Anno II numero 23 17 luglio 2012
Quindicinale gratuito di informazione e costume
Le identitĂ
nascoste Viaggio nella memoria di una terra che cerca di conservare il suo carattere. Attraverso voci e figure di persone che raccontano coi loro antichi mestieri una Sardegna che lentamente si spegne
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libera informazione sarda
sommario Anno II numero 23 17 luglio 2012
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OPINIONI _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _6 CINQUANT’ANNI _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ IN _ _ATTESA _ _ _ _ _ _DI_ _UNA _ _ _RINASCITA _ _ _ _ _ _ _ _CHE _ _ _NON _ _ _ _ARRIVA _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _8 SVUOTARE _ _ _ _ _ _ _ _LA _ _ MENTE, _ _ _ _ _ _RIEMPIRE _ _ _ _ _ _ _LA _ _ PANCIA _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _1 _0 CARAPIGNA, _ _ _ _ _ _ _ _ _ _IL_ GELATO _ _ _ _ _ _AL _ _ GUSTO _ _ _ _ _ _DI_ _BARBAGIA _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _1 _2 IL _ _NEGOZIO _ _ _ _ _ _ _DEI _ _ _PASTORI _ _ _ _ _ _AL _ _CENTRO _ _ _ _ _ _ DI _ _ CAGLIARI _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _1 _4 UN _ _ _SIGARO _ _ _ _ _ _SULLE _ _ _ _ CENERI _ _ _ _ _ _DEL _ _ _CONVENTO _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _1 _5
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TOMMASO PIPE _ _ _ _ _ _ _ _SPANU, _ _ _ _ _ IL _ _SIGNORE _ _ _ _ _ _ _DELLE _____ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _1 _6 RICORDI _ _ _ _ _ _ _DI_ _GUERRA _ _ _ _ _ _IN_ _UNA _ _ _TERRA _ _ _ _ _DI _ _MACERIE _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _1 _8 LASSÙ _ _ _ _ _ NEI _ _ _VERDI _ _ _ _ _PASCOLI _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _2 _0 IL _ _PRONTO _ _ _ _ _ _ SOCCORSO _ _ _ _ _ _ _ _ CONTRO _ _ _ _ _ _ _IL_ _MALE _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _2 _2 SALINE, _ _ _ _ _ _ UNA _ _ _ _FERITA _ _ _ _ _ANCORA _ _ _ _ _ _APERTA _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _2 _3
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NON I _ BUOI _ _ _ _C’È _ _ _CAMPO _ _ _ _ _ PER ____ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _2 _4 DOMANDE _ _ _ _ _ _ _ _E_RISPOSTE _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _2 _6 IL _ _RACCONTO _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _2 _7 GALLERIA _ _ _ _ _ _ _ _FOTOGRAFICA _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _2 _8 MISS _ _ _ _ITALIA _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _3 _0 LAIF _ _ _ _STAIL _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ 3_2_ COLPI _ _ _ _ _DI _ _PENNA _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _3 _4
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Copertina: foto di Claudio Gualà, scattata nel 1976 a Cartoe, nel golfo di Orosei
Anno II numero 23 17 luglio 2012
Editore GCS - Green Comm Services S.r.l. - Direttore responsabile Guido Garau - Hanno collaborato: Alessandra Ghiani, Lexa, Alessandro Desogus, Ennio Neri, Carlo Poddighe, Laura Puddu, Maria Grazia Pusceddu, Claudia Sarritzu, Michela Seu, Simone Spiga - Fotografie Alessandra Ghiani - Ritratti Giulia Fulghesu - Grafica XL Luca Crippa - Stampa Grafiche Ghiani - Monastir Cagliari Pad Sede legale in via Giotto 5, 09121 - Cagliari - Redazione in Largo Carlo Felice 18, 09124 Cagliari - www.cagliaripad. it redazione@cagliaripad.it - Tel. 070 332 1704• 342 599 5701 - Autorizzazione Tribunale di Cagliari 15/11 del 6 settembre 2011
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I L D I R E T TO R E
Un passo
indietro
GUIDO GARAU g.garau@cagliaripad.it
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a tempo - da più di vent’anni, da quando, cioè, ho lasciato Aritzo per proseguire i miei studi - esamino con passione la questione Sardegna. Il fenomeno più evidente e drammatico è la diaspora che, lentamente, trascina via le migliori risorse della nostra terra: i ragazzi dai diciotto ai trentacinque anni. Perché scappano? I motivi sono molteplici, ma è evidente che sia franato tutto un mondo, con la sua storia e i suoi ritmi di vita, e la slavina che lo ha travolto ha trascinato via in primo luogo l’economia di riferimento, quella contadina e pastorale, poi la nostra cultura, soprattutto quella materiale; così l’Isola dei nostri ricordi scompare ogni giorno di più, e forse è già finita, ingoiata dal nulla come la Fantàsia del bellissimo libro di Michael Ende, La storia infinita. Ma c’è una speranza. Io credo che un giorno non troppo lontano torneremo tutti quanti a casa: la casa comune di una cultura condivisa. Per farlo occorrerà lavorare insieme - onorevoli, sindaci e cittadini uniti - individuando bene le politiche da perseguire e adottare. Oggi un modello di sviluppo è in crisi e per trovare una svolta è necessario rilanciare politiche di sviluppo nuove. Dobbiamo, innanzitutto, recuperare la nostra storia. Dobbiamo pensare a valorizzare e rinsaldare il cordone che ci lega al passato: solo così acquistarà valore il nostro presente. Due sono i punti dai
(Nell’ultimo numero avevamo annunciato che Cagliaripad sarebbe tornato a essere un inserto di Vendesi. Le centinaia di mail arrivate in redazione ci hanno convinto di fare un passo indietro: siamo e restiamo un giornale del tutto indipendente)
quali ripartire: la terra e le nuove tecnologie. Potremmo iniziare, tutti insieme, a chiedere un po’ più di autarchia: si dovrebbero rafforzare i valori dei nostri prodotti; si dovrebbero tassare le merci importate (non di primissima necessità); si dovrebbero sfavorire pesantemente gli investimenti fatti in “continente” e all’estero e favorire quelli nelle nostre zone disagiate; si potrebbero creare distretti di filiera corta (la Lega, nella sua Padania, alla faccia del libero mercato lo fa già da anni); si dovrebbero incentivare, detassandoli, la produzione locale, l’assunzione di personale locale, i piani di sviluppo e di ricerca fatti in Sardegna e in Barbagia in particolare. L’autarchia voluta da Mussolini era figlia della crisi mondiale del 1929: comprare prodotti esteri avrebbe segnato la nostra fine. Oggi si crede che solo la globalizzazione ci possa salvare dalla crisi, ma è vero il contrario: un po’ di autarchia non farebbe male. Grazie a Internet, poi, oggi si può lavorare ovunque. La centralità della città (e di Cagliari in particolare) deve finire perché non ha più senso (ogni luogo può diventare il centro del mondo), bisogna provare a redistribuire lavoro, incarichi, ricchezza. Il nostro futuro è questo: riportare ragazzi, intelligenze e competenze, far rivivere i nostri paesi. Ripartire da ciò che siamo, nel profondo. Intanto in questo numero raccontiamo ciò che siamo stati.
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OPINIONI
ZACCA
E PONI
È arrivata l’estate, i turisti sbarcano in massa a Cagliari. Come souvenire si portano a casa le merdone
L’angolino del filosofo di Henri Bergson*
Il futuro è il passato che si accresce avanzando Ma il passato, che per ipotesi ha cessato di esistere, come potrebbe conservarsi? Non c’è forse qui una vera contraddizione? - Rispondiamo che la questione è proprio di sapere se il passato ha cessato di esistere, o se ha semplicemente cessato di essere utile. Voi definite, in modo arbitrario, il presente come ciò che è, mentre il presente è semplicemente ciò che si fa. (…) Quando pensiamo questo presente come qualcosa che si sta per realizzare, esso non è ancora; e quando
lo pensiamo come esistente, esso è già passato. Se, al contrario, considerate il presente concreto e realmente vissuto dalla coscienza, si può dire che esso consista in gran parte nell’immediato passato. (…) Ogni percezione è già memoria. Praticamente, noi non percepiamo che il passato, essendo il presente puro l’inafferrabile progresso del passato che rode l’avvenire. *Materia e memoria
Il guastafeste di Simone Spiga
Bravo Zedda: in tre mesi uno spazio per la musica Il rapporto tra Cagliari e gli spazi per i grandi eventi musicali è sempre stato tortuoso. In tanti ricordiamo concerti in spazi mai strutturati per accogliere migliaia di persone. L’area del Dopolavoro ferroviario, la Fiera, , il Jazzino, il molo Ichnusa, tutti spazi provvisori e mai realmente considerati dalle amministrazioni Comunali come luogo idoneo per un area stabile dei grandi eventi musicali in città. Caso a parte ha riguardato l’Anfiteatro romano, meraviglioso sotto il profilo della location ma non più utilizzato – e giustamente - come spazio concerti. In queste condizioni spesso si sono dovuti fare chilometri per andare a Sassari a vedere i Ramones o Sarroch per vedere i Placebo o i Motorhead.
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Quest’anno l’amministrazione Zedda ha deciso di scommettere sul lungomare di Sant’Elia e in meno di tre mesi si è riuscito a costruire uno spazio adatto per contenere oltre 12mila persone. Le polemiche sull’area sono pervenute in alcuni casi dai promoter dei concerti come Massimo Palmas, che oggi deve fare i conti con una realtà diversa. Altre polemiche nei giorni precedenti all’apertura dello spazio sono giunte dai Riformatori Sardi che sicuramente non avendo visto lo spazio esprimevano opinioni per garantirsi un po’ di visibilità nella stampa locale. Le questioni sollevate riguardano una fantomatica calata di cemento, mai avvenuta. Si è evidenziato il fatto che l’area si trovi vicino al
mare e che le condizioni meteorologiche potrebbero creare problemi a causa del vento, senza dimenticare che sia il Molo Ichnusa che la Fiera si trovavano nelle stesse condizioni e che nessun problema fu riscontrato allora. Oggi superate le polemiche, sono confermati nove concerti per l’estate cagliaritana e altri sei a breve verranno confermati, il tutto il uno spazio che in soli tre mesi è diventato realtà. Buon divertimento a tutti.
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L’a rorisma
di Enrico Secci
Quelli che hanno l’AIFFON ma no du sus cagada nimmancu sa mamma. 404 a pressione
Il punto di Andrea Pusceddu*
Perché il prezzo della benzina cala solo il fine settimana? Perché il prezzo della benzina cala il fine settimana? Sarebbe possibile avere prezzi più bassi anche durante gli altri giorni dell’anno? Per me sì. La ragione fondamentale è che le compagnie non valutano quanto hanno pagato il petrolio mesi prima o quali siano i loro costi interni o quanto costa raffinare il greggio (tutte assieme e contemporaneamente), ma leggono le quotazioni di un listino internazionale della benzina e del gasolio - il Platts - e, giorno per giorno, adeguano i loro prezzi alla pompa a quella quotazione. Non c’è nessuna relazione fra quel listino e i costi sostenuti dalle compagnie. Quel listino si chiama Platt’s ed indica quanto costa comperare a Londra (in quella data) grossi quantitativi di benzina o di petrolio. Nella realtà, il grosso del greggio lavorato dalle Compagnie proviene da giacimenti di proprietà delle stesse aziende petrolifere, e dunque i costi delle forniture sono di gran lunga inferiori a quelli del mercato. Non conta dunque quanto è costato produrla, ma semplicemente a quanto la si vuole quotare (guada-
gnandoci sopra). In questo modo le compagnie hanno margini di ricavo enormi dal greggio, e possono permettersi di applicare sconti senza minimamente risentirne. Il prezzo, però, considerati i margini, potrebbe essere molto più basso. La soluzione? “Il libero mercato. Se esistesse vera concorrenza i consumatori potrebbero comprare la benzina da chi davvero applica gli sconti migliori. Ma il prezzo è omologato, le compagnie fanno cartello e a rimetterci sono sempre i cittadini. * Presidente regionale di Federconsumatori
GEMELLI DIVERSI La spalla di Dean Martin e la costola di Enrico Letta Marco Meloni
Consigliere regionale Pd
Jerry Lewis Attore
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PRIMO PIANO
Cinquant’anni
in attesa di una Rinascita che non arriva S Dal 26 febbraio del 1948, all’indomani della conquista dello statuto speciale, la Sardegna prova a cambiare volto. Ma i lifting tentati fin’ora hanno prodotto soltanto esiti sbagliati.Vediamo quali
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cusi, quando è cambiato il mondo? Cinquant’anni fa la Sardegna era un posto diverso. C’erano poche automobili, nessun telefono cellulare e Ipad, Iphone, pc, adsl erano parole inesistenti. Il telefono si usava poco, solo per le chiamate urgenti. La gente viveva in piccole comunità spesso isolate, parlando un linguaggio comune fatto di termini che indicavano solo cose, persone e oggetti conosciuti. La vita sociale era una scala senza troppi gradini: un parroco, un medico, un insegnate e il sindaco stavano in cima; poco più sotto tutti gli altri. Chiunque in questa scacchiera aveva un ruolo, foss’anche quello dello scemo del villaggio, e
spesso ereditata il proprio mestiere dal padre, e dal nonno, facendosi custode di un sapere e di un saper fare che venivano trasferiti per essere custoditi e tramandati. Figure come quella del pastore, dell’artigiano, del contadino, sono state intaccate per sempre il 26 febbraio del 1948, all’indomani della conquista dello lo Statuto Speciale. Un dato per tutti: nel 1950 l’agricoltura forniva il cinquanta per cento del prodotto interno lordo, mentre a livello nazionale si attestava sul venti. Seppure esteso, l’esercizio delle coltivazioni non garantiva però un benessere diffuso: avveniva in forma arretrata, sia dal punto
di vista tecnologico che organizzativo, per via del carattere feudale che la dominazione spagnola aveva impresso all’agricoltura. Nel 1951 il Consiglio istituì una Commissione che, dopo sette anni, partorì il primo progetto di sviluppo. Lo chiamarono Piano di Rinascita. Si guardò all’industria pesante, alle fabbriche. Mai scelta si rivelò più sbagliata. Si sperava di creare un effetto domino sulle altre realtà imprenditoriali, ma si determinò una slavina che in un lampo seppellì un epoca. Perché tutti quei miliardi assegnati a pioggia alla grande industria (Eni ed Iri furono i soggetti che più si avvantaggiarono), cui se ne aggiunsero altri 400 negli anni Sessanta, 431 negli anni Settanta e 1.200 negli anni Ottanta, rifecero sì il trucco all’Isola: ma da quel lifting durato trent’anni -dal 1951 al 1981- la Sardegna uscì completamente sfigurata. E quando vennero tolti i cartelli lavori in corso, si vide che era stato fatto uno scempio. Una terra sfregiata. Il tessuto economico era stato sconvolto. Annichilite professioni, tradizioni e ritmi di vita. Nel 1951 l’agricoltura forniva la metà delle ricchezze sarde. Appena quarant’anni dopo l’industria guidava il processo produttivo. Pastori e contadini, che fino a quel momento avevano avuto un ruolo centrale nell’economia, furono ritenuti «incapaci di realizzare un processo di crescita economica e di miglioramento sociale». Il risultato fu una terra di disoccupati. Perché a fronte dei cospicui investimenti profusi, la manodopera industriale non riuscì mai ad assorbire la forza lavoro in uscita dall’agricoltura. Uomini e donne si ritrovarono di colpo proiettati nel mondo moderno, sradicati dal modello di vita millenario che fino a quel momento avevano conosciuto. Costretti - a migliaia - a emigrare. A lasciare i propri paesi per cercare lavoro nelle miniere e nelle fabbriche del mondo, men-
tre per chi decise di rimanere, ancorato al proprio passato, la sorte riservò il triste destino di assistere impotente al crepuscolo della propria cultura. Sconfitto dalla storia e dall’agognata autonomia.
Anni ‘60. Scatti del fotografo Federico Patellani, uno dei più importanti autori del reportage italiano, realizzati in Sardegna.
In questo numero raccontiamo ciò che siamo stati. Provando a conservare nella memoria ciò che forse non saremo mai più. (m.s.)
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VIAGGIO NELLA MEMORIA - 1
“Svuotare la mente riempire la pancia” Il lavoro in miniera raccontato da Antonia Cappai, classe 1924, nata a Villasalto: cernitrice alla miniera di Su Suergiu dal 1943 fino all’agosto del 1950. A pochi giorni dal suo matrimonio
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on una mano ti svuotala matricola “349” a giugno del va la mente, con l’altra ’43 e si licenziò, sette anni dopo, ti riempiva la pancia. ad agosto del ’50. A pochi giorni Cosicché del lavoro in miniera di Michela Seu dal suo matrimonio. non riuscivi proprio a farne a m.seu@cagliaripad.it meno. Soprattutto se proveni«I primi anni furono i più diffivi da una famiglia poverissima; oppure se, cili», ammette oggi l’anziana donna. «Sia intorno a te e sopra la tua testa, la seconda perché il minerale estratto a Su Suergiu, guerra mondiale distruggeva ogni cosa. l’antimonio (molto raro in Europa e assai Lo ricorda bene Antonia Cappai, classe richiesto per armi e munizioni belliche) 1924, di Villasalto (Gerrei): cernitrice alla ci imponeva una mole di lavoro considelocale miniera di Su Suergiu, entrò con revole, e sia perché in paese, per via della
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guerra, non arrivavano merci come scarpe e vestiario. Eravamo costretti a farci confezionare abiti coi tendoni e zoccoletti scomodi con pelle di capra». Gli stessi con cui, sotto un sole cocente o con la neve, la Cappai si metteva in cammino tutti i giorni, esclusa la domenica, alle 7.30 del mattino. Ingresso in miniera ore 8.00; pausa pranzo in mensa ore 12.30; ripresa dei lavori ore 13.00; uscita dalla miniera ore 16.30. Il tutto, scandito da potenti sirene.
Le ferie? Una decina di giorni ad agosto. Ma se le lavoravi venivi pagato al doppio. «Così la vacanza non l’ho sfruttata quasi mai: preferivo conservare i pochi soldi che ci davano». I compiti assegnati alle donne erano sempre gli stessi in ognuna delle “cascerie” presenti: Ribasso, Margherita, Santa Barbara ed Henfrey. «Gli uomini ci portavano vagoni colmi di materiale e noi, in coppia, lo dovevamo cernire. In una cassa (la chiamavamo “bardella”) riponevamo l’antimonio di prima qualità, ovvero i pezzi più grossi; in un’altra quelli di seconda qualità, leggermente più piccoli, e infine quelli di terza, grandi quanto granelli. Lo “sterile” (piccole porzioni di roccia prive di minerale) veniva buttato
Nella pagina di sinistra la miniera di antimonio di Su Suergiu A destra la foto di Antonia Cappai, l’ex cernitrice della miniera
in discarica, mentre l’antimonio recuperato veniva portato in fonderia». Le lavoratrici in miniera, all’epoca, erano circa una trentina, fra villasaltesi e originarie del confinante Armungia: alcune di loro avevano i mariti in guerra, altre erano rimaste vedove con figli; la Cappai, giovanissima, lavorava per mettere da parte qualche soldo per il corredo e, nel frattempo, fuggire a un padre che, non avendo avuto figli maschi, avrebbe voluto destinare a lei e a sua sorella un futuro nei campi. «Ma la terra si sa, non ti ripaga mai delle fatiche», osserva dall’alto dei suoi 88 anni. «E allora avevo preferito andare a Su Suergiu: ti distruggeva ma a fine mese raccoglievi i frutti». La miniera aveva questo: ti sfamava. E non ne potevi fare a meno.
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VIAGGIO NELLA MEMORIA - 2
Carapigna
il gelato al gusto di Barbagia Storia del sorbetto nato nelle montagne di Aritzo, ai piedi del Gennargentu, che nell’Ottocento veniva esportato in tutta l’Isola. Una tradizione che resiste
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paglia e terra, e la neve al Preparare il ghiaccio a quei suo interno poteva consertempi non era certo semvarsi per quasi un anno. plice. Si conservavano le di Claudia Sarritzu nevi invernali all’interno delle c.sarritzu@cagliaripad.it La neve acquistava una forma più compatta e duran“domos de su nie”, grandi pozzi te il periodo estivo veniva sovrastatati da muretti a secco commercializzata per tutta l’isola sotsituati in altura. Questi, una volta riemto forma di grossi blocchi. Gli addetti piti, venivano ben coibentati con felci,
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ai trasporti erano i cavallanti: la neve, estratta dalla neviera, veniva caricata sui carri e nuovamente coibentata con la paglia, per evitarne lo scioglimento durante i lunghi tragitti, spesso notturni. Le destinazioni principali della neve erano le pubbliche rivendite della città di Cagliari e in particolare la Corte Vi-
ceregia, dove si pensa che alcuni cavallanti intorno ai primi del 1600 abbiano appreso le tecniche di preparazione della Carapigna.”Abbiamo intervistato per voi Sebastiano Pranteddu, classe “85, laureato in chimica e come tutti i ragazzi della sua età consapevole che il lavoro al giorno d’oggi, va inventato e se necessario recuperato dal passato, in un’isola con il tasso di disoccupazione giovanile al 45%. Dalla laurea in chimica alla carapigna. Come è nata questa passione che si è tramutata in un lavoro? È iniziato tutto un po’ per gioco. Una volta terminati gli studi ho trascorso un periodo piuttosto lungo alla ricerca di un’occupazione e per non rimanere con le mani in mano ho deciso di impegnarmi nel nostro vecchio mestiere di famiglia. Sin da piccolo ho sempre dato una mano in casa, e sono sempre stato piuttosto orgoglioso di essere nato nell’unica famiglia che all’epoca preparava Sa Carapigna di Aritzo. Nonostante ciò non ho mai visto l’attività di “carapigneris” come un possibile sbocco lavorativo. Quanto è difficile essere degli artigiani oggi? I prodotti come questi sono tutelati? C’è una normativa di riferimento? Per i veri artigiani al giorno d’oggi è davvero dura. La difficoltà sta nel fatto che i veri prodotti artigianali richiedono spesso fatica e molto lavoro per la loro realizzazione, e questo non può che avere una ricaduta su loro prezzo finale. Purtroppo i clienti non sempre riescono ad apprezzare il lavoro manuale e molti insistono nel paragonare i prezzi con quelli dei prodotti industriali.
Il prodotto si vende con facilità? Come viene distribuito, sagre, manifestazioni, fiere, anche al dettaglio? Sa Carapigna non è particolarmente conosciuta e la vendita nelle feste e nelle sagre è molto imprevedibile. Ci sono piazze dove si lavora e altre dove le vendite sono quasi pari a zero. Ho notato comunque che con un po’ di pazienza il prodotto piace e i clienti tornano sempre più numerosi. Ho avuto modo di far conoscere Sa Carapigna in Francia e in altre parti d’Italia per diverse manifestazioni, devo dire che ha riscosso molto successo. Purtroppo però non è possibile esportarla se non per manifestazioni occasionali, dove è necessaria comunque la mia presenza perché la preparazione va eseguita sul momento. Al momento infatti il mercato è limitato alla Sardegna per feste e sagre paesane o mercati in località turistiche.
Nella pagina a fianco Sebastiano Pranteddu. Qui sopra Sebastiano all’età di 8 anni.
Di recente sto proponendo Sa Carapigna sia come dolce che come alternativa al classico sorbetto in agriturismi, ristoranti, hotel in occasione di grandi eventi come matrimoni, inaugurazioni, convegni, manifestazioni culturali. Anche in questo caso bisogna pazientare e dare il tempo ai clienti di abituarsi alle novità Quali sono i migliori clienti, i giovani o gli anziani? Nonostante si tratti un prodotto antico largamente più conosciuto dagli anziani, i migliori clienti sono sicuramente i giovani. La preparazione artigianale affascina più i giovani che gli anziani e la curiosità porta spesso all’acquisto.
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VIAGGIO NELLA MEMORIA - 3
Il negozio dei pastori
nel centro di Cagliari Piucia Serra da quarant’anni vende campanacci e attrezzi per la mungitura. Un angolo di città dove resistono le chiacchiere in limba e le cortesie di una volta
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endono da 40 anni collane per capre, scarponi da pastore, campanacci e materiale per la mungitura. Tanti i clienti affezionati che da anni scambiano quattro chiacchiere in sardo coi proprietari. Non siamo nel nuorese. Né in Ogliastra e tantomeno in Gallura. Ma nel cuore di Cagliari, in via Sassari, a pochi passi dal Comune e dalle vie dello shopping all’ultimo grido. Dove dietro il bancone di uno dei negozi più originali del capoluogo c’è da 40 anni Piucia (senza la n e con una c sola a causa di una distrazione all’anagrafe) Serra, originaria di Ulassai, capelli nerissimi e raccolti e una
fluida parlata sia in italiano che in limba. Il negozio di pellami, cuoio e attrezzatura per pastori e la vita in campagna è stato rilevato dai fratelli Serra nel lontano 1973. Ma la stessa attività si trovava in via Sassari (e allo stesso numero civico) già dal 1966. “E ancora prima”, racconta la negoziante, “nel corso Vittorio Emanuele II e in via Caprera”. L’aria della storia si sente al tatto quando si entra dentro il locale, al piano terra di un palazzo ottocentesco, dove ci si immerge in una realtà che in città ormai è impossibile trovare. Le vetrine espongono i campanacci e i secchi per la mungitura.
Ci sono i coltelli e le collane in pelle per capre e pecore. E poi gli stivali da lavoro, più adatti al Supramonte che a via Manno. Ma, nonostante la professionalità e l’esperienza nel settore, gli affari non vanno più come un tempo. Non solo per la crisi e per le difficoltà dei pastori, ma anche per i mutamenti della città che hanno allontanato i clienti. “Avevamo compratori che arrivavano da tutta l’Isola: Domus de Maria, Santulussurgiu e Macomer e perfino Sassari”, racconta la signora Serra, “ma prima era diverso. In piazza del Carmine c’era la stazione dei taxi che accompagnavano gli abitanti dei paesi a casa e poi erano a pieno regime l’ospedale San Giovanni di Dio e la clinica Aresu dove venivano ricoverate tanti nostri clienti e tanti loro parenti. Il resto”, conclude, “l’hanno fatto la crisi e le difficoltà dei pastori, costretti a vendere il latte a 50 centesimi”. Così i tanti pastori che per almeno 30 anni hanno frequentato via Sassari, oggi sono scomparsi. “E quando ce ne andremo noi”, conclude la titolare, “il negozio chiuderà. Sarà difficile che lo rilevi qualcuno”. Sarà il tramonto per un negozio storico del centro di Cagliari. Ma fino ad allora sarà ancora possibile acquistare in città una pattadese e un campanaccio. Magari dopo due chiacchiere in limba. (e.n.)
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VIAGGIO NELLA MEMORIA - 4
Un sigaro
sulle ceneri del convento Storia della Manifattura tabacchi, per più di cent’anni teatro di un lavoro ormai scomparso di Alessandro Degosus
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siste un edificio, in viale Regina Margherita a Cagliari, denso di storia e di storie: è l’ex manifattura tabacchi. Per più di cent’anni è stato teatro di un lavoro ormai scomparso, quello della sigaraia. Un lavoro speciale che si svolgeva in un luogo speciale: infatti, la manifattura tabacchi, è sorta dalle ceneri di un convento del ‘400; distrutto dai cannoni spagnoli nel 1717 fu acquisito dal Regio Patrimonio e adibito, dopo le necessarie ristrutturazioni, alla produzione di tabacchi. Con pochi investimenti iniziali si avviò la produzione di trinciati da pipa e tabacchi da fiuto, ai quali seguì quella dei sigari denominati “toscani”. Diventata redditizia, l’azienda viene incamerata dai Savoia, diventando statale. Spina dorsale dell’opificio erano le sigaraie: la produzione dei
sigari, totalmente manuale, era affidata esclusivamente alle loro mani. Una storia di donne quella delle signore dei sigari, i camici avana, femminile e femminista. Le operaie sono rudi, devono esserlo per quel mestiere: diciotto mesi di apprendistato sotto la guida esperta delle “maestre”, le sigaraie anziane, e si era in grado di confezionare un ottimo “toscano”. Formano una compagine che combatte per i diritti sindacali; ottengono, infatti, con le colleghe delle altre manifatture nazionali, le otto ore e mezzo e gli asili nido all’interno del luogo di lavoro. Alfio Orrù, classe 1928, con la madre sigaraia, il padre tecnico e lui stesso tecnico elettricista, è forse l’ultimo testimone di una famiglia e di una vita in manifattura. Con gli occhi persi nelle memorie di un mondo a parte, racconta la complicità delle sigaraie
che si aiutavano a raggiungere il cottimo, magari allattando il bambino della collega; o ancora, del direttore che difendeva le operaie a spada tratta, perchè erano quelle che in manifattura lavoravano più di tutti. Come per tutte le fabbriche, la meccanizzazione dei processi produttivi amputa il lavoro della sua parte poetica, e così le sigaraie scompaiono il 15 dicembre 2001. Il resto è silenzio. Salsiccia fresca e secca lardo pepato, pancetta... specialità prodotte solo da suini sardi
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I N T E R V I S TA
Tommaso Spanu
il signore delle pipe Dal ciocco ai cerchi di fumo ecco l’uomo che fa fumare il mondo di Alessandra Ghiani
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’ il signore delle pipe, lui, Tommaso Spanu, in arte Tom. Ha fatto fumare Pertini e Bearzot. Fa fumare i cinesi e gli americani. Le riviste specializzate parlano di lui negli Usa e in Giappone. Dal laboratorio nella sua villetta a Predda Niedda escono pipe per tutto il mondo. Suo figlio Massimiliano lo segue e
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apprende la sua arte, sua figlia si occupa delle relazioni esterne con i grossiti, sua moglie risponde pazientemente a tutte le telefonate che arrivano. Un bel ambiente familiare del quale le pipe ormai sono parte integrante. Tom mostra orgoglioso la vetrina con le sue pipe preferite, quelle che hanno fatto la sua storia e che non venderà mai.
Tommaso, quando è iniziata la storia del suo impero? Nel 1962 sono partito da Chiaramonti a Varese per lavorare in un’industria di elettrodomestici. Cominciai a frequentare la bottega di un artigiano costruttore di pipe. Mi appassionai e iniziai a lavorarci durante tutto il mio tempo libero. Da quel
Nella pagina di sinistra Tommaso Spano. A fianco, in alto, il pezzo forte della gamma di prodotti. La lavorazione manuale. Sotto Tommaso Spanu agli inizi della sua carriera
giorno non mi sono mai più fermato. Ad un certo punto ha deciso di tornare in Sardegna. Sì, un giorno scoprì che una delle migliori radiche del mondo, quella utilizzata per fabbricare le pipe più pregiate, proveniva proprio dai boschi della Sardegna. Da quel momento covai sempre il desiderio di tornare in Sardegna per aprire un laboratorio tutto mio. Ci vollero però altri 15 anni di fabbrica prima di poter realizzare il mio sogno. Nel 1979 tornai finalmente a casa e mi misi in proprio. Iniziai a fabbricare pipe nello stesso luogo, Laerru, dove la natura faceva nascere la materia prima migliore, la radica erica scoparia, una pianta tipica della macchia mediterranea. Poi i miei figli hanno insistito perché ci trasferissimo a Sassari perché in effetti il paesino non offriva molte possibilità.
Suo fratello ha un ruolo importante in tutto il processo, di cosa si occupa? Mio fratello si occupa della parte più pesante. E’ lui che va in cerca della radica, che la pulisce, la fa bollire per trenta ore e poi la mette in stagionatura per due, tre anni. Quando è pronta la falegnameria fa il resto. Qui in laboratorio arrivano i pezzi già pronti per la lavorazione. Come nascono le sue pipe? E’ la natura a decidere, io collaboro pazientemente con lei al momento. Solo alcune le concepisco prima sulla carta, facendone un progetto e ascoltando le richieste dei clienti. Di solito però seguo i disegni del legno che è mio maestro. Oltre alla radica usa altri materiali? Il ciocco di radica è senz’altro quello più utilizzato e richiesto, ma ho allar-
gato la lavorazione anche al legno di mirto e quello di limone. Poi ci sono le pipe bianche, quelle realizzate con un materiale che viene chiamato schiuma di mare che faccio arrivare apposta direttamente dalla Turchia. E’ composta da silicato idrato di magnesio (denominato scientificamente sepiolite) che risulta essere un materiale molto leggero. Ci mostra il suo pezzo forte, poi, Tom, e lo guarda come fosse un figlio. E’ una pipa con il bocchino avvolto da una spirale di legno, perfetta, elegante. La passione e l’esperienza si leggono nelle rughe delle sue mani e nella pila di tutte le riviste, che parlano di lui, conservate con orgoglio in una scrivania.
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VIAGGIO NELLA MEMORIA - 5
Ricordi di guerra in una terra di macerie Storia di Matteo Casubolo, Giovanna Perra e Piero Pintor che conservano nella memoria le tracce del passato. Per non dimenticare
C
causa del siluramento di un i vuole più coraggio per sommergibile britannico, e dimenticare che per rila voglia di difendere la pacordare, affermava Kiertria. Le vicende della guerra kegaard: è il caso di Matteo di Laura Puddu Casubolo, ottantottenne redu- l.puddu@cagliaripad.it sono impresse e indelebili nella sua mente e, quando ce della seconda guerra monsi sforza per raccontarle, si emoziona. diale. Nel dicembre del 1941, a soli “Dormivamo in tende - afferma comdiciassette anni, parte come volontamosso - e non eravamo organizzati. rio e approda a Napoli, dove sale sulla Ricordo la fame, il caldo, le bombe pasnave Gradisca che lo porta in Libia. Le saglia, le mine e la sofferenza provata a motivazioni che lo spingono a partire causa dei compagni che vedevo morire sono due: rendere onore al padre, moruno dietro l’altro”. Sono tornati in poto sull’incrociatore Diaz, affondato a chi, ma quella volta l’Italia vinse. Era la battaglia di Bir el Gobi, che vide impegnate le forze italiane contro quelle ABBIGLIAMENTO del Commonwealth. Offertissima ESTATE 2012
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Dopo la battaglia, Casubolo torna a Cagliari e vive anche lo strazio dei bombardamenti. Ha però cercato di rimuovere almeno questa fase della guerra e, per buona parte, ci è riuscito. Il ricordo delle bombe sulla città è invece vivissimo nella memoria di Giovanna Perra e Piero Pintor. “Il diciassette febbraio 1943 – dice Giovanna Perra – ero nella mia casa di Quartu Sant’Elena. Fu il giorno terribile dello spezzonamento, è per questo motivo che ricordo perfettamente la data”. Gli spezzonamenti sono attacchi aerei dove vengono lanciate delle bombe che, in seguito, esplodono. L’obiettivo, purtroppo sono
i poveri cittadini. “Guardavo dalla finestra – continua – ma sembrava ci fossero solo delle nuvole di fuoco, il cielo era scuro. Una bomba cadde nel vicolo di casa, miracolosamente non scoppiò. Il primo maggio, invece, Sant’Efisio passò per le vie della città, trasportato da un camioncino. Cagliari era rasa al suolo e nessuno seguiva il Santo, però quella notizia diede un po’ di speranze per il futuro”. Piero Pintor, invece, riuscì a laurearsi in economia nel 1947. Diede alcuni esami a Roma perché la facoltà non era presente a Cagliari, proprio durante la guerra.
“Salivo su un idrovolante – racconta – che partiva dallo stagno di Santa Gilla e atterrava sul Tevere. Non erano certamente dei voli sicuri e piacevoli, ma era l’unica soluzione se volevo laurearmi”. Anche lui ricorda i bombardamenti, che vide dalla collina di Sinnai, dove era sfollato. “Poi scappammo verso Tonara – conclude – perché anche Sinnai fu investita dalle bombe”. Tutti e tre raccontano di quando gli aerei nemici arrivavano da Capo Spartivento: in quel preciso istante, scattavano gli allarmi e via tutti di corsa verso i rifugi per salvarsi. Piero Pintor, al riguardo,
Nella pagina a sinistra la nave Gradisca In questa pagina una veduta di Cagliari, dopo i bombardamenti.
ricorda un episodio che poteva essere drammatico ma che si rivelò simpatico, perché terminò positivamente: “Una volta vidi un vecchietto con le stampelle in viale San Vincenzo. Scattate le sirene, le lanciò in aria e corse verso un muretto, scavalcandolo. Fu la sua salvezza”. Anche Matteo Casubolo, Giovanna Perra e Piero Pintor ce l’hanno fatta, e adesso sono con noi per poterlo raccontare.
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VIAGGIO NELLA MEMORIA - 6
Lassù
nei verdi pascoli Una vita all’aria aperta, seguendo il ritmo lento e contemplativo del vento e del sole e il silenzio delle pecore. Storia di una professione antica che forse sta tornando di moda
A
da molto piccoli seguivano veva appena sei anni nella maggior parte dei casi Raffaele Baldussi il mestiere del padre. Anche quando ha cominciato a portare al pascolo le di Maria Grazia Pusceddu Raffaele, che oggi di anni ne ha 76, ricorda di non pecore nelle campagne di m.pusceddu@cagliaripad.it essere mai andato a scuola Sestu. Era il periodo delle e di aver fatto da sempre il guerre e della disperazione, pastore. “A me è sempre piaciuto quele scuole erano chiuse e i bambini fin
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sto mestiere – dice Baldussi – è la mia passione e sono contento che i miei figli abbiano continuato il mio lavoro anche se oggi è cambiato tutto. Prima bastava poco per vivere, io quando ho cominciato avevo 60 pecore che sono arrivate a 300 quando mi sono sposato, fino alle 1800 di oggi”.
La transumanza. Non era una vera e propria migrazione stagionale delle greggi quella che Raffaele ricorda ma sicuramente anche per lui le abitudini e gli orari di lavoro cambiavano a seconda delle stagioni. Il luogo per portare al pascolo le pecore era sempre la campagna di Sestu dove gli agricoltori seminavano i terreni per far pascolare gli ovini in cambio di latte e formaggio. “D’inverno – ricorda Raffaele – partivamo per il pascolo la mattina presto e rientravamo nel primo pomeriggio; d’estate, invece, uscivamo con le pecore di sera e tornavamo la mattina dopo. Prima di partire per la campagna facevamo “su mruzu”, una merenda abbondante, visto che non ci portavamo mai niente dietro da mangiare”. Inoltre se in passato il pastore era obbligato a portare le greggi al pascolo per nutrirle, oggi invece ci sono gli ovili, le mungitrici e una serie di altri macchinari che sicuramente hanno trasformato e rinnovato il mestiere di pastore. Certo
anche oggi le greggi vengono portate al pascolo perché hanno bisogno di nutrirsi anche di erbe naturali ma molto meno rispetto a cinquant’anni fa. La tosatura. La più grande festa che i pastori facevano era quella in onore della tosatura delle pecore. Gli ovini venivano legati per le zampe e poi si procedeva al taglio della lana con speciali forbici. Per l’occasione i pastori si aiutavano tra di loro, poi si faceva un grande pranzo per celebrare l’avvenuta tosatura. Oggi questa usanza è andata persa visto che le pecore vengono tosate con una macchinetta apposita. I campanacci e “sa matzocca”. Un’altra tradizione legata al pastore, anche questa ormai in via di estinzione, è quella dei campanacci che venivano portati a cavallo insieme alle noci e alle castagne da Tonara. Naturalmente era poi compito del pastore limare l’osso della caviglia dell’agnello che doveva
completare la parte in metallo del campanaccio e dargli un suono armonioso e sincronizzato. “ Il suono – aggiunge Raffaele – doveva essere perfetto in modo da distinguere i maschi dalle femmine e riconoscere le pecore degli altri pastori”. Oggi i campanacci vengono ancora fatti a Tonara, ma ormai in numero molto minore rispetto al passato. Un altro oggetto da cui il pastore non si separa mai è poi il bastone, composto da rami di olivastro, lavorati da lui stesso, e terminante in una parte più larga “sa matzocca” che i pastori usano per appoggiarsi e riposare. A noi oggi forse sembra strano sentire la storia di un uomo che ha passato la vita tra le pecore senza neanche andare a scuola o fare semplicemente il bambino eppure fa invidia la passione e l’amore che trasmette quando racconta con tanta fierezza del suo grande lavoro, che tra l’altro è riuscito a trasmettere anche ai due figli che oggi hanno una grande azienda ovina.
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SARDEGNA MAGICA
Il Pronto soccorso contro il Male Maria Cabiddu di Esterzili una delle poche donne che conosce la formula della “medicina dell’occhio”. Ci svela l’antico rito tramandatole dalla bisnonna
C’
è ancora una Saralla nonna, alla madre quindi a degna magica che lei, una serie di formule, gesti e sopravvive al raziorituali tramandati come si tradi Carlo Poddighe manda la ricetta dei culurgiones o nalismo dominante. Una terra di mezzo, tra religio- c.poddighe@cagliaripad.it della coccoi cun gerda. Ora sono sità cristiana e paganesimo, in tanti a rivolgersi a lei quando della quale alcune donne sono le regine qualcosa di inspiegabile gli affligge, sia incontrastate. Sono loro a conoscere le questo un dolore fisico, dell’animo o un formule segrete capaci di spezzare qualproblema di lavoro. Perché se in pochi siasi maleficio, ma soprattutto sono solo conoscono l’esatto rituale contro il maloro ad avere il potere di farlo. Un dono locchio, molti di più sono coloro che si che si trasmette di madre in figlia assieme affidano a signora Maria prima ancora di alle antiche preghiere in limba da recitare rivolgersi ad un medico o ad un profesdurante i riti. sionista. Una sorta di “Pronto soccorso” contro il maleficio, che guarisce chi ci creMaria Cabiddu di Esterzili, vive a Settide e sorprende gli scettici. mo San Pietro, è una delle poche donne che conosce la formula della “medicina «È successo a Esterzili durante la fedell’occhio”. Orgogliosa delle sue origini sta - racconta Maria Cabiddu - quando barbaricine, ricorda come sia una tradila figlioletta del medico all’improvviso è zione di famiglia quella di curare con la svenuta diventando cianotica. Troppo preghiera il malocchio. Dalla bisnonna lontano il padre, hanno chiamato me. Ho preparato l’acqua e gliela ho fatta bere e subito si è ripresa. “Senza neanche le punture di babbo” come ha poi detto la bambina». Una medicina che non cura solo le persone. «Anni fa, durante la tosatura, le pecore appena legate rantolavano e morivano una dopo l’altra», continua Maria. «Gli uomini erano disperati. Uno di loro mi ha chiesto aiuto e sono andata ho gettato l’acqua sul gregge e tutto è tornato apposto. Per giorni per strada mi chiamavano: la dottoressa delle pecore».
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Ma non tutti possono improvvisarsi guaritori. «Bisogna nascere con un dono divino e, soprattutto, essere credenti», spiega Maria Cabiddu, «io sono cattolica e praticante». Durante il rito si recita una vera e propria preghiera che inizia col segno della Croce, chiede l’intervento dello Spirito santo e rievoca tutta la genia di Cristo. Si versano uno dopo l’altro 9 chicchi di grano e 9 di sale in un bicchiere colmo di acqua santa. Se la persona che ha chiesto aiuto ha il malocchio, si formano delle bolle nei chicchi di grano, una per ogni persona che vuole il male del “paziente”. Quindi la persona che soffre deve bere o bagnarsi con l’acqua del bicchiere. Ma se c’è chi ha il potere di guarire, chi ha il potere di fare il maleficio? Maria Cabiddu lo sa bene. «Non si può scoprire l’autore del frastimu, ma c’è tanta gente che vuole il male. E tanta altra che ha questo brutto potere senza esserne consapevole», spiega. «Può capitare che uno dica: “Che bella macchina che hai”, vedendoti passare per strada, e tu poco dopo stai male». La Chiesa, se proprio non accetta, convive con questi antichi rituali di guarigione. «È il parroco, d’altronde, a benedire l’acqua che tengo in casa per il rito. In più c’è una regola che bisogna rispettare: mai fare la medicina dell’occhio per soldi, dev’essere un atto di beneficenza dell’anima».
VIAGGIO NELLA MEMORIA - 7
Saline, una ferita
ancora aperta L’antica “fabbrica” di Cagliari ha da poco chiuso i battenti. Inquinamento e degrado oggi infangano la memoria di un deserto bianco che potrebbe ancora far gola ai turisti
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hi non ha avuto un parente lontano, spesso un nonno residente nell’hinterland, che prima di partire per la seconda guerra mondiale, ha lavorato da giovanissimo alle saline? Un lavoro svolto spesso per pochi mesi, per guadagnare qualche soldo, un impiego temporaneo come per i giovani di oggi sono i call center. Il reclutamento dei lavoratori è iniziato nel 1300, ma all’epoca si trattava di “comandate” cioè di un’imposizione da parte degli spagnoli prima e dei piemontesi poi, a lavorare nelle saline, subita dalla popolazione locale. Si deve attendere il 1836 con Carlo Alberto di Savoia per vedere abolito questo metodo medioevale. Fino agli anni 20 “lavoravano all’estrazione del sale i carcerati, sia locali che piemontesi, ma durante gli anni “30 vennero reclutati lavoratori fissi e stagionali, nei momenti di maggiore necessità, quando le saline vennero gestite dai Monopoli di Stato. I detenuti prima dell’utilizzo dei cavalli venivano impiegati anche negli anni successivi per trainare i trenini. Il nome Molentargius deriva da molentes, infatti gli asinelli prima dell’industrializzazione del processo produttivo sono stati i veri motori della produzione del sale. Sottopagati e sfruttati i lavoratori si portavano il cibo da casa, la mensa è stata
istituita solo negli anni “50. Chi abitava lontano tornava a casa il sabato sera per tornare a Cagliari la domenica sul tardi. Nelle foto dell’epoca si può vedere che fra gli operai c’erano anche bambini e anziani, le paghe erano ai limiti della sopravvivenza, si facevano file lunghissime per riceverla nella Direzione centrale delle Saline e per guadagnare di più alcuni decidevano di lavorare anche di notte, quando la luna permetteva una buona visuale. La paga infatti era proporzionata ai muchi di sabbia raccolti, negli anni “60, in tempi già più moderni si lavorava per 250 £ a mucchio sempre se il lavoro si era svolto nell’arco di una giornata. Per far capire quanto fosse duro il lavoro nella Saline di Cagliari riportiamo sotto alcune righe tratte da una lettera disperata scritta dai carcerati piemontesi: “Qui siamo per la seconda volta a pregare per la passione del nostro Redentore Gesù Cristo, di avere pietà, carità e misericordia di noi miseri forzati in questa Galera di Cagliari, già sappiamo che siamo debitori al Re e alla giustizia e che siamo per purgare i nostri debiti, ma ancora siamo cristiani e non bestie che meglio sarebbe di passare al patibolo di Porta Palazzo di Torino che di esser per anni cinque in questo carcere perché potremmo almeno salvare le anime nostre,
mentre qui ce ne andiamo a quattro, a cinque, al giorno disperatamente nell’altra vita, senza aver forza di raccomandare le anime nostre a Dio, e le nostre orazioni sono piuttosto maledizione, e siamo tutti anime perse, e tutti li nostri lamenti sono nulla...” Ma è nel 1985, assieme alla successiva demolizione dei casotti, che il Poetto e lo stagno cambiano del tutto la propria fisionomia, l’attività infatti viene fatta cessare a causa dell’inquinamento e i lavoratori vengono, alcuni pre-pensionati, altri trasferiti in enti dello Stato. Come imposto dalla Convenzione di Ramsar del 1971 che vuole la salvaguardia delle zone umide, cinque operai della Manifattura Tabacchi vengono incaricati di svolgere il servizio di movimentazione delle acque. Oggi si è riaperto il dibattito se far ripartire o meno i lavori. Chi sa se per combattere la crisi dovremmo tornare ai vecchi mestieri? (c.s.)
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VIAGGIO NELLA MEMORIA - 8
Non c’è campo per i buoi
Ad Arbus cinque agricoltori utilizzano i giganteschi animali per i lavori in campagna seguendo una tradizione che va avanti da millenni I buoi di Arbus. Foto presa dal sito della provincia del Medio Campidano
“
Bò” oppure “Bài” o ancora “fài semplici e brevi, come quelli dei unu passixeddu” e poi “torra a navigatori satellitari all’ultimo còa”. Nel mondo delle adsl di Ennio Neri grido, solo che occorre conoscesenza limiti, delle biotecnologie e.neri@cagliaripad.it re il sardo stretto: perché i buoi e degli acceleratori delle particelche ancora oggi nell’Isola trale c’è ancora chi, per coltivare i scinano l’aratro non capiscono campi, sceglie il ritmo lento e sicuro dei altre lingue. Sono sempre di meno quelli buoi e preferisce lasciare i trattori alla riche scelgono l’utilizzo dei buoi per i lavori vendita. C’è da dire che anche in questo agricoli. Arbus, è un’eccezione. Nel paese caso i comandi sono vocali, oltretutto la tradizione dei carri a buoi è fortemente
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radicata e risale a migliaia di anni fa. Sono ben 17 i gioghi dei buoi presenti, ma sono solo 5 quelli che ancora oggi vengono utilizzati per la lavorazione dei campi, delle vigne e per il trasporto della legna. Il persistere della tradizione è legato a una processione, quella di Sant’Antonio: 38 km di percorso da Arbus a Capo Frasca, per affrontare il quale i buoi devono
essere “allenati”. Dalla tradizione è arrivato anche il business: gli arburesi mostrano la ferratura degli animali e mettono i giganteschi cornuti (la loro mole che può arrivare anche a 14/15 quintali di peso non contrasta col loro atteggiamento docile e mansueto) a disposizione, oltre che delle sagre religiose e campestri, dei turisti per le passeggiate ecologiche in campagna, in un silenzio rotto solo da muggiti e dal pesante tintinnio del campanaccio. C’è persino un sito internet (www.iscarradorisarbus.com) e ci sono anche le note di colore. Perché i buoi lavorano sempre in coppia. E la coppia, quando viene formata, assume il nome di simpatici modi di dire della tradizione sarda, di quelli
composti, grammaticalmente parlando, da due proposizioni. Ad esempio ci sono i suggerimenti (“Chi ddu provas, ti praxit”, “S’amori, non timas”, “Portadì beni ca est mellus po tui”, “A su chi ti nanta, non pongias a menti”), oppure le lusinghe (“Pensadì, ca ses sennori”) e gli inviti espliciti (“Scioberai, su mellus”). “Coltivo a buoi un ettaro di vigna e altri due per l’avena che mi serve per nutrirli”, spiega Doriano Floris, presidente dell’associazione Gruppo Carradoris Sant’Antonio – Arbus, “e uso il carro a buoi anche per andare a fare legna nel bosco. La stessa cosa faceva mio nonno. E ora spero di riuscire a tramandare la tradizione ai miei nipoti”.
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CURIOSITÀ
Domande e Risposte C hi era... SU BANDIDORI? A metà fra addetto stampa del Comune e pubblicitario, su bandidori (il banditore) era colui che andava in giro per le vie dei paesi e delle città a divulgare, gridando, le ordinanze del sindaco e delle altre istituzioni, oppure l’elenco delle merci che si potevano acquistare nel mercato della piazza. Il mestiere è scomparso più o meno intorno a metà del secolo scorso, soppiantato da un megafono posizionato sul campanile e dai moderni mezzi di comunicazione. Nell’entroterra resiste la figura di un
addetto che, alla guida di un’ape o di un’auto, “ghettada su bandu”, ossia comunica attraverso un altoparlante.
Cagliari conobbe il “boom” dei picciocceddus de crobi, specie attorno al quartiere Marina.
SU PICCIOCCHEDD’E CROBI? Letteralmente era il “ragazzino della cesta”, suo strumento di lavoro. Appartenente a famiglia povera, spesso orfano e senza fissa dimora, su picciocchedd’e crobi era l’addetto alle commissioni delle donne borghesi: queste, dopo aver fatto gli acquisti in bottega o nelle boutique, riponevano la spesa sulla cesta del ragazzino e lui la consegnava a domicilio. In cambio otteneva qualche moneta o del cibo. Fra l’800 e il ‘900
SU BASONI? Era il conduttore e domatore di bestiame: generalmente in sella al suo cavallo, conduceva pecore, capre e buoi dall’ovile (o dalle stalle) ai pascoli adiacenti il paese. Il percorso era quasi sempre lo stesso: la mattina all’alba su basoni si recava a “sa cotti” (il dormitorio), radunava il bestiame e gli faceva attraversare il paese stando bene attento, da dietro, che nessun capo abbandonasse il gregge o si perdesse; faceva raggiungere i campi e lì, mentre gli animali mangiavano, lui riposava sotto l’ombra degli alberi. Sul calar della sera, tornava in sella e riportava gli animali a dormire. SU INDOVINU (o indovinellu)? Il “Paolo Fox” del passato era un uomo che girava per le vie di paesi e città con un pappagallo, una carretta e una scatola contenente dei foglietti colorati. In cambio di qualche lira, s’indovinu “prevedeva” il futuro dei suoi clienti. Il pappagallo estraeva dalla scatola un foglio dove c’erano scritti i numeri del Lotto e alcune indicazioni sul futuro della persona. Lasciata un’abitazione, l’indovino riprendeva il suo cammino in cerca di altre vite da leggere. (m.s.)
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I L R A C C O N TO
Quattro fasi della vita di Angiolo Scalas
INFANZIA Il sole comincia ad illuminare le case, che assumono sfumature di colore che vanno dall’azzurro al rosa. Si respira l’aria del mattino; la notte,come sempre, è stata vinta. Il paese tutto si sveglia e rivive, pullula di anime: da casa è possibile udire nitidamente il rumore della macchina che lavora il legno. Le montagne sono vicine, così come le case che stanno dall’altra parte del monte. Il bosco frinisce di vita e di felicità. ADOLESCENZA Dalla finestra socchiusa si intravede a malapena il giorno. Tensione e uno scatto di rabbia, tra il sonno profondo e l’angosciata veglia.
MATURITA’ Il fumo dei binari si confonde con la caligine metropolitana. Non ricordo più se aspetto il treno che arriva o che il treno parta. Nel frattempo mi accorgo di essere solo. Freneticamente inganno l’attesa tra un “direttore buongiorno” ed una snervante fila al semaforo. VECCHIAIA Il sole si è posato placido sui monti. In una sera d’estate in cui il tempo sembra essersi fermato, le case sono deserte abitazioni, non è rimasto nessun segno della presenza umana. Nell’afa del pomeriggio sento arrivare come un vento, sottile e liberatore. Ma il rimorso e l’errore sopravvivranno alla mia assenza.
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L A G A L L E R I A F O TO G R A F I C A
Fotogrammi dal passato
Cagliari tra ieri e oggi in una carrellata di immagini per ricordare e riscoprire come eravamo.
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6 Foto di Cagliari tratte dalla pagina Casteddu de susu e is
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Piccioccus de Crobi, su Facebook.
1. Tram a Casteddu 2. Il Poetto negli anni ‘50 3. Famiglia al mare, foto tratta dal libro “La città estiva” di Giancarlo Cao 4. Piazza mattetotti negli anni ‘50, con i vespasiani 5. La Ferrovia di viale Bonaria negli anni ‘50 6. Via Mazzini 7. I casotti e la sabbia bianca del Poetto
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è di Serramanna l’ultima Miss 30
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i è svolta, nel locale “Tre archi” di Cagliari, la seconda selezione del Concorso nazionale di Miss Italia Sardegna del 2012. In palio la fascia Miss Wella Professional. Ad aggiudicarsela è stata Melania Ecca, 19 anni di Serramanna. Bionda, occhi azzurri, Melania studia a Liceo classico Siotto di Cagliari, ma il suo futuro lo vede lontano dai libri: sogna di fare la fotomodella.
Seconda classificata, Miss Rocchetta Bellezza è Vanessa Castagna, 26enne commessa di Sarroch. Occhi castani, cappelli neri ha colpito per la sua simpatie e per un fisico scolpito da anni di ginnastica artistica praticata anche a livello agonistico. La terza classificata è Melinda Mereu di Sant’Andrea Frius.
Una somiglianza impressionante con la showgirl Juliana Moreira è stata la sua carta vincente. Studia al Liceo linguistico per diventare una hostess, per ora la sua passione è la pallavolo. Le ragazze si rincontreranno nelle fasi finali del Consorso che ad agosto decreterà la nuova Miss Sardegna. (c.p.)
Nella pagina a fianco Melania Ecca A fianco, le tre vincitrici Sopra una delle concorrenti, Sonia Schiavon Iscrizioni: http://www.missitalia.it/form-iscrizione. Informazioni: Michela Giangrasso: info@michelagiangrasso.it - 070307740
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L A I F S TA I L
La famiglia Usai di Alessandra Ghiani a.ghiani@cagliaripad.it
Peppi senior per intrattenere i suoi nipotini annoiati organizza una gita dalle parti di Sassari
Ayò a Sassari a scuola è finita. Lillo e Cesarino iniziano a essere un po’ insofferenti per la noia. Il solito Poetto, il solito parco di Terramaini la sera, la solita tv. Mai qualcosa di nuovo.
L
“Nonna? Anche lei? Io non voglio sentire altro, mi sembra che stiamo degenerando su questi argomenti volgari!” Cesarino si alza pronto a uscire dalla stanza.
Così mentre i due cugini, durante un pranzo domenicale, parlano tra loro e cercano di capire come organizzarsi per fare qualcosa di originale, Peppi –nonno- li sente e interviene:
“Volgari? Ma itta as cumprendiu Cesarì! Là che nonno non si permetterebbe mai di parlare di cose zozze davanti ai nipotini! De pipasa po’ fumai seu chistionendi! Il mio amico Tommaso colpisce nel legno le pipe. E se vedi che belle che sono! E’ sempre chiedendomi di andarne a trovarlo, mi sembra ched’è una portunità buona ad andare così ne potete visitare anche posti nuovi. Visto che ci siamo possiamo andare anche al Ghero se volete, è lì vicino!”
“Giovanotti, è da un prezzo che non organizziamo una gita! Che ne dite se il prossimo uicché ce ne andiamo tutti da un mio amico di Sassari chi faidi is pipasa?” “Nonno ma cosa dici, non mi sembra sia un dettaglio particolarmente interessante” lo rimprovera Cesarino che è sempre quello più fine e preciso. “Ahahahhaha o nonnu, troppu togu! Solo moderno!” aggiunge invece divertito Lillo. “Esss o Cesarino! Spiegami cosa c’è di male! Gei du sciu che fai is pipasa non esti aicci interessanti po’ unu pippiu, ma è tutto bavaglio culturale e poi ho promesso a tua nonna che prima o poi l’avrei portata a vedere le pipe di Tom!” puntualizza Peppi.
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“Ottima idea o babbu! Possiamo coliere la pala al ballo anche per vedere la grotta del due marino! Non ci seu mai andau mancu deu!” aggiunge Marietto. Chiariti tutti gli equivoci gli Usai organizzano, per il week end successivo, il mega esodo in quel di Sassari e Alghero. “Ancora custus traballusu innoi? Pitticca sa longhesa! Se avevamo chiesto ai giapponesi minimo minimo finivano tutto in un paio di mesi. Anche di meno! E di sicuro li avevano fatti di notte i lavori, come si fa in ogni posto
tranne che in Italia!” Si lamenta Peppi mentre guida. “Ess o Peppi! Ma sei precipitevole! Non lo sai che la pazienza è la virtù dei morti?” lo rimprovera Pinuccia. “Neeeh! O cugurra! Boh boh, chi dia scippiu fiaus benius cun su trennu! Questo mantello stradale me ne sta rovinando tutta la macchina. Pinuccia segna! Olmedo… all’altezza di Olmedo lo sfalto è pieno di buche! Voglio proprio fare una bella citata a s’Ananas! Po’ caridadi! Questa 131 non è più pratichevole!” il capofamiglia continua, giustamente, a lamentarsi per le condizioni della strada in tutto il viaggio. Arrivati a Sassari Pinuccia inizia a manifestare i primi segni di insofferenza per non aver potuto organizzare il pranzo a modo suo. Infatti gli uomini della famiglia, pensando che sarebbe stato brutto sterri mesa in casa di amici le hanno proibito di preparare pietanze varie:
“Is piccioccheddus hanno fame! E ora come facciamo che non siete voluti essere prevveduti?” “Nonna tranquilla, non abbiamo fame. Ma quando arriviamo? Io non ce la faccio più a stare seduto, mi voglio sgranchiare le gambe!” si lamenta Lillo. “Siamo arrivati” risponde Peppi “ora chiamo Tom e gli dico che siamo arrivati! Pinù passamì su numeru!” “Su numeru? Deu non du portu! L’hai chiamato tu per avvisarlo!” “Oi Pinù non farmene assiccare, hai detto che lo chiamavi tu!”
“Tui portasa patattasa in conca e problemi di amnistia o Peppi. Io manco lo conosco questo Tom!” “A bellu puntu! Inzà immoi itta faeusu? A me me ne sembra brutto presentarci senza aver avvisato. Ayò a su mari e passienzia po’ is pippasa. Magari proviamo a chiamarlo più tardi!” “Ecco qua!” esclama fiera Pinuccia “lo sapevo che dovevo portare il pranzo! Non siete cosa di organizzare le gite voi! Immoi si deppeisi ingolli in ristoranti ad Alghero, aicci imparaisi!” Venti minuti e il Lido di Alghero è raggiunto. Cesarino scruta il posto intorno e dopo aver notato la spiaggia un po’ sporca commenta: “Peccato, deve esserci stata un po’ di mareggiata, è pieno di alghe”. Il padre lo guarda con un viso allibito: “O Cesarì, mi stupisci, tu che sei sempre quello tutto scientifico e con tutte le risposte. Le alghe ad Alghero ci sono sempre, lo dice la parola!!”.
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COLPI DI PENNA
I
n questi giorni non si fa altro che parlare di tolleranza: ci sono fior fiore di demagoghi che si lanciano in articolate dissertazioni nelle quali spiegano quello che è giusto e quello che è sbagliato in fatto di integrazione. Prendo un dizionario e senza la pretesa di partorire qualcosa dai miei ragionamenti confido e mi affido alla definizione canonica del termine. Tollerànza: qualità per cui si permettono e si accettano idee e atteggiamenti diversi dai propri o si dimostra comprensione per gli errori e i difetti altrui. Certo che i rom, ultimamente, hanno messo a dura prova la chiarezza di questo significato. Secondo molti dei nostri vati-profetigiudici e tuttologi c’è poco da impugnare giuste cause ed ergersi a paladini dei più deboli: se gli zingari sono preceduti dalla loro fama è colpa loro. Chiunque li difenda è solo in cerca di visibilità, dicono. Come tollerare che questi dimenticati da Dio, usciti di punto in bianco dalle loro baracche puzzolenti, pretendano dal niente chili di comprensione? Questi ladri inside che costringono i propri figli a chiedere l’elemosina mentre loro vanno a rubare rame e ferro. Questi scansafatiche che non hanno voglia di lavorare e sono disoccupati perché lo hanno scelto loro. Vecchi pedofili che sposano bambine. Queste sagome con i capelli arruffati e le unghie sporche che ipnotizzano la gente per strada e le rubano i soldi. A poco importa che questa fama sia più un passaparola che un’esperienza diretta. Per prima, ed è un mea culpa, un J’Accuse contro me stessa e il mio pessimo esempio, fino a poco tempo fa ho palesemente scansato lo zingaro, non sopportavo quel furbo senza gloria che per strada mi salutava invocando la Madonna, quel farabutto dei peggiori che
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Nome: Lexa Professione: Scrittista (tra giornalista e scrittrice) Segni particolari: Sentimental-spaccona di un metro e una penna lexa@cagliaripad.it
Visione ROMantica un giorno aveva promesso di gettare sangue di morto alle mie spalle per una maledizione contro l’assenza di generosità in me. Un giorno, poi, più per caso che per volontà, mi son trovata con le mie belle zeppe da chilo in un campo nomadi fatto di fango e fogna. Ho stretto con le mie lucide unghie rifatte le mani lerce di chi lo abitava. Sono entrata in una capanna di legno arredata con tappeti polverosi e tv da 40 pollici. Ho sentito l’odore dei fuochi del rame bruciato. Ma soprattutto, ho incontrato, e non solo visto, sguardi. E in quel momento, in quelle sagome bastarde, ci ho visto un’anima. Ho visto dei padri preoccupati per i loro figli, ho visto delle mogli apprensive nei confronti dei mariti. Ed ho scoperto la tolleranza, così come la spiega il dizionario, e la vergogna di un atteggiamento naturale e poco pensato.
Questa comprensione per i difetti e gli errori degli altri mi è arrivata così, senza che io la volessi, denudata da ogni voglia di giudizio e condanna. Ed è arrivata perché non mi sono fermata a quell’ingresso-discarica. Ho imparato che il peggior nemico dell’accettazione è la distanza, quel muro di vetro che ci illude di sapere tutto su chi invece non abbiamo mai conosciuto.
La tolleranza senza il dialogo è un eufemismo per l’indiferenza Miklós Cseszneky
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