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Racconti sotterranei | Quando il buio illumina il cinema
Parlando dell’arte cinematografica potremmo spendere fiumi di aggettivi, ma così facendo li sprecheremmo tutti. Non spetta a noi raccontare o descrivere la potenza del linguaggio artistico e divulgativo della settima arte, che ormai pensiamo di conoscere. Anche se, a dire il vero, non è che la conosciamo poi così a fondo. Quando parliamo di cinema tutti annuiscono come per dire “Sì, ok, ho capito”, ma in realtà ci sono molte cose che ci sfuggono. Il cinema è emozione, sogno, racconto del reale o dell’onirico o entrambe le cose insieme. Ma per realizzare quelle due ore d’intrattenimento visivo c’è un complesso meccanismo che parte dall’idea, dalla passione e dalla creatività. Entrano in gioco scrittura, tecnica, suoni, musiche, montaggi. Dagli attrezzisti ai costumisti, dallo sceneggiatore al direttore della fotografia. E poi elettricisti, macchinisti, truccatori e via e via e via. Il coefficiente di difficoltà, quando si racconta la montagna al cinema, sale di qualche gradino. Qua non ci troviamo in uno studio di Hollywood o di Cinecittà. Che sia sopra o sotto la superficie, realizzare film o documentari in contesti bellissimi per natura, ma che proprio per natura sono difficilmente accessibili (soprattutto con troupe e attrezzature), è pur sempre un’impresa difficile da realizzare. Abbiamo spesso parlato dei film dedicati all’alpinismo, così come non abbiamo mai trascurato gli eventi e i festival dedicati ai film di montagna. Eppure mai prima d’ora avevamo realizzato un intero speciale sul cinema in grotta. Sì, parliamo di cinema, e anche di speleologia. Ed è lì, nel buio degli abissi, che il racconto si trasforma in esperienza. Sia per gli spettatori, sia per coloro che il film l’hanno realizzato per davvero. L’occasione di tale scelta nasce dai gratificanti Ω e forse inattesi Ω riconoscimenti che la Mostra del cinema di Venezia ha riservato proprio a questo tipo di narrazione visiva, da Il buco di Michelangelo Frammartino (ambientato nell’Abisso del Bifurto, in Calabria, e vincitore del Premio speciale della giuria) a Caveman di Tommaso Landucci. In questi casi non entra in gioco solo la visione del regista o la storia da raccontare (spesso straordinaria), ma anche e soprattutto l’abilità di muoversi nello spazio, di rispondere all’imprevedibile, di sapersi adattare a un contesto bellissimo e difficile da immaginare come set. Anche se la speleologia ci regala sempre un’iconografia suggestiva e poetica, sappiamo bene che scattare in grotta non è certo il primo pensiero dello speleologo. Figuriamoci cosa può significare per produttori e distributori scommettere su una tale impresa. E insieme a loro, oltre che per i registi, anche per i direttori della fotografia, per gli operatori di macchina, per i fonici e per l’intera sezione tecnica. E poi per gli attori. Alfred Hitchcock diceva che «il cinema è il “come”, non il “cosa”»: prendiamo in prestito (forse in maniera un po’ impropria) la definizione del grande regista perché nelle prossime pagine vi raccontiamo il “come” del cinema in grotta. Per capire cosa significa concretamente fare cinema a centinaia di metri sottoterra lo abbiamo chiesto proprio a chi per mestiere fa il cinema. Luca Massa, speleologo e operatore, nel suo racconto dice di ricordare «tanti anni, tantissimi passi e tanti metri di corda scesa e risalita per disegnare il buio con la luce e riprenderlo per raccontarlo». Spesso a determinare il racconto è l’assenza. Delle parole, della musica, della luce. A quelle difficoltà se ne aggiungono poi altre, come le attrezzature da maneggiare, la fatica, il tempo dilatato, gli spostamenti, le temperature fisse e quelle variabili. Insomma, stavolta è il buio a illuminare il cinema per tutti noi. Sembra un bellissimo paradosso, ma è proprio così.
Luca Calzolari
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