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Editoriale

Lo Statista con gli scarponi e l’invenzione del Cai

di Vincenzo Torti*

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Socie e Soci carissimi, esce in questi giorni il volume dedicato interamente a Quintino Sella, ricco di inediti e di scritti personalissimi (abbiamo dedicato a questo argomento il “Portfolio”, a pagina 50, ndr) . Era tempo che il “suo” Club alpino, quello stesso che volle ben presto “italiano” e che, ancora oggi, nell’incipit del proprio Statuto, si riconosce “fondato a Torino nell’anno 1863 per iniziativa di Quintino Sella”, gli dedicasse ben più di un pur costante e riconoscente pensiero, ricordandone l’elevatissimo spessore umano, politico e culturale di protagonista indiscusso della storia del nostro Paese e della scoperta delle nostre montagne. Oggi, grazie all’attenta e competente analisi che il curatore Pietro Crivellaro ha compiuto sui documenti di straordinaria rilevanza che la Fondazione Sella ha reso disponibili, lo Statista con gli scarponi che incontreremo, non senza stupore, nelle pagine del libro, entra – aggiungerei: finalmente – a pieno titolo nella collana Personaggi edita dal Cai. E lo fa da par suo, con la determinazione, il coraggio e la visione che ne hanno contrassegnato l’esistenza, la cui brevità nulla ha potuto sottrarre ad una pienezza di senso e di contenuti che, ancora oggi, costituiscono motivo di ispirazione e modello di riferimento. Lo abbiamo incontrato tutti sui libri di scuola, già a trentacinque anni Ministro delle finanze di un’Italia appena unificata e, poco dopo, incaricato nel 1869 di formare un nuovo governo, alla guida del quale, però, preferisce indicare Giovanni Lanza, per riassumere invece il delicato Ministero delle finanze, legando il suo nome, come ricorda Spadolini nel luminoso ritratto che ne traccia ne “Gli uomini che fecero l’Italia”, “ad un’epoca di rigore, di austerità, di rispetto scrupoloso e puntiglioso del denaro pubblico”, perché “si impongono aggravi ai contribuenti non quando si votano imposte, ma quando si votano le spese”. Il che valeva allora come adesso, ma si sa che la tendenza più diffusa è quella di non far tesoro degli insegnamenti che ci vengono dal passato: del resto – scriveva Montale - “la storia non è magistra di niente che ci riguardi”. Appena divenuto ministro, impone alla sua famiglia, espressione dell’alta e operosa borghesia imprenditoriale biellese, di rinunciare ad ogni fornitura allo Stato, anche indiretta, come pure ad intrattenere rapporti con i pubblici poteri: un esempio di correttezza che dovrebbe ispirare ancor oggi ogni pubblico amministratore. Sarebbe, però, estremamente riduttivo pensare a Quintino Sella solo come statista, per quanto rilevante possa essere stato il suo ruolo in un’epoca di mutamenti profondi e scelte coraggiose, perché, prima ancora di essere politico, è uno scienziato, scrupoloso ed entusiasta di ogni ricerca e di ogni scoperta, minuzioso nella ricostruzione di quanto osservato e aperto alla tempestiva diffusione di ogni dato acquisito a favore dell’intera comunità scientifica. Non a caso anche in campo scientifico emerge per competenza e spirito di iniziativa: geologo, ingegnere idraulico, animatore e riformatore dell’Accademia dei Lincei, nonché poliglotta in grado di conversare presso le Cancellerie europee, correntemente, in francese, inglese, tedesco, oltre ad essere profondo conoscitore del latino, al punto di poter sostenere, in quella che era la lingua di quasi esclusivo appannaggio ecclesiastico, una disputa scritta con il vescovo Ignaz von Dollinger, fondatore della Chiesa dei vecchi cattolici. Ma è dai resoconti di alcuni suoi viaggi di ispezione in Campania, Sicilia e in Sardegna che emerge quella peculiare sua caratteristica sottesa al titolo del libro: dopo aver visitato per giorni e giorni le locali miniere, con spostamenti spesso a dorso di mulo, infatti, ecco che lo statista-scienziato si affretta a calzare gli inseparabili scarponi da montagna per avventurarsi sulle pendici del Vesuvio, dell’Etna o del Gennargentu, fino a raggiungerne le vette, con instancabile energia. Non stupisce, quindi, il fatto che, di ritorno da altra salita, quella del 12 agosto 1863 di riconquista italiana della vetta del Monviso, in una parentesi rispetto all’attività governativa, ma pur sempre deputato alle prese con il futuro tutto da scrivere del Paese da poco unificato, Quintino Sella , raccogliendo il suggerimento di Paolo di Saint Robert e proiettando nel futuro la sua visione di studioso e di amante delle montagne, proponga la costituzione, anche in Italia, di un Club alpino, alla pari di quanto avveniva a Londra e a Vienna. Il 28 settembre scrive a Costantino Perazzi con la consueta essenzialità e determinazione: “Si fa un Club alpino; la mia salita al Monviso ha singolarmente eccitata la febbre alpina” e il 23 ottobre, nel Castello del Valentino a Torino, nasce quel Club alpino che diverrà “italiano” nel 1867. Nessuno più di noi, che ne siamo gli attuali protagonisti, deve gratitudine alla lungimiranza di quest’uomo la cui intuizione, unita a quella degli altri “visionari” di quella prima, lontana adunanza, ha dato avvio a quello stesso Club alpino italiano che, tramandatosi ininterrottamente per 158 anni, è, oggi più che mai, impegnato a mantenere attuali i valori delle origini, rafforzati da una coscienza ecologica sempre più consapevole e dall’attenzione convinta alla “montanità” tutta, fatta di natura e popolazioni, di montagne, di genti che le abitano e di altre che le frequentano con rispetto. Tutto straordinario, sin qui, e di grande rilevanza, ma in qualche modo – penserà qualcuno – già noto. In realtà i documenti esaminati da Pietro Crivellaro, corredati da note puntuali e da cronologie differenziate tra Vita, Montagna e Storia d’Italia, danno conto del personaggio Quintino Sella in una dimensione assai ampia e inedita, tale da farne conoscere e apprezzare ancor più l’eccezionale levatura in tutti gli ambiti in cui si è cimentato. Non solo: le pagine del libro riservano la sorpresa, quanto mai gradita, di farci entrare a fondo nelle pieghe dell’umanità più vera di Quintino Sella, quella degli affetti familiari e, in particolare, del sentimento di amore profondo verso la moglie Clotilde. Pur facendolo con doverosa discrezione, incontriamo parole che, se non avessimo imparato a conoscere l’intensità con cui Sella affrontava ogni frangente di vita, forse non ci aspetteremmo: “Amatissima Clotilde mia ... io porto meco la tua immagine nel profondo delle miniere, sulla cima delle montagne. Pensi anche tu qualche volta a me?”, per poi firmarsi “Il tutto tuo Quintino”. Alla madre Rosa “il vostro affezionatissimo figlio Quintino” trasmette il resoconto della salita al Vesuvio, nel 1861, in modo così realistico e coinvolgente che vorrà esservi accompagnata di lì a breve, nel 1864. Delicatissimo, poi, il ricordo del padre, nelle parole indirizzate alla sorella Sita nel giorno delle nozze: “Me lo rivedo dinanzi col suo sorriso buono; sento ancora la dolcezza delle sue carezze; ... Ritorna a lui il mio pensiero, quando si rivolge a cose elevate e pure; ritorna a lui con amaro rimpianto, quando mi muove a sdegno qualche bassezza o menzogna, Ω a lui generoso e leale sempre.” Così, al termine della lettura, accade di rammaricarsi che non vi sia altro da scoprire ed apprendere, tale è il coinvolgimento provocato, a dispetto del tempo trascorso. E allora, perché ogni iscritto al Club alpino italiano possa comprendere ancor più a fondo le ragioni di un’appartenenza e chi ama la montagna possa dare maggior senso a questa sua attrazione, ricordo il pensiero di Quintino nel suo “Correte alle Alpi, correte alle montagne”: “Se io non vo errato, l’alpinismo come combatte nell’ordine fisico le conseguenze della vita troppo sedentaria cui ci astringe la odierna civiltà, così ci difende nell’ordine intellettuale e morale dai perniciosi effetti del soverchio culto degli interessi materiali, che pur hanno oggi importanza grandissima”. Grazie, Quintino carissimo, con amicizia, riconoscenza e stima e, come avresti scritto tu, Excelsior!

* Presidente generale Cai

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