a me. Haf-Haf, abbaia, cioè, lui abbaia, e dice che così abbaia un cane in ceko. L’ha comprato nel villaggio di Medlov Králová, un bel nome vero? Lui è nato in quel villaggio, per questo s’è portato dietro un cane da lì, per farsi, haf-haf, abbaiare in ceko, e non sentire il solito bau-bau. La sua flebo ceka, questo cane. Do la ciotola al cane, il cane mangia. Il cane ha mangiato. Lui dice che posso andarci insieme al parco, e che quando torno regoliamo il conto. Io dico, scherzando, che non c’è problema, che ci metteremo d’accordo meglio che per Zaolzie1. Ride lui per primo, poi rido io. Scendo le scale col cane, ogni gradino per lui è come un ostacolo della Velká Pardubická2. Lo prendo in braccio, è pesante, scendiamo, che gli prenda un colpo a ‘ste scarpe. Camminiamo per strada, tengo il guinzaglio, il cane mi cammina dietro. Lentamente. Di colpo un’ambulanza, sbucata dal nulla, accende la sirena prima dell’incrocio. Passata, tiro il guinzaglio, niente, un macigno. Mi giro, il cane è steso, non si muove. Lo chiamo, tiro, il cane resta per terra. Arriva una donna incinta, si china sul cane, gli tocca il collo, dice che è morto. Le è difficile rialzarsi con quel pancione, l’aiuto ad alzarsi, dice che ora ci manca solo che le si rompano le acque, le chiedo se sia il caso di chiamare un’ambulanza, dice di no, che è ancora troppo presto e che è meglio che mi occupi del cane.

1. Zaolzie è il nome di una regione al confine tra Polonia e Repubblica Ceca, contesa tra i due stati durante i conflitti mondiali e poi passata definitivamente ai Ceki. 2. Prestigioso torneo equestre ad ostacoli. Si corre ogni anno in Boemia.

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cadillac 8 Dico di farcela, che il suo pancione è più importante. Prendo il cane in braccio, pesante come un televisore e me ne vado. Lo porto su una panchina, mi siedo con lui sulla panchina, ci sediamo sulla panchina. Il suo muso ceko sulle mie ginocchia polacche. Titillo un po’ il suo musetto. Lo accarezzo come se dormisse, non voglio suscitare scalpore. Penso a cos’altro fare. Un taxi non me lo prenderebbe. Portarlo a casa in braccio? È pesante, ma non c’è altra via d’uscita. Mi alzo, voglio tenerlo come un bambino, così come si tiene un bambino per fargli fare il ruttino, con la testa sulle spalle, ma è troppo grosso, allora lo porto così, penzoloni dal braccio, lo porto come i soldati o i pompieri portano in braccio i bambini feriti o ustionati. La gente si volta, commenta, chiede cosa è successo, io rispondo che è stato anestetizzato per un’intervento e non riesce a svegliarsi, vecchio com’è. I bambini mi chiedono come si chiama, non lo so, ho dimenticato di chiederlo e il ceko ha dimenticato di dirmelo, maledetta vecchiaia, quindi ci rifletto un momento, rispondo che si chiama Pepik3, i bimbi mi vengono dietro, strillano Pepik, Pepik svegliati, sempre più bimbi. Tanti che ormai mi trovo alla testa di una piccola processione, inizia a formarsi del traffico perché si fermano alcune macchine incuriosite, dietro di loro la gente bussa sui clacson...niente male come funerale per un immigrato ceko del villaggio di Medrov Králová. Un bel nome... Medrov Králová. Non so che fare, vedo un’officina dove riparano i televisori, ne ho le tasche piene di questa processione, ci entro. Una donna alla vista di me col cane e della ressa fuori dalla finestra sviene, sbuca dal retrobottega un uomo, guarda me, il cane e la Stesa, si incanta anche lui, perciò l’officina di televisori si trasforma in un’officina di automi immobili, nella quale l’unico visitatore sotto forma di me stesso stende il cane a terra, chiude la porta e rianima la Stesa. La Stesa si alza, racconto cosa è successo, non mi stanno a sentire, la Stesa prova

3. Pepik è il nomignolo, popolare e leggermente offensivo, col quale i polacchi chiamano i ceki.

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Janusz Rudnicki, Morte di un cane ceko

a sbarazzarsi del Tizio in piedi con un “Alt, zitto tu!”, che perdita di tempo, mi guardo intorno, cerco un cartone grande, vedo un cartone grande, ci infilo il cane dentro, fatto, guardo dalla finestra se c’è via libera, è libera, esco, pesante questo cartone, lo tengo in braccio, penso che chiamerò un taxi col telefono, solo ora posso farlo, lascio il cartone per terra, voglio chiamare un taxi, non ho il numero, lascio il cartone lì per terra, torno all’officina, il Tizio in piedi sta già meglio: ora siede, la Stesa china su di lui: è in piedi, chiedo il numero del taxi, me lo danno, chiamo, prenoto il taxi, esco, il cartone non c’è. Scomparso. Guardo a destra, a sinistra, non c’è. Dov’è il cartone?! C’è qualcuno alla fermata del bus, sembra un controllore, magari lo è, chiedo del cartone, l’ho posato qui un attimo fa e non c’è più. Il televisore? L’hanno preso gli zingari, sono arrivati in macchina e l’hanno preso, era suo? Beh, l’hanno rubato, quei ladri, io ho visto tutto, quelli si fregano tutto. E come mandarla giù una cosa così? Ladri di televisori a forma di cane? Il mondo oggi va a rotoli a spese mie. Il cuore mi batte come una campana. E nelle orecchie mi risuonano le campane, non riesco a sentire niente. Chiedo al Controllore se le sente anche lui queste campane, ma lui non mi sente, mi urla di parlare più forte perché ci sono le campane che suonano, dalla chiesa a fianco. Ma tra un battito di campana e l’altro, come se già non fosse troppo, qualcosa strombazza, mi volto, è il taxi, il Tassista mi chiede se sia stato io col telefonino ad aver chiamato una vetturina, rispondo di sì e d’improvviso mi balza un pensiero in testa che non mi riesce di sbalzare fuori, perché tutto questo? Devo tornare dal tipo e poi? Cosa gli dico al Vecchio Ceko? Che il cane è morto stecchito? Che faccia gli faccio quando dirà va bene, ma dov’è? Gli dico che si è suicidato e poi si è dato alla macchia, o che me l’hanno rubato per guardare la tivù? Perciò chiedo al Controllore da che parte siano andati quelli col mio cartone, il Controllore mi mostra dove, chiedo con quale auto,

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cadillac 8 il Controllore mi dice con quale, con una strana, simile ad un carro funebre, salgo sul taxi, dico cos’è successo, dico che dobbiamo ingaggiare una specie d’inseguimento, il Tassista chiede, tanto per dire, quale macchina dobbiamo inseguire, gli dico quale, partiamo. Così veloce che per poco non gli si stacca Gesù Cristo dal parabrezza. Il Tassista è preso dall’inseguimento, io ancora di più, e poi, all’improvviso, una specie di musichina idiota alla radio, alla radio? No, è il mio telefono, non rispondo, è il Vecchio Ceko, di certo è lui, un incrocio, da che parte andiamo adesso? Ci rinuncio, tutto questo non ha senso, voglio scendere, il Tassista mi dice di non mollare e di non scendere, e che se mi frulla qualcosa di brutto in testa, allora è il caso di pensare che al mondo non c’è camicia che non si possa stirare. Il Tassista dice che così dice sua moglie, che è una che ha studiato, e che lui conosce un posto dove loro, gli Zingari, sono proprio tantissimi. E ci stanno di notte, e di giorno, a menare il can per l’aia, come fossero in un museo a cielo aperto, nel bel mezzo di Bergen-Belsen, l’istinto non l’ha ancora tradito, mai, anche un cecchino, dice lui, ogni tanto può sbagliare, ma un tassista giammai. Mi pare proprio stano, Bergen-Belsen è stata un campo di concentramento, appunto, dice il Tassista, appunto signore caro, è proprio qui che se ne sbarazzarono. Sospiro, siamo un po’ lontani da Amburgo, non devo preoccuparmi, lui spegne il tassametro, andiamo a tariffa adesso, andiamo allora? Andiamo. Velocemente. Quasi quanto questa storia gira in tondo. Siamo arrivati. Il Tassista si ferma sulla porta, quella dell’auto, in mezzo ad auto simili a carri funebri. Il Tassista col pretesto che gli fregano il mezzo resterà qui ad aspettare, entro dunque da solo. Mi fermo al cancello. Nel campo fiammeggia un falò, mamme sparpagliate qua e là allattano neonati attaccati qua e là, i bambini giocano a nascondino, gli uomini giocano a carte. Resto immobile all’entrata, mi guardano. Ovest, ho il sole dietro di me, dietro alle spalle, davanti a me si stende una lunga ombra.

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Janusz Rudnicki, Morte di un cane ceko

Le mamme smettono di allattare, i bambini escono dai nascondigli, gli uomini smettono di giocare. Cerco con gli occhi il mio cartone, non lo trovo. Si alza uno degli uomini, forse uno importante, viene verso di me. Penso a cosa dirgli, magari che se non mi ridanno il cartone col cane me ne vado, ma ritorno stanotte e li brucio vivi tutti? Apro la bocca, ma l’Importante è più svelto, con un tedesco arrancante in più punti parla, le do il benvenuto signore nei nostri tragici alloggi, lei è il primo tedesco che scende a trovarci. Lei è un uomo che ha fretta di salvare l’onore del popolo tedesco. Di conseguenza a questo fatto, signore, avrebbe lei piacere a prendere parte ad una cena condivisa insieme a noi tutti? Dico, un momento, torno subito, vado dal Tassista, gli dico di andarsene, io resto qui, gli spiego perché, dico che esistono cose che è impossibile disdire. Il Tassista mi dice di scappare via da qui, che c’è qualcosa che non va in questo posto, ha visto tanta polizia, e un po’ se la fa sotto. Non posso, dico, non posso, abito in questo paese da vent’anni ed è il caso che faccia io qualcosa per lui, e non solamente vendicarmi della seconda guerra mondiale, sebbene sia uno dei miei sport preferiti. Il Tassista comprende, mi augura che il Signore sia con me, rispondo di no, è meglio che Dio resti con lui, visto che per il suo mestiere Dio è più importante, il Tassista ringrazia per avergli reso Dio, sale in macchina e se ne va, io torno al campo. Mi stanno già aspettando vicino al Grande Fuoco, ricevo il posto d’onore e alcuni fiori, gli uomini iniziano a suonare, le donne iniziano a ballare, i bambini si siedono vicino ai miei piedi. Distribuiscono cibo dallo spiedo, ricevo un piatto di carne fumante, sono affamato, mezzo pollo per tutto il giorno è pochino, inizio a mangiare, con le mani, come piace a me. Siedo e mangio con coloro che abitano il suolo dove vennero letteralmente polverizzati i loro antenati.

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cadillac 8 Inghiotto il primo boccone, strano sapore, chiedo, ma che carne è, parla l’Importante, non importa, dice, importa che sappia di buono, guardo verso lo spiedo, poi alla carne e in un istante mi spengo, lampadina fulminata. Non starò mica inghiottendo la flebo del Vecchio Ceko? Mi sento mancare, sverrei se non fosse per una musichetta imbecille, è il telefono che mi squilla. Non posso rispondere, ho le mani unte, proprio perché mangio con le mani, come piace a me, passano due polacche per il campo, una dice, lo vedi che è uno zingaro, c’avrei scommesso.

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l’esoterismo dell’aspirapolvere Marco Drago

[Tratto da L’amico del pazzo (Feltrinelli, 1998)]

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he alla gente piaccia annusare l’aroma delle proprie scoregge è quasi un dato di fatto. Sfuggono all’inclusione in questa categoria le persone fondamentalmente bugiarde o quelle entrate misteriosamente in sintonia con un sistema (educativo e non solo) un po’ inumano e artificioso. Un sacco di gente sonnecchia non lasciandosene sfuggire nemmeno una. Come si fa lo sanno tutti: o si caccia direttamente la testa sotto oppure si muovono le lenzuola a mantice. Ecco fatto: una sventagliata di prodotto personale ci riporta chissà dove e a chissà quando. Il fatto è che queste sono e restano, giustamente, attività private, di cui si parla poco se non punto. Dico “giustamente” perché è giusto avere segreti, anche piccoli irrilevanti segreti come questo, dunque non approvo minimamente quello che la donna che amo sta cercando di insegnare al figlio che è nato dal nostro matrimonio. Mia moglie è in procinto di raggiungere una specie di paradiso in terra che si trova nella sua interiorità. Io ne sono felice. Devo ammettere che questa è una delle caratteristiche di mia moglie che più ammiro: sa davvero dedicarsi del tutto a un’attività, a una passione, a un interesse. Ora è lì che caracolla un po’ di qua e un po’ di là alla ricerca di una filosofia perfetta che raccolga quello che

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cadillac 8 l’uomo ha scoperto di sé in qualche migliaio di anni e all’interno di culture anche distanti fra loro. Tutta la sua vita quotidiana è dunque cambiata radicalmente almeno tre volte, da quando ci siamo sposati. L’ho conosciuta nel 1984 a Viareggio. Ero lì per assistere a un convegno sui molluschi e lei era standista per la Camera di Commercio. Avevo ventisei anni e una fidanzata che teneva fiori morti in camera. Mollai la fidanzata, che più tardi prese a tenere animali morti in camera e ora è lei stessa una specie di animale morto anche se non le parlo più da una vita, e mi misi con Dalia. All’epoca lei aveva ventinove anni e la sua caratteristica distintiva era l’interesse scientifico nell’astrologia. Bene, mi ero detto, anche mia sorella aveva per anni studiato e praticato oroscopi e tutto quel mondo non mi era estraneo, pur restandomi quasi totalmente indifferente. Dall’astrologia passò, scartando di lato di almeno centosettantasei gradi, a una setta legata a un guru particolare, quasi sconosciuto ai più ma molto venerato soprattutto negli Stati Uniti. Quello portò il primo grande cambiamento nella nostra vita: lei non toccò più un pezzo di carne o di pesce, non toccò più un goccio d’alcool, iniziò a interessarsi compulsivamente di tecnologia (computer e reti informatiche) e ruppe del tutto con l’astrologia. A Natale e Capodanno (ogni Natale e ogni Capodanno) andava a Dijon in Francia a pregare un paio di settimane per il suo guru. Questa cosa ebbe la durata record di quattro anni. Poi litigarono per del denaro, Dalia e certi suoi correligionari, e i suoi giudizi su di loro e anche sul misterioso guru cambiarono drasticamente di segno. Riprese a accettare che mangiassi carne in sua presenza e che accennassi, ogni tanto, all’esistenza di cose come il cinema, i teatri, le vacanze al mare, la moto. Dopo il guru c’è stata questa ultima conversione. Non si tratta più di una setta, ma di una sua ricerca personale degna di ammirazione e auspicabile per tutti. Peccato che le Grandi Scoperte di questa sua ricerca personale io le abbia sempre sapute. Tipo quella di annusare le scoregge. Io ho sempre amato annusare le mie scoregge e sempre odiato annusare quelle degli altri. Logicamente non esiste una legge scientifica per questa distinzione e se c’è è, logicamente, una cretinata. Logicamente il tut-

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Marco Drago, L’esoterismo dell’aspirapolvere

to va ricondotto a un momento dell’umanità in cui il proprio odore era tutto per l’individuo eccetera eccetera. Di esempi come questo ce ne sono migliaia ed è tutto parte di un legame adesso nascosto ma un tempo evidente fra ogni uomo e un mondo preesistente, un luogo e un tempo di cui conserviamo una memoria quasi inconsapevole. Ebbene? Dite la verità: non sono cose che avete sempre pensato e che hanno sempre guidato le vostre scelte e le vostre preferenze senza che qualche filosofo esoterico o altro debba stupirvi scrivendole in un libro? Eppure mia moglie, da quando ha capito come funziona il meccanismo, non la smette più di pensarci, col risultato di compromettere quel poco di spontaneità indispensabile per essere davvero in contatto con non so quale energia cosmica. Adesso lei è olisticamente evangelizzante. Non so se mi spiego. Così adesso ha preso in ostaggio nostro figlio e gli sta rovinando l’infanzia. Ho sempre desiderato una donna non dedita soltanto ai figli e a stirare canticchiante davanti alla tv accesa, ma il lato esoterico dell’aspirapolvere di casa nostra non mi sembra possa rappresentare più di quello che già rappresenta. L’aspirapolvere è un oggetto con cui tutti abbiamo trafficato da bambini. Chi è quell’insano imbecille che non ricorda la mamma o la donna delle pulizie che passa l’aspirapolvere in casa, un tardo mattino di sole, quel rumore ipnotico e quella tonalità di colore perduto che assumono i mobili visti da un metro d’altezza? E allora che bisogno c’è di prendere proprio figlio da parte e dirgli che le cose nuove cui sta assistendo avranno presto valore di archetipi per la sua vita futura e che tutte confluiscono in un buco nero e profondo che è la nostra interiorità che è anche una perla per la quale combattere contro i draghi e l’arcobaleno è un serpente con la testa nell’acqua perché sta bevendo e tiene nascosto un tesoro come nelle saghe nordiche e Wagner? Tornando alla scoreggia di prima: perché non lasciare al bambino l’idea che quello sia un segreto tra lui e lui? Perché volergli per forza dire: “sappiamo che annusi le tue scoregge e bene, allora sappi che non c’è nulla di male”? Più tardi gli dirà: “sappiamo perfettamente che ti fai le seghe e che quando godi ti sembra la cosa più bella del mondo e allora sappi che fai bene. A proposito: ti esce già la sborra?”

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cadillac 8 Insomma. A ognuno le sue vere interiorità: ho paura che le interiorità descritte nei libri che legge Dalia abbiano uno spessore inversamente proporzionale ai soldi investiti dall’editore a pubblicare e a distribuire i libri stessi. Certo che amo l’aspirapolvere e il clistere e il chiosco dei gelati e Turo col carretto della farinata che fa pepè per attirare l’attenzione e il campanile che alle cinque suona settantasei volte. Certo che sono consapevole del fatto che migliaia di anni fa le donne avevano il potere perché ancora oggi lo sento forte. Certo che so che l’ebraismo e il cristianesimo hanno impresso un giro difettoso alla trottola e certo che i celti erano più felici di noi. Spererei che mia moglie lasciasse vivere in pace (in vera pace) almeno me e il nostro bambino. Non voglio dividere queste memorie antichissime con nessuno anche se sono memorie di tutti gli uomini, non voglio che qualche studioso con tempo da perdere mi sistemi anche quelle da qualche parte, però ho paura. Ho paura che succeda e ho paura di dover confessare a tutti che sono stato già in paradiso e che ci torno abbastanza spesso e senza grandi sforzi e grandi studi. Ho paura di dover parlare delle stanze dall’altra parte di questa grande casa chiamata “mondo fenomenico”. Sono stanze strane, no? Le conoscete tutti. Tappeti e mobili polverosi messi in modo come se volessero dirti qualcosa. Guarda la cassapanca. Che sinistra che è! Guarda perfino il prato che luce che ha e la gente nel prato come cammina trasognata e al rallentatore, con vestiti blu e rossi e gialli. La prima immagine di cui ho memoria ha a che fare con il paradiso, sono più o meno la stessa cosa o stanno nello stesso posto. So tutte queste cose, ne sono perfettamente cosciente ma non voglio che a mio figlio vengano insegnate come se si potessero imparare. Ieri le ho parlato. Gliel’ho detto. Per la prima volta mi sono permesso di muovere un’osservazione a Dalia e per la prima volta lei mi ha guardato con sospetto – un sopracciglio inarcato e un ghigno mai visto. Le ho detto che secondo me nostro figlio dovrebbe avere un’infanzia ordinaria e che tutto il can can sullo stupore infantile se lo sarebbe potuto tranquillamente godere a quarant’anni, così come lei se lo stava godendo a quarant’anni. Le ho detto che io, pur non avendo mai letto i libri che ha letto lei, già sapevo tutte quelle cose

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Marco Drago, L’esoterismo dell’aspirapolvere

sull’infanzia e sulla divinità, le ho persino accennato di striscio alle stanze del paradiso ma lei ha tagliato corto. Sono ancora riuscito a dirle che quelle sono percezioni cui ci si rivolge da adulti fatti e che noi possiamo sì favorire ma assolutamente non imporre. Lei mi ha detto che sbaglio l’impostazione, che la mia richiesta è senz’altro ragionevole e prevedibile (prevedibile? Ma se non ti ho mai rotto le scatole neppure in piena epopea-guru-indiano! Se andavi a Dijon tutte le settimane di Natale a fare chissà cosa e mi lasciavi coi tuoi genitori a mangiare scondito per via della pressione arteriosa di tuo padre!) ma che è una richiesta scorretta, contenente un difetto d’origine. Il difetto d’origine sta nel fatto che un bambino, per “rimanere divino”, deve essere educato a non riconoscere le seguenti suddivisioni: “pulito e sconcio”, “normale e mostruoso”, “benodorante e fetido”, “accetto e repellente”. Chiaro mio caro? Dunque nostro figlio deve assolutamente avere ben chiaro che queste suddivisioni artificiose non esistono. Io dico: “Va bene”. Poi dico: “Va bene”. Dico: “Va benissimo”. Che mio figlio rimanga per sempre divino non lo credo per nulla e nemmeno ci terrei più di tanto. Conosco un altro ex-bambino divino. Dalia non lo conosce perché questo era parente della mia prima fidanzata (ben prima anche di quella dei fiori morti). Sarà che il tipo d’uomo che sono attira soltanto certe donne, tuttavia la sorella di questa mia prima fidanzata aveva anche lei una specie di avversione per il sistema educativo tradizionale e dunque aveva mandato suo figlio in scuole antroposofiche, dove aveva imparato perfettamente a fare un ottimo pane integrale, ma dove avevano dimenticato – tra l’altro – di insegnargli a leggere e scrivere l’italiano correttamente. Ecco che a quattordici anni, per rimediare i disastri della scuola antroposofica, hanno dovuto fare (genitori e figlio) sforzi disumani per permettergli di frequentare un liceo classico. Alla fine al liceo classico ha rinunciato e ha preso un dignitoso diploma professionale. In ogni caso: le colpe dei genitori ricadono sempre sempre sempre sui figli. E non vorrei, proprio non vorrei, che a nostro figlio dovesse succedere una cosa simile. Non voglio un figlio divino ma diplomato in fresatura e semianalfabeta.

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cadillac 8 Poi la discussione è finita senza concludersi, come tutte le discussioni fra mariti e mogli. Mi sono sdraiato un attimo sul letto e adesso sono proprio lì, sul letto. Il mattino è ancora florido: saranno le dieci e un quarto. Dalle tapparelle lascio filtrare le fette di sole giallo e mi guardo intorno. Mia moglie, di là, ha attivato il frullatore e, di nuovo, il miracolo si compie: un trasognato sorriso mi si dipinge sul volto e odo anche un ronzio d’insetti per la stanza, come di bombi in cerca di campanule estive. La mente mi ondeggia: scherzo, godo, rumino ogni sensazione: bolla d’aria, frammento di cibo, trascolorare dell’aria, riccioli di polvere negli angoli della stanza. Rientro, nei secondi che seguono, in una casa che la memoria razionale ha dimenticato ma che sempre riappare in attimi come questo. È una casa forse appartenuta alla famiglia, forse no. Forse è casa di amici dei miei. Passavo intere domeniche in casa di amici dei miei senza sapere che cosa fare, a curiosare tra le librerie, gli armadi, i cassetti e tante vibrazioni mi riportano a quelle librerie, quegli armadi, quei cassetti, tutti ancora nitidamente impressi in qualche oscuro cantone della mia corteccia cerebrale. Il rumore del mattino appartiene a una sfera pre-scuola materna. Dopo l’inizio della scuola materna non ho più potuto godere di quelle tonalità di suono e luce. Si tratta di memorie piccolissime e rapide dei due anni, due anni e mezzo di età. Sono tutte intrappolate in me e riesco a disincastrarle soltanto per pochi minuti incantati e a rifarle vere e attuali, ora e qui. Nei sogni notturni, a volte, rivedo questa casa, con quella luce particolare. Anche in veglia, certe associazioni di pensiero rapide e inconsce, quasi inconsce. Stati d’animo che hanno un correlativo visivo proveniente dal pozzo infinito dell’infanzia remota. Quello lo chiamo paradiso e mi capita di passeggiarci piuttosto spesso e di abbandonarlo più ricco di prima, più smaliziato sul da farsi (strano perché in paradiso non c’è malizia), più pronto al disastro così come al trionfo, più pronto e basta. Il frullatore tace. Mia moglie trascina le ciabatte da una camera all’altra, in vestaglia e coi capelli divisi in ciocche naturali, in pratica spettinata e svestita. Ha una sensualità morbida e magica, vestita da

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madre casalinga, ha il sedere sporgente e le mammelle piene, una smorfia erotica in bocca e una sigaretta lasciata a bruciare nel portacenere. Chissà cosa le passa per la testa? Chissà cos’è che la mantiene in movimento sempre e comunque? Chissà dove ha trovato me e chissà dove io ho trovato lei? Passa un’auto con l’altoparlante sul tettuccio e parole distorte attraversano per pochi secondi tutto l’universo. Se Dalia sapesse del paradiso, sapesse della mia abilità naturale a avvertire il piano sottile degli eventi, che cosa cambierebbe per lei? Nulla. Lei ha iniziato un percorso individuale. Ha sempre preferito interessi che non prevedessero un marito. Di un marito già esotericamente attrezzato non se ne farebbe niente, non muterebbe la sua situazione e dunque non vale neppure la pena iniziare certi discorsi. Quello che non mi va è che questo suo ostinato individualismo si sia incrinato per allargare il raggio d’azione su un affarino innocente come nostro figlio. Lui vive in contatto con dio e questo è un fatto. Ha due anni e mezzo. Che cosa lo aspetta dietro l’angolo? Il colore delle mattinate, questo biancore ritagliato a strisce e appoggiato al pavimento di piastrelle bianche e nere, non potrà riprodursi ai suoi sensi per sempre. È da lì che deve iniziare la sua personale opera di rimembranza e di sapiente archeologia dell’anima, ma senza che debba crescere come un bambino selvaggio in piena civiltà occidentale e nel ventunesimo secolo, un secolo che si annuncia già più inumano del fratellino minore, in cui la devianza da uno stile di vita borghese verrà punita con l’esclusione dal branco giusto e l’inclusione nel branco sbagliato. Niente di peggio che finire nel branco sbagliato. Significa cose come: gente che mentre parli non ti ascolta oppure ti ascolta e intanto pensa che sei pazzo. Significa anche cose come: finire sfruttato (sul lavoro o sessualmente). Significa in pratica essere un mostro e, come tutti i mostri, venire abbattuto. Quello che voglio dire è che, se possiamo essere tutti d’accordo sulla necessità di un mantenimento geloso dell’innocenza infantile, è anche vero che l’individuo preparato a sopravvivere nel mondo al rovescio delle leggi ingiuste e del lavoro bestiale e della logica del profitto è un individuo con più probabilità di salvarsi da una fine ingloriosa (carcere, clini-

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cadillac 8 ca psichiatrica, casa di scatoloni alla stazione centrale, viali notturni con automobili che si fermano e chiedono quanto) rispetto a uno sprovveduto totale. In ogni caso non sono queste le cose che davvero importano e prima che chiunque fra noi possa farsene una ragione, Dalia avrà già capito che non è il caso di insistere e la nostra vita prenderà un’altra piega ancora. Entra in camera senza far rumore per indossare i vestiti che usa per uscire. Non è incazzata per il discorso che le ho fatto. La amo perché ha questa rara facoltà di non essere permalosa. Ecco che si disfa della vestaglia e si rivela in questa luce obliqua. Come mi piace il movimento delle mammelle! È un movimento che segue quello delle braccia e lo bilancia. Le mammelle si posano di lato, appoggiano dove capita, sono come il mistero che ci circonda e rimandano, col loro fluttuare, a arcani ondeggiamenti di forse navi o dorsi di cavallo. Mentre infila i pantaloni di velluto rossi canticchia sottovoce la canzone di un cantautore morto di cancro non molto tempo fa. Una canzone di quando avevamo vent’anni e ancora non ci conoscevamo. Lascia la stanza ancora credendo che io non l’abbia neppure sentita. Con gli occhi chiusi sembrava dormissi e invece la osservavo. La osservavo con gli occhi chiusi e con gli occhi chiusi cerco ora di mandarle un po’ di pensieri carini, un po’ di umano affetto, un po’ d’amore intatto come neve caduta la notte e svelata la mattina.

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grandi grandi dolci dolci Giacomo Verri

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lielo dico o no? No. Meglio di no. Cosa gliene può importare del perché non ho le chiavi. Rischio di fare la parte di quella che vuole essere consolata.

Erano tanti giorni che non tornavo a casa. Non potevo più stare lontana, i miei si sono fatti davvero in quattro. Ma adesso è il momento di farsi forza, come si dice. Anche se posso solo stare in piedi il tempo necessario, parlare se c’è bisogno di parlare, correre al bar se vuole un caffè, o se gli viene sete. Era da tanto che non mi preoccupavo per qualcuno. Non avevo idea del tempo che occorresse per violare una porta blindata. Il fabbro mi chiede se voglio proprio stare a vedere, che ce ne vorrà, che una cosa è scassinare come fanno i ladri, un’altra è aprire senza fracassare tutto. Sono sicura, gli dico. Mi piace l’uomo perché ha gli occhi dolci e si muove piano, come quelli che sanno cosa fare e hanno in mente i tempi che impiegheranno a farlo. Non sembra un fabbro. Questo potrebbe essere un poeta. Ma che dico? Sorrido di me, appoggio il sedere alla ringhiera delle scale, mi metto conserte le braccia. Sento una colpa come uno che mi tappa il naso. Mi vergogno. Penso di essere sciocca.

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cadillac 8 Mentre lavora illustra a parole ogni gesto. Forse lo fa per cortesia, dato che ho deciso di stargli col fiato sul collo. La chiave che non ho più è, era, una chiave a doppia mappa. Entrava in questa maledetta serratura, s’appoggiava alle gorges, le lastre messe in moto proprio dalla rotazione della chiave. La chiave è un cavaliere che supera gli avversari per liberare la principessa. Per penetrarla, mi dico. Ma poi fuggo come la lucertola quel pensiero. Ripeto senza capire del tutto certe parole del fabbro: che sono parole più asciutte, più tecniche, più aride. Meno audaci dei segni che mi lascia la fantasia: le mappe della chiave realizzano l’allineamento delle gole delle lastrine e consentono il passaggio del mentoniere. Il mentoniere? Mi rendo conto di averlo ripetuto a voce alta. Il fabbro si volta e appoggia gli occhi nei miei. L’impressione è che le sue pupille siano enormi globi capaci di abbracciarmi. Scendo a cercare un succo. È quasi una fuga. Per le scale le scarpette di vernice rossa s’agitano come animaletti trepidi. Scarpe rosse? Lucide così? Fai bene, aveva osservato sua madre: dovrai pure tirarti su o ti lasci morire? Mentre corre le saltano fuori dalla gonna, le scarpe, sono pezzi che vogliono staccarsi dal corpo, come intensi petali di rosa che seguitano a cadere, come lingue di cane affannato, come scaglie di coscia, come ovali di sangue cascati dal ventre. Quasi tocca il pulsante che apre l’uscio ma poi corre, qualche passo indietro, all’ascensore che prima non ha voluto usare. È già lì. Entra. Nello specchio accomoda il collo al soprabito, due, tre volte, mai persuasa, ma convinta che una piega giusta ci sia. Marco non glielo diceva se stava bene in un modo o nell’altro. Quando s’accorge che da sopra chiamano, si butta fuori dalla cabina, fa il piccolo corridoio di nuovo di corsa e questa volta schiaccia il pulsante per aprire il portone: c’è una breve scossa elettrica, come il friggere di una zanzara. In quel preciso punto si sente in viso due guance ingenue che mai più avrebbe pensato di avere.

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Giacomo Verri, Grandi grandi dolci dolci

È questione di un respiro, di colpo Claudia è serena, anche con la gonna lunga alle caviglie che certo non celebra l’aria delle sue linee, non ne fa il calco se non in pochi punti. Pochi punti, ma scelti, in effetti, quando la stoffa s’aderisce almeno ai fianchi. Ci pensa ora, al suo corpo, dopo che per mesi – ormai anni, forse –, s’era dimenticata di averne uno, che fosse suo, che potesse esibirlo ancora. Molti uomini si sono perduti principalmente – le pare ben detto – perché si sono creduti persi. Marco non le faceva i complimenti e lei, giorno via giorno, scordava di poter esistere senza di lui. Ma l’emozione di adesso è piacevole e le monta un po’ di rossore, si sente come spogliata del solito abito, ma pure della solita nudità; si figura il suo corpo camminare la via, entrare nel bar, chiedere il succo: ora è riflesso in quei rettangoli lunghi di specchio che di sovente coprono le colonne ai caffè fuori tempo. Potrebbe anche sputare il suo disamore sul vetro: Marco ti odio, così, per come mi hai lasciata. Appoggia le mani ai capelli, quindi le scende sul viso, sulle clavicole, sui seni, sulla pancia, sul ventre e, a correre, sulle grandi linee delle gambe. Mentre chiede il succo, spalanca gli occhi e controlla davvero la sua figura negli specchi. La vernice delle scarpe attira gli sguardi: si intona male con la gonna. E neppure se ne era accorta, prima. – Tutto bene, signorina? – Signora! – rimprovera, come a voler rimettere un antico governo alle cose sue. Si guarda le guance: signorina! Signorina? Sorride imbarazzata, paga, esce. Di nuovo evita l’ascensore, così per le scale può regolare i passi a piacere, bada alla luce delle scarpe, si tasta la forma dei capelli, controlla sulla camicetta i bottoni, ne verifica il pudore. Tutto il corpo di lui è dedito alla respirazione lenta. Non c’è come mirare una schiena piegata, ove la stoffa tende, per capire come un organismo che lavora in silenzio sia una macchina perfetta. Si ripete ancora una volta che quest’uomo le piace. Mi piace, sì.

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cadillac 8 Il fabbro ha fatto saltare i rivetti che tengono il pannello e adesso muove come un orefice dentro alla serratura, con misurato agio. L’unico tinnio che incrocia il suo respiro viene dal grimaldello. Potrei posargli le dita sulla schiena e chiedergli se vuole da bere. I passi che mi separano da lui li faccio piano, con delle sospensioni intervallate e dense. Ma prima che io metta l’ultimo piede, lui si volta e sorride; è chinato, un ginocchio tocca terra. Con la mano destra mi sfiora la punta dell’anulare e del medio, anzi, non proprio la punta ma sotto, dove le dita si rilevano nei teneri polpastrelli. La sua delicatezza passa come una scossa l’intero braccio mettendomi le scapole in brividi. – Claudia – mi dice, accarezzandomi le guance. Quando io lo fisso con stupore, lui indica il campanello. – È scritto lì! – mentre sorride gli spini della barba si spaziano meglio sulla pelle del viso. Mi piace che il mio nome si sia appoggiato nella sua bocca, ma non voglio che l’euforia mi faccia confusione in testa: io soffro, soffro ancora terribilmente per Marco; è vero, si era stufato di me, non mi accarezzava più, non sorrideva, parlava di rado. Ed è probabile che anche io lo trascurassi: qualcuno ha detto che ciò che resta, finita la passione, è il matrimonio! Certo l’indolenza, a volte, ci cresce addosso, e ce ne accorgiamo quando ormai ne siamo coperti. Sono stata una pessima moglie, una squallida amante, di quelle che non credono di poter voltare il loro amore (perché io lo amavo) in un surrogato di innamoramento novello, ma ci provano: così lo baciavo, a volte, spingendogli la lingua in bocca, forte forte, e mi toglievo i vestiti, tutto, e gli offrivo qualcosa di me, come si spinge in bocca al bimbo la pappa, oppure sdraiavo il mio corpo sul divano, e alzavo le braccia, un brivido mi percorreva le ascelle, appena Marco respirava veloce, e mi sforzavo di allargare le gambe – anche se a me piace aprirle piano piano – perché lui credesse che in quel momento anche io – e lui? – fossi presa dalla voluttà della foia, e mi davo così; e quando si tirava da parte avevo male ai fascioni di muscoli che van via dal pube e arrivano alle ginocchia. La tinta del nostro rapporto sbiadiva velocemente, e io non volevo crederci. Ma lo amavo! E anche lui, secondo me. Me ne accorgevo all’improvviso mentre riordinavo, magari scoprendomi felice di toccare le sue cose, di accomodargli il giornale sul davanzale del bagno, vicino al water.

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La mattina del giorno in cui accadde mi regalò un libro, un romanzo che avrei voluto leggere al mare (glielo bisbigliai a letto la sera prima). Lo andò a comprare subito; per questo dico che l’amore c’era ancora. Sebbene lui non se ne accorgesse. Perché tutti la pensano così: se uno disprezza la moglie, e le nasconde qualcosa, poi le regala i gioielli, e i viaggi, e i vestiti. Ma lui no. Mi accompagnò anzi al lavoro (iniziavo alle nove quel giorno) con un po’ di stizza perché doveva fare il giro largo. Eppure io, il tempo che stetti seduta alla cassa, pensai a quanto era stato gentile per via del libro, che è un regalo che va bene quando si è innamorati (alla sera avrei già letto le prime pagine, nel lettone, e non mi sarei sentita in dovere di aprire grandi grandi le gambe e di inchinarmi al suo torace). Ma poi a un quarto all’una presi la pausa, perché non ce la facevo più a tenere la pipì e, tornando dal bagno mi attardai nella prima corsia, quella più ampia, dove ci sono i vestiti: erano arrivati gli abiti nuovi per la primavera. Sapevo di non poter stare in giro con la divisa indosso; l’avevo fatto una volta perché mi mancava il parmigiano: me lo feci tagliare al banco dei freschi e lo pagai ma, mentre ritiravo il borsellino, con la mano, dal suo bugigattolo la signora Ernesta mi fece segno di andare: lei governava la teoria di casse e di cassiere, e disse, prima cogli occhi che coi lombriconi delle labbra, che non si doveva. Mi attardai comunque, anche quel giorno, per appoggiarmi sul petto una bella maglietta di verde solare, per vedere se mi andava, quando venne di nuovo a pescarmi l’Ernesta; ma mi strinse vicino, contrariamente a quanto avessi immaginato, con un cauto tepore, forse più increscioso di un urlo nato in faccia. Così, dopo aver adagiato il mio avambraccio sul suo, mi carezzò il dorso della mano e disse di Marco, che c’era stato un incidente, che dovevo andare a casa, se poteva fare qualcosa. Una lingua di paura mi sbavò lo stomaco. Ma io a casa non ci sono tornata. A tutti ho detto che non avevo neppure le chiavi, che le mie erano rimaste nell’appartamento, quella mattina, perché aveva chiuso lui e mi sarebbe passato a prendere a fine giornata.

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cadillac 8 La macchina era deposta nella grande corte dello sfasciacarrozze; mi accompagnò papà a vederla. Costava una certa pena osservare la rimanenza di lamiera. Rossa. La portiera che si apriva a scatti. I sedili macchiati. Riconobbi gli oggetti della routine, tra i cd allargati in terra gli occhiali da sole, anche i miei, la tessera dell’altro market (quello dove non lavoro io), le monete per le urgenze, il telecomando del cancello. Misi tutto nella busta di canapa, passando ogni cosa sotto le dita, come per togliervi lo sporco. Ma lasciai intenzionalmente le chiavi dove sapevo che erano, perché lui le riponeva sempre lì. Quando chiusi la portiera, piovigginava. Trovai mio padre e il proprietario della ditta di autodemolizione ad attendermi sotto la pensilina, entrambi con le braccia conserte a discorrere. Si interruppero nel vedermi camminare verso loro. Calò il silenzio. Claudia non glielo vuole dire che Marco è morto quella volta lì che lei era un poco felice per aver ricevuto in regalo un libro. E neanche vuole dire che quella felicità sarebbe stata comunque breve. Attende che il fabbro ricollochi il pannello della porta, prima di entrare. Gli chiede se dovrà sostituire la serratura e lui fa mah, e dice che in fondo si può tenere ancora quella. Tanto se i ladri la vogliono aprire, la aprono. E ci mettono niente anche con una serratura nuova. Piuttosto si potrebbe cambiare la porta intera, metterne una di ultima generazione. L’uomo dice queste cose serie e così pratiche con un tono piccolo, quasi come se raccontasse la fiaba a una bimba. Seguendo le modulazioni della voce di quello strano maschio, il grazioso arco inflesso delle sue pupille che non mancano di appoggiarsi a ogni fine di frase nel colmo degli occhi di Claudia e poi giù nella fossetta del giugulo, tra le clavicole, la donna si sente entrare una pace esatta. Il fabbro si muove piano, non ha paura di fare le pause tra le parole dolci dolci, non allunga vocali fàtiche, possiede rifinitamene la calma della bontà. E Claudia si ferma dal toccargli le labbra con le mani, costringendo il desiderio ad amministrarle un gusto che non ha pari al mondo.

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- Grazie davvero –. Osserva del fabbro le mani gentilmente sporche che ora non osano toccare in giro. E intanto prende tempo, assaporando una sensazione simile a quella che si provò da ragazzi nel tornare tra i banchi di scuola in occasioni o orari diversi da quelli consueti, la sera, ad esempio, per una riunione alla quale i nostri genitori vollero portarci, o in estate quando le lezioni erano ormai finite o dovevano ricominciare ancora. Così Claudia, dal pianerottolo, sbircia la prospettiva della sua propria casa, cerca di sorprenderne una guisa inedita, una luce vergine. Quasi le pare che da un momento all’altro possa venire dal fondo del corridoio Marco. Ha paura, si direbbe. O è il desiderio della paura, pensa, questo che mi scuote e mi lusinga? Che forse forse non voglio neppure che m’abbandoni, lasciandomi orfana di una nuova voglia, dell’appetito per una premura, della nostalgia per una coccola, un’attenzione, una lenta protezione. Me la può dare questo signore con le mani un po’ unte di grasso? E che ha gli occhi grandi grandi, dolci dolci? Claudia se ne convince, probabilmente. Ed è per questo che lo invita a entrare, a riscoprire con lei la casa che non sentiva più come sua, e adesso lo è di nuovo. E sta quasi per dirgli che Marco quando è morto su quella macchina rossa come le sue scarpe non era da solo, c’era anche l’altra. Che anche l’altra è morta. Così nella camera mortuaria dell’ospedale erano vicini, e Claudia ha potuto vederla bene in faccia la femmina con cui Marco la tradiva. Che le ha osservato le labbra, le guance tumide, l’attaccatura dei capelli, il carniccio vagamente abbondante delle braccia. Claudia sa – lo ha sempre saputo, come ha sempre saputo dell’esistenza dell’altra – di essere una donna di bramosie lievi ma durature, quelle che sarebbero andate bene per il loro matrimonio. Però non capisce perché Marco la ignorasse, perché non le permettesse di essere orgogliosa della loro grazia, insieme. Come faceva? Cosa le aveva messo in testa? Possibile che il logorìo dell’amore avesse portato tanta cecità?

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cadillac 8 Ma l’uomo, di cui Claudia neppure conosce il nome, è riservato. Con imbarazzo presenta il conto, dice piano piano il numero di euro, come se fosse una bestemmia. Le mani le tiene sporche perché sul furgone ha della carta e degli stracci vecchi: si pulirà con quelli. E, mentre allaccerà la cintura, si aprirà in un caro sorriso, ripromettendosi di ricordare con affetto quella signora silenziosa e bella, i fianchi nervosi, le scarpe rosse e lo sguardo così piccolo che avrebbe potuto entrare in ogni fessura. Poi, quando il motore sarà avviato, prima di ingranare la marcia, si ricorderà pure che in fondo in fondo a quello sguardo, dietro a quegli occhi abituati a piangere, c’era qualcosa d’altro: una speranza, forse, un silenzioso moto di riscossa, un desiderio lontano come un paese delle fiabe, dove svetta una torre esile ma irriducibile.

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io mi salvo così

Francesca Marzia Esposito

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iventò una sagoma nera stagliata contro l’aria livida del mattino, scese un gradino dopo l’altro fino a non vedersi più. Nel tunnel di luce artificiale il rumore dei tacchi si amplificò. Camminava svelta, un deserto di cemento attorno. Superò la gigantografia di una spiaggia digitalizzata. La testa era una palla che sfiatava in la maggiore. Un profumo pulviscolare di brioche si propagò all’improvviso, un’onda olfattiva senza fonte, smaterializzata, quasi un delirio mentale. I succhi gastrici le si scollarono dalle pareti dello stomaco, si formò uno spazio incavato al centro del corpo. Passi cadenzati, ritmo binario, contorno sbozzato di un mezzobusto oltre la cabina vetro in avvicinamento. Appoggiò il tesserino sulla fotocellula, scambiò uno sguardo con il relitto umano nel gabbiotto, gesti automatici, verificare l’esistenza di altri sopravvissuti, e proseguire. Unì i malleoli sullo scalino articolato, la rampa mobile si azionò e la inabissò sulla banchina. Entrò nel vagone spento, questione di minuti e i neon spararono un giorno elettrico sfondando in prospettiva un budello di acciaio e una sfilza di sedili a formare due strisce blu fluide nella distanza. Il mascara incrostato le sigillò l’occhio sinistro, staccò le ciglia con due dita.

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cadillac 8 La prima corsa era un inizio storto per tutti. Facce amorfe, spalle accasciate, regnava una certa stasi da perdita di coscienza, figure depositate come sacchi deformi dimenticati. Una donna enorme si spacchettò dei biscotti impilati, se li ficcò in bocca uno dopo l’altro e si addormentò. Arrivò Yatma nel suo completo giacca nera camicia bianca cravatta nera, profumo all’alcol etilico, puntò il telefono in basso, su Tea. Lei lasciò le gambe smollate, il collo del piede si gettava arcuato e nodoso oltre la mascherina delle decolté, i tacchi inclinavano all’interno, erano scarpe da ventinove e novanta, le comprava in quel negozietto del sottopasso in Stazione Centrale. Quando la smetterai sarà troppo tardi, disse lei. Sposta il sinistro, disse lui. La caviglia ruotò in esterno, lo schermo inquadrò il profilo prominente sul calcagno, la curva aerodinamica del fiosso, mancava il dischetto gommato, il tacco poggiava direttamente sulla base chiodata. Scattò la foto, alzò gli occhi, due grossi bulbi ingialliti, e le si sedette accanto. Nel piegarsi fece una smorfia, si tastò sulla giacca, sulle costole. Yatma era nella security, faceva la colonna umana vicino alle porte, immobile per ore addossato a un infisso a controllare il viavai. Tre anni fa vendeva libri per strada. Lo vedevi comparire all’imbocco della metro e se non eri abbastanza veloce a schivarlo, lui ti accompagnava per un bel pezzo cercando di appiopparti un volume con una zebra, un bambino africano, o una duna, stampati in copertina. Poi era passato a smerciare ombrelli, braccialetti, calzini di spugna, pupazzetti che si animavano su un loop di note campionate. E tutto era rimasto fermo fino a un anno fa, quando aveva iniziato a sostituire un tizio all’entrata di una discoteca. Con i primi soldi si era procurato per cinquanta euro un i-Phone 4 da un giro di cinesi in zona Cenisio. La cosa gli aveva procurato una felicità infantile e lo aveva fatto sentire dalla parte giusta della barricata. Aveva una tratta lunga da fare, entrava sempre nella carrozza motrice per ottimizzare minuti all’uscita, e se ne stava a testa china sullo schermo facendo finta di giocare. Invece inquadrava scarpe. Gli piaceva quella stasi conserta e arresa affrontata dai piedi in metro. Nel tragitto la realtà si blocca, la

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gente è in pause, allentata nella placenta atemporale del viaggio, non vede, non ti vede, non esiste, si trasforma, regredisce a organismo catatonico infilato in due scarpe. Due scarpe inoffensive che vanno e vengono. Si sentiva trasparente, anonimo, un’esistenza spersa nella moltitudine di individui alle prese ognuno con il proprio destino. Tea invece se ne era accorta. La prima volta aveva lasciato perdere, la seconda invece lo aveva fissato, lui le aveva sorriso, ma non prima di immortalare in dettaglio la posa sghemba dei suoi stivali tacco dodici. Anche lei era un’abitudinaria, sempre nel primo vagone, preferibilmente posto laterale vicino alle automatiche. E nella ripetizione si erano scambiati qualche parola, lui le aveva chiesto il nome, lei aveva risposto senza ricambiare la domanda, erano trascorsi mesi, e adesso erano ancora lì. Lo scatto di accensione fece vibrare i sedili, il convoglio partì. Yatma riattaccava a lavorare dopo quattro ore di sonno e un turno di sette ore davanti a un locale, Tea si lasciò cullare dalla velocità. … Carmelo voleva che arrivassero già in tiro, ripeteva sempre Alte e fighe. Coco o Patti sembravano disegnate, la sproporzione tipica dei cartoni animati, occhioni, bocche lucide, seni aerostatici al silicone, addominali sagomati, l’astrazione di un fisico teorizzato e plastificato 3d. Tea invece era un avatar a glutei scolpiti, gambe chilometriche e capelli ossigenati biondo urlo. Ora faceva quattro serate a settimana, significava più soldi e un sibilo acuto costante che le trapassava i timpani da parte a parte. Quando finiva, portava a casa un corpo svitato, scardinato, una macchina slogata, i pezzi c’erano tutti, solo bisognava riassemblarli. Non aveva diritto di lamentarsi, quelle cifre non gliele avrebbe pagate nessun altro, lo sapeva. La verità era che avrebbe voluto essere una ballerina classica. Alla sbarra era come se la vita le rendesse giustizia. Alla sbarra precipitava nell’esatta forma della sua esistenza. A volte le capitava di individuare nella calca una scaligera, alieni filiformi dotati di arti ripiegati come ali pronte a spiccare il volo. Anime risolte, identità definite. Tea ci

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cadillac 8 aveva provato, poi aveva dovuto prendere coscienza di una verità stringente: era e sarebbe stata sempre una ballerina mediocre. La verità era che doveva accontentarsi di muovere il suo culo perfetto sotto lo strobo di una sala specchiata. La verità era che quella era l’unica danza, l’unica declinazione tersicorea a cui era destinata. La fermata Lotto era il punto di incontro, Carmelo se le caricava lì, davanti al Mac Donald’s, il ritrovo di tutti quelli che facevano animazione. Una grande famiglia di corpi geneticamente modificati a colori contrastati che veniva smistata nelle macchine parcheggiate sul piazzale. Ogni volta che Tea saliva sul sedile posteriore dell’auto di turno, si ripeteva come un mantra, Sono centocinquanta euro-centocinquanta euro. Calava il buio, il motore carburava, e sul finestrino appariva la sua faccia spettrale sovrapposta allo sfavillio elettrico della città che filava via. Rimaneva lo spazio astratto dell’abitacolo, solo il cruscotto verde illuminato e una musica fatta di bassi campionati. Fuori la strada era un nastro ininterrotto, Tea scivolava di coccige, immersa nell’odore di lacca e fard e vigorsol, le ginocchia due lune nodose emerse nell’oscurità. Sprofondava in un’altra dimensione, isolata e fiondata a molti chilometri di distanza. Finivano sempre in posti sperduti nella nebbia, a un certo punto volteggiava nel cielo un immenso cono di luce, una curva ellittica virtuale, Tea scartava un altro chewingum e si drizzava di schiena. La notte era un baratro che schiariva intorno a una discoteca fantasma, tutto il resto era campagna piatta secca strappata. Entravano con la testa ficcata nel cappuccio, il borsone su una spalla, Tea, Coco, Patti, Giusi, i nomi glieli storpiava Carmelo. Avanzavano sui tacchi a mento basso, come pugili. Dentro era un volume espanso vertiginoso, i neon viola inondavano una marea informe brulicante. Un paio di energumeni col codino fendeva un varco tra la folla, si creava un boato imploso, realtà sovrapposte a contatto, le ballerine, creature celesti di un altro pianeta, tra gli umani. Tea subiva uno spaesamento percettivo, emotivo, seguiva le altre, la musica era una percussione che rimbombava nelle viscere. Erano quattro ragazze, avrebbero potuto essere chiunque, le prendevano per quelle della

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Francesca Marzia Esposito, Io mi salvo così

tv, per un gruppo famoso, per gente di successo. La verità è che di lì a tre anni Patti sarebbe rimasta incinta, Coco sarebbe sparita, Giusi avrebbe fatto ancora la barista, e Tea sarebbe stata ancora l’unica del quartetto ad aver finito il liceo. La verità è che non tutte le verità servono a qualcosa, mentre i soldi sì. Yatma le mostrò gli ultimi scatti, scarponi di pelo e ortopediche con para. Manteneva il display piazzato davanti al busto di lei con le dita bicolore, fuori nere, dentro rosa. Il volto di Tea era un triangolo scavato sotto gli zigomi, le guance risucchiate, lo stomaco che bruciava. Due donne indiane si piazzarono sedute davanti a loro, orecchini pendenti, capelli inchiostrati neroblu, stesso vestito orientale sotto i giubbini, uno turchese l’altro fucsia. La metro sussultava, l’apri e chiudi delle ante cadenzava il ritmo della corsa. Tea si alzò, macchie scure le sporcarono la vista, la sacca sulla spalla le sbilanciò l’assetto, lasciò Yatma alle prese con una nuova inquadratura, lo salutò senza girarsi, alzando una mano nel riflesso del vetro. Catwoman e Candy erano fuori da venticinque minuti. Tea aveva incrociato i nastri delle scarpette direttamente sulla pelle nuda, le cosce unte di olio screziavano marmorizzate, fluorescenti. Sopra indossava la ruota di un tutù bianco, un push-up imbottito, uno zircone incastonato nell’ombelico. Ogni tanto inarcava le caviglie e saliva in punta, premeva nel silicone del salvapiedi, il gesso della mascherina la faceva diventare altissima, immortale. Fasci di luce tagliavano il buio in strisciate accecanti. La sala era un tappeto umano, le t-shirt e i denti flashavano, teste e braccia si muovevano a scatti scompattando la massa cinetica. Il fumo bianco era il segnale, un getto a pressione di vapore chimico, accecamento graduale e odore di fragola sintetica polverizzata. All’altro lato del palco Coco era una miniatura immersa nella penombra, indossava un costume di stoffa tigrato e dei gambali in plastica trasparente che da lì a poco avrebbero iniziato ad appannarsi e a condensare microgocce. Catwoman fece cenno, la scena rimase vuota qualche istante, poi lo spettacolo ricominciò. Yatma comparve all’alba come sempre. Aveva un occhio martoriato che gli accoppava l’espressione. Tea cercava di non fissarlo ma

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cadillac 8 finiva per guardarlo sempre esattamente in quel punto. La giacca nera inclinò all’esterno, piegò il gomito, il telefono centrò il soggetto, plateau, tacco a spillo, fascia dorata sul metatarso, ventidue euro e novanta. Che te ne farai di tutte queste foto, disse lei. Io mi salvo così, disse lui. Le allungò un sacchetto di carta bitorzoluto che sprigionava un odore di burro cotto. Lei lo aprì, addentò la brioche calda, il tepore le diede tregua. Masticava e ingoiava velocemente, era a digiuno, aveva il palato amaro. A volte, la mattina, mentre Milano era un profilo frastagliato, e il crepuscolo si accendeva in un punto disperso all’orizzonte, e le vie erano deserte e silenziose, in quel tempo sospeso e arrestato dove gli uomini e le donne non sono altro che desideri pensati sottoforma di sogni notturni, quando rientrava nel suo monolocale mansardato, e il giorno era una lamina amianto che filtrava dal lucernario del tetto ribassato, e appoggiava le chiavi sul tavolo, e le scarpe erano due reduci davanti alla porta, Tea pensava che sarebbe stato giusto essere più bella, o più intelligente, o più ricca, o più brava, qualsiasi cosa, ma più. Il posto era un night, una pedana con due pali al centro, c’era puzza di ormoni, di sudore, di deodoranti scadenti. E non era sufficientemente buio. Dal palchetto si vedevano i crani che riempivano la sala. Gli occhi di Tea misero a fuoco il portinaio, il panettiere, l’edicolante, un amico del liceo, uno zio, Michi, ma poi no, erano solo orecchie, fronti, capelli, bocche, nasi, a centinaia. Si voltò di schiena, si stoppò, un fermo immagine, una scultura bianco osso levigata immersa in un caos di suoni, voci, colori. Riprese a muoversi lentamente, come uno svenimento estatico, una paralisi mistica in atto negli arti pronti a contorcersi, a disarticolarsi, scatti improvvisi, un felino in una gabbia immaginaria che inarcando il bacino si ribaltava a testa in giù, spaccava le gambe in faccia a quelli della prima fila, a volte il tassello del perizoma le rientrava nelle carni. Non c’era più, niente esisteva più. La sala gremita perdeva consistenza, diventava un’onda energetica, i crani sparivano, la musica era una dimensione distorta,

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Francesca Marzia Esposito, Io mi salvo così

pulsava magmatica, battiti cardiaci, un tam tam lontano, primitivo, ancestrale. Tea svuotata e cava, solo un corpo sagomato in controluce, due gambe a strapiombo e uno slip laminato a luccicare sotto una pellicola bluastra. Sabato mattina il labbro inferiore di Yatma era un’escrescenza di carne tumefatta, il livido invece si stava appiattendo, la pelle seccava raggrinzita. Quando incrociò lo sguardo di Tea, le fece cenno con la mano, lei annuì. Erano seduti paralleli, il borsone nel mezzo. Non entrò nessun altro, sprofondarono in un sonno violento. La mente di Tea era un susseguirsi di immagini, scarti di vissuto, ritagliati isolati e riproposti ad alta velocità, la scena mandata di continuo in cui Carmelo le faceva la nuova offerta, solo lap-dance a duecento euro fissi. Contò le fermate fatte, si alzò, attese lo sfiato decompressivo delle automatiche, si voltò indietro ma Yatma era un ammasso corrugato e spento. La metro ripartì, riquadri di vetro in successione, diventò una striscia liquida, spazzò l’aria. Fu l’ultima volta che si incontrarono. Tea pensò che prima o poi sarebbe ricomparso, invece Yatma non lo vide più. Passarono mesi. Era l’alba di un giorno qualsiasi, Milano era uno scenario grigio sotto un cielo di gesso, sottoterra ramificava un flusso organizzato elettrico in continuo scorrimento. In uno dei treni della linea verde, di fronte a Tea dormiva una famiglia marocchina, madre padre e due bambine identiche gambe a ciondoloni. I volti chiusi, disattivati, come fossero lì da anni, incantati in un eterno presente. Tea aveva negli slip quattrocento euro, la carrozza era allagata da tempo immobile. Prese il telefonino, inquadrò i piedi impiccati. Io mi salvo così.

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la fine del mondo Andrea Esposito

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o cominciato con mio zio. Avevo undici anni quando l’ho accompagnato a comprare un furgone. L’abbiamo preso da un vecchio. Il vecchio viveva tra i rottami. C’erano carcasse di camion, motociclette fatte a pezzi, automobili senza portiere e senza ruote. Tutto coperto di neve. Mio zio mi ha fatto salire sul furgone dal lato del passeggero. Il furgone puzzava ma non potevamo aprire i finestrini per il freddo. Mio zio diceva che puzzava come se ci fosse andato a morire qualche animale. Io avevo paura che dietro ci fosse davvero un animale morente e che ci avrebbe assalito durante il viaggio. Mia madre era contenta perché il fratello poteva guadagnare qualcosa lavorando con il furgone. A mio padre invece mio zio non piaceva e sapeva che da quel furgone non sarei più sceso. Aveva ragione. Poi mi sono comprato il mio furgone e ho cominciato a lavorare da solo.

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cadillac 8 Trasportavo le cose. Tutta la zona di Ulan-Udé, dove sono nato. Poi cerchi sempre più ampi. Col furgone sono andato sempre più lontano. Poi mi hanno chiesto: Portami questo dall’altra parte. Così ho attraversato il confine e ho portato le cose in Mongolia. Poi sono tornato in Russia e mi hanno chiesto di portare altre cose. Poi mi hanno chiesto: Portami questo dall’altra parte e riportami quello che ti darà la donna che aspetta alla stazione. E ho portato quella cosa e la donna della stazione mi ha dato un pacco e mi ha ringraziato, mi ha benedetto. Poi si deve essere sparsa la voce, perché tutti mi chiedevano di portare cose da una parte all’altra. Per me dall’altra parte non c’era niente. Tutto quello che vedevo di là non era niente. Poi mi hanno chiesto: Porta mio fratello dall’altra parte. E l’ho fatto. E ho cominciato a portare le persone da una parte all’altra. Certe non volevano parlare, altre parlavano molto volentieri. Altre mi offrivano le cose che si erano portate da mangiare e da bere per il viaggio. Così bevevo e con alcuni di loro cantavo pure, e una volta con una signora viaggiavamo di notte e mi sono ubriacato e abbiamo riso, lei aveva un fazzoletto intorno alla testa ed è stata gentile per tutto il viaggio. Mi ricordava mia nonna, e io ero ubriaco e sono diventato sentimentale. Così le ho chiesto: Nonna, ma che ci vai a fare in Mongolia? E lei non ha risposto ma è arrossita. E proprio non riuscivo a capire che ci andava a fare, di notte, al di là del confine. Poi mi hanno detto che aveva ammazzato il marito con una pala, ma io non ci ho creduto. Un’altra volta ho portato un tipo americano che aveva una sacca nera impermeabile. Gli ho chiesto se dentro c’era un cadavere, perché per portare dei cadaveri mi doveva pagare di più.

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Andrea Esposito, La fine del mondo

Lui ha sorriso e ha detto, gesticolando per farsi capire: In un certo senso. Ha detto che erano “cadaveri molto vecchi”. Poi ci ha pensato e si è ricordato la parola: Fossili. Ha aperto la sacca e dentro c’erano dei piccoli recipienti trasparenti. Ciascuno aveva dentro delle asticelle lunghe che mi sembravano pezzi di legno senza colore. Io ho annuito e non gli ho fatto pagare di più. Li aveva presi nel deserto. E da quella volta, non so perché, si deve essere sparsa la voce che andavo nel deserto, perché tutti mi chiedevano di portarli nel deserto. Prendi il furgone e portami di là. E io finivo sempre con loro nel deserto. O se non era proprio nel deserto finivo in posti che a me sembravano uguali al deserto. Ci mettevamo un giorno o due per arrivare. Certe volte arrivavamo in qualche piccolo paese costruito intorno a una fabbrica. Le montagne in lontananza. Silos arrugginiti. Due o tre palazzi grigi. Il resto erano case basse, tutte vicine come per riscaldarsi. Certe volte arrivavamo in uno di questi piccoli paesi e lo attraversavamo. La fabbrica si rimpiccioliva. La strada diventava sottile e poi spariva. Le case si diradavano. Come le gocce cadono più lente da un rubinetto mentre lo chiudi. Raggiungevamo un altro piccolo gruppo di case. Una decina in tutto. Ancora erano parte del paese vicino ma già non lo erano più. C’era una chiesetta. C’era un camper abbandonato. C’erano cani. C’erano insegne al neon. Certe volte arrivavamo la notte e vedevamo le luci al neon. Una o due luci per segnalare che c’era una decina di baracche e qualcuno ci viveva. E io ogni volta che arrivavo dicevo: Las Vegas. Ma quasi nessuno dei miei passeggeri rideva. Secondo me certi nemmeno conoscevano Las Vegas. Certi nemmeno sapevano se erano in Russia o in Mongolia.

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cadillac 8 Restavo in quelle case per la notte. Bevevo con loro. Magari non conoscevamo nemmeno una parola nella stessa lingua. Allora ridevamo e bevevamo e facevamo gesti che non volevano dire niente, ma bevevamo ancora e ridevamo di più e non ci capivamo ancora niente ma non importava a nessuno e ci addormentavamo. Una volta ho portato due ragazze a un concerto in un paese vicino. Le ho aspettate e le ho riportate a casa dopo che il concerto era finito. Una volta mi sono ubriacato in un hangar dove c’erano donne che ballavano nude, e la musica rimbombava tra le lamiere e mi sembrava di impazzire. Mi sono svegliato in una casa poco distante. Uno di lì mi aveva portato a casa sua, mi aveva messo sotto le coperte e poi era tornato a divertirsi. Così ho cominciato ad andare avanti e indietro sempre meno. Restavo in quelle case in mezzo al nulla ai bordi del deserto. C’erano degli uomini con cui bevevo. Donne con cui dormivo. Restavo qualche giorno. Poi qualcuno mi diceva: Portami dall’altra parte. Io ce lo portavo e mi fermavo dall’altra parte per altri due o tre giorni, poi tornavo dall’altra parte e mi ci fermavo una settimana o due. E alla fine non sapevo più da che parte stavo. Allora ho deciso di fermarmi dove ero. Ed ero ai bordi del deserto. Ho dovuto chiederlo, per averne la certezza. Così mi chiedevano: Portami dall’altra parte. E io rispondevo: Forse domani. E allora il tempo ha cominciato a rallentare. E l’orizzonte si è allargato. E io cantavo la notte e dormivo fino a tardi. E ho capito che non mi piaceva quello che facevo. E mi sono accorto che nessuna delle persone intorno faceva niente. E per un momento mi è sembrato quasi di impazzire. E ho deciso di fare qualcosa solo per fare qualcosa, e visto che doveva essere una cosa sola, volevo che fosse una cosa grande.

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Andrea Esposito, La fine del mondo

La donna con cui dormivo mi ha detto che era morta una vecchia donna, la più vecchia che c’era lì tra quelle case. Il cadavere l’hanno portato su una pira lontana dalle case. Ma la pira non l’hanno accesa. Hanno lasciato lì il corpo della vecchia e sono tornati indietro. Perché? Ho chiesto io. La donna con cui dormivo mi ha risposto: Lasciamo che la mangino gli animali. Se la mangiano i lupi andrà all’inferno, perché i lupi vengono dalla terra. Se la mangiano gli uccelli andrà in paradiso, perché gli uccelli vengono dal cielo. A me è sembrato terribile ma non ho detto nulla. Lei ha capito che ero sorpreso. Allora ha continuato, ha detto che ora non si usa più, ma un tempo era così che si trattavano i morti. Che ora lo fanno solo alcuni di quelli che non vivono nelle città. E che lì erano vicini alla città, diceva, ma si sentivano più vicini al deserto. E nel deserto è così che i genitori trattavano i morti. Ma continuava a sembrarmi terribile. Allora ho deciso che dovevo fare qualcosa. E ho deciso che sarebbe stata quella la cosa grande che volevo fare. Allora ho fatto un pupazzo. Con gli stracci e i teli e la legna. I bambini mi hanno visto trafficare e hanno pensato a un gioco e non mi hanno più lasciato in pace. Ho portato fuori il pupazzo. I bambini mi correvano intorno e gridavano. Gli adulti invece mi lasciavano stare. Ma non erano ostili. Là nessuno era ostile, per questo ci stavo bene. La donna con cui dormivo mi ha chiesto: Che fai. E io ho detto che il pupazzo era la vecchia. E che avremmo dovuto bruciare il pupazzo ovvero la vecchia, perché era un modo migliore per salutarla che lasciarla sbranare dai lupi o beccare dagli uccelli. Poi al corpo poteva succedere qualsiasi cosa, ma almeno l’avevamo salutata. E la donna con cui dormivo ha detto: Fai pure. E così ho messo il pupazzo su una pira simile a quella su cui stava la vecchia vera, poco distante. I bambini mi hanno aiutato a costruire la pira. Per loro era un gioco.

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cadillac 8 Anche per gli adulti era un gioco, perché non capivano ma mi lasciavano fare. Per me invece non era un gioco. Non so perché ma non ero mai stato così serio. E la pira era finita e io e i bambini ci abbiamo posato sopra il pupazzo. Loro hanno esultato e hanno cominciato a correrci intorno. Io li ho fatti smettere perché mi sembrava una mancanza di rispetto. Ho tentato di spiegarglielo ma non sapevo tradurre “rispetto”, così ho lasciato stare, gli ho urlato addosso e basta. Poi ho aspettato la sera davanti alla pira. Gli adulti e i bambini mi guardavano. Alcuni si sono stancati e sono tornati in casa. Altri sono rimasti. Ho aspettato la notte. Quando la notte è diventata più profonda ho cosparso il corpo di benzina e gli ho dato fuoco. Tanto il furgone avevo smesso di guidarlo e la sua benzina non mi serviva più. Il fuoco è diventato luce e dentro la luce c’era l’ombra del pupazzo. Sarebbe potuto sembrare la vecchia, in effetti, ma anche qualsiasi altra cosa. Ho lasciato che il fuoco si allungasse e si storcesse, e a un certo punto le punte delle fiamme erano come mani che si aprivano e si chiudevano senza fermarsi. E dalle fiamme è nato il fumo, e il fumo andava verso le case ed entrava dalle fessure sotto le porte o nei buchi dei muri e la gente usciva per vedere. E alla fine in piena notte erano tutti fuori a vedere il pupazzo che bruciava. Poi si sono annoiati e sono andati a dormire. Io invece sono rimasto lì a guardare il pupazzo che bruciava. Ed è arrivata l’alba e il fuoco ha continuato a bruciare anche nella luce. Ed è arrivato il giorno e ho visto in lontananza qualcosa che veniva verso di me. Si è avvicinato, era un cavallo, scuro, si è diretto verso il fuoco.

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Andrea Esposito, La fine del mondo

Ha raggiunto la pira e si è fermato lì. Ho pensato che fosse arrivato lì per riscaldarsi. Ma mi sembrava un fantasma. Era scuro e non smetteva di muovere la coda. La coda specialmente mi faceva paura. Era lunga e ho pensato a una lotta tra serpenti attorcigliati. Avevo paura che mi stesse guardando. Non riuscivo a capirlo perché il fumo che si alzava dalla pira non mi permetteva di vedere bene. Quando il fumo è sceso il cavallo se ne stava andando via. Lentamente, con la coda che non la smetteva di agitarsi. E mi sembrava che tutto fosse stato una preparazione di qualcosa e che fosse giusto che fossi finito lì. E a quel punto, mentre il cavallo se ne andava, ho pensato, non so perché, che il giorno che stava cominciando sarebbe stato l’ultimo. Ho pensato proprio così: Oggi, non chiederti perché, è l’ultimo giorno della tua vita.

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le cose che non dico Claudia Bruno

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a prima volta è successo con Sandro, sarà stato quindici anni fa. M’insegnava a cantare. Devi sentire il diaframma, diceva, e mi sfiorava il torace con i pollici. Respira un poco e tieni l’aria come su un lenzuolo, sostienila, diceva, aiutati con gli addominali più bassi come a voler fare un colpo di tosse, così, mi prendeva le mani e le portava a toccare il suo ventre. Facevamo lezione a casa sua, tutti i lunedì. Volevo imparare a cantare. M’impegnavo e mi entusiasmavo come una che fino a un attimo prima ignorava di avere una voce. Frusci, mi diceva lui. Come una radio quando non prende. Come le foglie. Sono afona? Chiedevo. No, rispondeva lui. Tutti abbiamo un suono, stiamo cercando il tuo. Sandro girava in quella stanza in pantofole, con una tuta acetata. A volte metteva i jeans, e una camicia bianca. Ma aveva sempre dei fogli in mano, pentagrammi con sopra le note che mi faceva leggere. Quel pomeriggio mi chiese di restare dopo la lezione, il tempo di una sigaretta. Non gli dissi che non fumavo. Ci guardammo a lungo dentro quelle nuvole stringendo gli occhi a formare tante piccole rughe. Mi piaceva. Poi il cane abbaiò. E Sandro distolse lo sguardo, lo rivolse all’orologio tondo appeso al muro, e mi accorsi del rumore delle lancette. Tra poco torna mia madre, disse lui. E mentre prendevo il cappotto mi sussurrò una frase in

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cadillac 8 un orecchio. Gli posai le labbra all’angolo della bocca, e con il cuore in gola mi precipitai per le scale senza voltarmi. La seconda fu una donna. Si chiamava Rebecca. Lavorava nell’ufficio a piano terra, adorava leggere romanzi. Indossava ogni giorno un paio di scarpe diverse, sempre con i tacchi. Le sue preferite erano quelle testa di moro. E aveva un gusto indiscutibile per le camicie di seta. Quando toglieva il cappotto era una festa per gli occhi. Per la gente del piano la prima notizia del giorno era senza dubbio scoprire come si era vestita Rebecca. Io invece lavoravo al sesto, neanche la conoscevo. La incontrai quando fummo entrambe coinvolte nella stesura del documento di fine anno del dipartimento. Dopo una pausa pranzo ordinammo un caffè e una crostatina di mele. Il caffè era per lei. Per me c’erano solo crostatine di mele. Dopo due settimane iniziò a portarmi un dolce tutte le mattine. Saliva al sesto in ascensore. La sentivo arrivare dal rumore cadenzato dei tacchi. Entrava nel mio ufficio con ancora il cappotto addosso. In una mano il libro, nell’altra la bustina di carta. Buongiorno, diceva. Posava la bustina sulla scrivania e se ne andava. Ogni volta era un dolce diverso, ma sempre alle mele. Non le dissi che non mi piacevano le mele. A maggio ci mandarono in trasferta insieme. Alloggiavamo in un hotel a cinque stelle, nella zona industriale. Le nostre stanze avevano un letto a due piazze e almeno cinque diverse boccette di shampoo allineate sul lavandino di granito. Avevamo conosciuto due militari, di quelli un po’ impacciati che ci provano alla vecchia maniera. Gli avevamo dato appuntamento per cena al centro. La cosa ci faceva ridere di gusto. Quella sera avevo messo i tacchi anch’io. Bella che sei, aveva urlato Rebecca dalla poltroncina della hall guardandomi scendere imbranata dalle scale ricoperte di moquette. Al ritorno i piedi ci facevano male. Pensammo di prendere un taxi. Aspettavamo sedute su un gradone di pietra. Erano le tre e avevamo bevuto tutta la sera. Rebecca mi parlava dei libri che aveva letto. Chi si sveglia domani? Disse a un certo punto, e rideva. Poi m’infilò le dita nei capelli e venne più vicina. Aveva un buon odore. Mi succhiò il naso. La lasciai fare e poi l’assaggiai anch’io. Sapeva di vino e di fumo dentro alla seta. Non ti fermare, ordinò. Non mi fermai.

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Claudia Bruno, Le cose che non dico

Con Filippo facevamo un corso di aggiornamento. Eravamo un gruppo folto. Tante donne, pochi uomini, molte slide. Dovevamo realizzare un progetto da presentare per la chiusura del corso. Lavoravamo divisi in gruppi. Io e Filippo eravamo nello stesso gruppo. Guarda, diceva, che per finire nei tempi dobbiamo dividerci il lavoro. Io, invece, pensavo fosse meglio fare tutti un po’ di tutto, senza star lì ad attaccarsi ai ruoli. Finivamo sempre a discutere io e Filippo. O meglio, io dicevo semplicemente che non ero d’accordo. Tre parole. E Filippo iniziava ad argomentare. Pausa sigaretta? Diceva a un certo punto. E uscivamo sulle scale d’emergenza. È stato lì che mi ha raccontato di Carla. Vivevano in una mansarda a duemila chilometri da lì. Mi aveva fatto vedere la foto sul cellulare, era molto bella. Vogliamo fare un figlio, mi disse sorridendo. Non gli dissi che io avevo già una figlia, mi limitai a guardarlo negli occhi. Filippo era una bella persona. Un pomeriggio mi prese il polso con una mano. Non preoccuparti, mi disse, anche se il tempo è poco porteremo comunque a termine il lavoro. Devi stare tranquilla, mi aveva detto. Ma i nostri occhi si erano incrociati in un modo diverso da prima, la mano non lasciava andare il polso. Sembrava quasi una richiesta d’aiuto. Facemmo finta di niente. Ma non resistemmo alla tentazione di sapere cosa si prova a lanciare le briciole ai pesci di uno stagno. Iniziammo a inviarci parole nell’etere, con curiosità, ironia, e un po’ di turbamento. Chissà se anche lui, mi chiedevo. Ma no, figurati. E invece sì. I pesci mangiavano di gusto. Il pomeriggio prima della presentazione del lavoro lo passammo nella sua stanza in affitto. Ero quasi del tutto vestita e Filippo mi stringeva i polsi mentre veniva. Beatrice la incontrai ad un convegno. Aveva gli occhiali che le scivolavano sempre lungo il naso, e mentre parlava della sua tesi alla platea le tremava la voce. Si era laureata con il mio stesso relatore e a fine convegno andai a chiederle la bibliografia. Scoprimmo di avere molti interessi in comune. Ci scambiammo i contatti. Iniziammo a vederci il mercoledì alle due, per un caffè. Che poi non era mai un caffè. Lei prendeva una centrifuga di carota. Io un orzo. Beatrice si firmava Bea negli sms e mi parlava della sua tesi, ma soprattutto di altro. In particolare mi raccontava della sua passione per le attività manuali. Tutti gli anni di studio le avevano sottratto un piacere che sentiva innato,

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cadillac 8 mi spiegava. Mi mostrò alcune foto di lavori a maglia, poi di dolci che aveva decorato e venduto a dei locali, e ancora le immagini di alcune acconciature che aveva fatto a delle amiche. Una mi piaceva più delle altre, non lo nascosi. Te la faccio, mi disse con la luce negli occhi. Ci sei domenica? C’ero. Casa di Bea era piena di quadri. E in cucina aveva una parete completamente ricoperta di post-it, cartoline e piccoli biglietti lasciati dalle persone che erano passate. M’intrecciò i capelli davanti allo specchio del bagno, a partire dalla fronte e continuando fino alle spalle. Con l’aiuto di uno specchio più piccolo mi mostrò il risultato. Grazie, dissi, è bellissima. Ti insegno come farla, mi rispose. Non le dissi che lo sapevo già. Ci scambiammo di posto e mi guidò le mani sulla sua testa. Poi mi condusse lungo i merletti del corpo, fino a dove voleva intrecciarmi le dita. Di Giorgio mi ricordo bene, ci conoscemmo fuori da un teatro. Ero arrivata in macchina dall’autostrada per vedere lo spettacolo. Giorgio suonava la tromba. Con le dita affusolate pigiava i bottoni e il suono sbatteva contro le volte di pietra. Fuori dall’uscita laterale mi chiese da accendere, e iniziò a parlarmi. Aveva la fronte spaziosa e il naso grande. Un piccolo orecchino d’oro bianco sul lobo sinistro. Stringendo gli occhi mi parlava della solitudine. Ogni tanto salutava qualcuno. Conoscere tante persone e non stare con nessuna, mi diceva. Camminiamo? Mi chiese dopo aver rimesso lo strumento nella custodia. Camminammo. Mi parlò finché le piccole strade del centro non si svuotarono. Si sentivano solo i nostri passi rimbalzare sui muri. Mi spiegò come si suona, quanto ci aveva messo a imparare come si posiziona la lingua sull’imboccatura. Disse che il colore dei miei capelli gli ricordava un corallo che aveva visto sott’acqua durante una trasferta in Arabia. Mi scrisse mesi dopo che al porto di Yanbu’ aveva comprato per me un foulard, che portava appeso al fodero in attesa di rincontrarmi. La notte che ci eravamo conosciuti ci salutammo che era quasi l’alba. Immaginare la sua lingua mi provocò tre orgasmi in una piazzola di sosta durante il viaggio di ritorno. Non glie lo dissi mai.

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Claudia Bruno, Le cose che non dico

Con Enrico è successo tre giorni fa. La prima volta che l’ho visto eravamo sul 47. Facciamo lo stesso tragitto tutte le mattine, e a un certo punto abbiamo iniziato a salutarci. Durante il tragitto Enrico mi parla dei suoi personaggi, delle ultime trame delle sceneggiature che scrive. Mi dice che non ci dorme la notte. È di notte che gli vengono le idee migliori, quelle che sopravvivono alla luce, mi spiega. Io lo ascolto senza muovere la testa, cercando di restare aggrappata alle maniglie appese in alto. Con Enrico abbiamo imparato a stare molto vicini, quasi attaccati. Spinti da più parti riusciamo comunque a preservare una fessura sottile tra i nostri corpi. Lui divarica un poco le gambe per tenere l’equilibrio e io posiziono i piedi in mezzo a quello spazio. Conosco a memoria l’odore del detersivo con cui lava i maglioni. A volte c’è talmente poco spazio tra il suo mento e la mia fronte che mentre mi parla sento il fiato spostarmi i capelli. Tre giorni fa mi ha posato una mano sui reni e mi ha tirata leggermente a sé durante una frenata. La fessura si è chiusa. Gli ho affondato i denti nel collo. Siamo rimasti così per tutto il viaggio. Non gli ho detto che sono sposata, il rumore del traffico era troppo invadente, avrebbe coperto la voce. Se solo tu aprissi bene la bocca, scandissi le parole, mi ha detto un giorno mia madre. Ma alcune fessure hanno bisogno di restare socchiuse mentre l’aria ci scorre, di farsi strette mentre lasciano passare. Non tutti hanno lo stesso suono. Aldo, per esempio, arriva sempre con il passo felpato, infila i piedi tra i raggi di luce che filtrano dalle finestre. Lo sento che si avvicina ancora prima di aprire gli occhi, mi porta la colazione. Amo solo te, mi dice sempre. Io da vent’anni rispondo ti amo. Di me sa tutto, a parte le cose che non dico. Tra poco mi parla del suo lavoro, penso. Lo guardo e gli sorrido.

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il dio dei conigli Danilo Soscia

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el Berghof Hitler teneva nascosto un allevamento di conigli. Celate agli occhi di tutti, centinaia di gabbie custodivano altrettanti esemplari. Con il trascorrere degli anni, i conigli diventarono il suo argomento di discussione prediletto. Spesso si attardava a rammentarne le prodezze sessuali, le stesse che lui amava osservare, agli ospiti che facevano tappa nell’Obersalzburg. Sibillino, irriverente, si prodigava in particolari e invettive, senza fare mai il minimo cenno al fatto che i soggetti evocati nelle sue narrazioni erano, appunto, conigli. Diceva, Debbo dirti, Martin, che ho conosciuto un tizio con una passione maggiore della tua per le donne di pelle scura. Una volta mi ha riferito, e sono intenzionato a credergli fino all’ultima parola, che è solito accoppiarsi con tali esemplari anche dieci, undici volte nella stessa giornata. Tu al confronto sei ancora un pubescente. Hitler trascorreva lunghe ore a osservare gli animali durante la monta. Selezionava con cura i soggetti che mostravano attributi di un qualche interesse, gli occhi di due colori diversi, una maculazione del pelo rara, la sagoma del muso appuntita. Maschio e femmina li prelevava dalle singole abitazioni, e li alloggiava insieme, nell’attesa dell’inevitabile amplesso.

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cadillac 8 Tu non sai, Hermann, spiegava, come certi uomini riescano a montare una donna da dietro per almeno due eiaculazioni, quasi senza pausa tra l’una e l’altra. È stupefacente. Il figlio di un mio caro amico, può trattenere eretto il suo membro anche per sei ore senza eiaculare. Vedi, Joseph, dovresti invitarlo da te a Berlino per risolvere i tuoi problemi. Non vorrai continuare a ingravidare tua moglie senza concederle un minimo di piacere. Gli ospiti di Hitler mostravano un sentito gradimento ogni volta che lo riscoprivano supino a simili interessi. Domandavano, si incuriosivano, qualcuno preda dell’entusiasmo arrivava a insinuare di avere intuito il nome o la fisionomia dell’uomo e della donna di cui Hitler raccontava. Un sera, durante una cena sulla terrazza che si spalancava sul Königssee, all’ennesimo aneddoto sulla potenza di un tizio che aveva fecondato quattro donne nel corso di una sola notte, uno degli invitati saltò sulla sedia e si sciolse la cintura. Adolf, disse, potrai vantare presso i tuoi amici decine di storielle incredibili, ma ricorda sempre che la parte migliore del Reich è ospite in casa tua. E così mostrò ai commensali un pene grigio e tozzo. Rispose Hitler, Non devi agitarti così, Walter. Quanto vi racconto non deve mai oscurare la fama dei miei più cari amici. Al contrario, deve essere per noi tutti lo sprone a migliorare. Vi assicuro che razze inferiori alla nostra sono dotate di un ardore e di una dedizione che farebbe bene, presa a modello, a tanti di noi. Riponi quindi il fucile, Walter, per una festa di caccia ben più grossa di questa. Nei lunghi pomeriggi di solitudine, Hitler parlava ai conigli. Provava a voce alta le strofe di qualche filastrocca di sua composizione. Eva mi ha regalato un paio di guanti di seta, disse a uno dei conigli, mentre cercava di imitarne il verso convulso dei denti. Disse ancora, Mi ha giurato che provengono da un filatoio cinese. I cinesi hanno occhi simili ai vostri, sapete? A periodi ne sterminava una parte, composta per la maggiore da quelli esemplari che erano diventati sessualmente inadempienti.

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Danilo Soscia, Il dio dei conigli

Gli ultimi giorni del maggio 1944, Eva ritardò ancora una volta il suo arrivo. Hitler le fece recapitare un messaggio in cui diceva, I conigli sono come i cinesi. Arriva presto. Con amore. Agli inizi di giugno si consolò alla presenza di un suo amico dalla vaghezza giovanile, al quale infine volle confessare il suo vizio. Disse, Mio caro Albert, spesso mi avrai sentito ragionare di razze portentose e dei loro inverosimili amplessi. Avresti il piacere di conoscere qualcuno di questi miei fortunati compagni? Rispose Albert, Senza che il mio rifiuto ti offenda, Adolf, ma ho sempre trovato noiosi gli esempi di virtù sessuale. Sembra quasi che la Germania sia diventata per te una colonia di scimmie. L’aria della notte si era seccata. Entrambi infilarono la giacca e finirono di mangiare. A loro modo, disse Hitler, erano tutte storie vere. Avrò tempo di dimostrartelo. Anzi, farò di più. Inviterò a una simile prova anche Hermman, Walter, Martin e Joseph. Hitler accompagnò l’ospite sulla soglia della stanza che aveva fatto allestire per lui. Gli strinse la mano, gli augurò buonanotte e gli porse la chiave della serratura. Poi domandò, Sul dorso di quale animale viaggiava la dea Ecate? Rispose Albert, Su quello di una lepre. Disse ancora Hitler, Sei sempre stato un bravo studente. Dopo la partenza di Albert, Hitler rimase digiuno per tre giorni, durante i quali si astenne quasi anche dal bere. All’alba del quarto giorno, verificò lo stato del suo aspetto, condannò a morte più di una decina di conigli, e convocò per il giorno successivo al Berghof i suoi commensali d’eccellenza, Hermann, Walter, Martin, Joseph e Albert. Una parte del messaggio che fece recapitare loro recitava, Adolf avrà piacere di predire in vostra presenza gli eventi futuri. Venite soli. Gli invitati risposero all’unisono all’invito e, come era buona abitudine da anni, giunsero al Berghof carichi di doni, e soprattutto in materia di dolci, verso i quali Hitler, da devoto amatore, sapeva essere

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cadillac 8 crudele e intransigente. Mangiarono al chiuso, poiché dalla mattina un’incessante pioggia mista a vento rendeva inagibile la terrazza sul Königssee. La cena fu lunga, interrotta solo dalla notizia inattesa che Eva sarebbe arrivata il giorno successivo. Hitler si limitò ai convenevoli di apertura, e scambiò rarissimi cenni con i suoi commensali. Poi, preda di un insondabile buonumore, cominciò a ridere di ogni stranezza balenasse al suo occhio, trascinando a loro volta gli ospiti in una oscillazione confusa tra motto di spirito e derisione. Dosò male la forza di un manrovescio scherzoso indirizzato a Martin, sua vittima prediletta, e per poco non lasciò il segno delle dita sulla guancia del compagno. Si incupì di nuovo all’arrivo del dolce, un ciclopico zuccotto alla crema di agrumi, ma questo non gli impedì di apprezzarlo con effusioni e tintinnamenti di piatto e forchetta. Esaurito il rito balbuziente delle sigarette, dal quale Hitler si asteneva senza appello, la tavola venne sgomberata. Disse Hitler, Bene, abbiate la cortesia di seguirmi. Si alzarono, uscirono dalla sala da pranzo, e in fila per uno attraversarono l’ingresso fino all’atrio esterno. Sulla sinistra vi era un minuscolo casamento degli attrezzi, simile a una guardiola. Hitler l’aprì e invitò i suoi ospiti a entrare. Sotto una scrivania di pino collocata al centro della stanza, vi era una botola. Una ripida fila di scale in granito cadeva nella luce tenue e riposante di duecento metri quadrati di gabbie contenenti coppie e singoli conigli. Ecco a voi il futuro della Germania nazista, oltre che il mio irrinunciabile vizio, disse compito Hitler. Hermann, Walter, Martin, Joseph e Albert osservavano con attenzione gli ospiti di alcune gabbie, manifestando senza indugio la loro viva impressione per le misure straordinarie di certi esemplari. In particolare due, un maschio e una femmina, dal manto simile a quello dei gatti certosini e le orecchie candide, lunghe fino quasi alle zampe posteriori. Disse Hitler, Il loro nome è Erebo e Notte. Erebo e Notte, questi sono Hermann, Walter, Martin, Joseph e Albert.

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Danilo Soscia, Il dio dei conigli

Appena Hitler ebbe finito di pronunciare il loro nome, Erebo coprì Notte. Si mosse veloce e impercettibile sopra di essa e poi si accasciò di lato, emettendo una specie di vagito. Dopo meno di un minuto la scena si verificò identica. Hitler allora estrasse Notte dalla gabbia e la condusse in un’altra, vuota. Mentre teneva la portentosa bestia per le orecchie, disse, Lasciamo Notte in pace. Avrà una gestazione lunga trenta giorni. Prima di adagiarla sul pagliericcio della gabbia, le osservò il sesso. Disse ancora, Sapete, mie diletti amici, che è possibile predire il futuro dal colore e dalle contrazioni del sesso di una femmina dopo la monta? Domandò Martin, Davvero, Adolf? Sai forse dirci cosa sarà di noi? Disse Hitler, Proprio tu, Martin, vivrai giorni felici, montato tutte le mattine da una boliviana minorenne. Morirai oltreoceano senza vedere il volto del tuo assassino. Ritroveranno le tue ossa a Berlino, durante lo scavo di un quartiere nuovo. Martin scoppiò a ridere e indicò Hermann, Benissimo, e cosa accadrà allora a Hermann che è molto più virtuoso di me?. Disse Hitler, Sarà meno fortunato. Per una serie di sfortunati eventi dovrà uccidersi con il veleno, povero Hermann, ma lo impiccheranno quando sarà ormai già cadavere. Hermann tese la mano a Hitler e disse, Una morte onorevole come non credo di meritare. E il buon vecchio Walter, invece? Disse Hitler, Per uno nato vecchio come lui, la morte non potrà che arrivare in vecchiaia. Sopravviverà a molti di voi, carissimi, e solo la mano svelta di una donna saprà legare intorno al suo collo raggrinzito un cavo elettrico che gli impedirà per sempre di respirare. Walter accese una sigaretta. Attraverso la gabbia, tentò di accarezzare la testa di un coniglio più piccolo degli altri, ma non vi riuscì. Domandò gioviale, E Joseph? Cosa sarà di Joseph e della sua sciatica? Disse Hitler, Joseph camminerà su un tappeto di cadaveri bambini. Poi, come ogni buon marito dovrebbe fare, sparerà alla moglie adorata.

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cadillac 8 Tutti risero fino alle lacrime. E io?, domandò Albert, Non vorrai farci credere che a me toccherà essere immortale. Disse Hitler, No, giovane Albert, ti terranno in carcere fino a sessantuno anni. Poi ti lasceranno vagare in balia delle tue certezze. Mi dispiace, morirai di vecchiaia. Martin avanzò di un passo, mentre Hitler chiudeva la gabbia dove aveva adagiato Notte. Spalancò le braccia e trattenne a stento una risata. E tu?, domandò, Quale sarà il tuo futuro, Adolf? Cosa dice la vulva di quella bestiola? Rispose Hitler, Io? Non lo vedete forse? Io sono il dio dei conigli.

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Diego Bertelli

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mazzi di fiori lungo i bordi delle strade mi mettono sempre a disagio. A volte si vedono legati al tronco di un albero o a un segnale stradale; altre volte composizioni di grandezze diverse fanno da contorno a piccole lapidi e croci con la fotografia e il nome di una persona. Una cosa che ti colpisce è che di fianco a quegli altari improvvisati, quando ci passi, i fiori sono sempre freschi. C’è qualcuno che si prende costantemente cura di quelle variazioni sul tema del ricordo. Anche stavolta che supero una rotonda dove stanotte è morto un ragazzo che aveva appena diciassette anni provo lo stesso disagio. La notizia è già finita sulla civetta dei giornali di oggi. Quando sono arrivato al mare, poco prima delle dieci, mi sono fermato a fare un po’ di benzina e ho letto quel che era successo sulla cronaca locale. Vado sempre a vedere il nome e il cognome di chi muore in un incidente stradale se succede nel posto dove sono nato. Si chiamava Davide Agostini e ovviamente non lo conoscevo. Non ho mai conosciuto nessuno che sia morto in un incidente stradale. Sul giornale c’erano anche la foto del ragazzo e quella del luogo dell’incidente.

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cadillac 8 L’articolo diceva che Davide era morto sbattendo la testa contro un albero. Il casco non era riuscito a salvargli la vita; troppo violento, l’urto. Pioveva e lui doveva aver perso il controllo della moto, forse andava più forte del solito, così diceva il giornalista, perché aveva fatto un po’ tardi, e temeva che i suoi si sarebbero infuriati. La ricostruzione è penosa. Penso a come vengano in mente frasi del genere: «a casa i genitori si devono essere svegliati. Non avendolo trovato in camera, lo hanno chiamato, preoccupati. Lui sentendo vibrare il suo touch phone, quello che gli era stato regalato appena un mese fa per i suoi diciassette anni, ha cercato di rispondere, perdendo tragicamente il controllo». Sembra che sul cellulare del ragazzo ci fosse una chiamata persa dal numero di casa proprio all’ora dell’incidente. Sarebbe davvero atroce se fossero stati i suoi stessi genitori la causa della morte di Davide, se un atto d’amore come la preoccupazione di un padre e di una madre gli avesse fatto perdere il controllo della moto. Forse era davvero in ritardo, altrimenti a quel ragazzo non sarebbe mai venuto in mente di provare a rispondere mentre guidava. La rotonda dove Davide è caduto è una di quelle che non richiedono di rallentare troppo se continui dritto. Magari si è sentito sicuro. Ci passo davanti poco dopo essere ripartito: è sulla via di casa ed è facile riconoscere il punto. Intorno alla pianta ci sono già tutti i segni del dolore. Continuo dritto per un chilometro circa, poi non so cosa mi prende. Metto la freccia e cerco di accostare dalla mia parte. Non appena ci riesco, faccio un’inversione e torno indietro. All’altezza della rotonda prendo la prima uscita a destra e mi fermo. Scendo di macchina, faccio un paio di metri lungo il ciglio, mi guardo da tutte e due le parti e attraverso la strada. Passata l’aiuola che costeggia il bordo della carreggiata, mi ritrovo a pochi centimetri dal luogo dove è morto Davide. È un accumulo insensato, di pochissime ore fa. La cosa che colpisce per prima è vedere la bandiera della sua squadra di calcio. È la cosa più grande e più in vista, ma il giornalista sull’articolo, tra le tante cose che ha scritto, si è scordato di parlare della sua grande passione

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calcistica. Ora so che Davide era milanista, ma forse a lui non importava così tanto; forse è solo quello che hanno saputo metterci i suoi amici, perché in fondo le cose lasciate qui potrebbero parlare più di loro. Il ricordo è spesso un processo di appropriazione, come sempre succede quando chi rimane in vita deve fare i conti con un’assenza. Con la mano destra scosto la bandiera rossonera, che dalla base del tronco occupa almeno un metro in altezza, circondando la pianta per metà, e noto una cosa che forse mi fa ricredere sulla passione di Davide per il calcio: sembra che il telo sia stato messo apposta per coprire la zona dell’urto. Il colpo ha scheggiato la corteccia in diversi punti, e la profondità varia. È proprio qui, dove tocco con le dita, che deve aver sbattuto la testa. Non faccio in tempo a fare quella mossa che ritraggo immediatamente la mano, come se avessi sentito qualcosa di umido sulle falangi. È solo una sensazione, che non ha senso, ora che sto toccando il punto dove ieri sera è morto un ragazzo che non conosco. Mi guardo intorno, deglutendo sento la gola secca, sulla fronte avverto lieve ma evidente la sensazione di sudore: ho avuto paura e adesso cerco di capire se qualcuno mi stia guardando mentre rallenta per imboccare la rotonda. Rivolto verso la strada, mi rendo conto che la gente mi lancia delle occhiate distogliendo subito lo sguardo; mi conforta che in quella circostanza gli altri sembrano più a disagio di me. Sotto alla bandiera del Milan c’è una canottiera con scritto Salvataggio. Neanche di questo parlava il giornale. Ma forse neanche la canottiera è sua; anche questa ce l’avrà messa qualcuno dei tuoi amici perché gli è venuto in mente di mettercela, come la bandiera. La morte impone la celebrazione della memoria su basi distorte: molti dei gesti che si compiono servono soltanto ai vivi. La stessa cosa potrebbe valere per la foto plastificata che vedo lì di fianco. Ci sono due persone allegre. Uno è Davide, ma la mia attenzione va sulla ragazza di fianco, che è molto bella. Sono tutti e due seduti al tavolo di un bar al mare, dietro si vedono gli ombrelloni gialli. Davide l’abbraccia, sorridendo. Si capisce da come è felice che gli piace. D’altra parte, lei, sembra un po’ imbarazzata; c’è questa cosa che tradisce tut-

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cadillac 8 ta la scena, vicino alla sua spalla: una mano che la spinge verso di lui. In quel sorriso, che è la sua espressione di resistenza per non finirgli addosso, si vede subito che lei verrebbe bene in ogni foto. Davide è lo stesso del giornale, non deve essere passato molto tempo da allora; forse la foto risale all’estate prima; ora è aprile. Mi chiedo se lei sia mai diventata la sua ragazza o se pure sia rimasta soltanto un’amica, di cui magari Davide era ancora innamorato. Spero di no, spero che lui non sia stato uno di quelli che ha dovuto soltanto sperare di averla, anche se dalla faccia sembra proprio uno di loro. Era meglio se ci mettevano un’altra foto, comunque, una di quelle mentre giocava a beach volley o durante una gita con gli amici. Non è giusto dare adesso un tale ruolo a quella ragazza. E lei magari non voleva neppure che qualcuno ce la mettesse, avrebbe voluto toglierla di lì, quella foto, ma non ha potuto far nulla. Tra le ipotesi possibili c’è pure questa: che lei non sappia nulla o che forse sia stata proprio lei a portarla. In ogni caso, ora è lì: una foto scattata da qualcuno, come mille altre foto, serve invece a far pensare a qualcosa di così indefinibile come la felicità. Quante cose si possono desumere senza un vero contesto; ognuno può congetturare su una vita che esiste solo a partire da ciò che non esiste più. Penso a quello che staranno provando sua madre e suo padre di fronte a tante cose di Davide adesso che non c’è più: fotografie di cui non sapevano niente, parole e cose che non appartenevano che a Davide. I genitori spesso sanno così poco della vita di un figlio, specie a quell’età. Mettendo a posto i cassetti di camera sua, svuotando l’armadio, lo zaino di scuola, il diario, finiranno con le mani e gli occhi in mezzo a cose da riporre in silenzio o gettare, nascondendole agli altri e a se stessi; cose che Davide, un giorno, avrebbe provveduto a buttare. Ci sono delle lettere lasciate alla base del tronco, sull’erba, che coprono un letto di mazzi di fiori; l’odore è buono. Intorno, quasi come una cornice rossa, lumini, alcuni dei quali ancora accesi, altri già consumati o spenti dal vento e dagli spostamenti d’aria delle macchine che passano di lì. I messaggi per Davide, Davi, Da’, David, Davids, forse perché tifava Milan, sono tantissimi: fogli di quaderno strappati,

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biglietti colorati, fazzolettini… per terra c’è un’altra maglietta con le firme dei compagni di classe. Facevi la IV B al Manzoni. Tutto è stato ammassato senza pensare al vento, alla pioggia; chissà se gli spazzini dovranno liberare l’aiuola tra qualche giorno e gettare tutto questo attaccamento alla vita. Il ricordo si impone come un legame tra il dolore e l’invisibile, come la qualità assente di un sentimento che non si può realizzare se non attraverso le parole. Mi avvicino per raccogliere una lettera a caso. Lì in mezzo ce n’è una colore azzurro che sembra meno rovinata della altre, come se qualcuno ce l’avesse appoggiata poco prima che arrivassi. È imbustata e sigillata, io la prendo e me la giro tra le mani guardando ambi i lati per vedere se c’è scritto qualcosa. Il nome Davide non c’è. Prima di strappare la piega, guardo verso la strada; poi la apro, e mi metto a leggerla: “So che non ti dovrei neppure scrivere. Forse quella sera ho dato il peggio di me e più cercavi di essere carino con me, più io me ne approfittavo. Non so perché si tratta male chi è buono con noi, specie se ti da attenzione. Al compleanno ti ho rovinato la serata, ballando con Andrea, bevendo, facendo la cretina con Lucia. Non te lo avrei mai detto se non fosse successo tutto questo, ma tu ci credi se ti dico che mi dispiace? Ci credi se ti dico che mi piacerebbe ballare con te, che non berrei per vedere come ci rimanevi male che bevevo, ho perfino vomitato e non ho pensato che non volevo che mi vedessi. E quando sono tornata c’eri te con Nicola. Sembrava che mi aspettavi. Li per li ti ho odiato, ma ora penso che te e Nicola eravate gli unici rimasti ad aspettarmi. Ho chiesto a Nicola se mi riaccompagnava a casa in motorino, perché con te mi sentivo giudicata. Te facevi sempre tutto giusto, cioè, voglio dire, non facevi nulla di quello che si faceva noi. Eri sempre tranquillo e questo mi dava l’idea che ti sentivi superiore. Sei sempre stato strano, il tuo sguardo, il tuo modo di dire le cose. A me non mi veniva spontaneo divertirmi con te, anche se ti volevo bene e mi piaceva chiederti le cose. A volte la pensavo come te, ma non riuscivo a essere uguale a come eri te. Non so se mi sono spiegata, ma spero tu capisca. T.V.B., Davide, e non mi giudicare troppo da lassù. S.”

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cadillac 8 Quando finisco di leggere, avverto una presenza vicino a me. Mi volto provando una specie di angoscia per essermi fatto trovare in quel posto, a curiosare tra cose non mie. È una ragazza che mi guarda, ma sembra intimidita più lei di me. Senza rendersene conto, porta gli occhi sulla lettera che tengo in mano. Capisco è sua. Ora la osservo meglio: è mora, occhi scuri, non troppo alta, capelli lisci e legati dietro. Indossa un paio di jeans e una felpa col cappuccio, scarpe basse sportive, un giacchettino di pelle corto in vita, stretto suo fianchi. In mano ha un casco nero, di quelli aperti, senza visiera; sulla parte posteriore ci sono un cuore stilizzato e la scritta Sweet Years, attaccati male. “Non metti mai gli accenti,” dico. È la prima cosa che mi viene in mente. Lei non risponde, ma abbassa ancor di più gli occhi. Le faccio un’altra domanda ovvia: “Tu non sei la ragazza della foto, vero?” “No, non sono io. Quella è Lucia, una compagna di classe di Davide. Io mi chiamo Sonia. Te sei un parente?” Mento con una certa tranquillità: “Sì. Hai scritto tu quella lettera?” Fa cenno di sì col capo, ma non mi guarda neanche adesso. “È bella” dico, ma lo dico così, per dire. Lei non mi risponde, stavolta però mi guarda. Le chiedo come sta; in quel momento non so dirle niente di essenziale. Fa spallucce, piegando lievemente la testa a sinistra, per via del collo lungo; con quel gesto così lieve sembra otturare lo sfondo. Continuo a guardarla come si guarda un’immagine ferma, quando si pensa o si prega. Adesso anche lei è diventata una cosa da lasciar lì, fra le cose lasciate per Davide. Segue un lungo silenzio, durante il quale ripongo la sua lettera nella busta e la appoggio a terra, sopra le altre. Cerco di metterla esattamente dov’era. Nel farlo, smuovo leggermente i fogli che stanno sotto. Provo a far piano, rimetto tutto a posto, come posso. Sonia intanto mi guarda e non dice una parola. Quando mi rialzo non cambia nulla e allora le chiedo se anche lei era in IV B. “Sì.” Come l’immagine che mi ero fatto di lei, anche la sua risposta è immobile: un sì pronunciato dalla sola posa del suo viso. Poi dopo un momento aggiunge: “Anch’io ero in classe con Davide.”

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Ancora silenzio. Adesso non la guardo, tengo la testa chinata sul mucchio di messaggi scritti per Davide. Lei fa pochi passi verso di me; mi si mette di fianco. Cerco di osservarla senza voltare la testa. Forse chissà, era venuta a riprendersi la lettera che stavo leggendo, ma lei non fa alcun movimento. Anche il suo volto è chinato, come il mio. Dopo qualche attimo, sono io che mi rivolgo nuovamente a Sonia, dicendo: “Ti va un caffè?” Lai si volta, guardandomi abbastanza sorpresa. È un altro sì immobile, il suo. A quel punto la invito a salire in macchina: “C’è un bar qui vicino, ma andare a piedi per questa strada non è il massimo.” Sorrido e aggiungo: “Il casco lo puoi mettere dietro.” Sonia annuisce. Ci vuole un attimo per arrivare. Metto la freccia e dico: “Eccoci, è questo; siamo già qui”. “Mm, mm”, fa lei. Entrando vedo due tavoli vuoti e ne scelgo uno, quello più vicino alla finestra, dove c’è una luce calda, ammorbidita dalle tende color ocra del locale; mi accerto che il tavolo sia di suo gradimento e interpreto i suoi silenzi come un sì. Ci sediamo. Guardo verso il banco, incerto se alzarmi o meno. La signora mi fa cenno con la mano di restare e viene a prendere l’ordinazione. Guardando Sonia aggiungo: “Hai fame?” “Mm, mm.” Stavolta è un no. “Allora due caffè, per me lungo, grazie.” “Il mio macchiato”, aggiunge lei, zittendosi subito. Invece di parlarle, comincio a chiedermi perché l’abbia invitata a bere un caffè; anche se Sonia non sembra a disagio, passa dell’altro silenzio. “Vado un attimo in bagno,” dico io, per spezzare la tensione. Non faccio nulla, tiro lo sciacquone e mi lavo le mani, guardandomi allo specchio. Metto a posto i capelli, il collo della camicia. Solo allora controllo che la porta sia chiusa, nonostante avessi girato la serratura un attimo prima. Apro ed esco: tutto come previsto; rientrando, vedo i nostri caffè sul tavolo. Lei mi guarda, e mi accorgo che mi stava aspettando. È un buon segno, penso, mentre mi siedo. Sorrido, le dico un’altra volta che non mette mai gli accenti, sperando che stavolta la mia frase sortisca un qualche effetto; lei sorride, dice che non è molto brava in italiano.

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cadillac 8 “Che cosa vuoi fare dopo la scuola?” Non lo sa, non lo sa ancora, mi dice che suo papà è un’elettricista e che la mamma lavora in un supermercato. L’estate ci lavora anche lei. “Ti piace?” Le piace e non le piace. Dice solo: “Per ora va bene. Poi c’è la scuola”. Dopo quelle parole, Sonia finisce di bere il caffè. La cosa mi dà un certo sollievo. La guardo e mi guarda anche lei. Adesso che i suoi occhi sono dritti nei miei, mi sembra che il trucco che si è messa non c’entri nulla col suo viso. Starebbe meglio senza. Penso a questo e non so cos’altro dire. Continuo a guardarla, mi riesce di farle un sorriso. Sorride anche lei, e in quel momento mi sembra più carina. A Davide sarà di certo piaciuta. Adesso ha le mani sui jeans e le gambe unite; il collo sembra ancora più sottile sullo sfondo color giallo ocra delle tende. Nonostante il contrasto, la sua pelle è più bianca del comune. “Dovrei andare”. “Hai ragione,” dico io, “è tardi. Grazie di essere venuta fin qua. In fondo non mi conosci nemmeno.” “Hai detto che sei un parente, va bene.” “Sì, va bene”, aggiungo io, “Ora pago e ti riporto al motorino.” Mentre mi alzo sento dirmi: “Il caffè?” “Certo, il caffè…”, dico io, con una leggera sorpresa.” “No, no”, fa lei, divertita: “è ancora lì.” Sonia indica il tavolo, la mia tazzina è ancora lì, piena quasi fino all’orlo. La prendo con la mano sinistra e nel bevo il contenuto rappreso in superficie tutto d’un fiato. Freddo è un po’ cattivo. “Vado a pagare. Tu aspettami pure fuori.” Sonia fa cenno di sì con la testa, ma in realtà arriva fino alla porta. Usciamo insieme; quando sale, accenna un breve sorriso. La cosa mi mette nuovamente a mio agio, lo considero un altro segno buono. La riporto con sollievo al motorino, sento che non ha avvertito troppo il peso della mia richiesta iniziale. Il suo silenzio è sereno. Mi faccio piano piano tutta la rotonda, finché non avvisto il motorino in lontananza, a sinistra dell’aiuola dove ci siamo incontrati. “Devo lasciarti qui, sennò rischiamo un incidente.”

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Diego Bertelli, Denkmal

Quando dico così, lei mi guarda. Ho usato la parola sbagliata. Resto in silenzio. Lei si slaccia la cintura, apre la portiera e aggiunge: “Grazie del caffè.” Grazie a te, Sonia, e buona fortuna per tutto.” Prima di scendere, dice: “Ci vediamo dopo?” “Come?” dico io. “Il funerale…” fa lei, sorpresa. Annuisco, ma ci metto un momento, distogliendo lo sguardo. Lei scende senza voltarsi, io parto e mi dirigo verso per tornare verso l’autostrada. Chissà se si è resa conto che le ho mentito, se si è fatta una domanda sulla direzione che ho preso. No, impossibile, da lì non si va soltanto verso l’autostrada. All’improvviso punto gli occhi nello specchietto retrovisore. Mi viene in mente di guardare se Sonia si è fermata a raccogliere la lettera. Ma sono troppo lontano per capire quello che ha fatto nel frattempo. Vedo la sua sagoma sul motorino, nell’atto di ripartire. Lascio perdere e continuo dritto per diversi minuti. Un’altra rotonda, un semaforo. Cambio marcia meccanicamente, poi accendo la radio. Allo svincolo dell’autostrada svolto senza neanche mettere la freccia. Torno a Firenze senza neppure aver salutato i miei genitori; ero sceso per pranzare con loro e vedo solo adesso le tre chiamate perse sul cellulare. È quasi mezzogiorno e io gli avevo detto che sarei arrivato in mattinata. Mentre passo il casello prendo in mano il cellulare e li chiamo. È tardi e non voglio che stiano in pensiero.

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fra altri sedici anni Francesca Giannone

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ancano ancora gli antipasti. Di solito me la cavo con prosciutto e melone, che non scontenta mai nessuno. Non sono gli antipasti a mettermi ansia, no. È il tiramisù. L’ho ordinato stamattina da Pompi e chissà se è pronto. Ho detto al ragazzo: “Mi fai una torta di cinque chili con tutti i gusti che avete, banana e nutella, pistacchio, nocciola, fragole. Ah, e cioccolato, si capisce”. Il ragazzo mi ha risposto che loro vendevano già le torte di tiramisù ai vari gusti, potevo comprarne cinque e assemblarle, tanto che cambiava. Io gli ho risposto che no, volevo proprio una torta bella grande, con tutti i gusti. Quello si è accigliato. “A che nome?” “Elisa. Catalli Elisa”. “Stasera alle sette”, mi ha detto scarabocchiando il mio nome su un foglietto. Solo che adesso io da Pompi a ritirare la torta proprio non ci posso andare. Devo preparare gli antipasti e darmi una sciacquata, ho i capelli che puzzano di roast-beef e patate. E poi voglio prendermi il tempo di farmi caruccia. Ho comprato un vestito apposta, l’altro ieri, nero e lungo fin sopra il ginocchio con una striscia bianca a fiori gialli nel mezzo. È un modello che snellisce, mi ha detto la commessa, vedrai se non ho ragione.

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cadillac 8 Così ho fatto uno squillo a Matteo e gli ho chiesto se poteva passarci lui, da Pompi. Mi ha detto ok, bimba, nessun problema. Poi mi sono raccomandata che fosse puntuale, ché alle otto e mezzo sarebbero arrivati. “Non far cadere la torta”, gli ho detto.

“E se gli avessi dato l’indirizzo sbagliato?” chiedo a Matteo. “Perché avresti dovuto?” “Non saprei. L’emozione, forse”. “Vedrai che ora arrivano”, mi dice imperturbabile mentre passa in rassegna i cd nella libreria. “Metti Chet Baker, a Luca piace”, faccio io, seduta sul bracciolo della poltrona. “Almeno, un tempo gli piaceva. Ora non so”. “Chet Baker”, dice lui. Prende il cd infilando l’indice nel buco, lo inserisce nel lettore e fa partire Almost blue. Poi si mette a sedere sul divano e sfila dal taschino della camicia la sigaretta elettronica. Do un’occhiata all’orologio da parete che abbiamo in sala, un modello futuristico comprato alla Design Week di Milano, anni fa. Hanno mezz’ora di ritardo. Mi rigiro la fede tra le dita, poi faccio la stessa cosa con il bracciale di perle. Matteo è lì, di fronte a me, che fuma la sua sigaretta finta e gioca a Ruzzle sul cellulare. Mi alzo, mi avvicino al lettore cd e mando avanti di una canzone. My Funny Valentine. “Perché hai cambiato?” mi fa Matteo alzando lo sguardo dal cellulare. “Così. Sono nervosa”, dico io, in piedi con le mani sui fianchi. Inspiro a occhi chiusi e butto fuori l’aria lentamente. “Bimba, arriveranno. Mettiti a sedere”. “Credo che gli farò uno squillo”. “Se vuoi”. “Sarà meglio, sì”, faccio io.

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Francesca Giannone, Fra altri sedici anni

Luca al telefono mi dice meno male che hai chiamato, non avevo memorizzato il tuo numero. Mi assicura che stanno arrivando, sono per strada. Il piccolo ha fatto i capricci, non ne voleva sapere di mangiare con la baby sitter. Si scusa, avrebbe voluto avvisarmi del ritardo. Gli dico non fa niente, vi aspettiamo. Riattacco e rimango con lo sguardo fisso sullo schermo del cellulare. Poi alzo gli occhi su Matteo. Dico: “Hanno un figlio”, col tono di chi è in cerca di consolazione. Faccio una scappata in bagno per controllare che il rossetto ci sia ancora. È una tinta color vinaccia, di quelle a lunga tenuta che fanno adesso, che anche se mangi e bevi non si schiodano da lì per tutta la sera. Faccio un’altra passata con il pennellino davanti allo specchio, non si sa mai. Mentre richiudo dietro di me la porta del bagno, ecco che suonano al citofono. Affretto il passo verso la porta, rifilo un’occhiata a Matteo e gli dico di piantarla con quel giochino. Sollevo la cornetta: “Quinto piano”. Matteo si alza dal divano e mi raggiunge all’ingresso. “Come sto?” gli chiedo. “Bene”, mi fa lui accarezzandomi i capelli. “Piano che mi rovini la piega”, gli dico lisciandomi il ciuffo con la mano. Me ne sto ad aspettare davanti alla porta aperta, con le braccia incrociate. Riesco a sentire distintamente il rumore dell’ascensore che sale. Tra pochi istanti saranno qui. Ho il battito accelerato. Nel pomeriggio ho stilato una lista degli argomenti di conversazione, così non c’è pericolo di rimanere senza niente da dire. Non li sopporto, quei momenti di imbarazzo in cui tutti se ne stanno zitti. L’ascensore si ferma al nostro piano, lo vedo dalla lucina verde che si è messa a lampeggiare. Faccio un respiro profondo. Matteo mi dice: “Ehi”. Io faccio sì a occhi chiusi e gli dico che è tutto ok. La prima a uscire dall’ascensore è Anna. Mi guarda come se mi vedesse per la prima volta. Me la ricordavo più brutta. Non voglio dire che fosse brutta, al liceo, ma non è mai stata quel tipo di ragazza per

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cadillac 8 cui gli uomini fanno la fila. Ora invece la donna che sta venendo verso di me è tutta un’altra storia. Deve fare parecchia palestra, mi dico. Le braccia sono ben tornite, e anche le gambe che si intravedono dal vestitino con i volants sono sode, lisce, senza alcun segno di declino. Non come le mie, che sono piene di cellulite. È abbronzata, forse si fa le lampade. Non aveva quest’aria voluttuosa, al liceo. Luca le sta venendo dietro. Con una mano regge una bottiglia di vino infagottata in un sacchetto di carta da pane. Ha messo su la pancia, però il viso è ancora tanto bello, come allora. I suoi tratti hanno sempre avuto un non so che di poetico, glielo dicevo sempre. “Ciao”, mi fa Anna con voce ferma, tendendomi la mano. Io gliela stringo, la guardo negli occhi e accenno un sorriso. Luca si avvicina e con il braccio libero mi avvolge in un abbraccio. “Come stai?” mi sussurra all’orecchio. Mi limito ad annuire. Ho paura che, se aprissi bocca adesso, la voce mi si metterebbe a tremare, come succede sempre quando mi sento sopraffatta. Mi svincolo dalle sue braccia e indico Matteo: “Mio marito”. Entrano. Bella la casa, dicono guardandosi attorno. “Hai sempre avuto buon gusto”, mi fa Luca. Li invito a sedersi sul divano e vado in cucina a prendere i bicchieri e la bottiglia di prosecco. Matteo mi chiede se voglio una mano. Gli rispondo che non c’è bisogno. Torno in soggiorno col vassoio e tutto quanto. Matteo si alza e mi dice “Faccio io”, sfiorandomi di proposito il braccio con la mano. Mi siedo sul divano, lui stappa il Ferrari e si mette a versarlo nei bicchieri. Poi li distribuisce. Mi rendo conto che nessuno sta parlando. Si sente solo la tromba di Chet Baker in sottofondo, che fa da contraltare alle mie palpitazioni. “Allora?” mi fa Luca, dopo aver mandato giù un sorso. “Ti piace Roma?” Gli dico che sì, mi piace, anche se è troppo grande, e capita ancora che di tanto in tanto mi perda. Lui mi fa un sorriso e mi rassicura: “è normale”.

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Francesca Giannone, Fra altri sedici anni

Continuiamo a parlare per un po’ di questa città, di quello che dà e di quello che toglie. Dice che ogni tanto gli viene voglia di tornarsene a Firenze, che a Roma a lungo andare ci si stanca, e non è sicuro di voler far crescere suo figlio qui. Matteo allora gli chiede del figlio. Lui ci racconta che ha quattro anni e si chiama Gabriele. Poi tira fuori il cellulare e ci mostra una foto. Somiglia ad Anna, faccio notare indirizzandole uno sguardo. Lei fa una smorfia che sembra un sorriso e si scola l’ultimo goccio di prosecco. Dico che, se per loro va bene, possiamo accomodarci a tavola. “Che bello”, mi fa Luca ammirando la tavola apparecchiata. Matteo dice qualcosa a proposito della mia fissa per la cura dei dettagli. “Be’, i dettagli sono importanti”, fa Anna mettendosi a sedere. Matteo prende l’apribottiglie e stappa il vino che ha portato Luca. Io comincio a servire in tavola i piatti con il prosciutto e il melone. “È un Brunello di Montalcino del ‘97”, dice Luca osservando concentrato le manovre di Matteo. “Una delle annate migliori”. Matteo si porta il tappo al naso, lo annusa e dice che sì, si sente che è proprio buono. “Non potevi scegliere un antipasto migliore”, mi fa Luca mentre con la forchetta arrotola una fetta di prosciutto su sé stessa. “Con questo caldo”. “Brindiamo”, dice Matteo sollevando il calice. “Giusto”, fa Luca posando la forchetta. “A noi”, dico. “Cin”, mi rispondono in coro, facendo tintinnare i bicchieri tra loro. Quando porto in tavola la teglia del roast-beef siamo già alla terza bottiglia di vino. Anna ci sta dando dentro. Ha tutta l’aria di essere già ciucca e finora ha detto sì e no tre parole. Il mascara le si è sbavato un poco, sotto gli occhi. Forse dovrei dirglielo. Magari è meglio che mi faccia gli affari miei.

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cadillac 8 Luca si mette a raccontarci delle riprese per la pubblicità di un mobilificio, una cosa a cui stanno lavorando. “Io sul set non ci vado”, lo interrompe Anna con un’aria di disappunto e la voce biascicata. “Sì, lei li scrive, gli spot. A tutto il resto ci penso io”, si giustifica Luca guardando a turno me e Matteo. “Oddio, non so se si possa dire che scrivo veramente”, fa Anna con un sorrisetto amaro. Luca prende il bicchiere di vino e fa un sorso lungo. “Che vuoi dire?” le chiedo. “Dai, si tratta di pubblicità del cavolo, per qualche azienda locale. Il meglio che ti può capitare è che vadano su Tele Tuscolo”. “L’ultima l’hanno trasmessa in Rai”, fa notare Luca. “Ah be’, allora”, dice Anna. “Abbiamo svoltato”. Poi afferra la bottiglia e quando va a versarla nel calice si accorge che non esce niente. “Non c’è altro vino?” chiede. “Sì, certo”, fa Matteo alzandosi. Va verso la cantinetta di legno in soggiorno e sfila una bottiglia di Barolo. Torna al tavolo, mi fa una carezza sulla spalla e ci scambiamo un sorriso che ha qualcosa di tenero. Poi si mette ad aprire la bottiglia e versa da bere a tutti. Anna per prima. Luca ha lo sguardo fisso sulla bottiglia d’acqua davanti a sé, a cui sta staccando l’etichetta con le dita, ricavandone tanti piccoli brandelli che si stanno mischiando alle briciole di pane sulla tovaglia. “E vi rende bene?” dico io riprendendo il discorso. “Non c’è da lamentarsi”, fa Luca senza alzare lo sguardo dalla bottiglia. Ha appena staccato l’ultimo lembo di etichetta, e ora si sta mettendo a grattare la colla rimasta con le unghie. “Non è il cinema, comunque”, sottolinea Anna. “Pensi che col cinema guadagneresti di più? Di questi tempi, poi”, dice Luca prendendo a fissarla. “Cosa vuoi che me ne importi dei soldi”, fa lei. “Io parlo di arte”. “Ah, lei parla di arte”, le fa il verso Luca. Matteo cerca il mio sguardo. Mi fa un segno con gli occhi. Io annuisco per dire che ho capito.

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Francesca Giannone, Fra altri sedici anni

“Vi va il dolce?” chiedo. “L’arte, sì”, fa Anna, rivolta a Luca. “Vado a prenderlo”, dico. “Ti do una mano”, dice Matteo. Mentre siamo in cucina a togliere l’involucro di alluminio alla torta di tiramisù, li sentiamo che continuano a discutere. “Io la faccio, la mia arte”, sta dicendo Luca. “Oh questa poi. Tu fai arte? Ne sei sicuro?” “Sono creativo, nel mio lavoro”. “Hai ragione. C’è proprio da essere creativi”. “E poi, scusami”, dice lui, “che cazzo vuol dire arte?” “Dici che si sta mettendo male?” sussurro a Matteo, un po’ preoccupata. “Speriamo che si menino”, mi dice allegro lanciando un’occhiata in sala da pranzo. “Shh. Abbassa la voce”, faccio io bisbigliando. “Ma che le è preso?” “Che vuoi che le sia preso. Si è fatta fuori due bottiglie di vino”. “Non ci abbiamo mai provato, a fare il cinema. A farlo sul serio”, sta dicendo Anna mentre io e Matteo portiamo in tavola la torta, reggendola a quattro mani. “è il tiramisù di Pompi”, dico io. “Ci sono tutti i gusti”. “La devi piantare con questa storia. Va’, va’ a fare il cinema”, dice Luca alterandosi. “Poi il mutuo chi lo paga? E Gabriele?” “Oh, fanculo il mutuo”, fa Anna abbandonandosi sullo schienale della sedia. “E magari fanculo anche Gabriele, eh?” “Fanculo tu”, fa Anna incenerendolo con lo sguardo. Poi tira fuori il tabacco dalla borsa e prende a rollare una sigaretta. “Non si fuma, qui”, la ammonisce Matteo. “Oh, Cristo”, fa Anna ricacciando il tabacco nella borsa. “Ehi! Loro non c’entrano”, si acciglia Luca. “Non c’è problema”, lo rassicuro con un gesto della mano. “Che gusto vuoi?”

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cadillac 8 “Classico. Grazie, Elisa”, mi fa lui con un’aria di riconoscenza esagerata. “Sì, anche io cioccolato”, dice Anna con un filo di voce. Impiatto le fette di torta e le servo. Ci mettiamo a mangiarle in un silenzio che, devo ammettere, adesso non mi sembra poi tanto male. “Non immagino niente di peggio che mandare i sogni a farsi fottere. Ho ragione o no?”, fa Anna all’improvviso, prendendo a fissarmi negli occhi. “Be’”, dico imbarazzata, “i sogni sono imperfetti. Bisogna farci i conti”. “Ecco, diglielo”, fa Luca indicando Anna con la forchetta. “Può anche darsi che un certo sogno non faccia per noi”, interviene Matteo con la bocca piena. “Che intendi?” dice Anna. “Voglio dire, capita di intestardirsi su qualcosa per anni, per poi scoprire, a cosa fatta, che non è quello che ci fa stare bene”. Si pulisce le labbra con il tovagliolo e si porta alla bocca un altro pezzo di torta. Anna non commenta e riprende a mangiare il tiramisù. Luca la scruta per un momento, poi a testa bassa si mette ad accarezzare con pigrizia il piede del calice. “Tu te lo ricordi com’era, vero Elisa?” mi fa Anna di colpo. “Cosa?” “Lui”, dice indicando Luca con un cenno del capo. “Anna, per favore”, dice Luca con una smorfia di insofferenza. “No, voglio che mi risponda. Avanti”, mi dice esortandomi con un movimento della mano. “Diglielo”. “Siamo cambiati tutti”, rispondo io. “Te lo ricordi quello che diceva?” “Anna…”, fa Luca. “Elisa, diglielo”. “Anna, non mi va”, faccio io con la voce tremula. “Hai sentito? Piantala”, le dice Luca. Matteo se ne sta lì con le braccia incrociate e gli occhi sbarrati a fissarci a turno. Sembra avere un’aria divertita.

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Francesca Giannone, Fra altri sedici anni

“Sai cosa?” dice. “Credo che prenderò gli amari”. Tutti lasciamo correre lo sguardo su di lui. Si alza e apre lo sportello in vetro della credenza. “Voglio farvi assaggiare questo rum al miele”, dice tirando fuori la bottiglia. “Ah sì, è buono”, dico io. Anna si sta accarezzando la nuca con la mano. Ha gli occhi fissi sulla tovaglia. Matteo posa la bottiglia sul tavolo insieme a quattro bicchieri da degustazione. Svita il tappo e versa. “Si accompagnerebbe bene a un sigaro”, dice Matteo in piedi, riempiendo l’ultimo bicchiere. “Solo che io non fumo più”. Luca guarda Anna per un momento, poi fissa gli occhi su di me. Arriccia le labbra in un sorriso triste. “Noi andiamo”, dice. “Oh…” mi viene fuori. “E il rum?” chiede Matteo. “Un’altra volta”, fa Luca. “Sì, fra altri sedici anni”, dice Anna con la voce fattasi più sottile. Li saluto sull’uscio senza dire quelle cose lì che si dicono di solito, tipo alla prossima oppure sentiamoci. Richiudo la porta senza aspettare di vederli entrare in ascensore. Mi appoggio per un momento allo stipite e mi sento invadere da uno di quei picchi di gioia che prendono alla sprovvista e provocano una specie di calore allo stomaco. “Bel disastro”, mi fa Matteo sprofondando sul divano. Si sfila le scarpe, prima una poi l’altra, e distende le gambe sul tavolino di legno scuro. “Il problema è un altro”, faccio io accucciandomi accanto a lui. “Cioè?” mi dice mettendomi il braccio sulle spalle. “Che ce ne facciamo di tutto quel tiramisù?” Matteo fa spallucce e sorride con aria di noncuranza. “Comunque non direi che è stato un disastro”, faccio io.

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cadillac 8 “No?” “No”, sussurro assorta, fissando un punto imprecisato davanti a me. “Anzi, sai che ti dico?”, faccio voltandomi verso di lui. “Che tutta questa faccenda mi ha messo voglia di ballare”. “Vuoi ballare?” “Sì”. “Ora?” “Muoio dalla voglia”. Matteo mi lancia un’occhiata incuriosita. Io mi alzo dal divano e faccio ripartire daccapo il cd di Chet Baker. Nella stanza cominciano a risuonare le note di Almost blue. Poi mi metto in piedi di fronte a lui e gli tendo la mano. Lui me la agguanta e si tira su.

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nel ripostiglio Claudio Bagnasco

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er primo ci si masturbò Aurelio. Tre sole volte. Una quando sua moglie Elsa era incinta di Giovanni. Aurelio amava Elsa ma si sentiva troppo giovane, gli era venuta la fissa di non essere pronto a fare il padre. Un pomeriggio rientrò dal lavoro che Elsa non era in casa, aveva una visita ginecologica. Gli continuava a venire in mente una ragazza, più giovane di sua moglie, incrociata all’altezza della pescheria. Era incinta anche lei. Aurelio aveva sempre pensato alla gravidanza di Elsa come a qualcosa di tenero e complicato. Invece questa ragazza era bella, bellissima. Esprimeva una forza, una verità. E gli aveva sorriso in un modo. Aurelio si masturbò nel ripostiglio tra la sala e la cucina. Scelse quella stanza perché aveva un finestrino a vasistas che dava sulla strada, così da permettergli di sbirciare l’eventuale arrivo di Elsa. Uomo d’altri tempi, Aurelio si portò addosso per quindici anni l’imbarazzo del suo gesto. Poi, dopo tutto quel tempo, non riuscì a resistere e ci si masturbò una seconda volta, convinto di avere rivisto la ragazza della pescheria. L’aspetto fisico e l’età (sua e del figlio che le camminava svogliatamente di fianco) combaciavano. Era una domenica mattina, Elsa era andata a messa con Giovanni. Mentre Aurelio si

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cadillac 8 masturbava e lanciava occhiate dal finestrino, la sua fantasia eccitata restituì alla donna quelle impressioni di forza e di verità che no, non ne accompagnavano più la bellezza. La terza volta ci si masturbò ormai anziano, alla fine del pranzo di Natale in cui annunciò a Giovanni e a sua moglie Magda, incinta di otto mesi, che visti i recenti problemi lavorativi (Magda licenziata, Giovanni in cassa integrazione) avrebbero potuto stabilirsi da loro. Quella volta ci si masturbò in meno di due minuti, digrignando i denti, per calmarsi o forse per sfinirsi del tutto. Era un giorno d’estate, Elsa aveva quarant’anni. Entrata nel ripostiglio a prendere un barattolo di passata di pomodoro, aveva percepito uno strano odore. Un sentore dolce, quasi rancido, tra il cuoio e il sudore maschile. Un effluvio buonissimo e atroce, che non riusciva a capire da dove provenisse. Se lo sentiva, quell’odore, sulla pelle nuda degli avambracci, del collo, in bocca. Non ci si masturbò propriamente, ma lasciò che gli angoli degli scatoloni nei quali avevano imballato i primi giochi di Giovanni le sfiorassero il cotone della maglietta, dei pantaloni della tuta. Stava per uscire dal ripostiglio ma arrivata alla porta, sudata alla fronte e con la gola secca, le venne da voltarsi. Gli occhi le si fermarono sull’angolo alto dello scatolone più grande, che puntava verso di lei. Tornò indietro. Si abbassò i pantaloni della tuta, si voltò di schiena allo scatolone, dilatò le natiche, si strusciò contro l’angolo, pensò confusamente a volti di uomini: il lattaio, il capotreno, due passanti visti il giorno prima, il prete, il chierichetto, Gesù. Si risollevò i pantaloni della tuta, ne annodò la stringa, uscì dal ripostiglio sbandando. Anche Giovanni ci si masturbò, per trentacinque anni e almeno una volta alla settimana, aiutandosi con le modelle di Postalmarket. I numeri della rivista, collezionati da sua madre non si sapeva per quale motivo, prendevano ormai mezza parete per tutta la lunghezza: cinque file di scaffalatura. Il fatto è che Giovanni, quando raggiungeva l’orgasmo, gridava come un disperato, motivo per cui sua moglie Magda restò per anni col dubbio di non piacergli, salvo poi finire per convincersi che si trattasse di un segnale di omosessualità repres-

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Claudio Bagnasco, Nel ripostiglio

sa. Perché nessuno lo sentisse gridare, se Giovanni decideva di masturbarsi quando non era solo in casa, entrava nel ripostiglio con un fazzolettone di stoffa, che piegava in quattro e mordeva al momento opportuno. Una sera dimenticò di portarsi il fazzoletto, e dovette poi spiegare a Beatrice, la figlia maggiore rimasta in cucina a fare i compiti, che gli era caduta una latta di impregnante sull’alluce. Giovanni smise di masturbarsi il giorno della morte di sua madre. Magda ci si masturbò sovente e con gusto: le piaceva godere da sola, in quel luogo insolito, senza sottostare ai ritmi di Giovanni e a quel suo gridare. Nel mese di passaggio (cioè quello da cui Magda uscì persuasa dell’omosessualità del marito) lo tradì per undici volte col commesso della drogheria e moltiplicò la frequenza dell’autoerotismo. Ci si masturbò pure Beatrice, spesso penetrandosi con piccoli oggetti (lo spazzolino da denti, il portachiavi con la pila, la penna d’argento regalatale per la prima comunione). Preferiva il ripostiglio al bagno, troppo luminoso, e alla cameretta, che le toccava dividere con sua sorella Federica. Un sabato prima di cena, come aveva fatto a non sentire i passi?, si aprì la porta e suo padre spuntò nel ripostiglio con un fazzoletto in mano. Era sicura, Beatrice, di essere riuscita a dargli le spalle, abbottonarsi i jeans e nascondere la penna in tasca senza farlo insospettire, eppure a cena Giovanni era una premura continua (altri due fusilli?, domani cinema tutti assieme?, devo mica venirti a prenderti in discoteca?), come se Beatrice fosse appena guarita da chissà che malattia. Provò a masturbarcisi anche Federica. Il suo nuovo fidanzato, Nicola, le aveva inviato un video porno sullo smartphone. Andavano tutt’e due al terzo anno di liceo scientifico. Federica si infilò nel ripostiglio perché il resto della casa era ormai vuota, e sua sorella, papà e mamma da dieci minuti facevano avanti e indietro per controllare di non essersi dimenticati proprio niente. Doveva sbrigarsi. Le giravano in testa le parole di Nicola, sussurrate con la voce che si rompeva: vediamo se dopo che vedi tutti questi cazzi nella fica e nel culo non ti senti troia, anzi, fammi uno squillo quando lo guardi, così ti immagino che godi e mi sparo una sega.

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cadillac 8 Guardò col cuore in gola, Federica, aveva caldo e desiderava Nicola, si tastò la nuca, le labbra, un seno, ma quegli arnesi in erezione le sembravano esageratamente grandi rispetto al paio che aveva visto dal vivo, e poi papà aveva già strombazzato cinque o sei volte, stavano tutti aspettando lei, dovevano andare, abbandonare la casa, era il gran giorno, il giorno del trasferimento dall’altra parte della città, basta, impossibile concentrarsi, allora Federica sbuffò da un lato della bocca, si mise la borsa in spalla, recuperò il suo solito broncio e uscì, ultima, dal ripostiglio.

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le formiche le formiche Francesca Santucci

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a bambina chiedevo sempre a mia madre gonne strette e braccia grandi di comprare i biscotti al burro a forma di animali. Dopo pranzo aspettavo che lei si sistemasse come una statua egiziana sulla poltrona davanti alla televisione senza audio, respiri profondi, la testa piegata sul petto come il coperchio semichiuso di un carillon, e spargevo sul tavolo i miei biscotti a forma di leone elefante gatto giraffa. La prima volta che addentai il collo della giraffa il biscotto si spezzò in due, la testa della giraffa cadde solenne sul tavolo e dalla tovaglia stampata continuava a sorridermi ebete: mi salirono le lacrime agli occhi: decisi che non avrei mangiato mai più quei biscotti al burro. Chiedevo però a mia madre di comprarli, sempre, e lei si sedeva sulla poltrona in sala e io prendevo ogni giorno un pugno di animali al burro e li spargevo sul letto in camera mia, facevo le voci in falsetto. Ogni tanto, nel viaggio tra la cucina e la camera da letto qualche animale si frantumava tra le dita, e allora c’era il leone senza coda e l’elefante senza proboscide, e quindi infilavo i biscotti rotti nella cesta di vimini dei giocattoli, li nascondevo, costruivo un reparto per gli animali mutilati: lo zoo degli esemplari difettosi. Il biscotto a forma di gatto non si rompeva mai, invece, e tutti i biscotti a forma di gatto li chiamavo Cecco perché da quando ho imparato a parlare tutti i gatti sulla Terra si chiamano Cecco, per me. Poi arri-

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cadillac 8 varono le formiche: prima in camera mia, tutte attorno alla cesta di vimini, poi per il corridoio e poi sul divano dove riposava mamma gonne strette e braccia grandi e lei aveva urlato le formiche le formiche, e non mi comprò più i biscotti al burro a forma di animali, però a nove anni mi regalarono un gatto e io lo chiamai Cecco. Adesso, vent’anni dopo, Orazio mi chiede sempre di comprarli, i biscotti al burro a forma di animali, e li mangia davanti a me che inorridisco ancora al sorriso ebete della giraffa quando le si spezza il collo e la testa finisce con un tonfo nella tazza di latte, invece Orazio no, così sono sicura che mio marito non soffra di una sindrome animista e che non mi porti in casa le formiche. Questo pomeriggio Orazio mi dice io vado dalla signora Trulli, dobbiamo sostituirle il forno, ci vai tu a prendere Michele? Ci vado io a prendere Michele, sì, allora Orazio si tira dietro la porta per la maniglia, si affaccia sull’uscio e fa grazie. Orazio si mette sempre il profumo sulle mani e poi si palpa tutto, le maniglie delle porte, a casa nostra, hanno tutte il profumo di mio marito. Vado a prendere Michele a tennis, quando gli faccio cenno a bordo campo mi risponde due minuti. Non è bravo, Orazio lo dice sempre. Ma gioca da poco, faccio io; invece ha proprio ragione Orazio: non è portato. Devo fare la spesa, circumnavighiamo l’alimentare ma non troviamo parcheggio. Facciamo il giro dell’isolato due tre quattro volte e la tabaccheria all’angolo è ancora una tabaccheria, Michele al quarto giro è sempre Michele che mi chiede di raccontargli una storia per ingannare l’attesa, mi dico mio figlio ha cinque anni e sa già un sacco di cose sulla letteratura; mi chiede perché stiamo girando in tondo e io gli dico che dobbiamo parcheggiare, Michele, lo vedi pure tu che non c’è posto. E Michele mi chiede perché non andiamo a parcheggiare da un’altra parte, magari più lontano e poi ce la facciamo a piedi, e io gli inizio a raccontare la storia di Ursula e i licheni, ma Michele dice questa la conosco; gli dico che anche la strada che stiamo facendo la conosce, ma mica per questo non la percorre più, però alla fine gli racconto un’altra storia, la invento al momento, mi esce

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Francesca Santucci, Le formiche le formiche

male, confondo i nomi dei protagonisti. Michele infila le dita nella trama della racchetta e sospira. Mio padre giocava a tennis, e lui era bravo, però. Michele non ha conosciuto suo nonno, ma mia madre gli racconta sempre delle storie e Michele proprio si annoia. Invece Orazio, il padre di Michele, ha conosciuto e poi odiato mio padre, il nonno di Michele. Quando Orazio entrò in famiglia e prese a pranzare a casa nostra tutte le domeniche, mio padre gli cedeva il suo posto a tavola costretto da mia madre gonne strette e braccia grandi, così Orazio sedeva al posto di papà io sedevo al posto che era di mamma papà sedeva al posto che era mio e mamma per sé aggiungeva una sedia, allora mio padre anche conobbe e poi odiò Orazio, tanto più perché tra un paio d’anni avrebbe sposato la sua bambina. Io e Orazio ci sposammo, infatti, ma mio padre e mia madre non presero parte al rinfresco, perché mio padre quella mattina aveva fatto una doccia molto lunga, e io mi sposai senza bouquet (piangevo piangevo e Orazio mi diceva che ci importa del bouquet). C’era una perdita nelle tubature del bagno da una settimana, ma né mio padre né mia madre se ne erano accorti. Mio padre aveva fatto una doccia molto lunga, quella mattina, e alla fine mamma auscultò con orrore il ventre murario e le mattonelle blu e azzurre, scosse la testa riconoscendo il tumore idrico sottopelle e ora che facciamo, ma tu guarda e ora che facciamo, chi la sente Antonia. Antonia è la signora del piano terra che non ho mai visto e di cui ho conosciuto solo i reggipetti e le lenzuola a fiori stese lungo il filo tra una persiana e l’altra, un gatto tutto arancione e folto sempre a scorrazzare per il cortile, mamma dice quel coso di pelo invecchia ma non muore mai, io non conosco il suo nome ma l’ho sempre chiamato Cecco perché da quando ho imparato a parlare tutti i gatti sulla Terra si chiamano Cecco, per me. Mia madre temeva l’ira leggendaria di Antonia, tanto che per due ore dimenticò il matrimonio di sua figlia, si infilò il pigiama e si finse a letto malata, per paura che Antonia salisse a chiedere spiegazioni. Non sono più entrata nella camera dei miei genitori dopo aver compiuto tredici anni, per imbarazzo e forse paura,

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cadillac 8 e quando immagino mia madre distesa nel letto il giorno del mio matrimonio la sua stanza è sfocata e intricata di piedi barche a vela ragni neri e strumenti musicali a corda, mamma ha il lenzuolo fino al naso e sogna metastasi d’acqua pulsare sotto i quadri. Il telefono squillava e se papà provava a sollevare la cornetta mamma dalla camera urlava per carità no!, ché sicuro era Antonia. Non era Antonia, ero io che cercavo mia madre per ricordarle di passare dal fioraio a prendere il bouquet, e invece niente (piangevo piangevo e Orazio mi diceva che ci importa del bouquet). Una Micra sta uscendo da un parcheggio di 15 piedi, incassato tra una Scenic e una Punto; metto la freccia e io e Michele aspettiamo le manovre nel silenzio che procede la conclusione d’un’impresa. Una settimana fa una rondine ha fatto il nido in una rientranza nel muro della nostra cucina. Michele faceva i compiti e io spremevo un’arancia e abbiamo sentito quel fischio stridulo. L’abbiamo spiata dalla graticola di plastica, Michele mi ha guardato e mi ha detto la chiamiamo Agata. Ho chiamato Orazio come per venire a festeggiare un piccolo miracolo, alla maniera in cui si chiama qualcuno perché guardi assieme a noi un’eclissi, due anziani che si baciano, uno scoiattolo in un parco. Orazio è passato in cucina ha guardato Agata ha detto è bella e se ne è andato, e subito sono diventata triste, perché Orazio l’ha detto come quando io e lui dicevamo distratti a Michele allora buonanotte, quindi Michele si addormentava e noi correvamo a fare l’amore. Provo a fare marcia indietro per infilarmi nel parcheggio e penso ad Agata che chiude le ali nere per entrare nella nicchia del muro. Sbaglio manovra, la macchina non entra. Michele è annoiato e non ci fa caso, ruoto il volante e mi immetto di nuovo in strada, facciamo un altro giro però di corsa perché venti minuti e chiude l’alimentare, Michele, ora scendiamo, tu guarda se trovi un posto. Si è fatto buio, penso all’auto di Orazio che ha un fanale rotto, gli ho chiesto tante volte di ripararla e tante volte mi ha detto oggi pomeriggio lo faccio. Mamma, ecco un parcheggio!, strilla Michele. Siamo sotto casa dei

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Francesca Santucci, Le formiche le formiche

nonni, quando io seguo il suo dito scuro e poi si sente quel rumore, come un secchio che si infila in un pozzo e si abbatte sul fondo e allora dico ho bucato e vorrei usare una parolaccia, ma davanti a Michele no. Scendo e invece non ho bucato, e adesso, c’è questo coso di pelo che invecchia e non muore mai che stavolta mi sembra morto davvero, arancione e rosso e nero, illuminato appena da un lampione, luccica: è Cecco, è il gatto di Antonia. Alzo lo sguardo e cerco la biancheria familiare stesa lungo il filo, le persiane tutte chiuse. Mi muovo piano, torno verso la macchina lentamente, come in un acquario. Ho investito Cecco. È come se improvvisamente abbia scoperto questa perdita nei tubi del bagno, con l’orecchio posato sul muro e il muro inizia a pulsare, Antonia si arrabbierà mia madre si metterà sotto le lenzuola io mi sposerò senza bouquet e piango piango ma che ci importa del bouquet. Michele non chiede nulla e io dico solo c’era un dosso. Metto in moto: l’alimentare chiude tra dieci minuti. Parcheggio sul retro, Michele scende dalla macchina e dice finalmente. Non riesco a capacitarmi del fatto che anche i gatti, come il resto degli animali di burro e pasta frolla, si frantumino. Cecco sbriciolato sull’asfalto, tra poco arriveranno le formiche, una madre gonne strette e braccia grandi si arrabbierà, urlerà le formiche le formiche e smetterà di comprare i biscotti al burro a forma di animali. È buio, penso al fanale della macchina di Orazio, chissà se lo ha riparato, dice sempre oggi pomeriggio lo faccio, ma poi non è mai. Orazio entra piano in casa, si affaccia in cucina e dice ho già mangiato, col forno ci è voluto un po’ e la signora Trulli mi ha offerto qualcosa, vado a fare una doccia. Controllo la cottura della zucca e penso a quando tutti andremo a dormire, mi rannicchierò contro la schiena di Orazio e gli bacerò l’attaccatura dei capelli poi l’orecchio poi la tempia. Michele è a tavola che mangia e il telefono inizia a squillare, sento Orazio cantare sotto la doccia, vado a rispondere: Pronto.

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cadillac 8 Buonasera, sono la signora Trulli. Volevo chiederle se suo marito può passare giovedì, anziché domani. Lo sa, il forno da cambiare, ma domani proprio non ci sono. * Nel bagno il getto d’acqua si ferma all’improvviso, immagino Orazio uscire dalla cabina avvolto dal vapore, poso una mano sulla maniglia della porta e sto per entrare, sto per chiedergli dove sei stato, a me importava del bouquet, dove sei stato, sto per chiedergli vieni a vedere la rondine nel muro, Michele ci può sentire fai una valigia e vai via, sto per chiedergli dove sei stato, a me importava del bouquet, sto per chiedergli. Invece stringo la mano attorno alla maniglia, poi la lascio e mi annuso il palmo. Orazio si mette il profumo sulle mani e poi si palpa dappertutto, le maniglie delle porte hanno tutte il profumo di mio marito ed anche questa del bagno, stringo il pugno e lo infilo in tasca, custodisco al sicuro il suo odore. Michele guarda i cartoni in sala, sul divano, sconfitto; è un bambino malaticcio, Orazio dice che è il tennis, che non è bravo, invece Michele non è portato per nessuna cosa, ecco. È gracile, lo sento inerme di fronte al mondo intero, ogni cosa lo può annientare e da ogni cosa va difeso: dal tennis, dalle rondini che si insediano nei muri, dai parcheggi, dai gatti investiti, dalle telefonate nell’ora di cena. La cucina è sporca, addento una mela. C’è un silenzio confuso, mi alzo sulle punte e mi allungo verso la nicchia, spio tra le tre piccole feritoie della graticola: Agata non c’è, se ne è andata e ha lasciato un disordine di foglie, mi pare. Orazio è uscito dal bagno, i passi verso la cucina. Mi siedo al tavolo e lui si siede al tavolo mi guarda lo guardo e diventiamo due animali di burro e pastafrolla. Gli chiedo se ha riparato il fanale, se lo farà domani, o domenica. Una lunga fila nera di formiche ha già circondato le nostre sedie.

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new years popstar Angelo Calvisi

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a prima canzone che ho imparato a suonare è stata Generale di Francesco De Gregori. La chitarra me l’aveva regalata mio padre il giorno che ho compiuto quattordici anni, un giorno triste come un cane randagio, mio padre era venuto in comunità a trovarmi e io a un certo punto mi ero messo a piangere in un modo disperato, non mi ricordo per quale motivo, mi ricordo soltanto che da quella volta gli incontri con mio padre si sono diradati sempre di più. All’inizio la chitarra la odiavo. L’impulso era di tirarla fuori dalla custodia e spaccarla contro un muro, ma in comunità c’era un educatore, si chiamava Tarcisio, aveva sempre gli occhi rossi perché la sera, quando era di turno, si sfondava di canne e videocassette porno, però con la chitarra se la cavava bene e piano piano mi ha convinto a provare e mi ha insegnato tutto quello che sapeva. Poco fa, in ambulanza, mentre mi trasportavano al pronto soccorso, mi è tornata in mente la faccia di Tarcisio e le stanze della comunità dove ho vissuto finché non sono diventato maggiorenne. Forse ero ancora svenuto e stavo sognando. Sdraiato sulla barella mi vedevo nella cameretta, suonavo la chitarra circondato da altri ragazzini, ed eravamo tutti abbastanza infelici. Poi nella sala d’aspetto l’infermiera

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cadillac 8 che si prende cura di me mi ha fatto pensare a Generale. Nella canzone di De Gregori i soldati ci fanno l’amore, con le infermiere. La mia è gentile, piccola e un po’ smorta, sembra una bambola di porcellana. Va e viene dalla sala d’aspetto, dove oltre al sottoscritto c’è un deficiente che rischia di perdere tre dita per i botti di Capodanno, e due ubriachi pieni di lividi e graffi sulla faccia che litigano tra loro, e una vecchia di almeno centovent’anni che nel dormiveglia si lamenta. Di che cazzo ti lamenti, vecchia? Quanti anni vuoi vivere ancora? Ogni tanto viene a vedere come sto anche un dottore alto, molto magro, che come tipo potrebbe somigliare a me tra quattro o cinque secoli. Non si capacita del fatto che quello della guardia medica non si fosse accorto che mi stava scoppiando l’appendice, e si indigna con l’ignoto collega, o chissà, magari sta solo fingendo che gliene freghi qualcosa. Mi ha fatto infilare dalla piccola infermiera due flebo, una per braccio, due bottigliette che mi gocciolano nelle vene un liquido trasparente. - Devi reintegrare i liquidi, amico mio, sei completamente disidratato, - il dottore dà del tu a tutti, usa l’approccio confidenziale. - Ma dopo che ho fatto le flebo me ne posso tornare a casa? - Dopo che hai fatto le flebo ti mettiamo delle altre flebo e quando apre la sala operatoria facciamo l’intervento. Sono le sei, deve ancora sorgere il sole, se il buongiorno si vede dal mattino il 1993 sarà un anno di merda. I due ubriachi e il deficiente che rischiava di perdere tre dita sono stati curati e dimessi. Di quelli che sono arrivati prima siamo rimasti io e la vecchia lamentosa, che però ora non si lamenta più, si è addormentata, oppure è morta, non si capisce. Per il resto, da qualche minuto, il pronto soccorso si sta animando di incidentati, infartuati, cazzoni di varia estrazione e infermieri con le facce da camorristi. Mi guardo attorno, cerco di individuare l’amico che dovrebbe lavorare qui, e quando l’infermiera piccola e smorta viene a cambiarmi le bottigliette delle flebo le chiedo informazioni. - È di turno Roberto Lauci?

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Angelo Calvisi, New Years Popstar

L’infermiera fa segno di no con la testa. - Lo hanno trasferito a Cardiologia, - dice, - e comunque ti ho riconosciuto, tu sei quello dei Grana Grossa. - Mi stai scambiando con qualcun altro. - No no, - insiste l’infermiera, - tu sei il chitarrista dei Grana Grossa, lo so, ho tutti i vostri album. - Sai che sforzo. Ne abbiamo fatti due. - Il cd dove c’è Girovento l’ho ascoltato migliaia di volte. Perché prima hai detto che ti avevo scambiato con qualcun altro? - Boh, mi vergognavo. - Ti vergognavi di cosa? - Mi vergognavo e basta, e poi adesso non ci suono più, sul serio, i Grana Grossa si sono sciolti. Mentre parlo mi rendo conto che il formicolio alla gamba destra che avvertivo fino a mezz’ora fa è diventato una fitta continua nella zona inguinale, poco sopra le palle, e non so se è un fenomeno associato, però mi è anche venuto duro, durissimo da farmi male, un’erezione talmente dolorosa che appena l’infermiera si allontana devo sbottonarmi la patta. La vecchia lamentosa nel frattempo è resuscitata e ha notato la mia manovra, lo capisco da come mi guarda, cioè mi scorre con gli occhi partendo dalla faccia per arrivare al centro, l’ingombro evidente del mio arnese, dove, è incredibile, la vecchia si sofferma, indugia e sorride perfino. Io, allora, mi copro con il lenzuolo, ma con questo cazzo che fa l’alzabandiera serve a poco, e la vecchia mi scorre ancora, dalla faccia al pacco, e sorride con la bocca sdentata, un sorriso meccanico, da persona disturbata, e poi ricomincia a sospirare, a lamentarsi, a imprecare, mi pare che ce l’abbia con il figlio che la trascura, e forse con la nuora che se lo è portato via. Il pronto soccorso, intanto, si è trasformato in un girone infernale. Poco fa hanno portato un motociclista con una frattura esposta della tibia, l’osso spuntava dallo strappo dei pantaloni, e non c’era sangue, era tutto perfettamente pulito, tutto perfettamente macellato, con l’osso giallastro, quasi ocra, che saltava fuori dai jeans come uno scherzo di carnevale. Il poveretto urlava, piangendo chiamava la

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cadillac 8 mamma, e quando lo ha fatto per la prima volta ho sentito i brividi che mi si arrampicavano lungo la schiena, e le mani umide, e i piedi come due ghiaccioli. La mia piccola infermiera ha visto che mi stavo agitando ed è subito arrivata a controllare. - La temperatura si è alzata, - ha detto sfiorandomi la fronte. - È pericoloso? - Be’, pericoloso no, però non è di certo il massimo. Senti, tra meno di un’ora ti operano. Vuoi avvertire qualcuno? Le ho risposto che no, non c’era nessuno da avvertire, e sono tornato a concentrarmi sulle persone che entravano e uscivano dal pronto soccorso. Dopo il motociclista è stata la volta di un ragazzino con la faccia impaurita. Quel ragazzino mi sa che sono io, e devo avere una quindicina d’anni. Sono accompagnato dall’educatore Tarcisio, che ha gli occhi più infuocati che mai. Ricordo bene quello che è successo. Ho provato a scappare dalla comunità, mi sono buttato dalla finestra del bagno che sotto c’è un poggiolo con le scale, e le scale arrivano sul retro della strada. Volevo andare a vedere la partita del Genoa, oggi pomeriggio gioca contro la Juve e se vince si salva, ma il primo dell’anno non ce ne sono di partite, quindi è la febbre che mi fa delirare, e oltre a tutto l’atterraggio dopo che mi sono buttato dalla finestra è stato disastroso, non ho saltato, sono caduto come un peso morto, e mi sono fracassato la caviglia. Altro che partita. Tarcisio, verso l’ospedale con la Dyane, automobile rotta, sospensioni a puttane che mi sballottano. Risultato: vomito abbondante, imbratto sedile tappetini cruscotto. Sei arrabbiato, Tarcisio, sei furibondo? Tarcisio dice di no, però è preoccupato perché del mio tentativo di evasione bisognerà avvisare il giudice, il pezzo di fango che mi ha collocato in comunità, che poi non è mica un pezzo di fango, si dice così di tutti i giudici, ma invece il mio ha fatto bene, tanto che cosa ci avrei fatto, a casa, assieme a quella pazza di mia madre? Al pronto soccorso comincio a cantare Generale di Francesco De Gregori, la strofa che dice aghi di pino e silenzio e funghi buoni da mangiare buoni da seccare. Sto cantando come se fossi al Festival di Sanremo, dovevamo andarci con i Grana Grossa, come mai poi non

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Angelo Calvisi, New Years Popstar

ci siamo andati? Non riesco a ricordarlo e comunque non importa, ora è il turno della mia esibizione e i giu­rati con volti di pietra mi assegnano il voto alzando la paletta, tipo gara di tuffi o di ballo. In platea il pubblico pagante mi osserva attento, apprezza l’intensità della mia interpretazione, e sono tutti sdraiati nel loro loculo, tutti a parte la piccola infermiera, a cui lascio in deposito i miei occhi e la mia testa fumante. - Come ti chiami? - Alessandra, - fa lei spingendo la barella. - E dove mi porti, Alessandra? - Ti devo preparare per l’intervento. Alla stanza dove Alessandra mi deve preparare per l’intervento ci si arriva percorrendo un lungo corridoio con la luce dei neon che va e viene e scricchiolii spaventosi provenienti dalle porte laterali, una cosa da film dell’orrore, e difatti in fondo al corridoio ci troviamo in questa stanza che è ingombra di bisturi, tenaglie, pinze arrugginite, una specie di magazzino per gli attrezzi, i resti di una chirurgia passata di moda. Nel magazzino ci siamo soltanto io e la piccola infermiera che mi imbratta di schiuma da barba, e dopo fa una certa impressione il bagliore della lama tra le sue dita, i movimenti rapidi e precisi, i guanti di lattice. Terminata la rasatura del pube, Alessandra mi sciacqua con una spugna tiepida e bacia con dolcezza la punta del mio cazzo rigido ed esausto, poi lo prende e comincia a muovere lentamente la mano. - Cosa fai? - Ti sto masturbando, non ti piace?

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a maniglia d’argento lavorato uguale a quelle delle riviste per la casa mi ha dato di nuovo la scossa lunga di benessere con cui mi sorprende ogni mattina, da due mesi a questa parte, tutte le volte che la tocco. Mahmoud l’aveva fatta cambiare senza dirmi niente ed io ancora non sempre ricordo che ci sia davvero: un regalo per noi di cui avrei dovuto essere contenta, e grata, e soddisfatta fino al prossimo regalo. Reale, presente concreta; in completo contrasto con il resto, ma mia: una maniglia. Un pezzo della vita che vorrei. L’ho guardata come si guarda un trofeo; ho cercato di trattenere ancora per un poco il senso di piacere estetico e gli altri significati pubblicitari che fanno parte della sua esperienza. Ma era già tutto finito e come sempre non c’era altro da aspettare: né dentro né fuori qualcosa era davvero cambiato. Quindi ho chiuso la porta e sono uscita. Facile. Come smettere di fumare.

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cadillac 8 Per strada, mentre guidavo, Mahmoud ha chiamato nove volte. Sul sedile accanto la borsa ha continuato ad emettere ronzii sordi, cadenzati. Uno, due, tre. Quattro. Poi più niente: e ancora, silenzio. Più avanti, al posto di blocco, due ragazzi dall’età indefinita giocavano col fucile mitragliatore tenendolo in bilico su un dito solo e facendolo girare, tipo eroi di un Western. Parcheggio nello spiazzo davanti all’aeroporto, scendo; dentro, le stesse luci al neon della prima volta e gli stessi tappeti. In fila al Tourist Information, una signora grassa cerca di scavalcarmi, gridando e piangendo con l’impiegato allo sportello perché, dice, non la lasciano partire. Più in là il nipote o il cugino sta svaccato sul tappeto che ha portato da casa. Invece di pregare mi guarda. E vede il mio giubbotto sportivo, i miei pantaloni da trekking ed il mio logo del National Geographic e in definitiva una cosa sola vede: occidente. E il resto sono dettagli, e particolari inutili che lui non vede perché è svelto e furbo e sa come stanno le cose. Occidente. Soldi. Possibilità. Che importa che io sia un’occidentale probabilmente disperata, depressa, povera, sporca, pazza o addirittura pericolosa? Gente bianca, ricchezza vera, case con l’acqua tutti i giorni; carte di credito, macchine nuove, gente al di fuori ed al di sopra: occidente. Possibilità. Soldi. Che altro c’è? “I am an easter man”, mi aveva detto la prima volta che ci sono uscita: ister senza n, come Pasqua; ed io ho pensato: dieci minuti. Dieci minuti e non mi vedi più. Ora con calma finisco il mio caffè, prendo la mia borsa e vado via: questo ride e non lo sa, che si è appena definito l’uomo di Pasqua. Con l’uomo di Pasqua ho passato sei anni e fatto tre figli. Senza dimenticare la maniglia. Facile. Il telefono squilla di nuovo, ma è solo il reminder della segreteria. Sei anni: anche se poche lo ammetterebbero, quello che ubriaca è il potere. Perché essere la moglie di un musulmano ti dà un senso di potere totale. Ti amano, ti venerano, non tradiscono. Dal momento in cui vi sposate, tu sali su un piedistallo da cui in nessun caso - mala-

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ta, pazza, sporca, cafona o addirittura pericolosa - mai scenderai. E ti ci abitui perché ti piace. Si alzano quando passi, ti lasciano il passo per strada, il posto su ogni autobus per quanto siano stanchi. E se è vero che quasi in ogni posto pubblico in cui hai il permesso di entrare devi restare dentro una tua zona, pure da sposata la tua posizione è assicurata: nessun uomo bene educato metterebbe in dubbio neppure la tua parola, pubblicamente. Everybody here stands up for women. L’ho detto? Non tradiscono. Mai. In casa tua, regni ad vitam aeternam. Allo sportello della compagnia aerea solo due persone in coda; al mio turno, pago e ritiro il biglietto. È per le quattro della mattina dopo. Il primo volo. Nel bagno dell’albergo dove aspetto di partire mi tolgo la maglia e la metto a mollo nel lavandino con lo shampoo; e mentre apro la finestra nella polvere grossa di questo asfalto fuori città, mentre guardo i pali della luce che si alzano praticamente soli contro il paesaggio, questo maggio iniziato anni fa mi sembra la fine di una vacanza di sei anni e tre figli. An easter man. Auguri. Come ho fatto a restare con Mahmoud per sei anni? Ci stavo, non c’è altro da dire. Lavoravo in casa e poi era facile. Non doversi organizzare. E se penso al mio corpo, non mi trovo poi tanto diversa da prima. Certo, specchi grandi non ne avevo e all’hammam non ho mai fatto l’abitudine. Certo, potevo pensarci prima di fare tre figli. Nel rimaneggio utile di questi oggetti che ho intorno - telecomandi, cellulari, carte magnetiche e documenti - mi viene da pensare al nipote di Mahmoud. Questo ragazzo lo vedevo i primi tempi, sempre alla finestra. Sua madre veniva spesso da noi. Ogni quindici giorni, anche di più. Si metteva in testa il foulard giallo chiaro della festa e il rossetto e veniva con i disegni del figlio e parlava e parlava e diceva che il ragazzo disegnava vestiti per bambini e che se riusciva a evitargli il militare avrebbe finito la scuola di moda e fatto fortuna. All’epoca non mi era neanche venuto in mente che parlasse indirettamente con me, per-

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cadillac 8 ché pensava che in qualche modo avrei potuto aiutarlo a sfondare, mandarlo a Parigi, a Milano grazie a qualche mio potere non meglio precisato connesso al fatto di avere un passaporto europeo. Non mi sarebbe venuto in mente mai: ma a quel tempo ero appena arrivata, e tutto intorno era un girotondo strano di figure e di arnesi tra cui mi aggiravo come una affetta da allergie sue particolari. Comunque, questo ragazzo stava alla finestra perché era fidanzato con la ragazzina di fronte. Si erano conosciuti alla festa del quartiere ed anche adesso riuscivano a incontrarsi solo una volta l’anno e con la complicità di una zia. Il resto, alla finestra. E con questo, erano i fidanzati più seri che abbia mai visto. Ora, quando guardo indietro mi chiedo: ma perché nessuno mi ha messo in guardia? E quando guardo avanti: che ne sarà di questi miei figli che a volte, quando erano appena nati, dimenticavo di avere? Non è un modo di dire. Aprivo gli occhi la mattina e nel dormiveglia sentivo un pianto infantile e pensavo ma com’è? C’è un bambino in casa? Poi ci sono anche altri pensieri, tipo sulla mia giovinezza perduta e su certe foto di quando con la mia amica Anne stavamo lavando la macchina in giardino d’estate ed io avevo su i pantaloni cortissimi, e sulle cose come questa che non torneranno più, mai mai più, tipo soffrire perché hai le cosce grosse e dirselo di notte dentro una tenda da campeggio dopo che hai fatto la doccia e senti le spalle calde per il sole; e intanto la radio a pile che avevate portato trasmette la finale di Miss America, gli ultimi cinque minuti della finale; e proprio in quel momento la voce grida ha vinto ha vinto! Ms. Gretchen Carlson - Minnesota è Miss America 1989! – e per questa vittoria del Minnesota, del povero, periferico Minnesota sugli altri stati così, senza altra ragione, dentro la tenda voi vi abbracciate. Ma questo genere di pensieri non è mai stato di grande utilità. Alla mia famiglia l’ho detto per telefono. Mi sposo, ho detto, come nei film. Sognavo di farlo da sempre anche perché sapevo che nessuno in casa se lo sarebbe aspettato. Non sono una a cui di solito gli uomini offrono fiori. Non che sia brutta. Solo, diciamo che mio

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padre non se ne stava sul divano aspettando che qualcuno venisse a offrire dei cammelli per me. Sono grassa, ecco. Questo sì. Di fatto, nel momento in cui è successo non è che abbia poi provato questo gran senso di rivincita. Ricordo il ricevitore giallo, il locale pubblico grande e pulito: poi ho chiuso e sono corsa fuori perché Mahmoud mi aspettava col motore acceso per andare a comprare qualcosa di urgente - e anche sua madre ci aspettava. Sua madre era una specie di pressione umida che regolava la nostra vita perché la sapeva tutta e meglio di noi. A che ora bisognava mangiare, prepararsi, alzarsi, uscire; quando e come Mahmoud doveva rimproverarmi e perché. Una volta per esempio lui non ha sentito la sveglia e non si è alzato; e la sua segretaria - fa il dentista - ha chiamato per dire che era in ritardo e per pregarlo di venire al più presto perché in studio c’era già qualcuno. Dopo, sua madre mi ha detto di scusarmi perché era tutta colpa mia. Ai nipoti però è devota e li tratta con la stessa deferenza confezionata fatta di urletti di approvazione e frasi di meraviglia che deve avere riservato a suo figlio, da ragazzo. Ogni volta che li vede entrare da una porta gli dà il benvenuto. Giuro. Fa così con tutti e tre. Anche col piccolo. Mio figlio Abdel – il piccolo - credo sia quello che mi somiglia di più. Ha due anni e otto mesi e dorme già in una stanza sua; questo perché da neonato riusciva a rimanerci senza piangere, ed anche in seguito sembrava starci così bene che contro l’abitudine l’abbiamo – l’hanno – lasciato stare lì. Sul momento ho cominciato a pensare semplicemente a quando avremmo dovuto sostituire la culla con un letto, cambiare i mobili con altri più grandi. Però ogni giorno finivo per pensare sempre meglio a quella stanza: sempre per più tempo. Vedevo i muri. Vedevo il colore del copriletto. Vedevo i primi disegni che avrebbe fatto e che avremmo appeso al muro di quel buco di posto, prima noi e poi lui stesso, fino a tappezzare completamente le pareti con questi fogli normali, tracciati con la penna biro. Facce e forme strane di draghi e di uomini, tentacoli nell’atto di uscire fuori dai margini, fiori carnosi, figure astratte come caleidoscopi, in nero, in blu. Però bellissimi e complicati. Vedevo la chitarra che avrebbe poi comprato, lui già

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cadillac 8 grande; e come sarebbe stato straordinariamente gentile e dolce per essere un uomo, e un uomo di quelle parti; e con questo anche forte; e aperto. E lo vedevo poi a diciotto anni, andarsene in Europa senza soldi e senza pensieri. Così non mi rendevo conto ma col tempo il quadro si arricchiva di particolari sempre più chiari, precisissimi; e ad un certo punto, quando mi sono accorta di tutti questi pensieri che continuavano a moltiplicarsi, a crescere, a germinare senza sosta intorno a quella culla - pensieri limpidi, vivi - a quel punto mi sono svegliata: perché per la prima volta dopo sei anni stavo finalmente sognando qualcosa di definito, di vero, di fattibile: un pezzo della vita che vorrei - e tutto a partire da quel figlio che poi magari sarebbe venuto uguale a suo padre e a sua nonna e a tutta quella gente che non capivo. Però intanto io avevo pensieri attivi: era finito il tempo in cui sbattevo contro gli angoli delle cose la mattina tardi e in cui ricevevo talmente tanti ordini da non avere più spazio mentale, finito, chiuso: basta. Vorrei dire che è stato lì che ho chiuso la porta e sono uscita. Ma in realtà non è andata proprio così. C’è voluto un po’ più di tempo, in realtà. Come ho potuto, in quel mentre, evitare di progettare più lucidamente la cosa? E con questo intendo: come ho fatto a non impormi di concepire un piano più concreto, dettagliato in tutti i suoi risvolti possibili, a non chiarire del tutto i dubbi che avevo ed ancora ho su avvocati, divorzi, affidi internazionali? Così avrei dovuto fare. Come qualunque madre sensata. Certo. Pensieri che si pensano dopo. Intanto, in quel momento qualunque altra azione che andasse oltre l’atto semplice di uscire dalla porta e camminare mi sarebbe sembrata inattuabile. Come per il ricevitore giallo, di quegli ultimi mesi ho pochissimi ricordi; fra questi, quello di una specie di souvenir brutto e inutile su un banco del mercato, una chitarra minuscola di legno smaltata in verde pistacchio e oro, con le corde vere, decorata con quel gusto sdolcinato che hanno a volte da queste parti. Avrei dovuto chiamare almeno il consolato. Invece compravo souvenir. Que-

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sto per dire che mi sarebbe servito uno sforzo totale anche solo per rendermi conto di esistere tutta intera e di possedere una volontà, un senso proprio di come potevano andare le cose. Ed ora che sono fuori – ora, che sono fuori, non mi pare vero di avere fatto già anche solo questo. Una cosa per certo la so: se avessi chiesto il divorzio e avanzato le mie richieste, per quanto ragionevoli fossero, in questo paese avrebbe avuto comunque ragione lui. Il souvenir ad ogni modo l’ho conservato e per un po’ l’ho tenuto in un cassetto avvolto in un panno; finché stamattina l’ho messo in borsa con il resto. Quindi adesso anch’io sto andando in giro con la mia chitarra. Stendo la maglia sul termosifone, mi affaccio sul balcone. Penso di buttarmi giù ed è un pensiero urbano e sereno, come una voce nella lista delle cose da fare. Nella terrazza di sotto, l’americano della stanza Centoquattro si alza dalla tavola dove siede con la figlia e la moglie che sembra una principessa Disney. La voce di Ella Fitzgerald arriva dalla finestra aperta; un vento leggero che odora di gelsomini rinfresca tutti dopo la giornata caldissima; la cameriera entra con l’arrosto. L’americano lo taglia, e mentre lo serve si muove orgoglioso dentro il mondo che ha costruito per sé, secondo i consigli di suo padre; e il tutto è, nel suo insieme, davvero così uguale a come quello gliel’aveva raccontato: davvero così solido, così armonioso, così sicuro, così bello; troppo bello da potere sopportare.

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artedì Bianca sarebbe partita comunque. Avrebbe deciso a Milano. Un passo alla volta, un’intuizione a città. Aveva tanti amici a Milano. Se ci avesse ripensato si sarebbe potuta fermare da uno di loro, a seconda dell’umore e delle voglie. Giacomo odiava quella città, odiava le persone che ci abitavano. L’aveva convinta a non trasferirsi in quell’università, anche se forse sarebbe stato meglio così. Erano passati sette anni. Mentre la sua vicina lavora al computer Bianca guarda fuori dal finestrino e pensa a quei sette anni che ha messo da parte tanto facilmente. Poi controlla su maps l’indirizzo che le ha dato Giacomo. Una volta presa la coincidenza per Udine, da Mestre, non sarebbe più potuta tornare indietro, sarebbe stata lontana da tutto. Non c’è mai stata. Sono anni che non va in un posto che non conosce. Non ha ancora fatto il biglietto. Un passo alla volta, una stazione alla volta. Una sigaretta alla volta. Arriva sotto le enormi arcate di Centrale, sotto l’acciaio e il cemento che imita il marmo, sotto quelle vetrate che la emozionano un po’ ogni volta, da quando c’è arrivata di ritorno dall’Islanda, dal suo primo viaggio da sola. Potrebbe scendere lo scalone, attraversare l’area taxi, scansare qualche venditore di ombrelli e imboccare via Scarlatti, raggiungere almeno quattro indirizzi diversi dove sarebbe al sicuro. E invece fa la

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cadillac 8 solita sosta in libreria e prenota la Freccia, aspetta che annuncino il binario da cui partirà, lo raggiunge e sale. Non le batte forte il cuore mentre suona il campanello, sotto un piccolo arco di pietra, e non pensa a niente mentre attraversa il vialetto che porta all’ingresso. Posticipare le ansie, affrontarle solo quando sono visibili. Ora. Giacomo la aspetta sulla soglia, le mani lungo i fianchi, sorride. Le sorride. Non si abbracciano, non si baciano. Bianca gli allunga la bottiglia di vino che ha portato per l’occasione. – Anna, vieni! È arrivata Bianca. Anna è bellissima, parla a bassa voce e profuma di fiori. Corre a mettere la bottiglia in fresco. Giacomo guarda Bianca come se non credesse che fosse lì. Incredulo di come un proposito formulato di notte si trasformi in realtà. La guarda come aspettando che lei gli dica un segreto, ma Bianca alza gli occhi ai rami del glicine che si attorcigliano alle sbarre della terrazza. – Com’è bello, qui, – dice. Vivono in un antico casale, libero da quell’aria leziosa data dal cotto nuovissimo che hanno di solito le ristrutturazioni di quel tipo. I muri non sono gialli, ma intonacati a bianco e tutt’attorno si estende un giardino immenso da cui spuntano ciliegi e albicocchi, un mandorlo, un piccolo filare di vite. La tavola è già apparecchiata e gli ospiti sorseggiano prosecco raccolti in piccoli gruppi sotto al pergolato. Un gruppo di bambini gioca rincorrendosi sul prato. Mentre Bianca si guarda intorno in cerca di vecchie conoscenze, Anna esce tenendo in equilibrio due taglieri carichi di antipasti per l’aperitivo. – Aspetta, dammene uno, – si offre Giacomo, ma lei scuote la testa dicendogli di mostrare la casa a Bianca, che non ha visto niente. – D’accordo! – dice rubandole un vol au vent, facendo finta di scappare, – Vieni con me. Ti faccio vedere tutto. – Così la porta in soggiorno, una stanza grande e calda, con un camino gigantesco che domina tutto lo spazio. La taverna, con un tavolo da ping pong e i vini, la camera degli ospiti, con il suo bagno, la camera della domestica,

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Lucia Brandoli, La coperta

con il suo bagno, la biblioteca, con un proiettore e la sala da musica, con i violini barocchi accatastati sul tavolo, un violoncello, una viola, una teca per i manoscritti e una spinetta del settecento decorata da Anna, perché sì, anche Anna è musicista, ha aggiunto Giacomo, come se Bianca non lo sapesse. – Al piano di sopra invece c’è la nostra camera. Quando escono il pranzo comincia. Tutti si siedono e Bianca finisce tra una tedesca e l’assessore alla cultura del paese, un nuovo amico di Giacomo. Mangia in silenzio, ogni tanto sorride, anche se non riesce a seguire nessuno dei discorsi che stanno facendo a tavola. Finisce per distrarsi e far finta che quei sette anni non siano mai passati, che stamattina, prima che arrivassero gli invitati lei gli ha tenuto la mano sul letto, a lungo, in silenzio. Sente il suo odore, tra la nuca e l’orecchio. Lei sa quanto Giacomo odi queste feste. Lei lo sa bene, lo sa meglio di chiunque altro. E invece no. Anna si alza con un calice in mano. Le spalle basse e scoperte sembrano fatte apposta per ospitare i riccioli di capelli biondi che ci cadono sopra. Il vestito, anche se imperiale, non nasconde il sesto mese di gravidanza. Quando inizia a parlare, Bianca non sente più niente. Cosa ci fa qui? Perché è venuta? Perché è stata invitata? Si alza e chiede alla domestica dove sia il bagno, anche se Giacomo gliel’ha indicato poco prima. – Appena entrata, in fondo a sinistra. – Grazie. Bianca cammina verso la parete buia del soggiorno, poi sale le scale sulla destra. Tutto quello che sa, è quello che gli ha rubato. La sua passione per le serie tv, le sue vittorie dissimulate, la tristezza che la assale quando entra in casa dopo una lunga tournée, il suo inglese perfetto. Lo parla così bene che l’ha fatto imparare anche a lui, che ha sempre dichiarato di odiarlo. Così, ogni volta che parla con la sua bella pronuncia o scrive utilizzando una forma che pochi fuori dall’Inghilterra conoscono, Bianca sa che quella è lei. Ci ha messo tempo a capire, non c’erano tracce sul suo viso. Eppure c’era. Forse, se si fossero conosciute, avrebbe capito subito, ma si è sempre tenuta a distanza, Anna. E si è portata via tutto: niente promesse, niente

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cadillac 8 ci sarò, niente puoi contare su di me, niente. Bianca era diventata un’opzione. Per un anno - giorno e notte - Anna l’ha divorata. Pensava più a lei che a Giacomo. La pensava ogni volta che si distraeva, ogni volta che si rilassava. Anna era lì. Otteneva tutto ciò che voleva. Mentre Bianca continuava a perdere, ad andare alla deriva, tentando di sfidarla per riprendersi un uomo che non la voleva. Una coperta di cotone grezzo cucito con cura fa da copriletto. File di elefanti, grandi e piccoli, di colori di versi, intrecciano code e proboscidi. Bianca si avvicina al letto, sorride appena. Non sa come ha fatto a capire che fosse lei, ma lo sapeva. Era mattina. Era lei. Anche dopo, quando è finita, la percepiva in casa, dietro a un libro, un regalo, un consiglio, nel segnale acustico di un messaggio o di una mail. Era lavoro. Vietati i capricci. E ora c’era quella coperta. Bianca si siede sul letto, e appoggia le mani sul bordo. La coperta le ingoia un po’ i fianchi quando ci si siede. Come a dire “Vieni, qui le cose si sistemeranno”, ma qui è il loro letto. Non deve dimenticarselo. Non sa perché è salita. Voleva vedere, voleva stargli vicina. C’è odore di ordine e di mobili nuovi. Ha salito tutti i gradini, poteva fermarsi e tornare indietro, e invece è salita, anche se qualcuno potrebbe accorgersi della sua assenza prolungata a tavola. Non importa. Sul comodino a destra ci sono i suoi libri. Un romanzo di vampiri e una commedia rosa, tutto lì. Sul comodino di Giacomo nessuno scontrino accartocciato, niente fazzoletti sporchi o dvd abbandonati. Anna è riuscita a cambiarlo, o forse per lei è sempre stato così. C’è una foto di loro due incorniciata. Lui ride, lei ha i capelli sciolti. È lì che la sveglia, lì che l’ha convinta a mangiare quella volta che è stata male, è lì che la spoglia, è lì che fanno l’amore. Ora c’è Bianca, sulla sua coperta. Perché quella è la sua coperta, l’ha fatta lei, sei anni prima. È la loro coperta. Ora c’è Bianca a far finta che questi siano i suoi mobili. L’odore è sempre quello di Giacomo. La coperta l’ha fatta lei, ma Anna non lo sa. Giacomo la scopa su una coperta che ha cucito Bianca, e non gliel’ha mai detto. A Bianca viene da ridere. Si mette a cercare quel punto, su uno dei bordi. Non si fumava in casa, ma si fumava a letto. Le era scivolata di mano la sigaretta quando lui le

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Lucia Brandoli, La coperta

aveva fatto un agguato per rovesciarla, prima di infilarglielo dentro. Aveva bruciato la sua coperta. Eccolo, Anna l’ha rammendato. Le piace il cucito, balla il tango, fa la maglia, usa tamponi bio e ha imparato l’italiano perché ama l’opera, e Giacomo. E non sa che è sua, la coperta su cui dorme, dove ha concepito suo figlio. Solo tu meriti la verità, glielo diceva sempre Giacomo e adesso Bianca si chiede a cosa le sia servito. Intanto, fuori, la tavola è stata sparecchiata. C’è soltanto una torta enorme con scritto Giacomo, che aspetta di essere tagliata. Gli invitati sono di nuovo sparsi a gruppetti sotto gli alberi. – Sigaretta? – Bianca gli porge il pacchetto di Lucky Strike. – Lo sai che ho smesso – le dice lui prendendone una. Bianca sorride mentre segue i movimenti di Anna, senza sbavature, mentre chiama di nuovo tutti a tavola.

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linquieto.blogspot.it Un’idea di Bernardo Anichini e Martin Hofer inquietomag@yahoo.it https://www.facebook.com/pages/Linquieto/175115935972352?pnref=lhc -Hanno curato la sezione Bernardo Anichini e Martin Hofer. Impaginazione copertina: RUPE (blog: frattozero.blogspot.it)

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l’amico fottesega Margareta Nemo illustrazione di Erica Molli

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o conosciuto Fottesega sei o sette anni fa, in un forum sugli attacchi di panico. Rispondeva alla maggior parte dei thread, fornendo descrizioni estremamente dettagliate dei suoi stati d’ansia e una buona quantità di consigli non richiesti, ma generalmente validi. Il suo nickname era Fottesega e il suo avatar uno smiley grigio senza bocca. Più tardi l’ho ritrovato, a volte per caso, a volte cercandolo, su altri siti, social network e giochi online. Su alcune piattaforme fa battute e scherza con tutti, su altre si limita a leggere e intervenire quando ne ha voglia.

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cadillac 8 Quando ho ricevuto lo sfratto, l’unico a cui ho scritto è stato lui. Fottesega, come immaginavo, ha risposto subito e mi ha chiesto i dettagli. Poi mi ha proposto di stare da lui finché non troverò un’altra soluzione. Ho pensato che sarebbe stato l’unico modo per non parlarne con amici e familiari, così ho accettato. Fottesega vive in una villetta bifamiliare di un’anonima cittadina a due ore di treno da quella che è stata la mia ultima casa. Ha una cinquantina d’anni e una moglie bellissima. Quando arrivo, con uno zaino e un borsone, mi accolgono entrambi sulla porta e mi prendono i bagagli di mano. La moglie sorride e mi stringe la mano, Fottesega mi consegna due asciugamani, un paio di ciabatte e mi mostra la camera degli ospiti. Non sorride. Mi lasciano sola, chiudendosi la porta alle spalle. La stanza è grande e pulita, senza un filo di polvere. Cerco di riempire lo scaffale vicino alla finestra con le poche cose che mi sono portata dietro, poi mi stendo sul letto a guardare il soffitto bianco. Il posto mi piace e mi lascio scivolare nel sonno per qualche minuto. *** A cena mi ritrovo seduta davanti a una tavola apparecchiata in modo spartano. Quattro piatti bianchi e un bicchiere per ciascuno sono tutto ciò che vedo, oltre alla bottiglia d’acqua al centro. Fottesega fa il giro per distribuire le posate. Mi sono svegliata pochi minuti fa e ho ancora la testa intontita per il sonno. Non riesco a gestire lo sforzo contemporaneo di allontanare l’atmosfera torbida dei sogni e imbastire una conversazione, perciò rimango in silenzio, assorta in pensieri vaghi. Mentre cerco di riprendere coscienza per poter dire qualcosa, compare una donna anziana che non avevo ancora incontrato, forse la madre di Fottesega. Prende posto a capotavola, senza dire niente e senza salutarmi. Poi entra la moglie, con una grande busta di carta, che reca il nome di un ristorante. La vecchia, appena la vede, si mette a borbottare timidamente:

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“Perché non me l’avete detto? Potevo cucinare io...” “Lo sai che oggi è il mio turno”, ribatte la moglie. “Ma a me piace cucinare, posso cucinare domani se volete”, insiste l’altra, con voce lamentosa. “Domani sta a me”, precisa Fottesega, che ha finito di distribuire le posate e si è appena seduto. “Che senso ha questa cosa dei turni se poi non cucinate mai e ordinate tutto al ristorante?” “Non sono turni per cucinare, ma per occuparsi dei pasti”, risponde Fottesega, mentre si versa da bere. “Come credete”, si arrende la madre, torcendosi le mani e fissando il bicchiere vuoto. Nel frattempo la moglie di Fottesega ha iniziato a distribuire il primo e io lascio che mi riempia il piatto senza dire niente. Dopo due settimane passate a nutrirmi di pane confezionato e pesche sciroppate faccio fatica a tenere a freno la salivazione. *** Di ritorno da una gita al frigorifero, m’imbatto in Fottesega che stende i panni in bagno, e vado ad aiutarlo. Ci mettiamo circa una decina di minuti, durante i quali lui non apre bocca. È meticoloso e stira per bene ogni capo con le mani, prima di fissarlo allo stendino con le mollette. A volte le sposta di qualche millimetro, se gli sembra che non siano attaccate nel punto giusto. Alla fine, prima di uscire, mi indica la lavatrice e il detersivo e dice: “Se devi lavare qualcosa, fai pure.” Mi viene in mente che una volta, in un thread su una marca di ansiolitici, Fottesega menzionò che stava valutando l’ipotesi di suicidarsi. I commentatori abituali scrissero una marea di risposte accorate in cui lo invitavano a pensare alle cose belle della vita, alle persone che amava e al fatto che i brutti momenti passano. Qualcuno gli fece notare che quelli che dicono di volersi suicidare sono solo egoisti in cerca di attenzione, che non si ammazzano mai. Fottesega non rispo-

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cadillac 8 se ai commenti, si cancellò dal sito e sparì, lasciando la maggior parte degli utenti nella convinzione che si fosse ucciso davvero. Io all’epoca giocavo a un GDR con lui e sapevo che era vivo, almeno finché ogni sera si divertiva a deridermi per le idiozie che scrivevo. Ma provavo la strana sensazione di scherzare con un morto. *** Dopo una settimana accendo il portatile e controllo la posta elettronica. Trovo una mail di mia madre, due del centro per l’impiego e una quindicina di notifiche da social vari. Sposto tutto quanto nella cartella spam, senza leggerlo, e rimango a fissare la schermata vuota. Prima che si attivi lo screen saver, spengo tutto e vado a sedermi al tavolo della cucina. Dopo poco mi raggiunge l’anziana madre con due mazzi di carte. Giochiamo a solitario, scambiando qualche parola ogni tanto. Scopro che non è la madre di Fottesega, ma una parente alla lontana della moglie, che vive qui già da un anno, in seguito ad alcune difficoltà di cui non può o non vuole parlarmi. Comincio a sospettare che questa casa sia una specie di centro di smaltimento per esistenze in avaria. *** Quando sento il segnale di spegnimento della lavatrice, mi alzo e vado in bagno per aiutare la moglie di Fottesega a stendere i panni. Lei è più veloce e più approssimativa di lui. Ma a metà dell’opera si ferma e va a fumare una sigaretta alla finestra, mentre con una mano scioglie i nodi che qualcuno ha fatto alla tenda. “Cosa fai di bello nella vita?”, mi chiede, senza voltarsi. “Momentaneamente niente.” “Capisco.” Prende un tiro lungo dalla sigaretta e torna a stendere i panni assieme a me. Da vicino è ancora più bella, ma ha molte rughe. Alterna i gesti macchinali con cui stende i panni a quelli per fumare. Mi domanda ancora:

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“E come vi siete conosciuti?” “Internet.” “Capisco”, ripete. Poi chiede a bruciapelo: “Hai figli?” “No”, rispondo. “Io sì – dice e sorride – ma vive dal padre. Abbiamo fatto scegliere al bambino, quando ci siamo separati, e ha detto che preferiva stare dal padre. Dovrebbe venire qua per il fine settimana, ma spesso non viene. Gli ho chiesto perché e ha detto che non ha tempo. Non credo sia vero, ma ho pensato che se non ha voglia di venire, non dovrei insistere.” “Capisco”, dico io, stavolta. *** Non ricordo esattamente quando sono arrivata. Il computer non l’ho acceso più, per non vedere la posta e le notifiche. Finché non le vedo posso far finta che non esistano. Come ogni sera, Fottesega rientra per primo, saluta dal corridoio e va nel suo studio. Poi torna la moglie, saluta dalla porta e va in salotto col tablet. La vecchia prozia non esce mai dalla sua stanza e a volte mi domando come passi le giornate. Potrei andare a chiederglielo, ma non ho voglia di alzarmi dal letto. Bussano alla porta, è la moglie di Fottesega. Mi chiede come sto, le dico che va tutto bene. Mi fa segno di seguirla. Va in camera da letto, apre l’armadio e comincia ad armeggiare fra i vestiti. Poi tira fuori un maglione di lana scura, molto lungo, e me lo mostra. “A me sta largo, ma a te potrebbe andar bene”, dice, allungandomelo. Lo infilo sopra il dolcevita e annuisco. “Ti sta bene Ho conosciuto Fottesega sei o sette anni fa, in un forum sugli attacchi di panico. Rispondeva alla maggior parte dei thread, fornendo descrizioni estremamente dettagliate dei suoi stati

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cadillac 8 d’ansia e una buona quantità di consigli non richiesti, ma generalmente validi. Il suo nickname era Fottesega e il suo avatar uno smiley grigio senza bocca. Più tardi l’ho ritrovato, a volte per caso, a volte cercandolo, su altri siti, social network e giochi online. Su alcune piattaforme fa battute e scherza con tutti, su altre si limita a leggere e intervenire quando ne ha voglia. Quando ho ricevuto lo sfratto, l’unico a cui ho scritto è stato lui. Fottesega, come immaginavo, ha risposto subito e mi ha chiesto i dettagli. Poi mi ha proposto di stare da lui finché non troverò un’altra soluzione. Ho pensato che sarebbe stato l’unico modo per non parlarne con amici e familiari, così ho accettato. Fottesega vive in una villetta bifamiliare di un’anonima cittadina a due ore di treno da quella che è stata la mia ultima casa. Ha una cinquantina d’anni e una moglie bellissima. Quando arrivo, con uno zaino e un borsone, mi accolgono entrambi sulla porta e mi prendono i bagagli di mano. La moglie sorride e mi stringe la mano, Fottesega mi consegna due asciugamani, un paio di ciabatte e mi mostra la camera degli ospiti. Non sorride. Mi lasciano sola, chiudendosi la porta alle spalle. La stanza è grande e pulita, senza un filo di polvere. Cerco di riempire lo scaffale vicino alla finestra con le poche cose che mi sono portata dietro, poi mi stendo sul letto a guardare il soffitto bianco. Il posto mi piace e mi lascio scivolare nel sonno per qualche minuto. *** A cena mi ritrovo seduta davanti a una tavola apparecchiata in modo spartano. Quattro piatti bianchi e un bicchiere per ciascuno sono tutto ciò che vedo, oltre alla bottiglia d’acqua al centro. Fottesega fa il giro per distribuire le posate. Mi sono svegliata pochi minuti fa e ho ancora la testa intontita per il sonno. Non riesco a gestire lo sforzo contemporaneo di allontanare l’atmosfera torbida dei sogni e imbastire una conversazione,

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perciò rimango in silenzio, assorta in pensieri vaghi. Mentre cerco di riprendere coscienza per poter dire qualcosa, compare una donna anziana che non avevo ancora incontrato, forse la madre di Fottesega. Prende posto a capotavola, senza dire niente e senza salutarmi. Poi entra la moglie, con una grande busta di carta, che reca il nome di un ristorante. La vecchia, appena la vede, si mette a borbottare timidamente: - Perché non me l’avete detto? Potevo cucinare io... - Lo sai che oggi è il mio turno. - ribatte la moglie. - Ma a me piace cucinare, posso cucinare domani se volete. - insiste l’altra, con voce lamentosa. - Domani sta a me. - precisa Fottesega, che ha finito di distribuire le posate e si è appena seduto. - Che senso ha questa cosa dei turni se poi non cucinate mai e ordinate tutto al ristorante? - Non sono turni per cucinare, ma per occuparsi dei pasti. - risponde Fottesega, mentre si versa da bere. - Come credete. - si arrende la madre, storcendosi le mani e fissando il bicchiere vuoto. Nel frattempo la moglie di Fottesega ha iniziato a distribuire il primo e io lascio che mi riempia il piatto senza dire niente. Dopo due settimane passate a nutrirmi di pane confezionato e pesche sciroppate faccio fatica a tenere a freno la salivazione. *** Di ritorno da una gita al frigorifero, m’imbatto in Fottesega che stende i panni in bagno, e vado ad aiutarlo. Ci mettiamo circa una decina di minuti, durante i quali lui non apre bocca. È meticoloso e stira per bene ogni capo con le mani, prima di fissarlo allo stendino con le mollette. A volte le sposta di qualche millimetro, se gli sembra che non siano attaccate nel punto giusto. Alla fine, prima di uscire, mi indica la lavatrice e il detersivo e dice: - Se devi lavare qualcosa, fai pure.

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cadillac 8 Mi viene in mente che una volta, in un thread su una marca di ansiolitici, Fottesega menzionò che stava valutando l’ipotesi di suicidarsi. I commentatori abituali scrissero una marea di risposte accorate in cui lo invitavano a pensare alle cose belle della vita, alle persone che amava e al fatto che i brutti momenti passano. Qualcuno gli fece notare che quelli che dicono di volersi suicidare sono solo egoisti in cerca di attenzione, che non si ammazzano mai. Fottesega non rispose ai commenti, si cancellò dal sito e sparì, lasciando la maggior parte degli utenti nella convinzione che si fosse ucciso davvero. Io all’epoca giocavo a un GDR con lui e sapevo che era vivo, almeno finché ogni sera si divertiva a deridermi per le idiozie che scrivevo. Ma provavo la strana sensazione di scherzare con un morto. *** Dopo una settimana accendo il portatile e controllo la posta elettronica. Trovo una mail di mia madre, due del centro per l’impiego e una quindicina di notifiche da social vari. Sposto tutto quanto nella cartella spam, senza leggerlo, e rimango a fissare la schermata vuota. Prima che si attivi lo screen saver, spengo tutto e vado a sedermi al tavolo della cucina. Dopo poco mi raggiunge l’anziana madre con due mazzi di carte. Giochiamo a solitario, scambiando qualche parola ogni tanto. Scopro che non è la madre di Fottesega, ma una parente alla lontana della moglie, che vive qui già da un anno, in seguito ad alcune difficoltà di cui non può o non vuole parlarmi. Comincio a sospettare che questa casa sia una specie di centro di smaltimento per esistenze in avaria. *** Quando sento il segnale di spegni-mento della lavatrice, mi alzo e vado in bagno per aiutare la moglie di Fottesega a stendere i panni. Lei è più veloce e più approssimativa di lui. Ma a metà dell’opera si ferma e va a fumare una sigaretta alla finestra, mentre con una mano

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scioglie i nodi che qualcuno ha fatto alla tenda. - Cosa fai di bello nella vita? - mi chiede, senza voltarsi. - Momentaneamente niente. - Capisco. Prende un tiro lungo dalla sigaretta e torna a stendere i panni assieme a me. Da vicino è ancora più bella, ma ha molte rughe. Alterna i gesti macchinali con cui stende i panni a quelli per fumare. Mi domanda ancora: - E come vi siete conosciuti? - Internet. - Capisco. - ripete. Poi chiede a bruciapelo: - Hai figli? - No. - rispondo. - Io sì – dice e sorride – ma vive dal padre. Abbiamo fatto scegliere al bambino, quando ci siamo separati, e ha detto che preferiva stare dal padre. Dovrebbe venire qua per il fine settimana, ma spesso non viene. Gli ho chiesto perché e ha detto che non ha tempo. Non credo sia vero, ma ho pensato che se non ha voglia di venire, non dovrei insistere. - Capisco. - dico io, stavolta. *** Non ricordo esattamente quando sono arrivata. Il computer non l’ho acceso più, per non vedere la posta e le notifiche. Finché non le vedo posso far finta che non esistano. Come ogni sera, Fottesega rientra per primo, saluta dal corridoio e va nel suo studio. Poi torna la moglie, saluta dalla porta e va in salotto col tablet. La vecchia prozia non esce mai dalla sua stanza e a volte mi domando come passi le giornate. Potrei andare a chiederglielo, ma non ho voglia di alzarmi dal letto. Bussano alla porta, è la moglie di Fottesega. Mi chiede come sto, le dico che va tutto bene. Mi fa segno di seguirla. Va in camera da letto,

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cadillac 8 apre l’armadio e comincia ad armeggiare fra i vestiti. Poi tira fuori un maglione di lana scura, molto lungo, e me lo mostra. “A me sta largo, ma a te potrebbe andar bene”, dice allungandomelo. Lo infilo sopra il dolcevita e annuisco. “Ti sta bene – conferma, poi continua a cercare nell’armadio – ho un sacco di vestiti molto belli che portavo da giovane. Adesso non mi stanno più, ma a volte mi piacerebbe poterli mettere ancora. È un peccato lasciarli qua dentro. C’è anche una specie di abito da sera, l’ho messo al mio primo matrimonio. Era una cerimonia in Comune, ma volevo essere elegante lo stesso. Non mi fraintendere, non ho mai voluto il vestito bianco con il velo e cose simili, ma ci tenevo comunque a essere bella. Uno si fa un sacco di illusioni nella vita, su come le cose debbano funzionare e sull’importanza dei dettagli. Probabilmente volevo che fosse un giorno perfetto. O forse ho pensato che non avrei avuto molte altre occasioni per comprare un abito elegante e portarlo in pubblico, non lo so. Le due volte successive mi sono preoccupata molto più delle questioni economiche e degli ospiti. Comunque se lo trovo te lo mostro.” La lascio parlare e guardo il maglione che ho addosso. “Secondo te perché preferisce stare dal padre? – mi chiede all’improvviso, mentre continua a frugare nell’armadio – Voglio dire, perché qua non vuole proprio venirci?” Vorrei dirle che non lo so, che io avrei preferito di gran lunga crescere in una casa come la loro che con gente che ogni tre minuti cominciava a urlare e spaccare cose, ma che forse per suo figlio è diverso. Magari preferirebbe sentir urlare di tanto in tanto. Mi chiedo come formulare il ragionamento, poi penso che in fin dei conti non è molto sensato e dico: “Non lo so”. La moglie di Fottesega continua a mettere sottosopra l’armadio, poi si volta delusa. “Mi dispiace, ma non riesco proprio a trovarlo. Comunque il maglione ti sta molto bene”, aggiunge.

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“Sì, mi piace”, dico finalmente. “Puoi tenerlo, se vuoi.” “Grazie”, rispondo. *** Mi sveglio a metà mattinata, con uno strano senso di lucidità. La casa è deserta e silenziosa. Le pareti bianche riflettono in maniera impeccabile la luce invernale che entra dalla finestra. Vago per il corridoio e per le stanze deserte, cercando di ricordare cosa ho sognato. Ho sognato che sul divano in salotto c’era un bambino di pochi mesi, grasso, sorridente e completamente vestito di giallo. Era seduto immobile, appoggiato a un cuscino, ed era mio. Il giallo è un colore che ho sempre odiato. Torno in camera, tolgo i vestiti dallo scaffale e li appoggio uno per uno sul letto. Metto il computer nello zaino, assieme allo spazzolino e al deodorante. Poi prendo il maglione che mi ha dato la moglie di Fottesega e lo piego con cura. Infilo i vestiti nel borsone, prima i pantaloni, poi le magliette e le camicie, la biancheria, le giacche. Quando arrivo al maglione, nella borsa non c’è più spazio. Lo rimetto sul letto, vicino al cuscino. Penso che avrò bisogno di vestiti caldi, per il freddo che sta per arrivare, e forse di una borsa più capiente. Mentre esco dalla stanza, apro il portone e lentamente scendo le scale per andarmene.

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tre escavatori gialli Laura Salvai illustrazione di Fulvio Capurso

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a qualche giorno mio padre continuava a ripetere: “Sun mai pi ’ndait a truvè Scaja”, non sono più andato a trovare Scaglia. Era il suo modo per dirmi che ci voleva andare. È un uomo molto burbero, non si esprime mai in modo diretto. Così un sabato pomeriggio ho preso la macchina e l’ho portato. Lui non guida più, ha ottantasette anni. Bisogna accompagnarlo dappertutto. Non conoscevo Scaglia e non sapevo dove abitasse. Mio padre mi indicava la strada a gesti fra i campi di granoturco. “È qui, è qui!”, ha detto d’un tratto con i suoi modi bruschi da orco. Ho sterzato sulla ghiaia e ho parcheggiato davanti a una villetta isolata, accanto a tre escavatori gialli.

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cadillac 8 Il cancello era aperto. Nel giardino, sotto l’ombra di un caco, c’era un vecchio che intrecciava cesti con rami di salice. Quando ci ha visti entrare ci è venuto incontro con aria sorpresa. Mio padre non l’aveva avvertito che sarebbe passato. Non telefona mai, se non per motivi gravissimi. Ci siamo seduti tutti e tre sulla panca, vicino a un mucchio di cesti. Scaglia ha detto che li faceva per passatempo. Era in pensione da molti anni, la ditta di escavazioni era passata a suo figlio. Mio padre annuiva con aria assente. Quando ha aperto bocca si è capito che pensava alle sue piante di pomodoro, attaccate da una misteriosa malattia. “A sun ’ncamin ca secu”, si stanno seccando. Era il suo rovello da diverse settimane. Scaglia ha fatto un cenno con il mento in direzione dell’orto e ha detto che anche le sue erano ridotte male. Mentre guardavamo da quella parte due donne anziane in abiti da festa sono uscite dalla porta principale e hanno attraversato il giardino. Ci siamo alzati per salutarle. Stavano andando a messa in paese. Una era la moglie di Scaglia, l’altra, l’inquilina del piano di sopra, era Nunzia, una lontana cugina di mia madre che non vedevo da un sacco di tempo. Non sapevo nemmeno che abitasse lì. Alta e magra, con i capelli bianchi ben acconciati sulla nuca, era molto invecchiata, ma conservava quel portamento spavaldo che mi aveva sempre fatto pensare a lei come a un’attrice mancata. Nel cerchio che si è formato sotto il caco era lei la primadonna; l’altra, la sua amica, le faceva da spalla. “Guardate cuma l’è suagnà Nunzia con quell’abito nero”. “Eh, per forza, ho dovuto comprarmi dei vestiti da lutto”. “Da lutto? Perché?” ho chiesto prima di rendermi conto che era una domanda inopportuna. Nunzia mi ha guardata con un lampo negli occhi, come le avessi offerto un’occasione da cogliere al volo. Con lo stesso tono con cui avrebbe annunciato il matrimonio di un vicino ha detto che sua figlia Luisella era morta di tumore due mesi prima. Ho trattenuto il fiato, incredula. Luisella aveva più o meno la mia età. La ricordavo sana e sbrigativa dietro il banco della macelleria,

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uno dei suoi tanti lavori. Aiutava dal fioraio e faceva le pulizie per diverse famiglie in paese, spostandosi da un luogo all’altro con la sua utilitaria rossa. Con quei suoi modi indaffarati sembrava dovesse vivere per sempre. Invece era morta a fine giugno e io, che vivevo in città, non l’avevo neanche saputo. Come gli altri che già conoscevano la storia, pendevo dalle labbra di Nunzia, che a poco a poco aveva guadagnato il centro del cerchio e con ampi gesti teatrali descriveva gli ultimi istanti di vita di sua figlia. “Aveva dolori dappertutto e si preoccupava solo per la casa. Avreste dovuto vedere come la teneva. Era sempre perfetta. Ci ha speso un sacco di soldi. Tende di seta e piastrelle dipinte a mano. E ci chiedeva di averne cura. Da non crederci, nello stato in cui era! Mia nipote e mio genero hanno dovuto rassicurarla sul letto di morte”. Nunzia parlava con una vivacità che mi stupiva. Pareva quasi che Luisella non fosse sua figlia. Possibile che sfruttasse quella disgrazia per mettersi in mostra? O che, al contrario, la esibisse per allontanarla da sé? Non riuscivo a decifrare il suo comportamento, non la conoscevo abbastanza. Quando le donne se ne sono andate, Scaglia è rimasto seduto sulla panca con la testa china. Io tacevo. C’era un dramma più sottile nell’aria e non volevo toccare tasti dolenti. Sapevo che suo figlio minore era morto in circostanze tragiche, ma non ricordavo esattamente come, o forse mio padre non me l’aveva mai raccontato. Era stato almeno trent’anni prima. Mentre vagavo intorno con lo sguardo, ho notato gli escavatori gialli nello spiazzo accanto alla villetta. Di colpo mi è tornato in mente tutto: quel ragazzo era sceso a ispezionare una buca appena scavata ed era stato travolto da una frana. Ho pensato ai miei figli, che erano vivi, e mi sono sentita in colpa. In macchina, al ritorno, mio padre ha scosso il capo: “Scaja a l’è pa ’ncura fasne na rasun”, Scaglia non se n’è ancora fatto una ragione. E infatti, a trent’anni di distanza, il suo dolore restava inesprimibile. Ho rivisto Nunzia al centro della scena in giardino, con le mani che tracciavano gesti nell’aria e il viso trasfigurato dalla foga del racconto. Era forte, padrona di sé. Una sopravvissuta.

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tre monete d’oro Lisa Biggi illustrazioni di Marta Sorte

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re monete d’oro. Servono tre monete d’oro per entrare nella Casa e molto affetto per abitarla, ma quello già c’era. Allora lo sposo lavorò duramente, senza mai lamentarsi, per dare un tetto solido e quattro mura quadrate alla sua giovane moglie. Lavorò a lungo, per dare un letto caldo ai figli presenti e anche a quelli futuri. La mattina usciva all’alba, quando i sogni riposavano ancora sui cuscini, e la notte rientrava per crollare sfinito sul materasso. Ma non bastava. Allora non crollò più e lavorò ancora, finché non guadagnò la prima moneta d’oro.

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cadillac 8 Per avere la seconda piegò la schiena, rimanendo curvo sul suo desiderio. Ogni giorno lavorava senza sosta e con poco carburante in direzione della Casa. Lavorava con fiducia e determinazione senza curarsi del tempo, dei malanni e di sé, finché le sua ossa vibrarono come sonagli. Fu allora che la sua sposa si tagliò i lunghi capelli e li portò al mercato delle bambole, in cambio della terza moneta. La sera gli disse che infrangere il divieto era stato come togliersi un dente doloroso, un chiodo tra i sassi, e lo sposo urlò contro il cielo e con la terza moneta le comprò un cappello. Così ci vollero altri mesi.

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E finalmente, in una calda giornata d’estate, si recarono dal mercante di case con le loro tre promesse strette nel pugno. Ma quando lo sposo aprì la mano, le monete si sciolsero al sole in un istante. “Che peccato”, disse il mercante, “se solo foste passati questo inverno.” Solo i bambini risero, leccandosi il cioccolato dalle dita.

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un atteggiamento borghese Fabrizia Conti illustrazioni di Laura Camelli (La Came)

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ianca è fuori a giocare nel giardino della trattoria di Salò, ricoperto di neve fresca. “Copriti però, a papà”, le ha sussurrato Paolo in un bagno d’ansia. “E stai poco poco.” Bianca ha aperto la porta con fatica ed è sgusciata fuori lasciando impronte da passerotto. L’abbiamo guardata a lungo correre, impacciata dal peso del giubbotto: la finestra senza tende è un acquario e lei un pesce rosso. Oggi è il mio compleanno, e anche oggi - come da quando ho memoria - nevica. Quando eravamo piccoli come Bianca ci piaceva, la neve, si poneva tra noi e le cose come una carta da regalo a impacchettare un mondo di una bellezza selvaggia e pericolosa: durante una bufera io e Paolo siamo stati investiti da un vecchietto che gui-

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cadillac 8 dava sbandando come un ubriaco, ma a passo d’uomo. Non posso dire che ci abbia davvero investito, ci ha semplicemente spinto, con una delicatezza sorprendente, contro un cumulo di neve raccolta al bordo della strada. Prima immobili per lo spavento, ci siamo alzati lentamente e poi ci siamo guardati a lungo, sorridendo, scossi dall’eccitazione. Eravamo sopravvissuti. Ci sentivamo, anzi, più vivi di prima. Il fatto di non essere arrivati nemmeno vicini alla possibilità di restare feriti dall’incidente (perché così lo chiamammo), sarebbe rimasta poi una cosa solo nostra. A tutti parlammo di miracolo, e di fatto non smentiamo ancora. Oggi, per noi, la neve è un castigo, la carta da regalo che non siamo riusciti a strappare. In certi momenti capita che brusche folate di vento spostino per un tempo brevissimo la cappa di nuvole che copre la città, ed è come se non nevicasse più. Il giorno del mio compleanno di un anno fa, per esempio, sembrava fosse primavera. Attorno a questo tavolo eravamo di più di adesso, e meno sgualciti. Accanto a Paolo e Bianca era seduta Maria Diletta, distratta e irritabile. E c’era Nina, soprattutto: mangiava poco, diceva di avere un po’ di nausea. Di tanto in tanto Salò usciva dalla sua cucina e veniva a sedersi con noi: provava un gusto particolare nel provocare Paolo, e di fatto non perdeva occasione. “Vedi di non fare il brillante, giovane, che essere juventino e comunista insieme è veramente un destino infame.” E poi c’ero io, in attesa della domanda che Salò non mi risparmia nemmeno oggi. “E tu, Giuse’?” La mia risposta non cambia. “Io non tifo.” “Ah, già, che tristezza”, dice Salò, e torna in cucina borbottando. Per darci un tono, io e Paolo finiamo a parlare di lavoro e come ogni volta ci fingiamo interessati, coinvolti. Paolo mi racconta della signora Perlini, fuggita in lacrime non appena le ha chiesto di aprire la bocca “ché la pulizia dei denti è una cosa fastidiosa ma necessaria”. “Secondo me non sei buono. Che questa scappi via ogni volta, normale non è.” “Non è che ce lo doveva venire a dire la Perlini che non sono bravo con le donne, eh. Scusa, lo so. La smetto. È che ci penso, non posso farci niente.”

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“Paolo, e su. Io capisco tutto, però davvero: Maria Diletta? E dai. Hai schivato una pallottola. Tardi, ma comunque.” “Lo so, lo so. Ma che ti devo dire, a me MD manca.” “Che poi, in amicizia, Paoletto, però il fatto che la chiamino come un discount fa un po’ pensare.” “Senti, a me fare lo scapolone non piace, non ci posso fare niente. Non è stata una scelta mia, nel mio caso.” Nel mio caso. Ne parliamo serenamente, ormai, quasi con distrazione, come lanciando sassolini sullo specchio di un lago. Ma “nel mio caso” rovina tutto: si fa inghiottire dal lago e trascina giù anche me. Salò esce dalla cucina sudato e stanco, viene al tavolo a indignarsi per le macchie sulla tovaglia. “Uagliù, ma che avete combinato col vino? Manco i bambini.” “E scusaci. Quando c’era lui queste cose mica succedevano”, lo stuzzica Paolo, “ve’, Salò?” Nel suo locale Salò conserva icone del Duce come santini della Madonna. “E certo che no.” Si reca ogni anno in pellegrinaggio a Predappio pieno di gratitudine e malinconia. Ma è un pezzo di pane e cucina da Dio. Si chiama Michele, non se ne ricorda nemmeno più lui. “Uagliù, poche mosse, le cose o funzionano o non funzionano. Mo’, mi dovete dire: vi pare a voi che ci sta qualche cosa che va dritta?” “E le mezze stagioni? Ci stanno ancora le mezze stagioni?” “Tu mo’ mi devi rispondere e non devi iniziare a fare il comunista come ti piace a te. Ti pare che mo’ le cose funzionano?” “Ma che so’ le cose, Salò, ma di che stiamo parlando?” “Le cose, tutto, la vita, i soldi, Paole’, i soldi! Lo so che a te non te ne frega niente, tu ti fai dare cent’euro per guardare i denti alla gente e fai pure il comunista. Quest’altro, entra e esce dall’ufficio quando gli pare, tanto paga lo Stato, eh? E chi lo paga lo Stato? La povera gente che lavora. Io pago, e tu magn’. Brav’ bra’.” “Ma poi, io vorrei sapere, qual è il nesso tra tutto questo e il vino rovesciato sulla tovaglia?”

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cadillac 8 “È che siete degli irresponsabili, siete, e non ve lo dovete scordare manco per un momento. Ma un dolcetto ve lo porto?” “E portacélla una cosa, ya.” “Tengo la torta di mandorle che vi piace tanto, così state nu poc’ zitt’.” La torta di mandorle non piace né a me né a Paolo. Era Nina ad adorarla: si era fatta dare la ricetta da Salò: era l’unica a conoscere il gran segreto, ma anche quella che ne avrebbe fatto il peggior uso. Non ha mai imparato a cucinare, nonostante lo desiderasse alla follia. Si dimenava sui fornelli, si sporcava, si bruciava, correva da me perché le mettessi un cerottino sul dito ferito. Rideva tantissimo. “È tornata a prendere le sue cose?” mi chiede Paolo e mi salva dalle mandorle. “Non credo tornerà. Ho riempito degli scatoloni, sono nel soggiorno. Quando vorrà magari mi darà il suo nuovo indirizzo e le invierò tutto. Ma non credo tornerà.” “Tu sei un signore, e fai bene. Ma non appena vorrai liberartene: via, senza troppi scrupoli. Magari chiamami che vengo a darti una mano. Oh, niente scrupoli. Tu hai fatto quello che potevi. Hai preso la decisione giusta.” “Sì. Lo so, lo so.” La decisione giusta. “D’altronde, lo sai meglio di me. Stavi andando giù. Io mi ricordo com’era, quand’è arrivata. Una botta di vita. Era la vita. Ero felice per te, ti giuro, ma poi oh: uno deve avere il coraggio di darci un taglio.” La prima volta che ho visto Nina era in spiaggia e aveva un cappello di paglia molto grande. Stava con i gomiti appoggiati al bancone di un baretto, e si guardava intorno curiosa come un topo. Mi è parsa irresistibile, mi sono avvicinato a grandi passi mosso da non so cosa e una volta troppo vicino ho aperto la bocca, e non ne è venuto fuori niente. Nemmeno un rantolo. Lei mi ha studiato prima sorpresa, poi divertita, “Beh?”, e io niente, finché non è arrivato il suo ragazzo, uno

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che praticava l’arroganza con un certo agonismo, e mi ha insultato, spintonato, e come se non mi avesse convinto abbastanza, lanciato una lattina di Sprite aperta. Sono tornato all’ombrellone maledicendo il sole il mare e la vita tutta. Dopo mezz’ora però è comparsa lei, un sorriso gigantesco – gigantesco – sbucare sotto un enorme cappello di paglia. “Oh, Charlie Chaplin” mi ha detto, “offrimi qualcosa ché m’hai fatta stancare.” Aveva appena finito di riempire di schiaffi quello che allora era il suo ragazzo. Era orgogliosa, fortissima. Sebbene poi giocasse a farsi piccola, infantile, non ha mai avuto bisogno della mia protezione. “Scusami, esco un attimo a controllare Bianca. È troppo tempo che non la sento strillare, mi sto preoccupando. Dovesse andarsene pure lei così? Scherzo, giuro.” Paolo è ossessionato da questa storia dell’abbandono. A volte di sera mi chiama, quando non tocca a lui tenere le bambine, e finisce che restiamo in silenzio per delle ore lunghissime mentre guardiamo lo stesso film. Paolo non riesce a scendere a patti con il fatto di poter decidere quando deve esserci silenzio e quando no: quando spegne la televisione non c’è nessun urletto di bimba, nessun phon acceso. C’è silenzio, e fosse per Paolo non ci sarebbe mai. Rientra tenendo per mano Bianca, che ha gli occhi del pianto e i capelli bagnati: è stata a rotolarsi nella neve “senza nemmeno mettere il cappellino”, mi dice, “quell’incosciente. Ti va se andiamo? Se resta così zuppa ancora un po’ le viene una febbre feroce. Non mi va poi di affrontare la questione con Diletta.” Chiedo il conto a Salò, che mi fa pagare una miseria come sempre. “Uagliù” mi guarda serio, “eh. Mi raccomando.” Io non so mai cosa replicare alle raccomandazioni, quindi annuisco e gli sorrido. Metto il giubbotto, lo chiudo fino sotto al naso, infilo cappello e guanti come se mi vedesse mia madre. Quando esco, la neve croccante sotto i piedi, vedo Paolo appoggiato alla sua Fiesta con le mani tra i capelli. Bianca è già in macchina al caldo, penso stia solo aspettando che si spanni il parabrezza, invece quando alza la testa e mi guarda

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cadillac 8 ha gli occhi lucidi. “Il phon” mi fa, “il phon. A casa mia non ce l’ho.” E gli viene da piangere, a quel cretino, che non sa come asciugare i capelli di Bianca. E dietro a lui viene da piangere anche a me, che da oggi ho quarant’anni e la sensazione orribile che mi sia sfuggito qualcosa. “Ti dispiace se passiamo da mio padre? Lui ne ha uno di sicuro. Ti va di venire? Che compleanno di merda.” Mi viene in mente di proporgli di usare il mio phon, ma mi terrorizza il pensiero del rumore delle mie chiavi sul mobile all’ingresso. “Tranquillo”, gli dico, “ci vediamo lì.” Entro in macchina, faccio qualche smorfia per riattivare i muscoli irrigiditi dal freddo. In casi come questo mi viene naturale immaginare la risata scomposta di Nina, che a volte mi infastidiva un po’, quando io da ridere non ci trovavo proprio nulla e avrei solo voluto chiederle “che cazzo ridi?”. Mi limitavo a non unirmi alla risata: la mortificazione per lei era la stessa. Ho ucciso l’allegria così tante volte che non credo di meritarne più per almeno altre sette vite. Metto in moto, seguo Paolo. Procediamo lenti, finché non parcheggiamo vicini e ci incamminiamo per le scale ripide del centro storico: siamo una minuscola processione silenziosa, solo la neve crack crack sotto i piedi. Dai lampioni e dalle grondaie delle case di pietra scendono stiletti di ghiaccio. Li chiamavamo “pisciuotti”, Nina dalle risate si piegava in due.

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Nel portone del palazzo del padre di Paolo sbattiamo i piedi a terra per scrollare la neve dalle scarpe, tutti e tre insieme. Il signor Carmine è un ferroviere in pensione, un’espressione di marmo che si scioglie in enormi morbidi sorrisi non appena vede Bianca. Ci fa entrare, non se l’aspettava, è irritato e al tempo elettrizzato. Ci chiudiamo la porta alle spalle ma già per lui non esistiamo più. “Bianca, amore di nonno, le vuoi le cioccolate? Guarda nonno che ti dà, guarda. Meh, sedetevi, voi, che fate in piedi?” “Papà prendo un attimo il phon, ché la bambina è zuppa.” Carmine si irrigidisce, come punto da un’accusa di omissione di soccorso. “E ma sei un cretino, sei. Sbrigati, che si raffredda. E tu me lo volevi dire, a nonno, che ti dovevi asciugare? Birbante… Vai da papà, vai”, e di nuovo un’istantanea dolcezza. Io faccio per sedermi al tavolo di formica, come mille altre volte in vita mia. Mi tolgo cappello, guanti e sciarpa, tiro giù la zip del piumino e sbottono il maglione, quando mi cade un bottone. Io e Carmine lo guardiamo a terra, quel traditore, sospiriamo. “Dammi”, mi fa, “provo a rimetterlo.” “Ma no, ti ringrazio, faccio poi con calma, mo’ che bisogno c’è…” “E dammi qua, due minuti ci metto.” Prende un cestino di vimini pieno di rocchetti di cotone e si risiede, affidandosi alla luce della tv accesa e del camino, il naso vicinissimo a bottone, ago e filo. “Mannaggia la morte, mannaggia.” “Non fa niente” dico, “lascia stare.” “E no, no. Fammi provare un altro po’, devo solo riprenderci la mano. Ero diventato piuttosto bravo.” “Forse sarebbe meglio con gli occhiali?” “Forse.” Inforca le lenti opache e si rimette al lavoro. Paolo e Bianca tornano in cucina e si siedono attorno al tavolo, la bambina inizia a scartare uno dopo l’altro i cioccolatini avanzati dalla calza che il nonno le aveva preparato per la befana. È più attratta dall’involucro che dal cioccolato in sé: stende con le mani piccole i quadrati di carta colorata, li arrotola, li spezzetta. Ai suoi occhi sono degli omini che chiacchierano tra di loro.

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cadillac 8 Noi invece restiamo ipnotizzati da Peppone e Don Camillo che come sempre litigano tantissimo. “Il sentimentalismo”, grida Peppone, “è un atteggiamento borghese indegno dello spirito proletario.” Carmine alza gli occhi dal bottone e annuisce con convinzione. Mi si bagnano gli occhi all’improvviso, mi imbarazzo, poi sento Paolo ingoiare con forza un magone. Gli omini di Bianca sono gli unici a riuscire a guardarsi in faccia. “Penserai anche a me”, Don Camillo raggiunge l’onorevole Peppone alla stazione, “che non sarò più lì a darti un cazzotto in testa quando te lo meriti”, gli dice, “vale a dire almeno una volta al giorno!”, mentre fuori intanto è buio, è arrivato il momento di alzarsi e tornare a casa, mi dico, ma ripenso al rumore delle mie chiavi sul mobile all’ingresso, poi alla risata forte di Nina e al suo naso curioso: non riesco a muovere un passo. È stato un anno orribile. A tutti ho detto che sono stato io a lasciare Nina, a dirle di andarsene. Ma è come se l’avessi invitata a ballare e abbassato d’improvviso il volume: l’ho annoiata, mortificata, frenata, spenta, in questi anni, e ancora più quando ha provato ad aggrapparsi all’idea di una piccola Nina in arrivo. Se lo sentiva, un anno fa, ma era un falso allarme. Quanto mi prodigai, io, però, a farle capire che sarebbe stato un errore, una mostruosità. “Una mostruosità”, dissi, “con tutta questa neve”. L’ultima volta che ho visto Nina aveva un cappello di lana verde, la faccia sconfitta e un borsone della Nike. Non mi ha nemmeno salutato prima di lasciare le chiavi sul mobile all’ingresso e uscire di casa, ma a tutti ho detto che sono stato io a lasciare Nina, a dirle di andarsene. È stato un anno orribile. Il treno parte, ma a sorpresa Peppone è sceso. Torna a casa in bicicletta, con Don Camillo, “e assieme continueranno il loro viaggio. Che Dio li accompagni.” “Tieni, Giuse’. L’ho cucito, pare. Meh, mi sa che è tardi.” “Già. Che facciamo?”, mi fa Paolo. Guardo fuori. Folate di vento scuotono i panni stesi sul balcone dei vicini. “Tra poco smetterà di nevicare.”

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Quante volte, e con quanto trasporto, avevo parlato a Nina del sollievo donato da quei brevi momenti di tregua, quasi fossero stati per me gli unici, sparuti attimi per i quali valesse la pena. “Tra poco, ce ne andiamo, tra poco.” Avrei dovuto, al contrario, raccontarle l’euforia di quando mi pensavo capace, di quando amavo la neve, tra i miei occhi e le cose reali come una carta da regalo a impacchettare un mondo di una bellezza selvaggia e pericolosa. “Ma dimmi, Carmine”, quasi urlo, quasi entusiasta, “ti abbiamo mai raccontato dell’incidente?” Paolo sorride. Io non aspetto risposta, e inizio a raccontare del giorno in cui, come per miracolo, siamo sopravvissuti.

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cadillac 8 BIOGRAFIE

Lisa Biggi: Nata a Reggio Emilia nel 1975, vive e lavora a Milano. Nel 2008 è stata selezionata in due concorsi letterari indetti da Ed. Tapirulan, per le sezioni Racconti e Poesia. Nel 2013 ha pubblicato con Nero Press edizioni l’albo illustrato Il babau, di cui ha anche curato il progetto editoriale. Oggi scrive racconti per adulti e storie per bambini, collabora con diverse riviste letterarie e nel 2014 è uscita la sua prima raccolta di racconti con Bébert edizioni, dal titolo I pompieri non escono per le donne in lacrime. Blog: lisabiggi.wix.com/author website: cargocollective.com/lisabiggi Fulvio Capurso: Nato a Torino, dove è cresciuto fino ai 173cm, ma ha iniziato presto a viaggiare per l’Europa e l’America Latina. Fin da piccolo ha cominciato a disegnare su ogni superficie a portata d’immaginazione: quaderni, fogli sparsi, bollette, libri, muri e, quando non ha trovato nient’altro, anche sul suo braccio sinistro fino alla mano e persino sui piedi. C’è chi dice sia una malattia, ma i medici per fortuna non hanno ancora trovato una cura. Quando parla sbofonchia un po’ ma accompagna i suoi discorsi con frequenti onomatopee incredibilmente esplicative. Attualmente lo potete incrociare per le strade di Montevideo (Uruguay) e a volte per quelle di Oaxaca (Messico). Blog: www.flickr.com/photos/fulviou website: berootstudio.wordpress.com Erica Molli: nata a Bologna nel 1990. Diplomata all’accademia di belle arti di bologna, dove attualmente frequenta il biennio specialistico di illustrazione per l’editoria. Partecipa a diverse mostre e cataloghi e con alcuni amici è co-fondatrice dell’autoproduzione Canemarcio. Blog: ericamolli.tumblr.com Margareta Nemo: Margareta Nemo è una patetica psicolabile appassionata di cactus e cocktail ipercalorici. Blog: delirietilici.blogspot.com

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Laura Salvai: vive a Torino e lavora da oltre vent’anni come editor freelance. Su questa esperienza ha scritto L’editing, il laboratorio del libro (Alkemia Books, 2013). Fa parte del collettivo poetico Incontroverso, che si ritrova ogni martedì nel quartiere torinese di San Salvario. Nel settembre 2013 ha pubblicato il romanzo breve Per un’ora di nuoto (Matisklo Edizioni). Website: www.laurasalvai.com Marta Sorte: I primi disegni di Marta Sorte, nata nel 1990 in un piccolo paese della bassa Bergamasca, sono stati i suoi animali domestici: anatre, tartarughe, pesci, criceti e soprattutto il suo cane Asia. Tutti morti. Alle superiori frequenta l’istituto professionale graficopubblicitario ma, nonostante il tempo perso, riesce comunque ad apprendere le fondamenta e il sottosuolo del disegno, strafogandosi di manga dal gusto pessimo. Negli anni a seguire si trasferisce a Firenze specializzandosi in Illustrazione e Fumetto; muta radicalmente i propri gusti guardando da lontano il confine con la Francia. Blog: todrawlots.blogspot.com Fabrizia Conti: Molisana, ventisette anni il primo gennaio, ha studiato Scienze Politiche perché voleva salvare il mondo mettendo da parte i soldi per aprire una libreria. Vive a Roma. Laura Camelli (1983), detta anche la came è una postina, illustratrice, fumettista, suonatrice di ukulele che vive nel placido (leggesi “noioso”) paesino di Lamporecchio. Inizia la sua attività artistica all’età di 5 anni dipingendo insieme al fratello Stefano le pareti del salotto buono di casa Camelli. Dopo un lungo periodo di sperimentazione di stili, supporti, materiali e tecniche, approda all’acquarello e china proponendo nelle sue illustrazioni un’immaginario semplice, onirico, ironico.

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tiro al piattello Slawka G. Scarso

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ranco, a detta sua, aveva solo tre piccole fissazioni: fumare la pipa la domenica mattina davanti al giornale, buttare via ogni bomboniera che la moglie portava a casa da battesimi, comunioni e matrimoni, e dormire con le persiane aperte e le tende scostate. Considerando poi che sua moglie era morta da tempo, diceva che di ossessioni gliene erano rimaste solo due, e anzi certe volte pensava che ne avrebbe dovuta trovare un’altra, ché tre è un numero perfetto e due no. A detta degli amici con cui giocava a bridge il giovedì sera e della madre, invece, Franco di fissazioni ne aveva ben più di tre: pagava le bollette il giorno stesso che arrivavano; faceva il bucato il mercoledì e sabato mattina (mai gli altri giorni); lavava le finestre il primo martedì del mese; si svegliava ogni mattina alle 6.16 minuti esatti e chiudeva il libro che leggeva a letto alle 23.56; si ritoccava i baffi da quarant’anni con lo stesso paio di forbicine; e il giovedì pomeriggio, prima della partita a bridge, ripuliva con cura le sue armi – tutte registrate e perfettamente legali.

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cadillac 8 ½ Quando morì la moglie, i suoi cari temettero il peggio. Se è vero che Franco aveva parecchie fissazioni, Camelia era stata l’unica a dargli un senso di equilibrio. L’unica capace di ammorbidire la sua attenzione verso i particolari, l’unica che fosse stata in grado di fargli mantenere la calma anche nelle situazioni in cui lui avrebbe perso il controllo – e fatto male a qualcuno. Bastava un suo sorriso, e Franco si ricordava che nella vita bisognava prendere le cose così come vengono, con calma. Mentre girava per la casa ormai vuota, il suo sguardo si posava spesso sulle fotografie che la ritraevano: attraverso il plexiglass o il vetro delle cornici sua moglie, col suo solito sorriso, sembrava ricordargli di stare tranquillo. «Andrà tutto bene», gli aveva detto spesso, accarezzandogli le tempie. Così Franco dimostrò a tutti che poteva farcela anche da solo, che avrebbe salvaguardato la memoria di Camelia con un comportamento dignitoso. Chi pensava che si sarebbe isolato si rese molto presto conto di sbagliarsi di grosso: tra le partite a bridge, le visite alla madre e persino il volontariato alla Caritas non solo non si chiuse, ma sembrava addirittura più socievole. Chi lo incontrava per strada, mentre tornava dalla macelleria del quartiere o dal fruttivendolo, lo vedeva sorridente, sempre pronto alla battuta. Persino il postino che fino a qualche anno prima l’aveva temuto ora, quando gli consegnava le raccomandate, trovava il tempo di scambiare qualche parola. I figli alla morte della madre gli suggerirono di cambiare casa, che ormai quella grande villa era diventata davvero troppo grande solo per lui. Dicevano che gli sarebbe stato più facile mantenere pulita una casa più piccola, ma lui non ne voleva sapere: «È questa la mia casa, non ne voglio e non ne avrò altre. E se un giorno non ce la dovessi fare più, prenderò una badante». Così diceva. Quanto ai vicini, li conosceva tutti, e aveva con ognuno di loro rapporti cordiali. Quando faceva la marmellata di arance, seguendo la ricetta di Camelia, ne preparava sempre qualche barattolo in più per loro che poi ricambiavano portandogli la pastiera a Pasqua o il pangiallo a Natale. «Non potrei essere più fortunato», diceva.

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Poi un giorno la vicina più anziana sparì, e la casa di fronte fu acquistata da una coppia di quarantenni. Franco fu dispiaciuto del fatto che non avessero figli: le urla giocose dei suoi bambini erano un ricordo lontano che ancora riusciva a dargli serenità. Tuttavia, scoprì presto che il marito non c’era quasi mai a casa, era sempre in giro per lavoro, e pensò che probabilmente era per quello che avevano preferito rimanere soli. Peccato, perché era un uomo spassoso: quando raccontava dei suoi viaggi aveva sempre un aneddoto divertente o due da inserire nel suo reportage. Lei, al contrario, era diffidente e persino un po’ asprigna, e di questo Franco se ne accorse subito, quando portò loro due vasetti di marmellata d’arance sulla cui etichetta aveva scritto: un benvenuto per i miei nuovi vicini. Quel giorno sapeva che lei era in casa – l’aveva appena vista stendere il bucato – e si diresse al loro cancello. Suonò una prima volta e si aggiustò il colletto della camicia. Nessuno rispose, così suonò un’altra volta, premendo un po’ più a lungo. Attraverso le sbarre del cancello la vide affacciarsi da dietro la tenda e iniziò a sbracciarsi e a salutare, indicando poi verso la sua casa, tanto per farle capire che era un vicino, non un testimone di Geova o altro personaggio intenzionato a importunarla. Lei uscì imbronciata. «Desidera?» chiese da dietro il cancello, senza dare l’idea di voler aprire. «Sono il signor Pasquali. Abito al numero 5». «Capisco», disse lei, senza tono. «Ho portato questi», e sollevò la busta con i due vasetti. «Un piccolo regalo di benvenuto. Sa, ho due aranci e così ogni anno preparo la marmellata...» «Grazie», rispose lei, abbozzando un sorriso. Franco si aspettava che gli aprisse il cancello ma invece vide le mani di lei passare attraverso le grate e così le porse la busta che quasi rimase incastrata e dovettero spingere – lui – e tirare – lei – per farla passare. «Grazie ancora», disse lei. Si voltò subito, senza neppure estrarre i vasetti dalla busta e apprezzare l’etichetta personalizzata.

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cadillac 8 ½ Nelle settimane che seguirono, Franco notò che non appena lui usciva in giardino il mercoledì e il sabato per stendere il bucato, se in quel momento anche lei era fuori, scappava subito dentro, a volte lasciando addirittura i panni nella bacinella. Quando arrivava il fine settimana e il marito rientrava a casa, le fughe di lei erano meno plateali ma di certo non si sprecava in cortesie o chiacchiere. Il marito era completamente diverso. Certe volte quando la domenica mattina Franco si metteva a fumare la sua pipa e a leggere il giornale, era lui stesso a chiamarlo. Fu così che scoprì dal marito i loro rispettivi nomi – Adamo e Simona. E fu proprio Adamo a ringraziarlo delle marmellate personalizzate. «Che pensiero gentile, signor Franco. Non potevamo sognare un benvenuto più caloroso, vero Simona?» Ma Simona aveva già trovato una scusa per rientrare in casa. Il primo martedì di aprile, Franco stava lavando le finestre della camera da letto quando vide tre operai che trafficavano con scale, faretti e altri attrezzi nel giardino dei vicini. Si dilungò più del solito pur di capire cosa stessero facendo. Fuori con loro c’era anche Adamo: parlava con un operaio, di sicuro il capo squadra, indicava certi punti del muro, spiegava e chiedeva spiegazioni. Simona invece appariva solo di tanto in tanto: non usciva neppure ma scostava le tende della finestra del salotto, dava un’occhiata, tenendo sempre le braccia conserte, e poi scompariva nuovamente dietro il velo di tessuto. Alla fine Franco notò che stavano attaccando una scatola bianca al muro esterno, quasi all’altezza del tetto. Sotto alla scatola bianca, proprio in corrispondenza della finestra della camera da letto di Franco misero anche sei fari grandi come quelli dello stadio. Mettere un sistema di allarme in casa? Ma che strana decisione! Da quando Franco abitava lì non c’erano mai stati i ladri e nessuno aveva mai sentito il bisogno di tutelarsi con simili aggeggi. Le sue armi, le teneva solo per andare al poligono. Quanto ai furti, bastavano i vicini che tenevano volentieri d’occhio la tua casa mentre eri via. Franco pensò che di sicuro quella doveva essere stata una decisione

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di Simona, che Adamo sembrava troppo tranquillo per farsi venire inutili fobie. Più tardi, quel pomeriggio, vide il vicino caricare la station wagon con più cose del solito. Era troppo curioso per resistere, così corse fuori e attraverso la siepe bassa lo salutò. «Vedo che siamo di nuovo in partenza!» «Sì, solo che stavolta devo trasferirmi per tre mesi a Parigi». «Ah, deve essere emozionato». «Mah, le dirò che un po’ mi dispiace. Speravo di godermi l’arrivo dell’estate nella nuova casa. E poi l’idea di lasciare Simona da sola...» aggiunse indicando la casa dove, dietro qualche tenda, si stava nascondendo la moglie. «Sua moglie non viene?» «No, i parigini non le piacciono». «A chi piacciono? È per questo che state mettendo l’allarme?» «Esattamente. Simona ha paura di rimanere da sola a casa così a lungo. E anch’io sarò più sicuro a dire il vero». «Ma non serve mica, è un quartiere tranquillo. Non ci sono mai stati furti da queste parti. Glielo dico io che ho fatto il poliziotto proprio in questa zona». «La ringrazio, anzi, già che ci sono – se non le dispiace, ovviamente – le sarei grato se tenesse d’occhio la casa mentre sarò via». «Ma certo, sarà un piacere, mi creda». L’indomani, mentre albeggiava, Franco si mise supino sul letto e vide attraverso la finestra che Adamo si accingeva a partire. Simona era uscita in strada e avvolta nella vestaglia lo salutava con la mano. Non appena la macchina del marito voltò l’angolo, corse di nuovo in casa senza neppure guardarsi attorno. Fu una giornata come tante altre. Essendo mercoledì Franco fece il bucato, la sera andò a cena dalla madre e tornò in tempo per leggere il suo libro fino alle 23.56 e poi spegnere le luci. Circa mezz’ora dopo, quando finalmente si era addormentato, si accesero i faretti davanti alla casa di Adamo e Simona. Uno di questi puntava esat-

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cadillac 8 ½ tamente sulla sua faccia. Dapprima s’insospettì, pensò che fossero arrivati i ladri. Si avvicinò alla finestra per controllare e notò attraverso le tende leggere la sagoma di Simona che passava da una stanza all’altra. Rimase a guardare per quasi un’ora. Poi, sicuro che la donna non corresse alcun pericolo, si decise ad andare a dormire. Il faro, tuttavia, continuava a puntare sulla sua faccia. Fu solo allora che gli venne in mente che alcuni sistemi di allarme prevedevano l’accensione cautelativa di alcuni faretti esterni, per scoraggiare i ladri. Tentò di girarsi sull’altro lato del letto, per non avere la luce puntata addosso, ma non riusciva a riprendere sonno. S’immaginò Simona nel suo letto, con la vestaglia adagiata sul posto normalmente occupato da Adamo. Scese di sotto a guardare un po’ di televisione ma quando risalì in camera da letto il faro era ancora acceso, e ora anzi gli sembrava grande davvero quanto le luci potentissime che illuminano gli stadi. Sentì il sangue pulsargli nelle tempie, la vena ingrossarsi lungo il collo. Avrebbe voluto avvertire Simona che lo stava disturbando ma non aveva il numero di telefono e non voleva svegliare gli altri vicini gridando dal balcone. Per tutto il giorno successivo Simona non si fece vedere. Franco passò quasi tutto il tempo a controllare attraverso la finestra i suoi spostamenti: pensava di approfittare della prima occasione in cui sarebbe uscita in giardino per farle presente la questione. Passò un’intera settimana in questo modo. Ogni giorno Simona lo evitò, anche quando lui andò a suonare ripetutamente al suo citofono. Ogni notte il faro si accese fra mezzanotte e l’una e puntò sulla sua faccia. Il giovedì pomeriggio della settimana successiva, Franco ripulì le armi. Tuttavia, senza neppure rendersene conto, anziché riporle nel cassetto le lasciò sul comodino. Fu un gesto inconsapevole, se ne accorse solo quando rientrato dal bridge s’infilò sotto le coperte. E anche allora non gli venne in mente di metterle via nel cassetto: le lasciò lì. Alle 23.56 smise di leggere, spense la luce e iniziò ad aspettare. I faretti però questa volta rimasero spenti. O almeno così pensava,

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Slawka G. Scarso, Tiro al piattello

finché, all’una esatta, si accesero nuovamente tutte le luci, inclusa quella puntata sulla sua faccia. Incapace di addormentarsi, iniziò a girare per casa alla ricerca di un elenco telefonico. Quando infine gli venne in mente di guardare nel posto più ovvio, nell’armadietto nell’ingresso sul quale da sempre stava il telefono, si accorse che l’edizione che aveva era quella dell’anno in cui era morta la moglie. Così maledisse il giorno in cui non aveva dato ascolto ai figli, quando gli avevano suggerito di imparare a usare il computer, ché su internet si trova tutto, e tornò in camera da letto. Il faro illuminava a giorno tutta la stanza. Spalancò la porta finestra, e impugnando con forza la ringhiera del balcone iniziò a urlare il nome della vicina. Quando vide la sua sagoma dietro le tende della finestra prese a indicare il faro, a gridare: «Spenga quella luce!» La vicina aveva scostato la tenda, ora, e lo guardava dall’altra parte del vetro. Ne vedeva solo la sagoma, senza poterne intuire l’espressione: solo i gomiti che sporgevano mentre teneva le braccia incrociate, e la vita stretta nella cintura della vestaglia. «Ho detto spenga quella luce!» Ma la sagoma restava immobile, ignorava la sua incitazione. Nel frattempo nelle case vicine si erano accese le luci e qualcuno chiedeva cosa stesse accadendo, cosa fosse quel baccano. Franco sentiva pulsare le vene del collo e delle tempie più forte che mai: erano un fiume in piena. Strinse così forte la ringhiera del balcone da farsi male alle mani. Ebbe l’impressione che le sue scosse la stessero scardinando dal pavimento. «Mi vuole almeno rispondere?» Ancora nulla, mentre dalle altre case qualcuno invitava a fare silenzio. «Basta! Qui c’è qualcuno che vorrebbe dormire, grazie!» dissero alcuni. «La facciamo finita?» chiesero altri. Franco tornò nella camera da letto, afferrò due pistole e tornò sul balcone. La sagoma era ancora lì, sembrava aspettarlo.

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cadillac 8 ½ «Questa è l’ultima volta che glielo dico: spenga quella luce!» Solo allora Franco notò un movimento quasi impercettibile della sagoma di Simona. Mentre il resto del corpo era immobile, la testa girava a destra e a sinistra. A destra e a sinistra, a destra e a sinistra. Rimase pietrificato davanti a tanta arroganza. Poi finalmente la donna fece per voltarsi e fu allora che sollevò la pistola. Prese la mira con cura, la mano ferma come un tempo. Puntò sul bersaglio e sparò. Si sentì il fragore dello scoppio, il vetro che si frantumava. Ancora uno sparo, un altro, e un altro ancora. Quando ebbe finito le munizioni nella prima pistola, usò la seconda. Finite anche quelle tornò al comodino e ricaricò le armi. Svuotò altri tre caricatori prima di considerare finito il lavoro, prima di poter tornare a dormire. Quando la polizia e l’ambulanza arrivarono, un’ora più tardi, trovarono Simona seduta sul letto, immobile. Lo sguardo era gelido, le braccia conserte. Si guardarono attorno chiedendosi cosa fosse accaduto, poi lei alzò un braccio e indicò la finestra. Uscirono tutti fuori e videro allora ciò che rimaneva del faretto: un ammasso di schegge di vetro e di frammenti di metallo a terra, e ciò che era ancora attaccato al muro era stato fuso dal calore dei proiettili conficcati nel muro. Dall’altra parte del giardino, i poliziotti che avevano fatto irruzione in casa di Franco uscirono sul balcone per chiedere aggiornamenti. «Quanti morti?» «Nessuno». «Feriti?» «Nessuno. L’avete preso?» «Dormiva. Abbiamo dovuto scuoterlo per svegliarlo».

Il tiro al piattello fa parte della raccolta di racconti di Slawka G. Scarso Mani buone per impastare (Blonk, 2014).

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alessandro

Francesco Vannutelli

A

lessandro ha quindici anni e un motorino nuovo, rosso. Lo vedo seduto sulla sella davanti al portone di casa, fermo sul cavalletto, senza casco, mentre mi avvicino con le buste della spesa per mia madre. Sono già le sei ma fa ancora caldo, troppo anche per essere metà giugno. Alessandro proietta un’ombra lunga sul marciapiede che lo fa sembrare ancora più grosso di quello che è. Ha una maglietta scura chiazzata di sudore, la faccia lucida brilla trasparente tra i brufoli e i baffetti neri. «Bello scooter», gli dico, passandogli davanti. Alessandro mi sorride con un misto di felicità e orgoglio. «Me lo ha fatto mio padre per la promozione», mi risponde, la mano destra che prova la manopola del gas, «Appena metto da parte un po’ di soldi lo porto da un amico mio all’officina. Ce l’ha come il mio, però nero. Il suo riesce a farlo arrivare a cento all’ora. Dice che sistema pure il mio». Mi raccomanda di non dirlo a suo padre, che si incazza se lo viene a sapere. Alessandro parla veloce e ogni tanto si mangia le parole. La voce è precipitata su note basse nel giro di pochi mesi, quando finalmente ha iniziato a crescere anche in altezza e il metabolismo accele-

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cadillac 8 ½ rato dello sviluppo lo ha aiutato a perdere un po’ di chili. Adesso è un ragazzino più alto e più largo degli altri che porta ancora le magliette troppo piccole di due anni fa. «Il tuo quanto fa?», gli chiedo e intanto libero una mano dalle buste per cercare le chiavi di casa nella tasca dei pantaloni. Non lo sa nemmeno, quanto fa, non lo ha ancora provato. Accende il quadro e mi indica il livello del serbatoio: «Vedi? C’è poca benzina. Papà lo ha messo in moto solo per farmi vedere che funzionava». Alessandro rischiava la bocciatura fino a pochi mesi fa. Mia madre mi aveva raccontato che i suoi genitori ad aprile erano andati a parlare con i professori agli incontri pomeridiani. Quando erano tornati a casa, quella sera, le urla si erano sentite per tutta la scala. Aveva la sufficienza solo in educazione fisica e storia dell’arte, in pratica, il resto era una serie di cinque e di quattro. Nessuno dei due immaginava che il figlio andasse così male. I suoi non hanno mai avuto tempo per stargli dietro. Lavorano tutto il giorno. Il padre in teoria è idraulico, ma fa tutto quello che gli chiedono. Imbianca, trasloca, fa il muratore. Esce ogni mattina alle sei e mezzo con il suo furgone. Torna prima delle otto di sera solo il sabato. La madre è bidella alla scuola media qui vicino, quella in cui andava Alessandro fino all’anno scorso. Pure lei il pomeriggio fa altri mille lavori. Cuce, pulisce le case, fa la badante. Hanno altre due figlie, Elisabetta e Carmela, come le nonne, che fanno ancora le elementari. La mattina Alessandro esce di casa dopo che i genitori sono andati a lavoro, le sorelle le passa a prendere la madre di una compagna di scuola. Quando si sveglia tardi entra alla seconda ora, quando non ha voglia di andare resta direttamente a casa. I suoi genitori lo hanno voluto iscrivere a tutti i costi al classico. Lui voleva fare l’alberghiero, ci andavano tutti i suoi compagni delle medie, quelli che gli stavano simpatici. Appoggio la spesa per terra e rimango con le chiavi in mano. Per strada ci siamo solo io e Alessandro e il rumore delle macchine che girano sul raccordo.

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Francesco Vannutelli, Alessandro

Il padre aveva comprato il motorino a febbraio senza dire niente a nessuno. «Un’occasione», aveva detto una domenica mattina a mia madre, l’emozione che gli faceva brillare gli occhi, «Ho fatto un affare con un amico. Lo regalo ad Alessandro questa estate per la promozione. Mi raccomando, non gli dica niente che non lo sa!» Mia madre non aveva detto niente ad Alessandro. Il motorino era rimasto nascosto per tutti quei mesi tra gli scatoloni nel garage del furgone. Ogni tanto il padre lo tirava fuori per metterlo in moto e farlo respirare. Un’altra domenica mattina, dopo il colloquio, il padre era andato a controllare lo scaldabagno di mia madre e aveva iniziato a lamentarsi di quel figlio ingrato e di quel motorino inutile che avrebbe fatto meglio a buttare, a quel punto. Lavoravano tanto per fargli avere tutto, a lui e alle sue sorelle. Li volevano vedere dottori, un giorno, o avvocati, o architetti, con un pezzo di carta in mano, insomma, e una carriera, e quello non riusciva neanche ad andare bene al ginnasio. «Vostro figlio non mostra nessun interesse per lo studio», aveva spiegato durante il colloquio la professoressa Marinucci, che tanti anni fa insegnava greco e latino anche a me, «non segue in classe, non studia a casa, si assenta nei giorni delle verifiche. Non gli importa niente della disciplina, dei nostri rimproveri, delle note sul registro». Questo io lo sapevo già. Quando stava ancora alle medie avevo iniziato a dargli ripetizioni il pomeriggio, quando in casa c’erano solo lui e le sue sorelle. Io abitavo ancora con mia madre e scendevo da lui alle tre e mezzo, tre giorni alla settimana. Lo trovavo sempre buttato sul divano, davanti al televisore, col telecomando sulla pancia troppo grande. Rimaneva lì un’altra mezz’ora prima che riuscissi a farlo alzare. Le sorelle giocavano in camera loro con le bambole delle Winx. Quando iniziavano a litigare per essere Bloom, la capo gruppo, la «Fata della Fiamma del Drago», come le sentivo gridare ogni volta, Alessandro alzava il volume senza fare niente.

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cadillac 8 ½ Durante le nostre lezioni non provava neanche a seguire quello che gli spiegavo. Mi faceva una domanda appresso all’altra. «Com’è baciare una ragazza? Hai mai scopato? Che fai quando stai in giro fino alle quattro? Vai in discoteca? Hai mai preso l’ecstasy? Di che sa il kebab?». Io non gli davo retta ma lui continuava. Mi chiedeva sempre dei soldi, come facevo con i soldi, quanto costava quello, o quell’altro. «Io quando ho i soldi mi faccio subito la moto. Ti piacciono le moto? A me piacciono le moto. Vado sempre all’officina qua dietro a guardare le moto. Io da grande ci voglio avere la Monster. Sei mai salito su una Monster? Quanto costa una Monster?». Andava avanti così ogni giorno. Alla fine i compiti glieli facevo io e gli spiegavo i passaggi. Lui mi seguiva per un po’ facendo di sì con la grossa testa nera, poi si alzava e andava in cucina a prendere una merendina. Non è che alle medie andasse bene, non aveva questi gran voti, ma la madre lavorava lì, e lo teneva d’occhio. Dopo i colloqui i genitori hanno aumentato i controlli, si sono inventati ogni sistema per non perderlo di vista. La madre ha smesso di fare le pulizie. Se lo portava appresso carico di libri ogni volta che doveva tornare a scuola o uscire. Alla fine è stato costretto a studiare, e ha recuperato. Solo tre insufficienze, col cinque, quasi un miracolo. «Mio padre non me lo voleva dare il motorino per i debiti, ma alla fine ha cambiato idea, tanto ormai lo aveva comprato». Alessandro si asciuga il sudore dalla fronte con la manica della maglietta. Si guarda intorno. Tiene le mani sul manubrio e si gira a guardarsi alle spalle, poi controlla il portone. Alla fine infila una mano nella tasca dei bermuda e tira fuori un pacchetto di sigarette. Me ne offre una sapendo che non fumo. Se la accende con uno zippo opaco inclinando la testa di lato. Pure questo mi dice di non dirlo ai suoi. Non ha iniziato da molto, ancora non è naturale, con la sigaretta in mano, aspira poco, senza mandare giù il fumo. Ogni tre tiri controlla quanta gliene manca mettendosela dritta davanti agli occhi. Sudo anche stando fermo, intanto. Sento il sudore scivolare lungo la schiena sotto la maglietta. Inizio a preoccuparmi che le cose che ho comprato prendano troppo caldo. Riprendo le buste da terra per toglierle dall’asfalto bollente.

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Francesco Vannutelli, Alessandro

Il motorino non può prenderlo quando fa buio, mi dice Alessandro, e il padre non gli paga la benzina. In pratica ce l’ha, ma lo può usare pochissimo. «Però va bene lo stesso», continua, e intanto apre e chiude il suo accendino con quello schiocco metallico e pieno che fanno gli zippo, «l’importante è sapere di averlo», anche solo per stare seduto sulla sella davanti casa. Non ci ha ancora neanche fatto un giro. Aspetta il momento giusto, non vuole sprecare benzina. Sabato ci sta la festa di compleanno di Corsetti al campetto dell’oratorio, mi spiega. Corsetti è più piccolo di lui, di due anni, ma quando giocano a calcio fa sempre lo stronzo. Alessandro a calcio non è bravo, lo avevo visto giocare tante volte in parrocchia e al parco. È lento e poco coordinato, dopo cinque minuti di partita ha già il fiatone. Finisce sempre in porta. Una volta ha parato un rigore a Corsetti, intuendo da che parte avrebbe tirato e buttandosi un attimo prima che colpisse il pallone, e da quel giorno si è convinto che lo può fare davvero, il portiere. Ha iniziato a studiarsi i video di Buffon su Youtube, a Natale si è fatto regalare la maglia di Decathlon, quella arancione, da portiere, con le imbottiture nere sui gomiti, e i guanti. In campo dice agli altri cosa fare, urla «Mia!» quando esce per bloccare il pallone. Ogni volta che Corsetti gli fa gol, e glielo fa spesso, indica il pallone in fondo alla rete strappata e gli dice «Tua». Alla festa vuole arrivare con lo scooter, farsi guardare da tutti. «Sarò l’unico, col motorino», mi dice schiccherando via la sigaretta ancora a metà. Apre e chiude l’accendino ancora un paio di volte, poi lo rimette nella tasca. Lontano si sente passare il treno per Termini. Se a gennaio ha ancora le insufficienze il motorino glielo tolgono, mi continua a raccontare. «Quindi ora inizi a studiare per i debiti? Se vuoi posso darti una mano», e mi metto a fare un po’ di conti mentali su quanti soldi potrei fare, riprendendo a dargli ripetizioni per un paio di mesi. Alessandro solleva piano le spalle, si asciuga di nuovo il sudore. «Fa lo stesso per me. L’anno prossimo faccio sedici anni, se mi bocciano lascio la scuola. Il mio amico mi prende a lavorare all’officina,

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cadillac 8 ½ me lo ha già detto. Lì un motorino lo trovo subito, e pure i soldi per fare benzina. E poi il classico non serve a un cazzo». «Mi sa che i tuoi non la prenderebbero proprio bene», insisto un po’. Solleva di nuovo le spalle, come se la cosa non fosse un suo problema. Se voglio riprendere con le lezioni è meglio se parlo direttamente con la madre. A quel punto mi ricordo dei gelati che ho comprato e gli dico che devo assolutamente salire. Alessandro mi fa un gesto con la mano e resta lì, da solo. Entrando nel portone il fresco dell’atrio ampio e buio mi abbraccia. Ho addirittura un brivido di freddo ma va via mentre salgo le scale. Quando apro la porta di casa mia madre mi urla un saluto da lontano. La trovo a letto, stesa sopra le lenzuola, con la luce del comodino accesa e un libro di Maigret in mano. Tutte le serrande dell’appartamento sono abbassate. Dice che è stanca e che ha mal di testa. «Il caldo, è colpa del caldo». Mi chiede come è andata fuori e minimizzo. Le racconto che mi sono fermato a chiacchierare con Alessandro, il figlio dell’idraulico. «Da quando ha il motorino quel ragazzino sta tutto il giorno seduto fuori casa, fermo», mi dice senza alzarsi, «Pare che non si muova mai. La mattina scende, toglie la catena e si siede lì. Si alza solo per andare a mangiare. Poi la sera rimette la catena e torna su». Le chiedo di venire con me in cucina a mettere via la spesa ma si indica le gambe con un gesto vago e dice che non ce la fa, dispiaciuta. Mia madre sono tre mesi che sta chiusa in casa. A gennaio si è rotta il femore cadendo per le scale. L’hanno operata, hanno ridotto la frattura, poi ha fatto la fisioterapia. La accompagnavo tre volte a settimana la mattina molto presto. La passavo a prendere in macchina a casa e la riportavo. Ero andato a vivere da solo da meno di un anno, avevo preso una stanza in affitto nell’appartamento troppo grande di un mio vecchio amico, a dieci minuti a piedi da casa di mia madre. Una volta che ha finito la terapia ha smesso anche di uscire. Col caldo ha iniziato a passare le giornate a letto. I primi tempi quando arrivavo si faceva trovare in poltrona, girava in casa con il bastone, oppure stava seduta sul balconcino a guardare fuori le macchine che

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Francesco Vannutelli, Alessandro

passavano e a prendere aria, poi ha lasciato perdere. Ogni volta trova una scusa per non alzarsi. Il medico dice che ha paura di farsi male di nuovo. Dice che le potrebbe essere venuta una leggera forma di depressione, un trauma psicologico legato al trauma fisico. Si è resa conto tutto insieme di essere invecchiata. Vado in cucina a mettere via la spesa, Sono cinque giorni che non la passo a trovare. Sono stato fuori, per lavoro, un giro di presentazioni che mi ha fatto spendere molto di più di quello che ho guadagnato. La chiamavo tutti i giorni, la mattina e la sera, per ricordarle di mangiare. Avevo dato dei soldi alla portiera per starle appresso, e nonostante tutto in cucina trovo il lavabo pieno di piatti sporchi e la pattumiera che sputa avanzi di cibo. Sul tavolo c’è ancora la tazza con il fondo di caffellatte e il pacco di biscotti, intatto, della colazione. «Ma non hai mangiato niente mentre ero fuori?» le urlo dalla cucina e intanto infilo i gelati nel freezer gonfio di ghiaccio. Ma sì, ma sì, ha mangiato, solo che ha mangiato poco, non aveva fame. Faceva troppo caldo. Butto la tazza nel mucchio di piatti sporchi. Tiro su la serranda accanto al frigorifero e smadonno contro la portiera che si è presa i soldi e non ha fatto niente. Forse farei prima a tornare a vivere qui. Mi risparmierei l’affitto della stanza e magari riesco pure a riprendere a fare le ripetizioni davvero. Almeno finché mamma non sta meglio. Esco sul balconcino per portare fuori il sacco della spazzatura. Il riflesso del sole su una finestra della casa di fronte mi acceca per un attimo. Mi faccio schermo con una mano e guardo in basso. Tre piani più giù Alessandro è ancora lì, sul suo nuovo motorino rosso, seduto sulla sella davanti al portone di casa, senza i soldi per fare benzina. Dall’alto la sua ombra sull’asfalto sembra ancora più grande. Ha le mani sul manubrio, ogni tanto allarga un ginocchio e fa finta di piegare in curva. Si guarda intorno, controlla il portone, poi tira fuori il pacchetto dai pantaloni corti e fuma un’altra sigaretta. Rimette via subito l’accendino. Continua a giocare con la manopola del gas, a schiacciare i freni, a godersi quella libertà ipotetica. Lontano si sente passare il treno.

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cadillac 8 ½

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denti a specchio Sabina Rizzardi

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’altro giorno ero lì lì per baciarla. Mi sono avvicinato un po’ più del solito, ma poi non ce l’ho fatta. Quando siamo seduti sul divano, Marisa non mi guarda mai e sta sempre molto ferma. Non s’avvicina se io allungo un braccio, la butta sullo psicologico parlando spesso, dal niente, di autoaccettazione e persone specchio. Secondo me, è una questione pratica, non le piacciono più i miei denti. Non sapendo come riempire tutto quel tempo distanti, io mi innervosisco. Quando succede mi si strizza la faccia come se avessi mangiato del limone e in casa tutto fa un altro rumore. Il frigorifero ronza come un tosaerba, la ventola del pc anche e la lavatrice sembra macini lame. Il cane, se apre la bocca per prendere una mosca, schiocca forte come la guarnizione del freezer e puzza un po’ di elettrodomestico non tanto pulito. Una volta quando parlavamo, Marisa mi guardava sempre la bocca, adesso quando per sbaglio siamo abbastanza vicini, lei dice che deve andare a lavarsi i denti e io non riesco a liberarmi dall’immagine di una cavità orale infiammata e del rumore di cacciavite elettrico del suo spazzolino. Passo molto tempo davanti allo specchio del bagno a controllarmi la bocca e, intanto, penso che, a causa dei miei denti, entrambi ce li laviamo molto. Abbiamo dei denti molto puliti, ma non ci baciamo.

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cadillac 8 ½ Da piccolo facevo un sogno ricorrente. La mia famiglia era costituita da denti, mamma dente, papà dente, sorella dente, io dente. C’era sempre una grande festa arcobaleno in quel sogno e noi quattro partecipavamo con un numero di can can. Da questo sogno mi sono sempre svegliato molto sudato e in lacrime. Piccolo dente, infatti, non è mai arrivato in tempo allo spettacolo famigliare, perché ogni volta si perdeva, attraversando da solo il bosco sulla via della festa. Anche casa è colorata. Il divano rosso si staglia deciso sul muro malva acceso, per non parlare di quando Pepita, il pointer bianco, riposa distesa sul tappeto biscotto. Di fronte ad istantanee del genere, mi appoggio allo stipite della porta e mi sento felice, poi però giro l’occhio, di poco verso destra, e vedo Marisa, seduta sulla poltrona di pelle marrone. Marisa è una donna alta, con i capelli neri molto composti, la pelle chiara di chi non prende mai il sole e la bocca rossa, come le foglie del mirtillo in autunno, però è rossa naturalmente tutto l’anno e liscia. Mi ricordo bene il fresco che lascia quando bacia. Prima che i miei denti smettessero di piacerle era facile baciarla. Lei fa una cosa con la lingua dentro la mia bocca. Cosa c’è Paolo? Riesco solo a dire, Niente Cara. L’altro giorno ero talmente nervoso dopo l’ennesimo Ho voglia di baciarti, Che stupido sei, che sono andato di corsa nello studiolo e mi sono scheggiato un molare, addentando un montante della libreria; ma questo Marisa non lo sa e sono molto in ansia se, per caso, mi baciasse ora che ho anche il dente rotto. Mi soffermo spesso a pensare quando è cominciata questa storia dei denti. La scorsa volta che siamo stati ad un controllo, il dentista si è complimentato per la nostra correttissima igiene orale e ci ha parlato di gengivite, consegnandoci un opuscolo su “Gengivite e Piorrea. Conoscerle per evitarle”. Come sempre in questi casi, le immagini sono piuttosto violente, mostrando stadi esageratamente avanzati delle patologie descritte. Dentone e spazzolone alla mano, ha preferito ribadirci, dalla radice alla punta, come si lavano i denti e, come sempre, Marisa e io ne abbiamo riso, in macchina, sulla strada di casa. La sera stessa ricordo che, in bagno, lei mi ha fissato a lungo la bocca, mentre ci stavamo preparando per andare a letto e che è

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Sabina Rizzardi, Denti a specchio

stata l’ultima volta che ha fatto quella cosa dentro la mia bocca. Bisognerebbe che affrontassimo l’argomento, gliene parlassi in qualche modo, ma come faccio ad iniziare il discorso? Di certe cose non si parla, si fanno e basta, Marisa hai un problema con i miei denti, non negarlo, o forse, delicato, come ci ha insegnato il consulente matrimoniale da cui andiamo, Marisa c’è qualcosa di cui desideri parlarmi? Dovrei, invece, prenderla e spingerla nell’angolo tra la porta della camera da letto e l’armadio, baciandola come una volta, anche se lei ricomincia con le stesse storie. Magari potrei sentire l’opinione di un amico o cominciare proprio da lì la prossima volta dal terapista. La prima cosa che Marisa ha detto di lui è stata Che bei denti bianchi, sembrano lucidati a specchio. Io non ho mai avuto denti bianchissimi, perché da piccolo mi hanno dato tanti antibiotici. Era la fine degli anni Settanta e mia madre diceva che i dottori li prescrivevano come acqua, tanto che a sette anni ho dovuto smettere di prenderli, nonostante la tonsillite cronica, per lo sfogo cutaneo comparso sulle cosce. Marisa ha cominciato da poco un percorso indipendente col terapista, torna tardi la sera e spesso va subito a dormire. Ci diciamo solo Buonanotte, così come piace a noi, con la B maiuscola e tutto attaccato, perché la notte sia veramente buona. Io non la disturbo e finisco di leggere il quotidiano, sul divano, col cane. Le nostre passeggiate si sono molto allungate, ultimamente andiamo in quel punto della città dove l’orizzonte è più ampio e ci fermiamo a guardare. Ci guardiamo, io e il cane, guardiamo molti orizzonti, col pensiero fisso sui miei denti e Marisa. A causa di questa storia, mi sono accorto di mettere sempre più spesso la mano davanti alla bocca, se sorrido. L’altro giorno ho incrociato il nostro terapista, abbiamo scambiato due parole e gli ho preannunciato che, durante il nostro prossimo incontro, avremmo affrontato una questione che mi sta molto a cuore. Cortese, come sempre, mi ha sorriso. È vero, ha dei denti talmente bianchi che sembrano lucidati a specchio.

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cadillac 8

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sofficini

Chiara Nuvoli

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econdo le indicazioni di cottura i finti sofficini che compro di solito devono stare in forno venti minuti a 200° C. In realtà dopo il quindicesimo minuto inizia a venir fuori il ripieno. Se aspetti davvero venti minuti ti ritrovi con l’impanatura vuota e una pozza di ripieno ai quattro formaggi da mangiare direttamente dalla teglia. Non so se è una questione del mio forno. Mia madre sostiene che non esistano tempi di cottura universali quando si parla di forni. La sua teoria è che ogni forno sia un caso a sé. Che abbia come una personalità propria, un carattere suo. Una volta mi dava la ricetta della torta di ricotta e riguardo la cottura mi ha detto guarda, io la lascio quaranta minuti a 180°, poi non lo so, il forno è tuo, lo conosci tu. Insomma forse il problema col ripieno dei finti sofficini è anche questo, che io il mio forno non lo conosco poi così bene. Dopo le prime due volte ho capito che bisogna tenerli sotto controllo. Una volta infilati nel forno, mi siedo nel divano di fronte e li guardo finché non si affaccia il ripieno. Quindici minuti a guardare i sofficini.

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cadillac 8 ½ All’inizio nell’attesa ho tentato di fare altre cose. Una volta ho preso una sedia, ci sono salita su e mi sono messa a sistemare la dispensa. Teoricamente era una buona idea, un’attività che potevo interrompere di tanto in tanto per dare uno sguardo al forno. Poi però al primo pacco di pasta che avevo preso in mano mi ero resa conto che era pieno di insettini neri. Insomma mi ero trovata a fronteggiare un’invasione di piccoli coleotteri che avevano preso possesso di ogni pacco di pasta chiuso in maniera approssimativa e quello che doveva essere un diversivo si era trasformato in un’attività della massima importanza che richiedeva tutta la mia attenzione. Alla fine insieme a interi pacchi di pasta ho dovuto buttare anche i sofficini carbonizzati. Dopo quella volta l’unica pausa che mi concedo dal controllare la cottura dei finti sofficini è guardare la pianta sopra il forno. Quella pianta ha una storia travagliata. Mi piace pensare che sia un ciclamino, ma potrebbe essere qualsiasi cosa. L’avevo comprata un giorno che in fila alla cassa davanti a me c’era una signora con un carrello strapieno e io dietro di lei avevo in mano solo un pacco di assorbenti. Mi ero sentita un po’ sminuita e allora avevo preso una di queste piantine infelici in offerta vicino ai cioccolati. Fare la fila con due cose in mano mi era sembrato più dignitoso. La signora davanti a me aveva speso centosessantasette euro e cinquantadue centesimi, la cassiera le aveva consegnato uno scontrino chilometrico e io mi sono ricordata che da piccola collezionavo scontrini. Il mio pezzo forte era uno scontrino di un supermercato russo che ora chissà dov’è finito. Tornata a casa avevo messo gli assorbenti nel mobiletto del bagno. Poi, visto che ero lì, avevo aperto la finestra e avevo poggiato la pianta sul davanzale. Non l’avevo innaffiata per cinque giorni e quando me ne ero ricordata era quasi morta. Allora l’avevo portata dentro e messa vicino ai fornelli, così era più facile ricordarsi di innaffiarla: l’acqua che restava nel bicchiere a fine pasto la versavo nel vasetto invece che nel lavandino e dopo un po’ la pianta si era ripresa. Poi un giorno cercando un fusillo che credevo fosse finito da qualche parte vicino a lei l’avevo avvicinata troppo ai fornelli e a un certo punto la pianta aveva preso fuoco.

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Chiara Nuvoli, Sofficini

Da quel giorno l’ho spostata sul forno. Le ho cambiato il vasetto mezzo sciolto con un vasetto di terracotta e mi ci sono affezionata; quella si è ripresa completamente e ora fa anche un sacco di fiori. Mi è sembrata una gran metafora della vita. Quando ho riportato lo sguardo sui sofficini il ripieno stava iniziando ad affacciarsi su un angolo. Alla fine, un quarto d’ora passa in fretta anche senza fare niente. Ho spento e ho poggiato la teglia sopra i fornelli. I sofficini erano di un giallo pallidissimo, bruttissimi da vedere ma per una volta perfetti. Sono rimasta a fissarli finché non mi è sembrato di sentirli parlare. Avevano la voce di Luciano Onder e parlavano di nevralgia. Forme bilaterali di nevralgia del trigemino sono molto rare, dicevano. Ho iniziato a mangiarli mentre interrogavano un esperto sulla differenza tra nevralgia e cefalea a grappolo.

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le rose di leila

Anna Dato Giurickovic

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e rose mi ricordano la furia di Leila. Avevo quattro anni e giocavo in giardino, Donna Rita sgranava le fave all’ombra del nespolo, Leila mi spinse con violenza fra le spine. Mia madre mi sentì piangere, uscì dalla cucina e corse verso il roseto. “Disgraziata, disgraziata” strillava con quanto fiato aveva in corpo. Leila le andò incontro e, indicandomi, sussurrò: “è morta”. Poi guardò il cielo. Non era la prima volta che mia sorella tentava di liberarsi di me. Era bella, aveva lunghissimi capelli con i quali si copriva il viso per non essere guardata. Gli occhi neri neri erano gli occhi di nostra madre. La domenica mamma mi portava a messa. Indossavo le scarpe buone di vernice, e lo scamiciato blu. Lei metteva i guanti di raso che teneva nel cassettone con la biancheria e i sacchetti di lavanda. Mi fermavo sulla porta e le chiedevo all’orecchio: “ma Leila oggi non viene?” Mamma sorrideva, si piegava sulle ginocchia e mi baciava la fronte. “Agatina mia bella, Leila non viene mai. Ma prova a chiederglielo tu se vuoi.” Così camminavo per il corridoio cercando di calpestare solo le piastrelle bianche e mai quelle nere. Arrivavo davanti alla sua camera con le gambe tremule.“Leila, noi ce ne andiamo a messa. Tu vieni?”, dicevo affondando il naso nel buio. “No. Chiudi la porta”, rispondeva lei.

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cadillac 8 ½ Non sorrideva molto mia sorella, ma quando sorrideva sembrava tutto sorridesse intorno a lei. Ancora oggi la ricordo con gli occhi rivolti al di là del vetro, mentre fuori pioveva. Chissà se guardava il nostro nespolo o l’albero dei limoni, o il modo in cui la pioggia piega le foglioline di basilico o non guardava niente. Quei giorni era felice. Ninuzzo Calcaterra veniva a trovarci quasi ogni pomeriggio. Suo nonno si intratteneva con mio padre in salotto. Dovevano sbrigare alcuni affari, ma a starli a sentire sembrava che per loro esistessero solo il rosolio e il limuneddu. A mio padre piaceva omaggiare il vecchio Calcaterra portandogli alcune foglie d’alloro che aveva raccolto. “Mi faccia il piacere di annusare queste, Don Antonio. Nel mio giardino l’alloro cresce bene. Lo sente, dico, che profumo ha?” E quello annuiva solenne, sfregandosi le foglie sotto il naso, chiudendo gli occhi, inspirando forte. Ninuzzo camminava avanti e indietro per la biblioteca, si arrampicava sugli scaffali e prendeva la Recherche di Proust, leggeva un rigo di una certa pagina che conosceva bene. Socchiudeva i suoi begli occhi grigi e recitava un pezzo del Faust. Leila sedeva a un estremo del divano. Aveva sedici anni. Dalla camicia di mussola si scorgeva la forma appuntita dei seni, ma le sue guance erano tonde e la facevano apparire ancora bambina. Allungava solo il collo, incuriosita dalle parole del giovane Calcaterra. Lo guardava con sincero interesse, ma, se lui le veniva vicino, abbassava le ciglia e le si imporporava il viso. Ero felice anch’io, me ne stavo accovacciata sui piedi di Leila e disegnavo. Per un attimo temevo che mi desse un calcio nello stomaco, ma io mi stringevo ancora di più intorno alle sue caviglie. Donna Rita arrivava con il pane conzato e, mentre mi bagnavo le dita nell’olio e nell’origano, quei due ancora lì a guardarsi e a raccontarsi, come vi fosse qualcosa di meglio dei pomodori del nostro orto. Ninuzzo prendeva il violino di casa e si sedeva sul bracciolo del divano, sfiorando la mano di Leila, chissà se fosse un caso o un irresistibile bisogno di toccarla. Abbandonava la testa sulla mentoniera e le suonava canzoni francesi. Gli occhi erano chiusi, li strizzava ad ogni acuto come per raccogliersi in una sua intima sofferenza. Nello

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scandire le ultime note ecco che d’un tratto li riapriva. Nous vivions, tous les deux ensemble / Toi qui m’aimais, moi qui t’aimais. Che attore era il nostro Calcaterra! Uno di quei pomeriggi, mentre Ninuzzo le suonava a fianco, Leila si mise a cantare. E che splendido sorriso! Seppure i loro corpi fossero distanti, sembrava si stessero abbracciando. Tornò Donna Rita: “Ecco il suo bel blazer, signorino Calcaterra. Bello davvero, con questi bottoni! Ma non avrà un po’ freddo che è novembre? Tenga, indossi prima il gilet. Ora vada, suo nonno l’aspetta all’ingresso.” Anche io mi alzai per accompagnare il signorino Calcaterra e salutare Don Antonio che era ospite tanto gradito. Leila no. Rimase in biblioteca a guardare il violino di abete rosso, come si aspettasse che, da un momento all’altro, potesse uscirne un suono. Pensava che sarebbe dovuta passare dal liutaio. Per Ninuzzo, se fosse tornato. Le fasce in legno d’acero curvato sembravano consumate. Si, sarebbe andata dal liutaio il mattino appresso. “E allora arrivederci Don Antonio. Tornerà in settimana? Bene, l’aspetto mercoledì pomeriggio.” E fu tutto un coro di A presto e Arrivederci, frammisto di risa. “Dov’ è Leila? Donna Rita vada a chiamare Leila che non sta bene che non saluti gli ospiti” disse mia madre lisciandosi con le mani le pieghe del vestito. Pensai alla voce morbida di mia sorella, desiderai ascoltarla di nuovo. I Calcaterra se ne andarono, la casa tornò ad essere silenziosa. Solo un lalala, ma sembrava lo sentissi solo io, proveniva dalla biblioteca. Sbirciai dalla porta socchiusa. Leila aveva la fronte sul vetro e fuori pioveva. I suoi occhi erano fessure nere, tanto erano gonfi di pianto, e le guance rigate. Persino il colletto della camicia era zuppo di lacrime, eppure sorrideva. Le andai vicino, cercando di non far rumore, poi l’abbracciai. Era calda, rovente, il suo corpo tremava di febbre. “Ma piangi o ridi?” chiesi a fior di labbra sperando che non mi mandasse via. Non mi guardò, lasciava solo che l’abbracciassi. Poi si portò un dito alla bocca. “Zitta, la senti? E’ la malinconia”.

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cadillac 8 ½ Passarono i giorni, Leila rimaneva al buio. Passeggiavo avanti e indietro lungo il corridoio, accostavo un orecchio alla porta della sua camera per indovinare dove si trovava. Talvolta sbirciavo dal buco della serratura. Leila era solo un grumo di coperte, ne usciva un piede bianco, avvizzito. Cercavo, stringendo gli occhi, almeno un pezzo di lei. E se scorgevo un ciuffo dei suoi capelli subito mi ritraevo e correvo lontano, in cucina, con la sensazione che mi avesse confidato un segreto. Una domenica rimasi in casa. I miei erano andati a messa, come di consueto. Donna Rita era uscita a comprare del sedano per la zuppa della sera. Io saltavo con la corda ripetendo una filastrocca. Se inciampavo, o se invece confondevo le parole, cominciavo da capo come mi avevano insegnato a scuola. “Cu lu tuppu un t’appi, senza tuppu t’appi, cu lu tuppu o senza tuppu, basta chi t’appi e comu t’appi t’appi.” D’un tratto sentii urlare: “Sto sanguinando! Sto sanguinando!” Inciampai sulla corda e andai a nascondermi nel ripostiglio. “Zitta, silenzio, le orecchie mi sanguinano” si lamentava Leila. Corse verso di me con gli occhi semi chiusi, quasi la luce potesse accecarla. Era nuda, con le mani si teneva i seni che sembravano strapparsi dal petto. Il lenzuolo le rimaneva incollato al corpo, come a una madonna. “Vatinni, vatinni” strillava, e le vene le si gonfiavano sul collo e sulle tempie. Mi graffiò la nuca, mi afferrò per i capelli trascinandomi sui tappeti, bruciavo tutta. “T’avissiru a cariri l’ugna ri pieri” urlò, scaraventandomi fuori casa. La guardai, era così magra, una matassa arruffata intorno al viso, le labbra secche. Chiuse la porta sbattendola e io rimasi lì dove ero caduta, fra la salvia e le viole. Dalla grata del cancello riuscivo a vedere il filo nero del mare. Desiderai tuffarmi e nuotare sino al faraglione più lontano senza respirare, invece rimasi ferma e aspettai che venissero a raccogliermi. “Cu lu tuppu un t’appi, senza tuppu t’appi…”

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Il giorno dopo Leila venne nella mia camera e mi fece sedere sulle sue ginocchia. Premeva il suo dito nella mia pancia e mi pizzicava le cosce facendomi il solletico. Ridevo. Carezzandomi le guance, mi disse: “che belline, sono come pesche!” Pensai che eravamo le sorelle del dolore e che, infondo, anche lei mi amava. Una mattina Don Antonio chiamò e disse che sarebbe venuto a cena. Mia madre mi mandò in giardino a raccogliere le foglie del limone. Avrebbe preparato le cozze nelle pàmpine e il tonno alla matalotta. “Devi prendere quelle più grandi e verdi, Agatina, controlla che siano lucide e che non vi siano buchi.” Donna Rita dissalava i capperi in acqua calda e tagliuzzava i pomodori con il prezzemolo. Leila aspettava che la vasca da bagno si riempisse, intanto si ungeva di olio i capelli e la pelle. La vidi in biblioteca che spolverava il violino con un fazzoletto di cotone. Poi soffiò energicamente dentro le effe, controllò che la mentoniera fosse bene avvitata e il ponticello in posizione verticale. Papà, seduto sul divano, rigirava tra le mani la sua nuova pipa Calabash. Con lo scovolino puliva l’interno del cannello. Leila saltellò verso di lui e fece una giravolta, “dimmi che sono bella papà.” Lo era. Indossava un vestito abbottonato sul davanti, a quadri bianchi e arancio. Una cintura le stringeva la vita sottile e aveva un foulard annodato sotto il collo. Non riuscivo a smettere di guardarla. Papà applaudì, “ma che graziosa signorina, e che bel musetto! Si faccia vedere, la prego, ci delizi, si avvicini.” Leila arrossì e scappò via, quasi temesse di annegare nella sua emozione. Papà fumava con tirate lente, si sforzava di sembrar sereno e invece era così triste. Scorsi, dall’angolo, la figura di mia sorella che danzava e s’abbracciava con gli occhi chiusi. “Vuol danzar con me Madamoiselle?” diceva a se stessa abbandonando il collo all’indietro, “Oh sì, balliamo Ninuzzo mio” si rispondeva piegandosi ora in avanti e facendo un inchino.

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cadillac 8 ½ Ninuzzo Calcaterra quella sera non venne a cena con Don Antonio. Era partito per Parigi. Brindammo insieme, era stato ammesso in una Università importante. “I miei complimenti, le mie congratulazioni!” “Ah, che soddisfazioni m’ha dato il ragazzo. E quanto era contento di partire”, diceva il nonno con i baffi bagnati di whisky. Leila stringeva il bicchiere con le dita che tremavano. “Contento!” ripeteva Don Antonio. “Contento” sussurrava Leila, come se quella parola le stesse lacerando la bocca. Pregai perché trattenesse la sua furia, sperai non dovessero dire di lei che era pazza. Arrivò la primavera. La bouganville cominciava a fiorire arrampicandosi sino alla finestra del soggiorno. Le mura della casa erano più che mai gioiose, foderate d’edera. Me ne stavo volentieri in giardino con un cartoccio pieno di lupini. Dondolando sull’altalena mordevo la buccia e ingoiavo il seme. Leila trascorreva i suoi giorni infelici chiusa in camera, non la incontravo. Alcune notti usciva in giardino, la vestaglia bianca, i piedi scalzi sull’erba bagnata. Mi affacciavo alla finestra e la guardavo, restavo al buio perché non mi scoprisse. La luna, alta nel cielo, illuminava il biancore della sua pelle, era di porcellana. Raccoglieva una campanula, danzava, ora piangeva. Poi, ridendo, si graffiava il volto con le unghie. Il mattino dopo correvo fuori per controllare se lei avesse lasciato un segno. Trovavo la coda di una lucertola che si muoveva ancora sotto il cespuglio di rose, e, al di là del limone, giaceva la corolla d’un fiore sradicato dal vaso. Papà sembrava sempre più stanco, la schiena piegata in avanti, le mani gli tremavano intorno a ogni oggetto che cercava di afferrare. Era invecchiato. Una sera tornai più tardi del previsto, temevo che mi avrebbero rimproverato. Avevo otto anni e mi permettevano di scorrazzare fra gli scogli davanti al cancello. Lasciavo le meduse a essiccare sotto il primo sole. “Quando cala il sole e gli scogli diventano neri torna, Agatina mia bella” diceva mamma baciandomi un orecchio.

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Stavo guardando le alghe che la corrente trascinava a riva e riconobbi del mauro. Era un’alga bruna e callosa, la si faceva a insalata con i pomodori e le patelle. Pensai di raccoglierne quanta più potevo, Leila ne andava ghiotta, avrebbe mangiato, avrebbe sorriso. Arrivai a casa in preda all’emozione e con il secchiello pieno. Mamma era distesa sul tappeto, il vestito strappato, con le mani si copriva il pube. Papà tremava, mai lo avevo visto perdere così il controllo, le carezzava la fronte umida. “Che abbiamo fatto, Dio mio, che male abbiamo fatto noi con una figlia così?”, sussurrava rivolto al soffitto e con le mani giunte. Leila era nuda di fronte a me con la saliva intorno alla bocca per i morsi che aveva dato. Aveva picchiato nostra madre. Piegò lo sguardo su mio padre e, indicandomi, gli disse: “E’ stata lei, Agata l’ha uccisa.” Voleva spaventarci, intonando una cantilena se ne tornò in camera. Abbracciai mia madre, lei mi strinse forte al petto. Le chiesi di perdonarla, se mi voleva bene. Da quel giorno Leila non parlò più. Di nuovo si era chiusa in se stessa. “E’ peggiorata” sentii dire a mia madre. Rimaneva dentro la sua camera e non usciva neanche di notte. Per molte ore mi fermavo lì davanti con il desiderio di parlarle o soltanto di accarezzarle la mano. Si disperava, soffocava le urla coprendosi la bocca con il cuscino. Chiudevo gli occhi e immaginavo il contorno ovale del suo viso, il collo così aggraziato e quel profumo di fiori che aveva. Avrei voluto prenderla per mano e portarla con me in giardino per farle vedere il cancello foderato d’azzurro e la piombaggine che si appiccica ai capelli. Avremmo potuto giocare come fanno due sorelle, riempire i cestini di rose e raccogliere i gelsi per farci la granita. Sapeva che ero lì. Aspettavo che mi chiedesse di infilarmi con lei nel letto. Se me lo avesse chiesto l’avrei stretta con le braccia e con le gambe, ma non avevo il coraggio di entrare. Così nascondevo il viso tra le ginocchia e anche io piangevo acuendo i singhiozzi perché non si sentisse sola.

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cadillac 8 ½ Una sera, così umida che si respirava a stento, non sentii più i suoi lamenti e decisi di chiamarla per la cena. Avevano aperto un vino e comprato, in pescheria, fette di pescespada. “Ma quanto è che non mangia Leila?” disse, preoccupata, mia madre. Donna Rita imprecò dalla cucina: “La colpa è del Calcaterra. Ci avissiru a cascari i manu a iddu e a chidda malafimmina di so matri!” “Donna Rita!” la ammonì mio padre, “che modi sono mai questi?” Entrai in camera di Leila e quasi mi sentivo svenire per la felicità. Mi sembrava che fossero trascorsi mesi senza averla vista. La porta cigolò. A terra era pieno di libri e vestiti che aveva lanciato contro il muro. Prima scorsi il suo volto riflesso nello specchio. Nel buio mi sembrò calma come non la vedevo da tempo e pensai che l’avrei abbracciata così forte da toglierle il fiato. Mi voltai a cercarla. L’anta dell’armadio era aperta e il corpo di mia sorella ciondolava con i piedi sospesi. La cinta dell’accappatoio avvolta intorno al collo e legata, all’altro capo, a uno dei bastoni appendiabiti. La testa sporgeva in avanti e un’ombra scura intorno agli occhi le dava un’aria spaventata. La sua pelle era così tirata che le lasciava i denti scoperti. La baciai sulla bocca fredda e grigia. Non faceva paura, ora, e sentii di averla amata davvero. Respirai a fondo, d’un tratto mi sembrò di assistere a una scena già vista, un ricordo. Tornai in sala da pranzo, mamma stava tagliando la cassata, papà riempiva la pipa di tabacco. “Allora, Agatina, Leila non viene?” Affondai la forchetta nella ricotta e nella pasta reale. Dal sapore la riconobbi subito: era la cassata della pasticceria di Viagrande, con i pinoli e l’acqua di zagara. “No, Leila non ha fame. Conserviamole una fetta di dolce, domani lo mangerà.”

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la banda

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l fatto è che, all’epoca, avevo pochi amici. Anzi no, non è vero, non ne avevo proprio: soltanto per questo andai a chiedere informazioni su come entrare a far parte della banda del paese, anche se fino ad allora l’avevo sempre considerata uno strazio. Almeno un paio di volte l’anno il paese veniva attraversato dalla sfilata di quei ragazzi in uniforme grigio fumo, con lo stemma cucito sul berretto. Disinvolti, affiatati, si scambiavano battute e risate a ogni occasione, anche durante l’esecuzione dei pezzi. Pensai che potesse essere la situazione ideale per socializzare. Così, senza ragionarci troppo, feci irruzione nella sede dell’associazione. L’ufficio era pieno zeppo di foto della banda, stendardi e targhe celebrative. C’erano poi alcune immagini in bianco e nero, di quelle d’epoca che da queste parti ti sbattono in faccia di continuo tra calendari, quadretti e cartoline. Il vecchio baffone addetto alla segreteria mi accolse stancamente, alzando gli occhi da un cruciverba e sbuffando fumo. Lo informai del mio interesse a far parte della banda. Chiesi di poter suonare il flauto. «Sai suonarlo?» mi domandò. «No.»

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cadillac 8 ½ Il successivo silenzio del vecchio mi fece capire che sulla necessità di certi requisiti non avevo ragionato lucidamente. A casa avevo un disco dei Jethro Tull di mio padre. Per questo avevo chiesto del flauto. «Posso iscriverti al corso per allievo aspirante.» disse infine «Per imparare. Magari l’anno prossimo potresti entrare a far parte della banda.» «Ma io vorrei far parte della banda da subito.» «Puoi provare con i piatti. Con qualche lezione sei pronto.» «I piatti.» «Sì.» «Non c’è altro?» «No.» «Potrei provare la grancassa.» «Abbiamo già chi la suona.» Mi arresi. Compilai i moduli d’iscrizione, lessi lo statuto, versai un anticipo della quota associativa e tornai a casa tutto sommato soddisfatto. Il giorno dopo tornai lì per le prove. Si svolgevano nel retro cortile dell’associazione, un porticato circondato da muri in pietra e archi cadenti. Gli altri componenti della banda avevano più o meno la mia età, qualcuno frequentava la mia stessa scuola, forse sarei riuscito a legare con qualcuno. Il maestro di banda era un uomo alto, con degli occhiali da signora e i baffi arricciati. Per circa un quarto d’ora mi toccò starmene in piedi davanti a lui, al centro del porticato, a osservarlo mentre intonava a voce nuda una marcia sinfonica, muovendo le mani come fanno i direttori d’orchestra e alternando il classico solfeggio a degli oscuri gorgoglii. Mi si era piazzato a poca distanza e, con eloquenti alzate di sopracciglia, mi segnalava i momenti in cui sarei dovuto intervenire con i piatti. Fu imbarazzante. Gli altri si scambiavano un sacco di risatine. Dopo questa iniziale tortura ascoltai il resto della banda suonare per mezz’ora la stessa marcia, relegato a un angolo. A fine lezione arrivò finalmente il momento della prova generale. Mi sistemai in seconda fila, versante destro, accanto al trombone. Durante l’esecuzio-

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ne mi sembrava di sbagliare un numero tollerabile di volte. Eppure le risatine continuavano. Anzi aumentavano. Ogni mio tentennamento veniva accolto da veementi scrosci. L’accoglienza non era stata quella che speravo. Anche durante gli intervalli non ero riuscito a familiarizzare con nessuno. L’unico nella mia stessa condizione di brutale emarginazione mi sembrò il ragazzo con gli occhiali addetto alla grancassa. Al termine delle prove mi si avvicinò. «Ciao, sono Arturo.» «Io sono Nichi.» «Sei nuovo, eh?» «Già, ti andrebbe di fare a cambio di strumento?» «Col cazzo. Me li sono sciroppati per sei mesi quei cosi» disse. «Ho capito.» «Sono passato alla grancassa perché si è finalmente liberato il posto.» Usciti dalla sede mi allontanai da solo, con la fastidiosa sensazione di aver fatto una sciocchezza a pagare in anticipo. Le prove andarono avanti per tutto il mese di maggio, due volte a settimana. Si sarebbero intensificate il mese successivo visto che per fine giugno era prevista l’esibizione più importante, quella in occasione della festa del patrono. Si trattava di una processione solenne, a dimostrazione dell’antica devozione alla figura del santo, con rievocazioni sceniche, musiche e fuochi d’artificio finali. In coincidenza col mio ingresso nella banda musicale, mia madre aveva preso a frequentare un uomo. I miei erano separati da tre anni ormai e mio padre si era trasferito a Roma a lavorare nella stamperia di mio nonno, dalla quale aveva sempre creduto di potersi tenere alla larga. Il nuovo compagno di mia madre era un uomo sulla cinquantina, elegante, profumato, che si sforzava di instaurare con me una qualche relazione. Si mostrò interessato alla mia nuova esperienza musicale. «Mio figlio suona la chitarra» disse «dovreste conoscervi.»

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cadillac 8 ½ I rapporti con i ragazzi della banda peggiorarono a causa di una partita di calcetto. Rimasi sorpreso quando mi chiesero di giocare. Accettai perché tanto non avevo niente da fare e poi a calcio non ero malaccio, sentivo di poter guadagnare finalmente qualche punto. Il giorno dopo raggiungemmo il campo con l’autobus. Durante il viaggio furono definite le squadre, le rotazioni dei cambi e i ruoli da tenere in campo. Nello spogliatoio però mi resi conto di essermi scordato le scarpe da ginnastica. Indosso avevo un paio di mocassini marrone scuro, a punta. Il campo era prenotato per le cinque e non avrei fatto in tempo a tornare a casa per prendere le scarpe da ginnastica. Così giocai con i mocassini. Il pallone prendeva direzioni imprevedibili. A metà del secondo tempo sfogai tutta la frustrazione accumulata su Arturo. Era nella squadra avversaria e m’infastidiva il suo modo di giocare. Nei contrasti metteva un’irruenza eccessiva, soprattutto nei miei confronti. Si capiva che avrebbe fatto qualsiasi cosa per accattivarsi le simpatie dei compagni, compreso sfilarmi la palla proprio quando mi accingevo finalmente a un fruttuoso passaggio in profondità. Perciò lo falciai da dietro, non appena s’impossessò della palla. Ne seguì un lungo volo laterale da cui precipitò in maniera scomposta, atterrando principalmente di faccia. La partita fu interrotta per cinque minuti, durante i quali Arturo fu accompagnato alla fontanella, a sciacquarsi il viso imbrattato di terriccio e lacrime. «T’AMMAZZO!» era esploso, tirandosi su dalla fontanella «TI FACCIO USCIRE LA MERDA!». A fine partita mi rifiutai di tornare in paese con gli altri. Mentii dicendo che mi sarebbero venuti a prendere e aspettai che l’autobus si allontanasse per avviarmi a piedi. Mi aspettavano circa cinque chilometri di cammino e stava cominciando a fare tardi. Decisi di tagliare per alcuni campi di ulivi e abbandonare la strada ma, proprio a metà del tragitto, il buio piombò

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sulla campagna. Calò in poco tempo una tale oscurità che non mi riusciva di vedere dove mettessi i piedi. Presi a camminare spedito. A ogni minimo rumore me la facevo sotto dalla paura. In lontananza si scorgevano le luci della strada ma attorno non si vedeva un accidente. C’erano stati avvistamenti di lupi durante tutto l’inverno. Forse stavano già fiutando nell’aria la mia presenza, pensai. Cominciai a correre. La strada era così lontana adesso, da entrambi i lati. Gli ulivi lasciavano spazio a una vegetazione più folta. Tenevo le braccia protese in avanti, sperando di proteggermi dall’impatto con i tronchi. Temevo che i lupi mi avrebbero accerchiato e sbranato. Ma non erano solo i predatori a preoccuparmi. Chiunque poteva sbucare all’improvviso e ferirmi a morte. Anche Arturo. Non avevo dato credito alle minacce di prima ma ora me lo immaginavo armato, appostato dietro qualche albero o disteso a terra ricoperto di foglie, pronto a recidermi i tendini. Per fortuna, mano a mano che mi avvicinavo alla strada, il buio cominciò a diradarsi. Imboccai una specie di sentiero e ripresi fiducia. Smisi di correre e raggiunsi finalmente la strada. Mi calmai, e anche il cuore riprese un’andatura più docile. L’asfalto aveva un aspetto solido e confortevole, le linee erano state riverniciate da poco e brillavano sotto la luce di una luna bassa e imperiosa. A questo punto andavano razionalmente ristabilite alcune priorità. Ero vivo, illeso, niente lupi, mia madre mi aspettava a casa, probabilmente avrei trovato il polpettone già in tavola. Vaffanculo a tutto il resto. Mio padre mi mancava, soprattutto il sabato. A casa non era rimasto quasi più nulla di suo. Mia madre aveva insistito affinché portasse via tutta la sua roba. Io ero riuscito a trafugare qualcosa. Avevo un suo coltellino da intaglio, un berretto, un paio di dischi e un cilum. Di cilum e pipette varie ne possedeva una collezione completa. Sul finire degli anni settanta i miei avevano deciso di trasferirsi in un paese di campagna come questo per dedicarsi all’artigianato e alla coltivazione in proprio, anche di erba. Nonostante qualche tentativo di integrazione con gli altri abitanti, erano rimasti praticamente un corpo estraneo in paese.

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cadillac 8 ½ Poi il matrimonio era naufragato. Mio padre era andato via e da quel momento mia madre aveva cambiato abbigliamento, pettinatura, aveva trovato lavoro in banca e si era fatta una piccola cerchia di amici, tra cui il suo nuovo compagno. Da casa erano scomparse le sculture in legno di mio padre, sostituite da oggetti di design e da una profusione di cuscinoni d’arredo. In tutto questo, secondo il mio personale parere, i miei avevano clamorosamente tralasciato di procurarmi degli amici durante l’infanzia. Come se avere dei genitori che indossano magliette batik e sandali non fosse già penalizzante per le mie interazioni sociali. Il sabato era il giorno in cui mio padre mi portava al fiume a pescare. Ricordo l’ultima volta, prima della separazione. Era quell’orario pomeridiano in cui la luce che filtrava tra gli alberi intensificava il verde dell’acqua trasformandolo in una specie di fluido alieno. Mio padre ci aveva immerso i piedi e poi era tornato al suo sgabello da pesca. «Dovete proprio farla questa cosa?» gli avevo chiesto. «Si, domani dovrai aiutarmi con i bagagli» «È uno schifo» «Lo so. Vedi di non prendertela con tua madre» mi ammonì. «È colpa mia.» A metà strada tra me e lui, dentro un recipiente di plastica, si stava contorcendo l’unico pesce preso quel giorno. Mi alzai e puntai dritto lì, afferrai il pesce per la coda e lo gettai in acqua, poi mi allontanai facendo attenzione a non scivolare. Andai a pisciare tra gli arbusti, aspettando una qualche reazione di mio padre a quel raid di liberazione. Ma lui non disse nulla, svolse un po’ di filo dal rocchetto e continuò a fissare il punto in cui la lenza entrava in acqua. Nei giorni che seguirono la partita di calcetto, alle prove arrivarono le prime plateali provocazioni. L’armadietto dove riponevo gli oggetti personali era stato ammaccato e sui piatti trovai appiccicato

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un disegnino raffigurante un tizio in pantaloncini, con delle scarpe oblunghe e la scritta “SCHIAPPA” sulla maglietta. Arturo non mi degnava di uno sguardo. Nel frattempo era finita la scuola e, una settimana prima del saggio, venne a pranzo il compagno di mia madre con suo figlio, Loris. Aveva diciannove anni, era un ragazzo magro dai lineamenti spigolosi. Si sedette a tavola di fronte a me. Indossava una maglietta dei Buzzcocks, che all’epoca non sapevo chi fossero. Anche il resto dell’abbigliamento mi appariva misterioso. Di sicuro era qualcosa che non avevo mai visto in paese. Pantaloni stretti, anfibi, cintura piene di borchie, bracciali di cuoio. Frequentava l’università a Roma. Durante il pranzo parlò pochissimo, solo se sollecitato dal padre. Non sembrava molto interessato a me. Lui invece mi interessava tantissimo. Dopo pranzo venne in camera mia. «Così suoni nella banda del paese» disse. «Sì.» «Ti piace?» «No.» «Perché ci suoni, allora?». «Non lo so. Dovrei tirarmene fuori ma ormai mi hanno consegnato anche la divisa.» «Ti diverti almeno?» «Scherzi? Gli altri ragazzi sono degli idioti.» «Non capisco.» «Che vuoi che ti dica?» confessai, «speravo di farmi degli amici.» Sembrò un po’ commosso da questa mia ammissione. Gli raccontai allora della partita di calcetto, per compensare. Questo lo divertì molto, non faceva che chiedermi dettagli sulla vicenda. Prima di andare via, mi lasciò una cassetta che aveva nella sua borsa a tracolla. Era una compilation. Gruppi inglesi per lo più, mi disse. La ascoltai ininterrottamente per due giorni. Dopodiché lo chiamai al telefono. «Registramene altre» gli chiesi. «Ok.»

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cadillac 8 ½ Mi suggerì anche delle riviste da comprare. Risposi che qui in paese non le avrei trovate da nessuna parte. «Non so che farci, magari quando vieni a Roma le compri.» «Va bene.» Chiamai mio padre e gli chiesi di comprarmi le riviste e spedirmele. Il giorno dopo richiamai Loris per aggiornarlo e dirgli che stavo progettando di trasferirmi da mio padre a settembre e proseguire lì la scuola. Disse che era una buona idea e che avrei dovuto cominciare a suonare il basso o la batteria. «La batteria» ripensò ad alta voce «Ci sono un sacco di gruppi in cerca di un batterista.» In realtà la faccenda del trasferimento era in alto mare. Ero tornato alla carica un paio di settimane prima ma mia madre mostrava sintomi di strazio solo all’idea. Però sapevo di poterla spuntare, prima o poi. Continuai ad ascoltare la cassetta e feci una sortita in una paese vicino, dove c’era un negozio di dischi che poteva fare al caso mio. C’ero stato con mio padre, qualche anno prima. Il negozio era ampio, con gli espositori in legno nero e le pareti lucide. Un ventilatore a soffitto smuoveva debolmente l’aria. Al suo interno, oltre al proprietario, c’era solo un cliente, un quarantenne mezzo pelato con i pochi capelli arruffati sulle tempie. Stava scartabellando alla lettera R. Io mi posizionai poco distante, lettera D, e iniziai la mia ricerca. Trovai quasi subito l’lp di uno dei gruppi che erano nella compilation. La copertina era ammaliante. I ghigni, le sigarette pendenti, i capelli colorati, i titoli delle canzoni. Non ne afferravo il senso completamente, figuriamoci i simbolismi o le provocazioni concettuali. Ma cazzo se volevo entrare in contatto con quel mondo. Sembrava incarnare tutto ciò che l’adolescenza mi stava negando. Presi il disco per paura che il mio unico contendente potesse soffiarmelo. Lui fece lo stesso pescandone uno cartonato, con due donne seminude in copertina, e infilandoselo sotto l’ascella. Poi riprendemmo entrambi a setacciare gli scaffali, in un crescendo di sguardi e reciproci sospetti. Ed eccone spuntare un altro! Proprio sotto i miei occhi! Lo presi e lo rigirai tra le mani. Qui i capelli prende-

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Daniele De Serto, La banda

vano traiettorie anomale e le giacche si riempivano di spille e toppe. Nessuna traccia di flauti, barbe lunghe e poncho. Rinunciai a cercare oltre e filai verso la cassa spedito, proteggendo i dischi da qualsiasi tentativo di agguato. A casa, mia madre mi prese da parte con la faccia grave. «Se vuoi andare da tua padre, vai.» «Lo sai che sto bene con te, ma…» «Lo so» mi interruppe «Tuo padre è d’accordo, dice se la settimana prossima vai a dare un’occhiata alle scuole.» Chiamai subito Loris. «Faccio un salto a Roma.» «Bene, chiama quando sei qui, ci facciamo un giro insieme.» Non chiedevo di meglio. Intanto era arrivato il pacco spedito da mio padre. Gli diedi solo una sbirciata, nel pomeriggio avevo le prove generali, quindi mangiai in fretta e mi preparai per uscire. In bagno, davanti allo specchio, mi fissai i capelli. All’epoca erano lunghi un paio di centimetri e non avevano una direzione precisa. Mi bagnai le mani e provai a farli convergere verso il centro della testa. Sia da destra, che da sinistra. Per fermarli usai un po’ di gelatina. Poi uscii dal bagno e attraversai la sala sotto lo sguardo impietrito di mia madre. Alle prove il primo a venirmi sotto fu proprio Arturo. «Cosa hai fatto in testa?» «Niente.» «Hai una cresta da gallo.» «Non sai di che parli» dissi, ma in realtà non lo sapevo neanche io. «È una cosa punk.» Anche gli altri non persero tempo. La mia acconciatura fu subito fonte di divertimento per tutti. Oltre agli abituali sghignazzi suscitati dalle mie imprecisioni musicali mi toccò sentirli, a turno, chiocciare come fanno le galline. Ogni pausa era un’occasione buona, qualcuno faceva anche il gesto di ruspare con il piede. Il maestro provò a zittirli ma era una cosa che li eccitava troppo per smettere. A metà sessione abbandonai le prove e riconsegnai i piatti al maestro. «Ho chiuso. Domani non vengo. Se li ficchi al culo.»

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cadillac 8 ½ Tornai a casa sollevato, non vedevo l’ora di raccontarlo a Loris. Passai la serata ad ascoltare musica e a leggere le mie nuove riviste. Il giorno dopo, come promesso, non mi presentai alla sfilata. Mi affacciai dal balcone per vederla passare. La strada era addobbata con drappi rossi e gialli e invasa dalle bancarelle. Un paio di cani razzolavano su qualche schifezza, prima di filarsela intimiditi dal fiume di gente in arrivo. In poco tempo il corteo usurpò tutta la strada. Al centro della processione avanzava compatta la banda. Ai piatti c’era Arturo. Attorno si accalcava la gente, le confraternite, dozzine di famiglie al gran completo, autorità politiche. La statua del santo galleggiava davanti alla banda, portata a spalla dai devoti. Sotto di essa venivano agitate come clave grandi candele rosse. Una scia di ragazzini scalmanati scompariva e riemergeva dai vicoli, inseguendosi e spintonandosi. Ai piedi del santo, una pergamena ricordava i suoi patimenti. Il volto e la mano destra erano rivolti al cielo, in segno di abbandono e completa fiducia. Anche se, a osservarla bene, l’espressione poteva sembrare quella di uno che ne ha piene le palle. Sopra, il cielo si era riempito di nuvole spesse, di un viola morbido e vivace. Il corteo aveva ancora un paio di chilometri da percorrere. Non sapevo ancora se me ne sarei mai andato dal paese o se altrove le cose sarebbero andate davvero come speravo. A ogni modo, l’idea che stesse per venire giù un acquazzone mi suscitò un’impennata di buon umore.

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fine



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