TESI ETERODOSSE PER UNA CRITICA DELLA DOMANDA E DELL'OFFERTA

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Economia e politica come estetica ? Un paradosso e una provocazione che aprirebbero scenari interpretativi inconsueti. Per esempio, che la strutture (o sovrastruttura) portante del sistema-mondo in cui viviamo sia tutt'altro che fondata sulla sua presunta "oggettività/razionalità": il fenomeno Berlusconi, riuscito epigone di una serie di tentativi meno fortunati, lascerebbe infatti credere che viviamo in un mondo dalle caratteristiche essenzialmente estetiche e che forse questo è oggi l'unico tipo di mondo possibile. Allo stesso tempo però, ciò potrebbe significare che la dialettica tra le differenti estetiche non è affatto conclusa: una volta fato ptoprio il gioco (o il marchingegno), la ruota della storia può ricominciare a girare.

Rodolfo Ricci Torricelli

Tesi eterodosse per una critica della domanda e dell'offerta (un contributo alla comprensione della vittoria berlusconiana)

Preis DM 10,- / Prezzo Lit. 10.000 ISBN 3-88975-048-6

Zambon- Verlag 1994 Frankfurt Am Main


Rodolfo Ricci Torricelli

Tesi eterodosse per una critica della domanda e dell'offerta (un contributo alla comprensione della vittoria berlusconiana) c c

Copyright by Rodolfo Ricci Aprile 1994

Niedernhausen/Ts. (BRD)

Rodolfo Ricci & Zambon Verlag 1994 Alle Rechte vorbehalten Printed in Germany - 1994

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Indice Introduzione

pag. 5

Rapsodia delle produzioni

pag. 13

Felicità del consumatore

pag. 14

Utopia: luogo che (non ?) c'è

pag. 16

Guerra, Democrazia e Mercato

pag. 18

Un' ipotesi di lavoro: formazione per la produzione, formazione per il consumo

pag. 22

Rigidità e flessibilità in progress

pag. 30

Organizzazione e comunicazione

pag. 35

Il consumo come processo creativo

pag. 41

Dialettica e capitale

pag. 46

Sulla natura dell'essere e dell'avere

pag. 52

"Essere-per-la-morte" e consumo ?

pag. 55

Dubbi I e II

pag. 56

Ancora sulla rappresentanza del consumo

pag. 61

Dubbi III e IV

pag. 66

Letzte Stufe

pag. 69

Europa e nazionalità

pag. 71

16 Settembre 1992

pag. 75

22 Settembre 1992

pag. 76

6 Ottobre 1992

pag. 77

Ancora intorno alla scienza

pag. 79

Una modalità di critica estetica

pag. 83

Epilogo: 27-28 marzo 1994

pag. 85

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Introduzione

Le impressioni che seguono, più pomposamente tesi, cercano di riassumere i postumi teorici di impegnative discussioni accese d’improvviso tra le pause del lavoro con contraenti più o meno graditi, in un momento particolarmente prolifico per le riflessioni politiche: il 1992. Sono state scritte di getto, se si vuole con una certa carica euforica fornita dal Chianti e dalle estenuanti nebbie notturne dell’inverno tedesco sulle colline del Taunus. A Francoforte, sulla Zeil, o camminando a testa bassa nel Westend, è stato possibile evidenziare taluni collegamenti tra concetti come democrazia e consenso, consumo, umane congenialità e predisposizioni individuali, scienza ed arte, politica e dovere / politica e piacere, che nella notte mi davano lo spunto per esercitare con un certo compiacimento, modalità diverse di espressione. Indispensabile la collaborazione, estemporanea, ma continuativa di alcuni commensali, che non citerò, ma a cui devo la produzione delle tesi. Il crollo del famoso muro, poi, ha fatto il resto, considerando che l’evento, anche su quelli che come me non ne erano stati mai degli estimatori ma neanche dei detrattori (per motivi puramente generazionali), un certo effetto l’ha comunque prodotto.

Anch’io, dunque, e G. Bartolotta, abbiamo risentito della cosa e, di concerto, ma con un confidente pudore, abbiamo in successive sere, prodotto queste tesi in cui si afferma che l’attuale configurazione (strutturale) del sistema-mondo del capitale non rimanda ad altro che ad una produzione estetica, come estetico appare essere il carattere precipuo dell’umano. L’ancoraggio alla storia non deve far lievitare eccessivamente il peso ermeneutico delle pagine che seguono, le quali, ad una successiva lettura, ci paiono più adatte ai lustri che ai secoli. E si sa che la storia, di questi tempi, corre molto veloce; così, a scanso di equivoci e cercando di precorrere eventuali imitatori o peggio usurpatori del copyright (già individuabili in tutta la schiera di profeti del libero mercato naturale che percorre in lungo e largo le grandi pianure d’Europa e del nord-Italia) ci siamo accinti alla pubblicazione, non senza riserve di varia natura, visto che, com'è noto, il momento attuale non predispone a scelte serene. Che l’economia sia una scienza esatta, infatti, nessuno osa affermarlo con indubbia certezza; tuttavia non mancano i divulgatori di idee affini che, se a livello teorico lasciano il tempo che trovano, sul piano della vita quotidiana invece, nella quale ognuno di noi è inevitabilmente coinvolto, producono effetti micidiali. Quelli per cui alla fine, lo sviluppo di ogni paese è nelle mani del FMI e della Banca Mondiale, mentre il risanamento politico-istituzionale italiano può trovare un legittimo attore nel Cavalier Berlusconi.

Se si guarda alla situazione attuale con l’occhiale della psicologia sociale (e non necessariamente della Grande Politica), è senza dubbio avvincente notare come la fine di una breve delimitazione territoriale come quella innalzata a Berlino nel vicino 1961, abbia potuto sortire tanto prodigiose dinamiche.

Registriamo però posizioni per niente entusiasmanti anche da aree ideologiche o culturali del tutto differenti: l’idea per esempio, che grandi investimenti strutturali (secondo l'insegnamento di Keynes), possano essere risolutori di problemi economico-sociali come la disoccupazione, in situazioni di alta concorrenzialità internazionale, nella loro presunta capacità di rilanciare lo sviluppo -ma quale e per

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cosa ?-, è un’opinione ancora in voga. Allora il modello socialdemocratico può ridiventare un esempio da seguire, mentre invece, per altri ancora, un antagonismo etico verso il capitale è l’unica opportunità che ci rimane. In tutte queste diverse opzioni, si manifesta a nostro modo di vedere, il dato per cui comunque, a questo tipo di mondo -e degli individui che lo abitano- si riconosce ancora una razionalità indiscutibile, seppure negativa. Una sorta di razionalità del post-hoc che però diventa cornice invalicabile e definitiva. E’ questo, purtroppo, il fondamento su cui riteniamo reggersi la essenzialità e se si vuole, la imprescendibilità manifesta del sistema-mondo del capitale. Il consenso intorno a questo abito logico/razionale del sistema, che pervade la coscienza delle leaderschip politiche, a prescindere dal fatto se siano da considerarsi sostenitrici o antagoniste del modello, è in fin dei conti il caposaldo decisivo che permette al sistema-mondo del capitale di riprodursi e vincere. L’altro crampo intellettuale, quello per cui quindi la critica viene costruita sulla presunta immoralità del sistema (ma immoralità rispetto a cosa ?), e per la quale l’unica via d’uscita è di tipo normativo/prescrittivo, cioè etico, continua a non fare i conti con la capacità ammirevole del sistema di fare comunque proseliti. Cioè -dal nostro punto di vista- di creare continuamente nuove imponenti schiere di desiderosi e volenterosi consumatori. Questo è quanto si evince in modo macroscopico da ciò che è avvenuto con la cosiddetta rivoluzione di velluto all’est; ma anche l'esito dell'ultimo voto italiano è a tal proposito istruttivo.

mezzi temporali e intellettuali, dalla nostra incertezza, ma forse anche (a parziale sollievo) dalla carenza di strumenti teorici a disposizione- individua, come detto, nella qualità estetica la caratteristica fondamentale del sistema mondo del capitale, qualità che d’altra parte il sistema condivide con le strutture psicoculturali profonde dei soggetti che vi partecipano. Se questa impostazione, o visione, contribuisca a chiarire qualche aspetto di ciò che sta accadendo e di ciò che potrà accadere, e del perchè alcuni fatti comunque accadano mentre altri no, (per esempio che la sinistra in Italia non riesca a vincere le elezioni dopo 50 anni di opposizione) è una domanda di fronte alla quale restiamo giustamente perplessi. Di una cosa, tuttavia, siamo relativamente certi: l’approccio proposto ci pare fornire una parziale risposta del perchè questo tipo di mondo è ancora in piedi. E, a posteriori, ci sembra poter alludere alla sorprendente vittoria del Cavaliere nelle elezioni italiane del 27 e 28 marzo 1994, evento a cui dedichiamo alcune considerazioni a mo' di epilogo, che ci sembra chiudano il cerchio aperto dalle tre tesi iniziali. I più sentiti ringraziamenti a tutti coloro che per diretta o indiretta intercessione hanno contribuito alla stesura di queste tesi e ai quali risparmiamo l’onere, o la gloria, dell’inchiostro. Nessuno di loro porta, evidentemente,alcuna responsabilità delle cose che vi verranno lette. Rodolfo R.Torricelli Niedernhausen, dicembre'93/marzo'94

L’ipotesi che ci permettiamo di proporre -tra diverse inevitabili contraddizioni derivate dalla scarsezza dei nostri 7

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Tesi eterodosse per una critica della domanda e dell’offerta

e tragiche) e con ciò riproducono se stesse. Esse sono la condizione estetica. Per ciò stesso diventano, all’uomo, la condizione prioritaria di sopravvivenza. Condizione formale e di contenuto insieme. Poichè l’uomo è l’essere estetico. E il Capitale appare oggi come LA condizione estetica.

Per un sincretismo teorico nel tempo eclettico del capitale.

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II

Rapsodia delle produzioni

Felicità del consumatore

Che cos’è il consumo se non consumo di produzione estetica ?

Il progetto dell’essere gettato è essenzialmente un progetto estetico. L’essere gettato è l’essere gettato nelle infinite opportunità estetiche.

Di contro a Benjamin, l’epoca della riproducibilitá infinita dell’opera d’arte si trasforma in epoca della producibilità infinita delle tipologie di merci. E cioè, dalla riproducibilità infinita di una singola opera alla produzione infinita di innumerevoli opere. Quindi, dalla produzione di massa, alla produzione psicologicamente orientata di infiniti modelli estetici di merci a seconda delle prospettive estetiche/storiche dei singoli attori sociali. (Marketing) Non più solo musica e pittura e scultura e architettura e poesia e gioco, ma merci come conglomerato abissale delle arti possibili. La scienza e la filosofia come arti di assemblaggio estetico di materiali e processi.

Il consumo, l’idiozia estetica del consumo, è la realizzazione storicamente determinata dell’essere gettato estetico, è il progetto storicamente determinato dell’essere gettato. Qual è l’idiozia estetica del consumo? Qual è l’idiozia del capitale ? E’ l’idiozia di una opportunità storica collettivamente riconosciuta e legittimata della dimensione estetica. La merce, le infinite merci sono la realizzazione storica dell’essere estetico privato di una autonoma produttività individuale e che proprio per ciò, per tale privazione, deve produrre collettivamente, consumando. Consumando le produzioni sociali infinitamente ricche, l’essere individuale, il soggetto estetico, -privato della propria capacità a rigore infinita di produzione estetica- (una volta si diceva alienato), sposta il proprio desiderio, la propria capacità produttiva, nella capacità produttiva del consumo.

Il libero gioco “è” l’arte. Il capitale “è” oggi la condizione della produzione e della fruizione estetica. La visione etica (il socialismo etico) è sconfitta perchè blocca opportunità di produzioni estetiche “storicamente” libere. La sussunzione di società ad “estetiche etiche” non può, inevitabilmente, non raggiungere dei colli di bottiglia, dei blocchi, delle crisi collassiali.

Ma tale attività è solo vagamente estraniante poichè il consumo nell’immensa varietà di merci disponibili, viene percepito, ed è, esso stesso, una attività costruttiva, creativa; è una variante estetica, in quanto presuppone la possibilità della scelta.

Le dimensioni puramente estetiche non corrono questo rischio. Esse riproducono all’infinito le opportunità estetiche (commediali, drammatiche

La soddisfazione dell’essere estetico consumante merci non è minore, a rigore,

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di quella dell’artista pittore che consuma terre colorate disponendole sulla tela.

improduttivo rispetto alle possibilità estetiche storicamente determinate.

L’infinità della disponibilità di merci si trasforma ed appare (e storicamente è) come una disponibilità naturale.

Solo se i consumatori potessero osservare esteticamente la propria capacitàpossibilità di produzione e di consumo di proprie produzioni estetiche. Solo, cioè, se si dessero opportunità di produzione e consumo tali da assumere gradi di attrattività e fascinazione superiori a quelle “collettivamente” imposte e “collettivamente” legittimate. Solo, cioè, se si costituisse un consenso alternativo, intorno a tale opportunità: per esempio intorno a produzioni e processi sempre meno imposte collettivamente e sempre più auto- ed eterodirette.

E’ dalla infinita disponibilità naturale di materiale grezzo -o come tale vissutoche nasce l’arte classica. E’ dalla stessa scoperta (una scoperta) che nasce la possibilità produttiva estetica del consumo inteso proprio come arte. Le merci diventano i materiali. Le arti possono diventare infinite. Gli stili, molteplicità infinite. La scienza è la possibilità assemblante -o disgregante- delle molteplici opportunità di produzione e di consumo. La scienza è dunque il processo. La procedura. Il processo moltiplicante. Come nella parabola del pane e dei pesci. E come tale il processo è autosufficiente ed autoreferenziale, sciolto da ogni telos. Nessuno, nella parabola divina ci ha mai detto o si è interessato al numero di coloro che furono o non furono sfamati dalla moltiplicazione dei beni. Ciò costituiva un fatto secondario. Quello che interessava era essenzialmente il miracolo, il miracolo estetico. La scienza è dunque questo: il miracolo estetico. La tecnologia è la capacità di riproduzione del miracolo estetico. Poco importa che esso assuma caratteri positivi o negativi, che sortisca effetti mirabili o catastrofici. Rispetto a cosa, infatti, è possibile giudicare i risultati della scienza come mirabili o catastrofici? Ciò che importa è solo il miracolo della scienza, il miracolo estetico.

Con ciò potendo le produzioni individuali superare in quantità quelle permesse da molteplici produzioni collettive, si disporrebbe complessivamente di una infinità superiore di possibilità di fruizione, di consumo, di arte. Aumenterebbero cioè le variabili a disposizione per l’opera. Diminuirebbe la “semplificazione” collettiva. E il processo potrebbe arricchirsi. Arricchirsi in senso estetico. Un mutamento di tal genere comporterebbe un cambiamento della qualità del processo e dell’opera, ed allo stesso tempo, per affermarsi necessiterebbe di un mutamento del rapporto di qualità/quantità. E al processo di assemblaggio estetico così nuovamente organizzato potrebbe ancora partecipare la natura, o meglio le infinite opportunità estetiche delle produzioni naturali, la cui ricchezza non è inferiore a quella degli artefatti umani. Il mutamento risiede quindi in un atto di coscienza ? Sì, ma di una coscienza estetica. “Immaginando gli occhi come telecamere aperte nel buio di sottili luminescenze, così sottili e sofisticate rispetto a quelle che la scienza attuale semplifica collettivamente- diminuendo con ciò il grado di opportunità estetiche.” Forse la cultura underground-psichedelica voleva dire qualcosa di analogo.

III

Ma ci sono in ambito estetico possibilità di misurazioni, valutazioni, gradi ? Utopia: luogo che (non) c'è Ma è quindi possibile scalfire un modello di tal fatta ? Serve a qualcosa ? E’ forse necessario ? Perchè ? Non è forse, anche tale necessità, sostanzialmente un bisogno estetico ? Solo per una ragione potrebbe essere necessario. Solo cioè se il modello risultasse

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GUERRA E DEMOCRAZIA

appartenenti a classi (generi) diversi.

Perchè è ancora sopportabile la guerra ? Solo per la sua estetica. Per il senso estetico della battaglia, dell’ esplosione, della sconfitta, del dominio. Non esiste guerra (per l’Occidente), esiste solo la sua estetica. La guerra, come ogni cosa e come ogni fatto, è una merce che si consuma. L’ultima delle grandi guerre, la guerra del Golfo, è stata veramente “la madre di tutte le battaglie” estetiche. Accanto ad ogni ideologia che la sostiene e la produce, la guerra è la più grande delle operazioni estetiche. Ed ogni sistema ideologico è un sistema in quanto è il culmine di un certo tipo di ricerca estetica. Ogni modello teorico, al pari del modello di un abito o di una automobile, è un modello in quanto rimanda alla sua estetica. Ogni modello scientifico è tale. Ogni formalizzazione è un modello.

Ora, il genere accomunante gli infiniti approcci ed atteggiamenti estetici è stato fino ad oggi essenzialmente il denaro-status-potere su cui i soggetti storici hanno finora costruito e rispetto al quale hanno atteggiato il loro specifico essere-per-lamorte.

La democrazia stessa, il modello democratico è un certo modo di organizzazione estetica. Di organizzare l’estetica. La crisi della democrazia è la crisi del modello estetico democratico in quanto modello estetico collettivo delle maggioranze "falsificate". Falsificate perchè non si da maggioranza se non di soggetti astratti. Perchè può darsi maggioranza solo per semplificazione degli insiemi e solo come minimo comun denominatore delle estetiche delle classi, dei gruppi e degli individui concepiti secondo la loro appartenenza a categorie definite secondo il loro status reddituale o di posizione gerarchica. In un certo senso, i concetti di maggioranza e minoranza sono, nel campo di applicazione delle scienze umane, categorie “tautologiche”; misurano solo ciò che precedentemente hanno ridotto a sè stesse. Non hanno possibilità di spiegare se non quantità che vengono ridotte ad uno stato di omogeneità teorico che in realtà non hanno, o hanno solo in particolari momenti storici (es. le classi sociali).

Ma nel momento in cui si desse un cambiamento in questi approcci tale per cui il trinomio denaro-status-potere non fosse più sufficiente a definirli, sarebbe indispensabile individuare un nuovo genere a cui riferire gli atteggiamenti estetici degli attori sociali. Ci sarebbe cioè bisogno di un nuovo tipo di democrazia, di una semplificazione attuata secondo standards differenti. Mi pare che quel momento sia già arrivato. Paradossalmente dunque la democrazia attuale è in crisi perchè riduce le opportunità estetiche tendenzialmente infinite, nel suo costituirsi sulla base di un principio ad alto contenuto di astrazione, definito secondo un approccio sostanzialmente contabile. Il totalitarismo è, in questa luce, la tentazione di poter superare tale crisi attraverso l’imposizione di singole estetiche che proprio in quanto unitarie ed onnicomprensive, pretendono di rappresentare l’estetica del singolare, o meglio le infinite estetiche singolari nella loro molteplicità, collocandole in posti precisi e con funzioni specifiche nel suo sistema organizzato secondo principi gerarchici, oltre ed al di là dei sistemi di maggioranza/minoranza e dei criteri di oggettività, anche se pur sempre dentro un sistema di consenso. Il totalitarismo non può che basarsi, per tale operazione di consenso/potenza, su paradigmi etici, cioè su quei particolari modelli estetici che sono le esperienze etiche. L’oggettività del sistema, cioè la sua capacità di acquisire consenso, è in questo caso, la presunta oggettività dell’edificio etico su cui poggia. Questi edifici etici giocano, solitamente, su supposti a-priori genetico-culturali costitutivi della razza “uomo”, che pare debbano persistere ed attraversare la storia, riproponendosi con forza nelle epoche di maggiore crisi.

Potrebbe quindi dirsi che la democrazia è in crisi perchè viene percepita come superflua. Superflua nel senso che in un mondo che pretende di valutare maggioranze e minoranze secondo categorie predeterminate, la democrazia in senso classico non esiste più; non permette automaticamente la crescita; essa diventa, più che altro un sistema statistico, qualcosa di simile ai modelli di rilevamento dell'audience televisiva. E i sistemi di valutazione statistica funzionano, come detto, a condizione che gli insiemi e i sottoinsiemi da calcolare siano omogenei, cioè in massima approssimazione astratti. Non sarebbe infatti possibile parlare di maggioranze o minoranze tra insiemi

Il mercato è invece la libertà di far vincere di volta in volta le macro-estetiche possibili in un mondo in cui non può darsi estetica che non sia collettivamente consumata, quindi ridotta all’interno del suo (del mercato) meccanismo di riproduzione. Però le puntuazioni estetiche singole, nella loro superiore infinità non possono venir soppresse, anche se possono essere adeguatamente gestite (fino ad un certo limite) se introdotte nel circuito del consumo collettivo autogratificante come

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apparente produzione soggettivamente definita e soggettivamente scelta. Questo è ciò che oggi accade.

UN'IPOTESI DI LAVORO: FORMAZIONE PER LA PRODUZIONE, FORMAZIONE “PER IL CONSUMO”

Decentrare quindi la produzione di estetiche, moltiplicarle indefinitamente, sottrarle al cappio del mercato collettivamente legittimato e riconosciuto, cioè del capitale -che le destruttura nel momento stesso in cui le omogeneizza e monetizza parametrandole nella sua logica e introducendole nel circuito della sua riproduzionee cioè del consumo collettivo, potrebbe voler dire permettere un aumento dei produttori diretti (non mediati dal consumo capitalistico) di estetiche. Ma questa utopica opportunità dovrebbe voler dire che le puntuazioni di potenze estetiche -i progetti gettati- si realizzino già, in primis, nell’atto della produzione e non più solo in quello del consumo collettivo, anche se pur del consumo delle proprie eventuali produzioni “coscienti”. Non sarebbe infatti sufficiente un consumo qualitativamente più elevato, nè uno sviluppo delle produzioni autonome non mediate dal capitale, o meglio, tali opportunità potrebbero darsi sola a determinate condizioni: l’opera, il manufatto, la procedura, (intese come opere coscienti, cioè opere “d’arte”), sono tali al di là della loro monetizzazione, del loro riconoscimento storicamente determinato. A rigore, l’artista, l’artigiano, l’esteta, può essere sazio del proprio produrre, anche ove il produrre sia una operazione non mediata dal capitale. Il consumo, il rapporto con i consumatori della nostra opera, è solo il compimento naturale ed inevitabile del nostro produrre -che è sempre un produrre socialmente e culturalmente mediato- e non per forza necessità di operazioni di potenza. Un’infinità di opere ci sono sconosciute e purtroppo molte di esse resteranno tali. Significa, questo, che non siano mai state prodotte ? La nostra ignoranza non può essere scambiata con la realtà. E la realtà è che qualcuno le ha prodotte e producendole, le ha “fruite”. Il senso, la finalità delle opere è solo l’arricchimento individuale e collettivo delle opportunità di fruizione. E’ solo per ciò che necessitiamo di formazione/ informazione al massimo grado; cioè di possibilità di fruizione. In una dimensione di tal genere, il prodotto ha un mercato “naturale” in quanto legato alla naturalità del produrre che implica per forza una naturalità di fruizione. Crisi di sovrapproduzione, in questa “città del sole”, non potrebbero darsi ! “Qualcuno, nel corso del tempo passerà per questa strada, qualcuno, o qualcosa, riconoscerà l’opera, poichè io l’ho fatta. L’estetica universale che è in me l’ha prodotta.” Come appunto in “Utopia di un uomo che è stanco” di Borges.

E’ noto come il grado di scolarizzazione e formazione dei lavoratori sia determinante per il livello di tecnologie produttive utilizzabile in una economia e conseguentemente per il valore della produzione stessa, cioè per la ricchezza e la potenza di un Paese. Ma esso è tantopiù importante e determinante se si guarda al grado di scolarizzazione e formazione nella prospettiva del consumo. Da questo lato prospettico infatti, il livello “culturale” delle masse, (non solo dei lavoratori) determina in buona misura -almeno tendenzialmente- le modalità e la qualità della produzione. Non è infatti facilmente immaginabile il consumo di beni high-tec, ad esempio Personal Computers, in paesi del terzo e quarto mondo, perlomeno nella misura in cui ciò è possibile nei paesi dell’occidente industrializzato. Da questo punto di vista quindi, la formazione e la cultura agiscono come una delle condizioni fondamentali per la capacità del capitale di riprodursi permettendo la formazione di mercati localizzabili non tanto, o non solo, territorialmente, quanto piuttosto “culturalmente”. Se Leonardo Da Vinci fosse vissuto in un’epoca in cui la comprensione delle sue scoperte fosse stata possibile in un più largo raggio di spiritualità umane, forse parte di esse (quelle non troppo condizionate da un rapporto sfavorevole col grado tecnologico storicamente acquisito) non sarebbe rimasta al mero rango di disegno o progetto. Lo stesso può dirsi, oggi, per tutto ciò che sappia di “utopia”. Purtroppo, per Leonardo, gli investimenti dell’epoca si rivolgevano verso settori e campi riconosciuti, se non universalmente, in grande misura, come luoghi in cui lo “spirito” si esprimeva e trovava riconoscimento. (Usiamo “spirito”, laddove oggi useremmo “immaginario”, più o meno collettivo o comunque prevalente). In altri termini, il grado medio della cultura di quella società determinava la direzione e l’intensità degli investimenti; -magari verso la costruzione delle grandi cattedrali gotiche-. Ciò avviene sempre. Un imprenditore del terzo mondo, allorchè volesse investire

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in beni rivolti al consumo interno, non potrebbe far altro che tener conto del grado medio di cultura produttiva e di consumo del suo popolo. Nello stesso modo, un’azienda che finalizzasse la propria produzione al mercato di un paese altamente industrializzato dovrebbe realizzare tali beni con caratteristiche adeguate di processo e di standard qualitativi. Lungi da noi l’idea di attribuire un giudizio di valore al termine “qualità”, si vuole qui solo sottolineare l’interdipendenza di cultura ed economia sia dal punto di vista della produzione che del consumo. D’altra parte gli studi di sociologia economica e le applicazioni specifiche del Marketing non fanno altro che stabilire correlazioni tra questi aspetti, e non da oggi. Ma restando all’attualità, le associazioni più o meno formalizzate dei consumatori sorte negli ultimi decenni in quasi tutti i paesi economicamente avanzati, mostrano come le capacità soggettive e collettive di giudizio, di gradimento o rifiuto di un prodotto, siano da collegare direttamente al livello culturale della popolazione. La logica della cosiddetta “Qualità totale” è anche in certa misura una logica derivata da tali sviluppi. Naturalmente essa è una logica aziendale che tende ad ipotizzare una qualità del prodotto definita secondo standards puramente “tecnici”, -non necessariamente contestuali al momento di uso e fruizione del prodotto,- spesso motivata esclusivamente dalle innovazioni della concorrenza. Ma indubbiamente essa da una risposta alla specifica domanda di beni sempre più sofisticati (siano essi beni di consumo o beni durevoli o beni di investimento); una domanda tendenzialmente di maggioranza. Una domanda che è intrisa ed estremamente condizionata da una cultura “scientifica”, laddove scienza e tecnologia appaiono essere fondamento di una cultura storica prevalente che vede questi campi del sapere umano assolutamente indipendenti ed autonome -”autoreferenziali” direbbe Barcellona-.

una risposta a tali bisogni. Necessiterebbe infatti una ristrutturazione imponente da tutti i punti di vista. Risultato: automobili sempre più silenziose, design sempre più attraente, comodità contro lo stress della guida, ecc., sapientemente promosse da campagne pubblicitarie monumentali e seducenti. Cosa resti di tali comforts negli ingorghi metropolitani è un altro affare; ma il risultato di trovare un equilibrio tra le culture della domanda e dell’offerta viene raggiunto incorporando nel prodotto qualità che a rigore appartengono all’ambiente. Ma se ciò comunque avviene, dovremmo chiederci come ciò sia possibile. E se e come siano ipotizzabili percorsi differenti ed alternativi. Sappiamo che la riproduzione del capitale trova una nuova chance di affermazione allorchè comprende di essere strettamente dipendente dall’evoluzione culturale di milioni di individui. Ciò avviene in modo preponderante alla fine degli anni ’50 per quanto riguarda gli USA e degli anni ’60 per l’ Europa,in concomitanza con la crisi del sistema produttivo di tipo tayloristico-fordista e delle produzioni di massa standardizzate che richiedevano lavoro a bassa specializzazione e la disponibilità dei lavoratori ad eseguire puntualmente ed esclusivamente le operazioni prestabilite dalle direzioni aziendali. Da ricordare che tale modello va in crisi per due contemporanee ragioni, l’una interna alla produzione (sviluppo della critica e della lotta operaia ad un modello di produzione rigido che vede il lavoratore come semplice complemento della macchina) e l’altra esterna (saturazione dei mercati di produzioni di massa e sviluppo di una domanda composita e mutevole il cui soddisfacimento necessita di capacità di innovazione continua incompatibile con il modello fordista). A tali sollecitazioni l’impresa reagisce con la sperimentazione di modelli organizzativi nuovi, flessibili, che utilizzino le competenze operaie da un lato, e che possano rispondere velocemente alle nuove richieste del mercato dall’altro.

La logica della qualità totale è in questo senso una risposta “parziale” -orientata secondo la scienza del marketing- verso una maggioranza che viene contemporaneamente costruita ed esaudita nei suoi bisogni. La novità è costituita dunque dal fatto che l’impresa si pone nella prospettiva di rispondere ad un bisogno specifico della domanda, cercando finchè ci riesce, di soddisfarlo attraverso la ricerca e l’innovazione e quando non ci riesce, di manipolare il bisogno fino a farlo corrispondere con l’offerta. Le politiche strategiche del settore automobilistico sono al riguardo esemplificative. Non c’è dubbio che la domanda sia sempre più di aria pulita e di strade non troppo sature di traffico. Ma l’impresa, per ragioni molteplici non è in grado di dare ancora

Una volta acquisita questa prospettiva, il processo di riproduzione supera i limiti storici della saturazione dei mercati intesi in senso puramente fisico-materiale. Allorchè i mercati si trasformano e si costituiscono nell’esigenza di soddisfare bisogni sempre più spesso “immateriali” di uomini, donne, vecchi e bambini che esprimono molteplicità di richieste individuali e collettive complesse, le opportunità di espansione di essi diventano pressochè illimitate e in linea teorica può essere ipotizzato uno sviluppo continuo in territori ristretti -l’occidente- ignorando ciò che avviene alla periferia dell’impero.

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L’espandersi di una domanda multiforme e disomogenea necessita in qualche


modo di una risposta diversificata. Il sistema è chiamato ad assumere caratteri di elasticità nuova. Ove questo non avvenisse il rischio di disequilibrio comporterebbe problemi di difficile soluzione e si dovrebbe optare per un peggioramento delle condizioni materiali di vita, ricollocando la qualità/quantità della domanda su livelli precedenti e “solvibili”. Per inciso, il crollo dei regimi dei paesi del “socialismo reale” potrebbe essere ricondotto sotto una ipotesi di lettura di questo genere, e cioè: 1° fase), grande sviluppo della domanda immateriale nei decenni ’70 e ’80 quale conseguenza dell’affermazione di uno stato sociale che garantiva prestazioni minime ma essenziali, (occupazione, case, scolarizzazione, sanità, servizi base, ecc.) a fronte di un sistema di produzioni rigido e inelastico a tali sollecitazioni. 2° fase), crollo dei regimi e distruzione dello stato sociale. 3° fase), attestarsi della domanda su livelli qualitativi inferiori rispetto a quelli che hanno determinato il crollo, a seguito di ristrutturazioni, disoccupazione, ecc. Raggiungimento di un “equilibrio involutivo”. Migrazioni, marginalità di larghe fasce sociali, restrizione della base produttiva. Ciò premesso, torniamo al tema iniziale e quindi ad una ipotesi di prassi da sviluppare nel campo formativo: per quale tipo di politiche di formazione si dovrebbe dunque optare ? Per rispondere a tale domanda appare prioritaria la risposta ad una domanda ulteriore: devono essere ipotizzate politiche formative di mero supporto alle esigenze riproduttive di breve termine del capitale, oppure devono essere percorse ipotesi formative di lungo termine -senza per ciò ricadere in letture ideologiche e necessariamente antagonistiche- ? Nel primo caso, la risposta sarebbe semplice: lasciamo, come tra l’altro a gran voce richiesto, che le politiche formative le faccia e le stabilisca l’impresa. Nel secondo caso, la risposta non può non risultare di una certa complessità: se è vero quanto è stato detto precedentemente, e cioè che la cultura e la formazione in senso lato e non puramente tecnico giocano un ruolo fondamentale nel tipo e nell’intensità dello sviluppo, si dovrebbe essere sempre più presenti su questo palcoscenico. Come ? Rivendicando un ruolo non in subordine, ma elaborando strategie di orientamento complessive che mirino a conquistare una egemonia nel medio periodo, perchè il medio-lungo termine, contrariamente al famoso detto di Keynes, è sempre di

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più il parametro che permette di configurare modelli economici e sociali vitali, anche e soprattutto nel senso ecologico del termine. Una formazione che si occupasse di agire solo per le specifiche e momentanee esigenze dell’impresa, comporterebbe una formazione sempre più per pochi (restrizione della base produttiva sempre più specializzata, esclusione di larghe fette di società, quindi spreco delle risorse umane disponibili) e a senso unico, cioè esclusivamente per il momento produttivo. A medio termine questa scelta non può non incontrare difficoltà e principalmente per due motivi: primo, “qualità totale” dei processi produttivi e del prodotto sarebbe sempre più di appannaggio di ridotte fasce sociali in grado di “consumare” produzioni ad alto contenuto “culturale”; secondo, tale qualità, lungi dall’essere “totale”, sarebbe in realtà molto parziale, in quanto delimitata da contesti macroculturali definiti essenzialmente ed esclusivamente dal paradigma tecnicoscientifico, un paradigma che rischia una crescente autoreferenzialità. Come corollario di tali sviluppi, non sono da escludere disequilibrii e crolli per un sistema che pretende di costituirsi stabilmente all’interno di contesti instabili dal punto di vista sociale, ecologico e psicologico (dello stesso lavoratore garantito). D’altra parte, segnali al riguardo non mancano. Una formazione alternativa non può non essere una formazione integrale, del sapere (tecnico), del saper fare (pratico) e del saper pensare (dentro e fuori della produzione) in modo creativo, critico ed innovativo. Un sapere ed un saper pensare cioè, con caratteri non secondari di utopia ed eclettismo. Se il fine è una formazione per la qualità tendenzialmente totale -e non altro-, non dovrebbero esserci problemi insormontabili per un management intelligente di un’impresa illuminata. D’altra parte l’impresa stessa ha già cominciato a ragionare in termini di integralità allorchè laureati in lettere o filosofia vengono preferiti nei ruoli di dirigenza agli ingegneri (figura dirigenziale tipica del Taylorismo), o quando la voglia di codeterminazione viene fondata sul bisogno di utilizzare il sapere operaio, rivalutato al rango di sapere di pari dignità e in ogni caso ritenuto sempre più indispensabile. (Toyotismo) Si è visto come il grado di scolarizzazione e formazione influenzi non solo la capacità produttiva, ma anche la capacità e la qualità del consumo. Cioè, ogni produttore è essenzialmente un consumatore, di tempo di lavoro e di tempo e

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opportunità di consumo. Anche coloro che non intervengono direttamente nel processo produttivo in qualità di produttori, possono determinare potentemente la produzione nella loro funzione di consumatori. Una capacità di consumo sempre più cosciente è uno stimolo al miglioramento della qualità dei processi di produzione e dei prodotti. Una formazione per il produrre dovrebbe allora essere abbinata ad una formazione al “consumo” o meglio alla “fruizione” dei beni. Nello stesso interesse dell’impresa. D’altra parte in una società il cui momento produttivo appare sempre più decentrato e non precisamente collocabile fisicamente, è anche chiaro che la produttività del sistema dipende in larga misura dal contesto fisico-economicoculturale che circonda l’azienda come sistema fisico. Cioè, la produttività è sempre più una produttività del contesto, cioè una produttività del “consumo”.

non immediatamente riconducibili ai saperi e alle competenze richieste dall’impresa, contenuti che forniscano ai lavoratori gli strumenti di analisi per interpretare il proprio ruolo dentro e fuori l’ambiente di lavoro nella loro duplice veste di produttori e di consumatori. Una formazione per la produzione dovrebbe cioè essere integrata da percorsi di “formazione per il consumo”.

In tal senso l’utenza delle politiche formative non può non essere una utenza allargata, universale. E i contenuti formativi non possono essere improntati a contenuti esclusivamente tecnico/operativi. I sistemi-paese non sono fatti solo di impresa. E questo, meglio di tutti lo sanno gli imprenditori. Le risorse umane non direttamente produttive di intere nazioni, costituiscono i macrocontesti che decidono della capacità dei sistemi di stare “sul mercato”. La promozione delle risorse umane nascoste o ritenute secondarie -quale può essere, ad esempio, quella costituita dai cittadini migranti- è un’attività che non può essere più inquadrata in azioni di tipo assistenziale rientranti nelle politiche di sostegno a categorie marginali tipiche del vecchio stato sociale. Le potenzialità che tali settori possono esprimere sono ancora tutte da scoprire. Per restare all’esempio, i cittadini migranti ricoprono nei fatti un ruolo importantissimo nell’ambito di tutte quelle attività economiche e culturali che si muovono a cavallo tra i paesi di origine e quelli di accoglimento. In questo senso costituiscono un anello fondamentale per lo sviluppo dei processi di internazionalizzazione e di integrazione. Solo in Germania circa il 50% degli stranieri attivi sono occupati in settori e in aziende che sono strettamente collegati con i loro paesi di origine. Il macrocontesto EUROPA si è costituito grazie a dinamiche sociali ed economiche di cui le migrazioni sono parte di rilievo. Una categoria marginale, esclusa di fatto, da sempre, dai circuiti culturali e formativi riservati ai cittadini di serie A nasconde delle potenzialità ignote ai più. Far emergere tali potenzialità e risorse dimenticate costituisce uno dei compiti prioritari. Oltre a quello, strategico, di arricchire i percorsi formativi di contenuti

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RIGIDITA‘ E FLESSIBILITA‘ in progress Nel grande bailamme delle esigenze che si moltiplicano la risposta di un organismo elastico è vincente. Un modello elastico di capitale capace di rispondere ad ogni sollecitazione e stimolo, potrebbe corrispondere all’antitesi stessa del capitale, almeno come noi comunemente lo intendiamo e cioè il capitale come sistema che produce solo i beni che realizzano un profitto in termini monetari. Se c’è una tendenza, una possibilità di questa formazione storica a dare risposta al soddisfacimento dei bisogni sociali, necessiterebbe solo ripristinare la classica equazione di ascendenza positivistica: SVILUPPO CAPITALISTIC0 = f dell’organismo sociale. Ciò vuol dire che se in futuro può esserci persistenza del modello capitalistico, esso può darsi solo come capacità di soddisfare il sociale, anche al di là dei limiti imposti dalle leggi del profitto. Ove però sociale potrebbe significare nient’altro che DOMANDA. Ciò di cui in un tale approccio si può discutere è quindi solo la qualità della domanda. Ma la qualità della domanda è un dato storico. E non si da alcuna qualità “morale” o ideologica della domanda. La politica in tale contesto sarebbe solo una levatrice della domanda che trova difficoltà ad esprimersi. La politica diventa cioè il mediatore della domanda inespressa o che incontra difficoltà ad esprimersi. La politica è la ricerca dei linguaggi che diano voce alla domanda. (Alla domanda non costretta o “erogata” dal capitale storicamente dominante, in quanto quest’ultima, è, in quel momento storico, la specifica politica dominante, la puntuazione di potenza dominante).

marginalizzate (spesso, al contrario, pezzi consistenti di tali masse sono disposte ad aggregarsi all’offerta vigente e in quel momento vincente), ma anche, e in larga misura, le parti a maggiore “densità culturale” di una società, inclusi pezzi illuminati del capitale stesso. Una politica conservatrice significa dal punto di vista “tecnico-strategico”, intorbidire le acque, rendere illeggibili i bisogni che pur a fatica si manifestano, disseminare di ostacoli la strada verso l’obiettivo del bisogno sociale; da un punto di vista psicologico-sociale, significa cercare di far corrispondere la domanda all’offerta e non viceversa; significa “annebbiare” la visuale (la domanda), spostarla verso obiettivi feticcio, moltiplicare gli obiettivi possibili, ritardarne la coscienza. Ecco, precisamente sviluppare ed applicare tecniche per ritardare l’autocoscienza della domanda. Una prassi reazionaria significa obbligare esplicitamente la domanda su produzioni vecchie. Sostenere tale possibilità attraverso le propagande estetiche formalizzate rigidamente su contenuti normativi che si vestono di moralità, che si traducono in etiche. Da questo punto di vista la propaganda del modello socialista era di tipo esteticomorale; tuttavia sembra sussistere una differenza consistente e probabilmente costante tra modelli di matrice re-azionaria e ri-voluzionaria di propaganda, come tra l’altro l’etimologia dei termini indica, in quanto, nel modello rivoluzionario la domanda e l’offerta si costruiscono sulla base di estetiche morali e non puramente normative (o di mercato, il che è lo stesso) come invece, comunque avviene nei modelli reazionari. In tali modelli, l’ancoraggio oggettivo al mercato (un mercato nella quasi generalità dei casi in disequilibrio) implica infatti che il richiamo etico sia di tipo puramente strumentale, senza apprezzabili contenuti immanenti, i quali, se ci fossero, rischierebbero di mettere in crisi l’ancoraggio al mercato dato o la sua libertà d’azione, che è, in ultima analisi il vero obiettivo di tali propagande applicate.

Tutto questo vuol dire quindi, che non esiste a priori una possibilità rivoluzionaria “in assoluto”. Esiste solo la possibilità di abbattimento di modelli irrigiditesi. Rigidi poichè non rispondono alla domanda.

La Politica è dunque, oggi, sempre più la capacità di saper scegliere e realizzare modelli elastici oppure rigidi, modelli a capacità di risposta maggiore o minore rispetto alle esigenze della domanda. Da questo punto di vista, gli schieramenti fanno oggi appello non più solo a classi distinte e assolutamente separate depositarie di interessi “puri”, ma a formazioni sociali caratterizzate da bisogni e interpretazioni di tipo estetico-spirituali.

Una prassi conservatrice in politica, vuol dire una costrizione della domanda verso produzioni superate dalla coscienza collettiva, o meglio dalla coscienza sociale d’avanguardia. E a comporre tale coscienza non sono solo le “masse sociali” antagoniste perchè

Questa è la TRASVERSALITA’, momento di passaggio e di ancor non chiara definizione degli schieramenti di interessi. Composizioni sempre meno di classe e sempre più, per forza di cose, di idealità vissute, complesse e tendenzialmente svincolate dai paradigmi dati.

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C’è una grande chance in tutto ciò. Quella dell’uguaglianza puramente materiale (bisogni primari) come qualcosa che può darsi in larga misura per acquisita allorchè i giochi tendono a spostarsi verso qualcosa d’altro che non è ancora automaticamente assimilabile ad interessi determinati di classi o aggregazioni distinte. Da un altro lato ci si rende conto che i nuovi interessi determinati sono interessi che hanno sempre più un carattere collettivo e generale. Se i giochi vanno infatti in altre direzioni da quelle storicamente acquisite -interessi individuali/di classe- significa che in proporzione scende la domanda di uguaglianza (di tipo materiale/individuale e definita solo dalle quantità di opportuntà di consumo) poichè c’è una carenza maggiore sul mercato. Questa carenza potrebbe definirsi come carenza di creatività in senso lato. Una carenza di produzioni libere ed autonome e delle corrispondenti fruizioni (Vedi la carenza di produzione e fruizione del tempo e dell’ambiente). Libere cioè dalle costrizioni dell’organizzazione. Dell’organizzazione capitalistica, la cui struttura immanente e forma specifica e metodologia di attuazione è la finalizzazione di ogni atto al profitto inteso in termini esclusivamente monetari. L’attuale crisi potrebbe essere letta come acquisizione, ancora limitata ad ambiti individuali separati (disaggragazione della domanda), della consapevolezza che le potenzialità soggettive storicamente determinate non sono verificate, o lo sono solo in modo insufficiente rispetto al possibile, all’interno del quadro organizzativo complessivo. Corollario di tale lettura è che una domanda disaggregata, al contrario di quella esistente nell’epoca della produzione di massa, trova difficoltà enormemente più grandi ad esprimersi.

Ciò che sta avvenendo pare alludere a questa ipotesi. L’importanza sempre maggiore che acquisisce il sapere (il cosiddetto Know-how) dentro il processo di produzione e riproduzione capitalistica in rapporto agli altri fattori produttivi, pare confermare questa tendenza. Nel settore dell’informatica, ad esempio, l’acquisizione o la vendita di aziende che producono software corrisponde all’acquisto o alla vendita degli uomini che vi lavorano. Il capitale, in questo caso, è letteralmnete incorporato dentro i cervelli di questi uomini. Il rapporto CAPITALE UMANO/capitale tecnico-finanziario tende a crescere sempre di più. La cosiddetta composizione organica del capitale , laddove si tratti dei settori produttivi più innovativi, torna ad assomigliare, nelle proporzioni, a quella precedente gli esiti della rivoluzione industriale. Il “peso dell’uomo” torna ad essere la variabile fondamentale, come nella bottega dell’artigiano. Solo che il capitale come capitale umano trova una collocazione per il momento solo come “risorse umane”, cioè solo come un pezzo del capitale complessivo, la cui natura, però resta sempre più indeterminata sotto il profilo “tecnico”, e sempre più determinata come puro dominio. Infatti, la persistenza della proprietà privata dei mezzi di produzione in un mondo in cui il fattore “capitale” dello sviluppo ridiventa l’uomo come portatore del sapere (in esso letteralmente in-corporato) prefigura società con caratteristiche forti di schiavismo. Appare quindi evidente che il potere si va strutturando non più tanto sul controllo dei mezzi fisici di produzione (macchine), ma sul controllo dell'uomo, del capitale umano, cioè della cultura.

Come dire: “si può dare di più”, ma in questo contesto non è concesso e per di più è difficilmente dicibile... In ciò consiste la grande impasse progettuale oltre che, evidentemente di prassi, delle forze progressiste in tutti i paesi industrializzati. Ma dove andrebbe a finire il capitale, se una tale tendenza dovesse comunque affermarsi ? Non dovrebbe forse il capitale trasformarsi da capitale industriale-finanziario in capitale prevalentemente umano ? Capitale di saperi e culture ? Capitale come puro spirito ?

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Non necessariamente, infatti, a maggiore razionalizzazione organizzativa deve corrispondere quale effetto automatico un maggiore livello di realizzazione delle potenzialità storiche. Spesso, la storia ci ha dimostrato il contrario.

ORGANIZZAZIONE E COMUNICAZIONE ovvero modernità ed obsolescenza del capitale La necessità del sistema di “razionalizzazione” attuale è una necessità di potenziamento delle opportunità soggettive che però restino al contempo sussunte all’interno di un quadro organizzativo funzionalmente rigido e predeterminato. L’organizzazione è, oggi, l’attuazione del concetto per cui il massimo grado di potenzialità storicamente determinate possa trovare sbocco positivo all’interno delle regole del gioco capitalistico. L’organizzazione “di sistema” reclamata dal capitalismo italiano alla fine degli anni ’80, inizio ’90, è l’esigenza di superare le strettoie di un sistema politico -cioè in un certo senso di quadro organizzativo/normativo- inadeguato rispetto al grado di potenzialità espresso dal capitale stesso. La voglia di “co-determinazione” è il riconoscimento del fatto che nella società “reale” esistono dei beni che l’attuale sistema normativo non riesce a valorizzare adeguatamente. Ma è anche la voglia di sussumere tale ricchezza alla logica classica e ulteriormente pianificata del capitale. Il plusvalore relativo si relativizza ulteriormente, al punto che per riprodursi, ha bisogno di utilizzare tutte le opportunità offertegli dai contesti, oltre l’operaio salariato inteso come mera forza lavoro, oltre la fabbrica, oltre lo stesso sistema economico, penetrando entro le strutture più recondite dell’esistente, quelle che un tempo erano solo sovrastruttura. Tuttavia nelle società capitalisticamente più avanzate mi pare cresca la consapevolezza (collettivamente ancora inconscia poichè propria dei soggetti/pezzi dell’organizzazione capitalistica -quella che è tale proprio in forza dalla sua capacità di atomizzare il corpo sociale) che il grado di organizzazione dei sistemi nazionali, pur elevato a potenza, sia comunque insufficiente a permettere una esplicitazione corretta delle potenzialità dei soggetti, poichè la sostituzione dei modelli organizzativi gerarchici con quelli partecipativi (tra l’altro lungi dall’essere attuata) corre il rischio di esaurire completamente le energie psico-fisiche delle cosiddette risorse umane già dentro lo spazio-dimensione lavorativa. Come sia possibile ricostituire tale patrimonio, fatto di interazioni complesse dei vari sensi/campi dell’umano è qualcosa di non ancora indagato. Si rischia in questo senso di ripetere dinamiche già sperimentate con la natura: lo sperpero del capitale naturale per i bisogni di riproduzione del Capitale.

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I sistemi più organizzati sono anche quelli che massimizzano la formalizzazione delle possibilità di interazione a), tra le parti del sistema stesso e b), tra il sistema nel suo complesso e il contesto in cui il sistema si trova. A prescindere dalla tipologia delle procedure adottate per tale formalizzazione (che possono prevedere scenari più o meno aperti), ciò che viene escluso a priori come possibilità è l’interazione autonoma tra le singole parti del sistema e il suo contesto. Anche se venisse formalizzato il maggior numero di possibilità di interazione “interna” (come in sistemi altamente complessi) resterebbe tuttavia preclusa la possibilità di sviluppo del rapporto delle singole parti col contesto. Ciò è evidentemente la condizione imprescindibile per la sopravvivenza stessa dei sistemi già strutturati. Se infatti le singole parti potessero interagire liberamente coi contesti, ciò significherebbe (non necessariamente, ma solo nella prospettiva dei sistemi dati, cioè in una prospettiva di paura delle alternative possibili) la nascita di altri sistemi. Si tratta quindi, forse, in buona parte, di rendere manifesta questa costrizione dell’attuale sistema-mondo nelle sue variabili particolari che in ogni paese prendono forma. Questa costrizione che impedisce tuttora in gradi differenti, ma comunque in ogni luogo, uno sviluppo delle potenzialità esprimibili che sono, oggi, essenzialmente le produzioni immateriali liberamente assemblate. Si tratta di far emergere, rendere visibile a tutti l’oppressione esercitata verso e sulle produzioni spirituali, di cui, pure il capitale, secondo la sua logica, più o meno parsimoniosamente si nutre, evitando di riconoscerle come propria linfa e base di riproduzione. La POLITICA del terzo millennio sarà la politica per l’acquisizione del consenso collettivo verso lo sviluppo di tali produzioni (le produzioni immaterialispirituali) sia a livello collettivo che individuale. Un consenso che si attua in forza della potenza stessa di tali “immaterialità”, al di fuori e al di là della mediazione capitalistica, che pure ha contribuito a far emergere (in certi territori del pianeta) grazie al suo contributo alla soddisfazione dei bisogni primari. In una modalità civile che si attui secondo questa logica non si dovrà attendere l’esaurimento storico degli investimenti/ammortamenti) delle grandi società petrolifere prima di produrre l’auto elettrica.

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Nè dovrà per forza essere prodotta se la dimensione della “sosta”! risulterà più produttiva di quella del movimento. “Quei viaggi spaziali......” (ancora in "Utopia di un uomo che è stanco", di Borges). Se questa esigenza estetica ha già il consenso della domanda, per quale motivo si dovrebbe attendere il consenso o imprimatur del capitale? Il mercato, o è infatti il libero mercato dei soggetti individuali e collettivi, o è solo il mercato dei capitali del capitale. In un futuro non troppo utopico, la POLITICA dovrebbe assumersi il compito di garantire la dialettica della domanda e dell’offerta in tempo tendenzialmente reale.

Parentesi wittgensteiniana Al tal fine potrebbe darsi l’opportunità di far viaggiare questa dialettica su un supporto comunicativo universale. La scienza informatica potrebbe servire all’uopo. La auspicabile semplificazione delle sue procedure -tale da permetterne un utilizzo di massa- potrebbe costituire il passo decisivo verso una “liberazione” della dialettica della domanda e dell’offerta. Almeno una liberazione parziale, restando inevitabile la rigidità logico-matematica delle sue procedure di funzionamento, (nonchè, sempre presenti, gli interessi legati a questo tipo di produzioni). L’organizzazione, a ben guardare, non è altro che un supporto che deve essere riconoscibile e condiviso, attraverso cui passano le informazioni: codici. La finalità ultima dell’organizzazione è, a ben guardare, la comunicazione. I sistemi più organizzati sono quelli che permettono un maggior grado di comunicazione interna. Si da comunicazione tra due soggetti, ma si da comunicazione più ricca tra molteplicità di soggetti. Il sistema più organizzato sarà quello che permetterà il più alto grado di comunicazione tra una più grande molteplicità di soggetti. Ma il sistema più organizzato, cioè più ricco, per essere tale, dovrà dunque essere anche il sistema più democratico.

utilizzato sarà minore, cioè quello in cui le barriere d’accesso alla comunicazione saranno minime. Ma sarà anche quello che permetterà la comunicazione diretta e non per forza mediata tra i singoli pezzi del sistema e l’esterno. Supporti “religiosi”, “etici”, “ideologici”, “economici” attraverso cui è passata la comunicazione nei due ultimi millenni, appaiono essere diventati troppo pesanti (unerträglich), insopportabili. Un supporto logico-matematico è senza dubbio qualcosa di più leggero e maneggevole, quantomeno perchè la sua “semplicità” fa sì che i rumori di fondo (i disturbi, le sovrapposizioni della comunicazione, cioè le mediazioni introdotte nel processo comunicativo) siano ridotti al minimo. L’estetica delle procedure logiche, da questo punto di vista, è qualcosa di sicuramente più affascinante delle procedure ideo-logiche. La fascinazione della scienza e della tecnologia deriva anche, in grande misura proprio da ciò: la loro “pesantezza” è così nascosta nell’hardware, con il quale raramente si viene a contatto, che quasi ce se ne dimentica. E comunque la mediazione fisico-chimica dei componenti appare essere contraddisitinta da caratteristiche ineccepibili di “neutralità”. Il supporto, il codice, deve infatti intervenire il meno possibile dentro il processo comunicativo per poter permettere a chi lo utilizza di parlare meglio e di più. Il problema che si pone, però, consiste nel fatto che le procedure di derivazione logico/matematica, (il razionalismo), sono compatibili solo con linguaggi strutturati analogamente. In altri termini, la rigidità di un siffatto medium/codice, consiste nel fatto che impone per forza una comunicazione che sia ad esso parametrabile, rapportabile. Ciò che è fuori da tali parametri, da tali procedure, ciò che non segue il metodo, risulta non comunicabile, in deifinitiva privo di rilievo, privo di importanza sociale. Cosa potrà infatti comunicarci, attraverso un mezzo di questo genere, un indiano dell’Amazzonia ? E in un utilizzo generalizzato, universale, di un tal codice, può ancora essere prevista l’esistenza stessa degli indigeni di questa regione ? Il problema fondamentale con cui si deve confrontare la possibilità di un linguaggio universale, è costituito dal fatto che più esso risulta traducibile, più, per forza di cose è costretto a semplificare. L’alternativa consisterebbe in una complessità talmente alta da risultare ingestibile in rapporto alle finalità specifiche della comunicazione.

E il sistema più democratico sarà quello in cui il peso della rigidità del supporto

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Ipotizzare dunque un supporto caratterizzato dal minor grado di rigidità ideologica, e dunque anche di volontà di riduzione, sarà probabilmente il compito dei secoli a venire. Un medium che possa permettere al mito di comunicare con la scienza, alla poesia di comunicare con la fisica e la filosofia, alla teologia con la musica o la politica. Ma forse tale modello, lungi dall’avere caratteristiche delimitabili e “forti” di oggetto fisico, non consiste in altro che in una disposizione, forse in nient’altro che nel riconoscimento della pluralità costitutiva della comunicazione, nel far sì che si diano cioè le condizioni perchè tali linguaggi possano coesistere ed interagire vicendevolmente, senza pretese di riduzione dell’uno all’altro. Parrebbe di poter dire a questo punto, che la fascinazione ed adottabilità funzionale di un modello comunicativo alternativo sia insito nella sua “esteticità”. Non può essere solo un caso che modelli comunicativi che utilizzano codici estremamente aperti e allo stesso tempo a supporti “leggeri” (ad es. musica, cinema), siano in grado di superare barriere ed ostacoli che si sono stratificati nel corso del tempo tra ambiti culturali e comunicativi ristretti. Sotto tale profilo si può azzardare l’ipotesi che l’esteticità di un modello corrisponda e sia “funzione” (in senso matematico) della sua funzionalità, e viceversa, il che equivale a dire che la comunicazione, la sua funzionalità, implicano l’estetica, e che non si da organizzazione senza di essa. _____________________________ Una tipologia comunicativa su cui all’uopo occorrerebbe riflettere è quella costituita dai processi di seduzione. Se(d)-ducere, condurre via, (fuori dalle proprie rigidità), implica una biunivocità di tale processo, e allo stesso tempo un accordo sulla pluralità dei linguaggi (che è necessario, indispensabile utilizzare). Tale dinamica non può infatti darsi “a senso unico”, nè può avvenire su un unico livello di comunicazione. Il sedurre implica una concordanza, una simpatia, cioè implica la necessità di una comunicazione paritaria, cioè la disponibilità, l’apertura, il riconoscimento dell’altro come attività e non come mero oggetto. Poichè, altrimenti, si tratterebbe solo di un Verkehr nell’ambito del bordello, vale a dire del mercato, si tratterebbe, in definitiva, non di seduzione, ma di alienazione. (Ma il linguaggio delle infinite merci non seduce forse l'uomo ? Ed allora qual'è la differenza tra seduzione e alienazione ?)

IL CONSUMO COME PROCESSO CREATIVO Ciò che nella fase attuale va bene osservato è il carattere sempre più “produttivo” del consumo. Che il consumo cresca non significa necessariamente che si vada verso un completa alienazione degli individui e delle masse. Come detto, il consumo appartiene alla sfera della creatività; esso è sempre più qualcosa di “attivo” e non di meramente subìto. E’ grazie a ciò che questa civiltà è ancora sopportabile! Come detto in altro contesto, la seduzione del mondo delle merci implica la concordanza dei consumatori, cioè implica una “sostanza”, un linguaggio comune del seduttore (il mondo delle merci) e del sedotto, (l’uomo consumatore). Attraverso il consumo di merci si possono costruire dei COLLAGES individualmente caratterizzati, i quali non sono altro che produzioni di estetiche individuali: Arti del consumo. Si veda, ad esempio, come si arreda una casa, come si cominci sempre più a definire in ambiti ristretti stili eterodossi -pur all’interno di mode codificate- nel vestire; nel mangiare; nella collezione di oggetti. Ora, si tratterebbe di far venire alla luce come la massa di merci a disposizione per una operazione produttiva del consumo sia marginale rispetto all’importanza dell’operazione stessa, -la capacità produttiva/ creativa- la quale a rigore può servirsi di materiali o cose che possono essere rinvenute anche all’esterno del sistema di materialità di merci dato (come indicava l'esperienza dell'arte povera). Ciò appare evidente quando si osservi la capacità creativa in contesti poveri di merci o di opportunità di consumo. Ad esempio in campo musicale: tutta la musica popolare di questo secolo, che poi influenzerà enormemente quella “colta”, scaturisce da tali contesti. E’ vero che nelle società contemporanee sempre meno si canta e sempre più si consuma musica. Tuttavia l’ascoltare è anche un produrre interiore; e ogni volta che un libro viene letto, è come, in un certo senso, se quel libro venisse di nuovo riscritto. Resta però evidente che la percezione dello scrivere è ancora un altro fatto, un’ altra cosa. E a prescindere dalla necessità di maggiore accortezza nel percepire armonie ancora non codificate (per esempio quelle che appartengono all’”OM” tecnologico del quale tutti, pur ignorandolo siamo produttori), si tratta dunque di far autoprodurre coscientemente ai soggetti più suoni, più immagini, si tratta di recuperare e

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potenziare qualcosa che sembra essersi di nuovo smarrito nella notte dei tempi: una attività della percezione, cioè una percezione attiva, che sia abbinata, ad una attività della produzione. In altri termini, una coscienza: “Sileno viene cantando il meglio.” Il meglio è il soggetto come produttività infinita di merci spirituali -anche quelle materiali allorchè autonomamente prodotte lo sono, in quanto il soggetto è un progetto di produzione (pro-ducere) massima di spirito “per la morte”. Si tratta di ri-acquisire la coscienza di potere/sapere cantare. E il canto, il suono possono scaturire da una infinità di strumentazioni, non solo dalle strumentazioni tecnologicamente avanzate, (la cui fascinazione è tuttavia immensa). Si tratta dunque di un recupero del soggetto ? Della soggettività ? Dell’ io ? Direi di no. Parrebbe al contrario, doversi trattare di una sorta di abbandono cosciente del soggetto individuale alle infinite possibilità dell’oggetto universale, (storico ?) di cui egli pure è parte, oppure, viceversa, di abbandonare l’oggetto (l'ente tutto, non solo quello mercificato) alle infinite possibilità del soggetto, il che può consistere nella medesima dinamica. Si tratta, in fin dei conti, di ricostituire relazioni dirette, non mediate, tra l’esseremondo e una parte di esso, l’ente individuale, i quali d’altra parte, possono darsi entrambi solo a condizione che una relazione esista. Soggettività ed oggettività, si danno solo in termini di convenzionalità e non in assoluto. Nella quotidianità esse individuano solo prospettive che di volta in volta possono occorrerci. E’ noto come nell’ambito della stessa scienza si concordi oramai sulla strumentalità di tali concetti, il cui campo di azione, di produttività dal punto di vista della conoscenza, pare ridursi sempre di più. Appare infatti sempre più difficoltoso distinguere nell’attività di ricerca tra una fase soggettiva ed una oggettiva, tra ipotesi, analisi sperimentale, sintesi teorica, tra modalità intuitivo-sintetiche ed analitiche, ecc. ecc., come fasi o procedimenti temporalmente o spazialmente definiti. Appare sempre più difficoltoso cioè dire quali siano i modelli secondo i quali si dà o non si da scienza. E in ogni caso sembra doversi rivedere il concetto di scienza come esauriente tutte le vere possibilità di conoscenza.

“l’altro” continuava a non trovare spazi, luoghi di espressione. Gli esiti del pensiero debole sono quelli di trasferire all’esterno del soggetto classico il carattere della soggettualità; pur se una soggettualità dai caratteri paradossali di astrattezza propri di un soggetto astratto. (Ma come potrebbe questo essere, apparire concreto se nessun altra entità è più in grado di leggerlo, di definirlo, oppure solo di descriverlo ?). Più che un soggetto o un oggetto, sembrerebbe invece esistere solo una certo tipo di organizzazione, cioè un sistema di relazioni, un campo in divenire. Pensare uno stop a questo divenire delle organizzazioni è pensare l’inverosimile. Pensare a una strutturazione ex novo dei sistemi di relazioni è pensare per forza di cose l’impossibile. Tutto ciò non può che avere caratteristiche di processo che pur nella continuità è comunque aperto alle rotture e alle svolte, poichè ogni rottura ed ogni svolta attinge comunque alla tradizione, alle tradizioni della continuità. Ciò appare sostenibile nei, -per-, i diversi campi che costituiscono l’agire umano. Ciò ha validità anche per le categorie utilizzate fino ad oggi per definire la strutturazione dei sistemi economici e sociali. In un mondo infatti, in cui la produzione si allarga indefinitamente fuori della fabbrica e dove la produttività è sempre più funzione dei contesti, gli stessi concetti di produzione e di consumo dovrebbero essere quantomeno aggiornati. In un certo senso si potrebbe dire che in questo scenario, la produzione diventa già “consumo” ed il consumo diventa sempre più “produttivo”, costitutivo dell’atto del produrre. Ciò che continua a caratterizzare queste due fasi del processo economico è la supposizione che il tempo individuale riservato alla produzione sia un tempo organizzato strutturalmente e contrattualmente, mentre quello del consumo sia un “tempo libero”. Mi pare fuori discussione che tale distinzione, in ambito strettamente economico, non sussista. O se sussiste, si da solo all’interno di una specifica e determinata ideo-logia.

Riguardo agli esiti di una certa filosofia, quella del cosiddetto pensiero debole, il perdersi dell’oggetto, il suo venir meno, non era altro che l’imporsi di una soggettività collettiva (di una potenza collettiva autoleggittimata) nella quale

E’ vero che dal punto di vista giuridico il contratto di lavoro non prevede direttamente le modalità di fruizione del “tempo libero”, (anche se evidentemente le determina in modo indiretto), ma tale formalizzazione giuridica non può essere presa a specchio di ciò che avviene nella pratica quotidiana della attività economica. Il fatto che si richieda, da più parti, il coinvolgimento diretto, cosciente, del lavoratore sul luogo di lavoro (codeterminazione, qualità totale, lean-production, ecc.), vuol dire che si vuole utilizzare il “tempo libero” del lavoratore dentro il processo produttivo.

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Ma se questa richiesta si afferma, vuol forse dire che resta meno tempo/energia a disposizione per il consumo ? A mio parere, no. Vuol dire invece che il tempo riservato alla produzione sarà sempre più, anche tempo di consumo; consumo di energia spirituale finalizzata al miglioramento della produzione, il che dovrà anche significare vedere e vivere il tempo di lavoro come tempo di riproduzione della forza lavoro. Per quanto paradossale possa apparire, tali tendenze affermano, dentro la crescente complessità del processo produttivo, la possibilità utopica di un lavoro sempre più creativo e sempre meno costretto dalle rigidità organizzative. Significano allo stesso tempo che la delimitazione di fasi di produzione e di consumo, tempo di lavoro e tempo libero, diventa sempre più fittizia ed aleatoria. Significa anche, ed è ciò che ci interessa principalmente, che le strutture di potere stratificatesi dentro e sulla fase storica della produzione di massa sono sempre più delegittimate nella loro funzione e capacità organizzativa e di comando della/sulla società. Allo stesso tempo, il paradigma utilizzato per la costruzione, il fondamento di tali strutture, il razionalismo scientifico-tecnologico è destituito della sua capacità di costituire l’unico metodo utilizzabile nella realizzazione dell’architettura sociale. Si impone cioè una razionalità più ampia, allargata ai contesti per lungo tempo invisibili e si impone un metodo di calcolo di tale razionalità secondo parametri adeguati a tali nuovi contesti.

DIALETTICA E CAPITALE La dialettica, quel tormentoso movimento della storia, persevera nel tempo del capitale. L’infinita intelligenza del capitale sembra averla sussunta in sè, nel meccanismo indelebile del mercato: domanda contro offerta e viceversa. Sembrerebbe, da ciò, che il capitale, il movimento perpetuo del capitale, coincida con la storia stessa. Il superamento della contraddizione tra domanda ed offerta pare darsi indefinitamente all’interno del capitale stesso. Sembra, anzi, che il capitale si perpetui attraverso il movimento della contraddizione. Pare, che esso viva di dialettica. La soggettualità, sia pure collettiva delle classi, sembra essere assorbita nel meccanismo della domanda e dell’offerta. Le classi postmoderne paiono corrispondere all’offerta e alla domanda. C’e un movimento apparentemente contraddittorio delle due variabili: L’una vive dell’altra. E pare darsi sintesi solo dall’interno, senza gradi di superamento, senza livelli ulteriori di sintesi. L’orientamento al mercato dell’impresa di fine secolo, è orientamento alla domanda. E la domanda è costretta ad orientarsi all’offerta.

Qualcosa che assomigli all'invenzione dello zero. Quando subentra la crisi, vuol dire che l’equilibrio di risposta non è più soddisfacente: può darsi, allora, a), o una mancata risposta dell’offerta che dá come esito dinamiche di mutamento che per brevità possiamo chiamare rivoluzionari, oppure b), una mancata risposta della domanda i cui esiti corrispondono alle crisi di sovrapproduzione le quali storicamente assumono configurazioni politiche reazionarie. In entrambi i casi, la crisi si abbatte sulla sfera politica, accollandole il suo pesante onere. Quello di dover trovare delle soluzioni che ristabiliscano equilibri sostenibili, mutando le regole di gestione della dinamica economica, ma mantenendo sostanzialmente invariato il meccanismo portante della dialettica della domanda e dell’offerta. E la POLITICA può permettere un controllo e a volte anche un ribaltamento degli esiti “naturali” dei disequilibri che si vengono a creare, giocando su un meccanismo

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diverso da quello della dialettica imposta dalle merci fisiche, e introducendo una dialettica a livello di beni spirituali (o culturali). Tali beni in altri contesti sono stati e vengono tuttora definiti come valori. E’ questo il campo specifico che fonda la possibilità della politica. Ma poichè su questo piano (sul piano dei valori) la domanda è estremamente diversificata e individuale, spesso (nella maggioranza dei casi per questo tipo di congiuntura) finisce col prevalere l’offerta, la quale stratificatasi nel corso del tempo, gode di più ampia compattezza ed omogeneità per la sua capacità di rendere evidente il suo legame, la sua corrispondenza, il suo essere conseguenza della struttura “naturale” del processo economico. La possibilità reale, concreta, di mutamento risiede dunque nella capacità della politica di offrire valori innovativi che però riescano a manifestare la loro concordanza, il loro essere dedotti dai “macrovalori” o meglio forse “metavalori” che permeano la coscienza collettiva. In altre parole di situarsi oltre la tradizione parlando però lo stesso linguaggio della tradizione. Ad esempio, supponendo che il macrovalore sia costituito dalla tradizione della razionalità, si può ipotizzare un’azione politica che utilizzi tale linguaggio per poter aquisire l’egemonia dei contenuti che intende trasmettere. Ciò avviene, ad esempio, per quanto riguarda il dibattito intorno al problema ecologico rispetto al quale, posizioni differenti quando non opposte, hanno utilizzato entrambi il linguaggio scientifico per spiegare e convincere sulla necessità di una certa scelta; il dibattito in tal caso è spesso avvenuto più intorno all’impostazione dei calcoli e sui risultati ottenuti dai calcoli stessi piuttosto che sulla messa in discussione del metavalore (il razionalismo scientifico-tecnologico che, per stare a Severino, non può non portare agli esiti che abbiamo tutti sotto gli occhi), il che è del tutto concepibile in quanto tale approccio è di pertinenza dei filosofi, il cui linguaggio può non essere con-divisibile con il livello culturale di chi a tali dibattiti assiste. Ciò che in questo caso resta quindi legittimato è il metavalore, mentre vengono messi in discussione i suoi esiti come esiti non assolutamente necessari. Spesso, dunque, un’offerta compatta (rispetto al macrovalore) di beni ad alto contenuto immateriale, viene vissuta come vincente dalla domanda, la quale non è in grado di contrapporre una omogeneità altrettanto compatta, cioè un macrovalore alternativo. Omogeneità, in questo senso, corrisponde ad “oggettività sociale”, cioè consenso, significa in fin dei conti Egemonia. Ed è proprio per ciò che in Gramsci la categoria di Egemonia assume importanza rilevante.

Nelle società del 21.simo secolo, la possibilità di ricomposizione delle domande individuali sarà la condizione per un esito vincente della domanda. Infatti, in un tempo in cui la domanda degli individui non riesce a ricomporsi, non può che essere vincente un’offerta che, pur rappresentata da singoli capitalisti, viene unificata dalle esigenze formali (culturali) del macrovalore profitto legittimato a sua volta dal razionalismo scientifico. Sono tali esigenze ad aver, allo stato attuale, conseguito infatti l’egemonia. La “rivoluzione di Tangentopoli” in Italia è potuta avvenire e, si spera potrà consolidarsi, proprio grazie al linguaggio utilizzato, quello tecnico-giuridico, il quale, lungi dal poter essere messo in discussione (trattandosi di un macrovalore) in quanto base stessa dell’ordinamento democratico con la sua suddivisione dei poteri, era immediatamente condivisibile da tutti. Da sottolineare come la critica dell’uomo comune abbia sostenuto per decenni le imputazioni a carico di nomi e cognomi del sistema politico ed economico italiano, pur rimanendo inespressa una domanda di “moralizzazione” con coloriture ideologiche nell’ambiente estremamente sfavorevole della guerra fredda. Si potrebbe affermare, certamente a posteriori, ma con buone probabilità di cogliere nel vero, che tale “rivoluzione” non sarebbe potuta avvenire che nel modo in cui è realmente avvenuta. Al contrario, una critica vincente di un certo modello di capitalistismo come causa principale dei risultati di corruzione, malgoverno e criminalità, appare molto più difficile da portare avanti, in quanto, nel caso, si tratterebbe di toccare uno dei macrovalori per eccellenza che permea di sè l’intera collettività e non si vede quale tipo di giudici sia disposto a farlo, nè in base a quale diritto potrebbe farlo, tantopiù dopo il crollo di quello che doveva essere il macrovalore alternativo. Nel caso della critica dei macro-metavalori infatti, si rendono necessarie condizioni allo stato attuale non ancora perfettamente visibili o quantomeno non ancora evidenti e che nel tempo storico si danno solo nei cosiddetti passaggi epocali. Una Politica per il futuro dovrebbe attivarsi per questo scopo. In tal senso parrebbe di poter dire che essa non possa non essere una politica per/ della domanda. Le politiche progressiste per la razionalizzazione/pianificazione hanno per troppo tempo ritenuto di poter essere vincenti sul terreno della modificazione/ pianificazione dell’offerta. (Vedi proprio i regimi del socialismo reale o, all’interno dei paesi occidentali, i partiti della sinistra storica). Ma invece, democrazia e consenso si danno ed hanno ragione di essere, solo

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nell’ambito della domanda, cioè nel riconoscimento della ineludibile necessità di rappresentanza della domanda, la quale è innanzitutto domanda individuale di fruizione di beni in senso lato. L’attuale orientamento al mercato dell’impresa non è altro che la consapevolezza che in regime di democrazia e consenso, l’unico campo in cui si deve agire è la domanda. Soddisfacendola ove possibile, e poi, oltre, falsificandola con le sofisticate strategie di marketing specifico del prodotto e di marketing “totale” di sistema, cioè di marketing del macro-metavalore. Una cosiddetta sinistra dovrebbe avere la consapevolezza chiara che il terreno della battaglia si sposta, cioè, dalla pianificazione della produzione all’orientamento del consumo. Dall’offerta, alla domanda. Se si vuole, dall’etica all’estetica. Dalle classi e dalla stratificazione di classe, si passa dunque alla domanda e all’offerta e alla stratificazione delle stesse, ove l’oggetto di tali strutture, nonchè il loro parametro di lettura e di misurazione rientra sempre di più nel dominio dell’ immateriale, dello spirituale, della cultura. Trasversalità quindi, poichè lo spirituale può attraversare (ed attraversa) simultaneamente ogni classe, ogni domanda e ogni offerta, le quali ultime possono essere viste come strutture di una -ipotetica ?- dialettica dello spirito.

formalità riconosciuto per mettere alla prova l’offerta con una sorta di operazione di “contro” Marketing che si esplichi anch’essa sulla domanda. Il campo di battaglia ancora una volta è la domanda. Cioè il consenso intorno a metavalori alternativi. Il mezzo non può che essere il medesimo: le armi da utilizzare sono armi essenzialmente culturali. Agendo sulla domanda, si può modificare l’offerta. Per fare un esempio a livello di macrocontesti economico-culturali, gli USA checchè se ne voglia, continuano a modificare e a controllare i rapporti a livello mondiale, in forza del loro enorme mercato interno, cioè in forza della loro enorme capacità di consumo. Ma il problema -altrettanto enorme- in cui su questa strada ci si imbatte è che il fondamento della domanda (la sua attivazione) è un fondamento estetico. L’ offerta, solo l’offerta, si costituisce e si fonda su basi etiche, compresa quella della razionalità scientifica e tecnologica la quale, nata come estetica, si è trasformata nella ideologia più pervasiva che la storia abbia conosciuto, qualità questa che le è propria in quanto soddisfacente valori interni solo a se stessa. Se quanto detto è vero, si potrebbe allora parlare a buon titolo di un “capitalismo reale” che non sarebbe altro che un socialismo reale ulteriormente pianificato. Una sorta di etica complessa, di pianificazione gestita da un cervello ideologico che sa contemplare una superiore quantità di incognite e di procedure pianificanti.

Di questo direi c’è bisogno di coscienza: del fatto che la persistenza delle classi è in un certo senso una mistificazione dell’offerta: essa vuole convincerci che c’è una logica, seppure conflittuale, nel suo operare. In realtà gli individui tutti, appaiono essere, oggi, solo la domanda tutta intera, polverizzata, annientata. Il capitale, cioè, al culmine del suo sviluppo, vuole essere il tutto, onnicomprensivo, sotto forma di offerta totalizzante e massima storicamente possibile. L’incorporazione del sapere operaio dentro i nuovi modelli organizzativi servono questa logica. Ma tale offerta, -tale modalità del sistema- continua a volersi dare all’interno delle strutture formali della democrazia. Anzi, questa specifica forma può darsi, nel suo massimo grado, solo in tale contesto. La domanda, pur solo come opportunita “di sostegno”, continua ad esistere, deve continuare ad esistere (pur nella necessaria limitazione consistente nel condividere i paradigmi che fondano l’offerta: il valore oggettivo delle merci). Agire sulla domanda quindi, dovrebbe forse dire agire all’interno del sistema di

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SULLA NATURA DELL’ ESSERE E DELL’ AVERE

del risorgere dei nazionalismi e dei particolarismi regionali.

1)Non si dá essere che non sia composto di averi. 1.1)- Non si dá avere che sia scisso dall’essere. 1.1.1)- Noi siamo in quanto abbiamo, e possediamo in quanto siamo.

In altre parole, il modello estetico di fruizione capitalistica, risulta essere troppo costoso, nonchè insoddisfacente sia per i risultati raggiungibili limitati ad aree territoriali e a stratificazioni ben individuabili, ma anche rispetto alla tendenziale standardizzazione delle procedure di fruizione che ne limitano un naturale arricchimento.

2)- Noi siamo, cioè, in quanto con-sum-iamo. 2.1)- E consumiamo in quanto siamo.

Non si tratta dunque di una critica del consumo in quanto tale, ma di una critica delle modalità di consumo/fruizione capitalistico in quanto limitato e limitante rispetto alle potenzialità storiche e culturali determinate.

3)- Noi siamo esseri fruitori.

Si tratta quindi di pensare modalità e procedure di consumo qualitativamente superiori perchè aperte alle molteplici variabili culturali attivabili o ri-attivabili.

4)- La fruizione è una funzione estetica. 5)- Dentro la storia queste sono equazioni fondamentali. L’orientamento individuale al consumo è la disposizione dei sensi a funzionare. Funzionare come sensi. Sensori dell’oggetto. Compreso il senso interno. Il quale non fa altro che consumare e digerire autoproduzioni più o meno libere o conscie. Come affermava Mao, a tale dialettica non c’è limite; solo la storia cambia, se vuole, gli orientamenti determinati, verso la fruizione. Verso il consumo. Il dramma attuale e dei prossimi secoli, non è tanto il consumo in sè, quindi, ma è invece che i particolari orientamenti al consumo di interi popoli e nazioni vengono annientati a favore di un unico, universale orientamento, quello dell’occidente capitalistico. Si va verso una omogeneizzazione complessiva dei soggetti fruitori. Ma non c’è abbastanza merce per soddisfare un appetitto indirizzato verso un’unica pietanza. E se tale quantità fosse disponibile, appare ormai chiaro che ciò corrisponderebbe ad annientare quello che rimane della vita naturale su questo pianeta.

Modalità e procedure più ricche, quindi, sul piano spirituale/culturale, ma più “povere” da un punto di vista energetico. Gli investimenti del futuro, dovrebbero quindi assumere l’aspetto di investimenti essenzialmente culturali, tali da soddisfare bisogni di una domanda attualmente scarsamente coperta, e allo stesso tempo tali da permetterne uno sviluppo ed una autocoscienza (a livello delle potenzialità) verso la richiesta di produzioni autonome, nonchè verso la produzione collettiva di beni a qualità tendenzialmente totale. (Qualità totale dei prodotti significa tra l’altro, che molti di essi saranno destinati a scomparire). Una “totalità della qualità” che va definita sulla base e in relazione a macrocontesti in cui variabili fisico-ambientali, ecologiche, culturali ed economiche abbiano pari dignità. In ogni caso, il parametro discriminante ed unificante di tali variabili non potrà essere un parametro di esclusiva pertinenza di uno solo di tali campi di variabili. C’è da inventare in un certo senso, una nuova moneta o unità di calcolo da utilizzare per una analisi costi-benefici di tal genere.

Più che di uno sviluppo economico, è dunque tempo di uno sviluppo spirituale, immateriale, o meglio -per evitare equivoci-, a basso contenuto di merci materiali o di energia chimico-fisica. E tempo cioè di uno sviluppo culturale. Dovrebbe cioè ricominciare a crescere la capacità di fruizione spirituale dei popoli. E con ciò la relativa domanda. All’interno di pericolose contraddizioni, ciò sta già avvenendo: la rinascita dell’ISLAM, non significa altro che una modalità di tale processo, assieme a quella

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DUBBI

ESSERE-PER-LA-MORTE E CONSUMO ? Non dunque la fine del consumo, poichè il consumo non è che la particolare forma dell’essere-per-la-morte che si dà nell’epoca del capitalismo orientato al mercato. Parafrasando Heidegger, si potrebbe dire che il progetto-gettato si attua, in questo tempo, mediante il consumo. Con Heidegger, giocando, ma forse non troppo, potrebbe dirsi: Con-sum: Sono, attraverso; attraverso le merci, sono. Attuo il mio essere-per-la-morte, con-sum, per mezzo dell’acquisto e del consumo (estetico, non utilitaristico in senso stretto) di merci. CON-SUM, mediante il linguaggio delle merci, sono. Sono, dentro il linguaggio delle merci. In questo senso, tutte le merci superflue (ma quali, a rigore, non lo sono) sono il medium attraverso cui la nostra esistenza assume un senso in questa parte di storia. Se ciò ha qualche chances di verità, un superamento di questa storia, può darsi solo con la sostituzione-integrazione del medium. Una sostituzione del linguaggio attuale delle merci con un altro linguaggio: un Con-sum differente. Un diverso consumo, verso un “con”, un medium, che sia sempre più vicino, adiacente, all’essere stesso. Al culmine del ragionamento, nel suo punto asintotale, ciò dovrebbe significare che proprio in quanto essere, sono. Consumando l’essere stesso, sono. O una tautologia, o una professione del dovere, dell’etica, o, peggio, una acquisizione dell’essere, come merce ?

I Si dirà che il consumo si attua, nel quotidiano, attraverso un medium “oggettivo” che è il denaro. Costituisce, questo fatto un problema teorico insormontabile ? In riferimento a quanto detto potrebbe sembrare che il denaro costituisca un meccanismo di irruzione della confusione nei meccanismi di un puro mercato estetico, attraverso cui proprio la dimensione estetica viene negata con l’insinuazione di una oggettività del valore, cioè di una scala dei valori delle merci (delle produzioni estetiche) di cui esso -il denaro- è parametro dalle cogenti caratteristiche di naturalità, neutralità e assolutezza. Ma come può tale visione essere fondata, se nello stesso tempo viene contemplato nell’armamentario del diritto privato, l’istituto del fallimento, o l’abbuono dei debiti o la possibilità di accesso al credito a fondo perduto ? La convenzionalità del denaro (cioè del valore delle merci) appare evidente, dal momento che si è già visto come i valori, tutti, non siano affatto oggettivi. D’altra parte è noto come il denaro sia solo una merce particolare, specifica, ma come le altre fruibile, quindi, anche da un punto di vista estetico, spirituale. In realtà entrambe queste funzioni appartengono al denaro. Esso è la forma della presunta oggettività del mercato, pur essendo allo stesso tempo la merce per eccellenza, quella il cui contenuto estetico-spirituale (la cosiddetta astrattezza) è massimamente evidente. L’accumulazione capitalistica è infatti essenzialmente accumulazione del denaro.

...sono, in quanto consumo l’essere......... ...... Spezzò il pane e lo diede ai suoi discepoli......”

E il denaro si accumula contandolo. I grandi capitalisti protestanti cui allude Max Weber, sono quelli che operano accumulando denaro al di fuori di qualsiasi immediata logica utilitaristica. Solo, ci dice Weber, per manifestare al mondo che essi rispondono potenzialmente alle condizioni previste per la salvazione: l’attività ad ogni costo, al di là delle sue finalità. Ma l’accumulazione di capitale è possibile solo contemporaneamente allo sviluppo della contabilità. Una operazione astratta (matematica) che può ben applicarsi solo ad entità astratte. L’ “oggettività” delle operazioni contabili effettuate attraverso la merce denaro diventa lo specchio dell’oggettività del mondo del capitale, del valore che si conta

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da se stesso, senza alcuna mediazione del reale. L’autoreferenzialità del sistema è insita nel meccanismo del contabilizzare, condizione necessaria alla costruzione del sistema stesso. Il sistema, non è altro, in realtà, che una immane operazione contabile. Se quindi un atteggiamento mistico-spirituale, come quello calvinistico, può aver dato vita al capitalismo, ci troviamo di fronte a un processo per cui una necessità di possesso/consumo estetico del denaro si è mascherato -ha trovato mascheramento- nell’ambiente etico per eccellenza della riforma protestante con l’abito lucente e inattaccabile del razionalismo matematico-scientifico. Attraverso un mascheramento etico, cioè, e attraverso l’etica del mascheramento matematico-scientifico, è in realtà avvenuto il più grande fenomeno estetico dell’età moderna: l’accumulazione di capitale, attraverso l’utilizzo/investimento di esso in operazioni dalle alte caratteristiche di gratuità, giustificate solo dalle ragioni contabili. L’operazione ha di per sè contenuti alti di creatività. Non per niente lo spirito dei grandi capitani d’industria o dei grandi banchieri non si discosta di molto da quello degli artisti moderni. Le fusioni delle grandi holding societarie avvenute nel corso del secolo rispondono a ben guardare a criteri di ingegneria ed architettura finanziaria che possono ben dirsi contigue a quelle operate da altri artisti e in altri campi, con differenti materiali, magari dotati di maggiore solidità agli occhi del senso comune. Lo Yuppismo degli anni ’80 è in buona misura derivato dalla fascinazione di questo tipo di arte. Non è un caso che esso abbia aquisito contenuti di vera e propria moda molto più caratterizzata culturalmente che tecnicamente. In questo senso, il sistema ha operato una fusione di prospettive che precedentemente venivano viste e vissute come antagoniste: l’etica della razionalità tecnico-scientifica ed organizzativa, accanto all’estetica. Cos’ è dunque il sistema-mondo del capitale ? Esso non pare essere altro che una gigantesca operazione estetica, ad oggi la maggiore storicamente possibile. Non è che una grande opera d’arte storica che nel corso del tempo afferma, tra le pieghe e le crepe delle sue giustificazioni e dei suoi fondamenti, la sua assoluta e fondamentale gratuità. Una gigantesca costruzione che nel corso del tempo permette tuttavia all’essereper-la-morte di con-sumarsi, di sostanziarsi.

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II Che il capitale si manifesti oggi sempre più “come puro spirito” (P.Barcellona), significa che oggi più che mai si sveli la assoluta IMMORALITA’ (NONMORALITA’, NON ETICITA’) del capitale e si affermi sempre più la sua spiritualità, il suo carattere essenzialmente estetico. Oggi, però, ciò che il capitale assume come abito e giustificazione e fondamento del suo essere è appunto la scientificità autoriflessiva, autogiustificante, è la riflessività del meccanismo estetico stesso, che storicamente assume la forma di SCIENZA E TECNOLOGIA. Attraverso le rigidità “fisiche” delle applicazioni tecnologiche, e attraverso quelle “matematiche” delle operazioni logico-contabili (v.informatica), il capitale vuole convincerci della sua oggettiva necessità. Laddove un tempo esso si era servito dell’etica, il capitale si serve oggi della scienza e delle sue applicazioni come copertura e fondamento. Come Borges dice della metafisica -e quindi di ogni etica- che essa non è altro che un ramo della letteratura fantastica, potrebbe oggi in questa prospettiva, dirsi lo stesso per il razionalismo scientifico. Come l’etica religiosa ha un tempo prodotto le grandi conquiste dell’architettura delle cattedrali gotiche, così negli ultimi tre secoli la scienza ha prodotto le “grandi conquiste del progresso”. In tale prospettiva ci troveremmo dunque di fronte a una corrente profonda della storia che cerca di nascondere ad ogni costo la sua essenza estetica attraverso ulteriori coperture estetiche (che si traformano in etiche) storicamente determinantesi e determinate: prima, religione ed etica, poi etica e scienza, poi scienza e tecnologia, poi, autoriflessività sistemica, che debbono (hanno il compito) di manifestare la sua necessità. Ma perchè il capitale non vuole svelare la sua essenza ? E come ciò può avvenire ? La risposta potrebbe rinvenirsi in qualcosa di molto antico, forse tra gli esiti e i meandri di quella ipotesi di scissione tra tragedia e poetica, cara ad Umberto Eco, o forse in quella del passaggio ,inquietante per Giorgio Colli, dalla sapienza alla filosofia in età presocratica. Parrebbe di trovarsi di fronte ad un motore della storia che per permanere ha bisogno di nascondersi, che solo celandosi può essere. La verità della storia, o la VERITA’ in senso lato, paiono essere qualcosa che si situa in una penombra indefinita e allo stesso tempo in superficie.

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La VERITA’ pare cioè essere nella falsificazione dell’evidenza e allo stesso tempo nella superficie apparente delle cose, cioè nell’apparenza stessa.

ANCORA SULLA RAPPRESENTANZA DEL COSUMO

La verità in altri termini pare essere gratuità. La verità pare cioè costituire quella funzione di creatività, gratuita, che oggi viene storicizzata nel capitale.

Spostare l’analisi politica dall’offerta (produzione) alla domanda (consumo), è anche necessario perchè in tendenza saranno sempre meno i produttori (vedi i processi di "razionalizzazione", automazione, ecc.) e sempre più i consumatori -o potenziali tali-.

E il potere della funzione di creatività è oggi storicizzato nel profitto monetizzato. Ma tale forma storica di autoriproduzione del potere di creatività dell’essere, pare debba essere superato perchè sembra non assicurare più l’autoriproduzione del potere di creatività stesso. O meglio, le potenzialità di produzione e riproduzione dello spirito paiono essere sprecate e non utilizzate al meglio. E’ solo per ciò che il capitale viene vissuto sempre più nel contesto planetario come dominio e potere.

A meno che non si pensi di immaginare organizzazioni sindacali che proteggano gli interessi delle macchine automatiche produttrici (che, pare, non siano ancora portatori di specifici interessi) e di quei relativamente pochi operai addetti al controllo e alla manutenzione, o partiti in concorrenza per la rappresentazione di una ipotetica classe sociale costituita dagli apparati produttivi, sindacati e partiti progressisti dovrebbero rappresentare sempre più la domanda, cioè il consumo.

Nel qual caso, possiamo formulare ancora 5 probabili opportunità: l)- O il capitale soddisfa questa nuova domanda. 2)- O il capitale modifica questa domanda secondo la sua offerta. 3)- O il capitale annienta la domanda (e con ciò se stesso, la sua funzione). 4)- O la domanda modifica il capitale secondo i suoi bisogni. 5)- O la domanda distrugge il capitale (e con ciò se stessa). Solo le ipotesi l) e 4) permettono di immaginare un riequilibrio positivo. Ammesso che ogni possibilità debba confrontarsi nel tempo storico dei meccanismi formali della democrazia, del consenso e del mercato inteso come ambito d’azione delle domanda e dell’ offerta di produzione e consumo di estetiche, direi anzi che le uniche opportunità che possono darsi sono quelle in cui vengono escluse a priori soluzioni definitive ed assolute. Oggi la forma che prevale, il tipo di equilibrio dominante è ancora quello della ipotesi n°2, ma questo equilibrio pare aver raggiunto i suoi limiti intrinseci. Ogni altra possibilità resta comunque una possibilità estetica. E la capacità di realizzarsi, nel tempo storico, delle diverse opportunità non risiede nel loro valore oggettivo (che non c’è), ma nella loro capacità di seduzione del corpo sociale.

L’esito delle politiche sindacali e partitiche ci dimostra che in realtà anche negli ultimi decenni, tali apparati hanno voluto rappresentare essenzialmente le classi produttrici, cioè i sistemi produttivi, (cioè le macchine e il metavalore in esse incorporato) includendo nei sistemi produttivi gli uomini concreti come pezzi dei sistemi stessi. L’esempio della vertenza di Cengio, in Piemonte, mostra come un pezzo dirigente del sindacato e dei partiti della sinistra abbia voluto rappresentare un sistema produttivo contro un altro sistema di produzione/consumo alternativo attivato da un’esigenza vitale di fruizione quotidiana. In altre parole un sistema essenzialmente di produzione (con le sue macchine e con i suoi uomini), contro un sistema precipuamente di consumo, di fruizione. Ma rappresentare i consumatori è oggi operazione senza dubbio difficoltosa. Parrebbe di dover rappresentare i consumatori di “latte magro”, “latte grasso”, “parzialmente scremato”, “a lunga conservazione”, “pastorizzato e non”, ecc. (Nel qual caso la rappresentanza del consumo sarebbe di esclusiva pertinenza del sistema di imprese). Sembra tuttavia esistere qualche problema in un mondo in cui finora soltanto il marketing si è districato segmentando per l’appunto la domanda, concentrandola o diluendola, costringendola, creandola o annientandola secondo le esigenze congiunturali o strategiche dell’impresa. Ma è possibile rappresentare una domanda con criteri più generali ? In verità neanche la rappresentanza del lavoratore produttore è stata mai -almeno una volta superato il corporativismo- solo la rappresentanza dell’operaio che lavorava nella singola azienda o nel singolo settore. Posto che non ci si sia sempre trovati di fronte solo a immense holding multisettoriali, la rappresentanza obiettivo è stata quella dell’operaio salariato.

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anzi deve essere ri-cercato. Continuare oggi a voler rappresentare solo quella figura, come anche quella del tecnico, o comunque figure sociali caratterizzate prioritariamente in base a criteri reddituali o di funzione specifica ricoperta nel processo produttivo, pone dei gravi problemi rispetto alla rappresentanza del terzo di società fuori dalla benevolenza del sistema, terzo che è sulla strada per diventare metà e in prospettiva (chissa ?) due terzi. Tali frazioni di popolazione attiva o non attiva, non sono però esenti, pur nelle dimensioni e nei modi più diversi, da una qualità unificante, quella dell’essere sempre dei consumatori, pure in varia misura e con differenti livelli di potere (e allo stesso tempo, come già detto, di essere tendenzialmente sempre più produttivi in relazione alla nuova funzione del consumo). Già oggi, la consistenza di un sindacato come la CGIL, nella quale oltre la metà degli iscritti è costituita da persone fuori del circuito tradizionalmente produttivo (pensionati), mostra come l’esigenza di rappresentare il consumo sia ormai una necessità storica ineludibile. Se poi si tiene presente cosa possa significare in sede di contrattazioni del futuro porre sul piatto non solo le rivendicazioni concernenti il salario o le condizioni e i tempi di lavoro in fabbrica, ma anche fuori della fabbrica cioè nei luoghi del consumo, che poi sono i luoghi della vera produttività nelle società postmoderne, credo appaia chiara l'importanza di un tale approccio. In ultima analisi rappresentare il consumo diventa oggi il modo più coerente per rappresentare la fetta tendenzialmente a produttività crescente delle nostre società, (quello che in altri tempi veniva definito come il soggetto storico emergente) in quanto la produttività dei sistemi economici si gioca proporzionalmente sempre più fuori della fabbrica, cioè là dove la funzione di produzione e la funzione di consumo smarriscono i presunti confini e lineamenti di purezza che una teoria economica categorizzante costruita sulla falsariga di un positivismo ormai superato, -che corrispondeva alla produzione di massa- ha voluto imporre.

Ma questo vuole dunque dire che le entità separate “sono”, costitutivamente, anche l’altro. Quali criteri dunque, per la rappresentanza del consumo ? Come si rappresentava (e si rappresenta) la parte “produttiva” della società sulla base del grado di sapere e di saper fare (perlomeno formalmente, dato che non sempre a tale grado corrisponde un reddito proporzionale) del singolo addetto al processo produttivo, si può immaginare una rappresentanza del consumo in relazione al grado di cultura specifica di cui il singolo consumatore è portatore qualità/quantità quest’ultima, che può essere aggregata per approssimazioni di contesto e storiche successive. Lo scenario politico potrebbe presentarsi costituito da schieramenti alternativi di consumo. Dal punto di vista della prassi politica si tratterebbe quindi di riqualificare la domanda, come per lungo tempo si è chiesta una riqualificazione dell’offerta. L’obiettivo del benessere sociale sarebbe in questa prospettiva l’acquisizione di livelli di qualità di consumo superiori in alternativa a quella di redditi superiori. Tra l’altro oggi, la riqualificazione dell’offerta a livello mondiale trova la sua condizione necessaria proprio in una riqualificazione della domanda. Significa che il modello può venir modificato attraverso un processo di formazione/ autocoscienza politica della domanda. E l’autocoscienza della domanda significa sostanzialmente cultura.

Cos’altro significa l’ormai abusato termine di “interdipendenza”, se non proprio questo: i territori, le aree fisiche ma anche sociali, le figure sociali tenute separate, autonome, appunto indipendenti tra loro da una certa impostazione teorica e da un certo esercizio del dominio, scoprono di essere interdipendenti, cioè di possedere tutte caratteri complementari per l’altro da cui sono divisi, nel senso che possono darsi proprio (nella loro costitutiva differenza, limitatezza), nel bisogno dell’altro, il che implica il riconoscimento della sua importanza, imprescindibilità. Ciò significa che l’altro non solo non può essere abolito, eliminato, in quanto ciò minerebbe la stessa possibilità di esistenza come tipo di soggettualità data, ma

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cimiteri. Si potrebbe scomparire dall’essere senza alcun bisogno di preavviso, di cure, di manutenzioni o menzioni particolari.

DUBBI III Il mondo acefalo, senza centro e senza periferia prefigurato da Pascal, dove il centro è dappertutto e le periferia in ogni luogo, il mondo in cui le coordinate culturali scompaiono, dove il principio di realtà svanisce, dove il pensiero forte per l’appunto si dilegua, dove la storia sembra finire, il mondo autoreferenziale in cui tutto è dentro e che non consente la propria disamina da un luogo esterno a se stesso -perchè niente gli è esterno-, quel mondo del Pensiero debole in cui tutto accade e anche il contrario di tutto, quel mondo che cresce su se stesso e trova giovamento dalle sue stesse crisi, quel mondo sistematizzante la propria complessità all’infinito, quel mondo che si chiama CAPITALE, di cui la stessa natura sembra dover venire a far parte attraverso le infinite manipolazioni fisicochimiche e genetiche, quel mondo in cui l’essere stesso si accinge a divenire un mero commensale, quel mondo dunque che si sostituisce al posto che da sempre è stato esclusività dell’essere, quel mondo, questo mondo, è il mondo che ha introiettato la dialettica come sua procedura immanente, come metodo fondamentale di autoriproduzione.

Ne risulterebbe una superfluità del capitale ? (Ma questo mondo pare necessitare ancora, indefinitamente, di purificazioni, di mediazioni, di cure, pare necessitare di morire, dolorosamente).

Una dialettica zoppa, però, falsata, costretta dalla costrizione della domanda. Dentro se stesso, questo mondo rimuove e sopprime una parte di sè, quella che allo stesso tempo costituisce il suo principio e da cui attinge la sua energia cinetica. Questo mondo, questo capitale, non è ancora puro spirito, come direbbe Barcellona. Perchè non permette il libero giuoco dei due gradi della sua stessa dialettica. In questo senso è un mondo che soffre di una patologia profonda. Una patologia che insieme può chiamarsi isteria, rimozione, schizofrenia, paura. In questo senso è un capitale ancora troppo storico, troppo politico, troppo umano, pur nella sua ambizione di superamento della fragilità umana attraverso la scienza e la tecnologia, nella sua ambizione di costituirsi al di fuori del tutto, inglobando il tutto. Perchè il capitale media la domanda ? Perchè continua a costringerla e a limitarla ? Non ne risulterebbe forse un vantaggio se la domanda potesse esprimersi senza continue mediazioni e soppressioni ? E’ forse questo capitale ancora troppo stupido ? Non sarebbe forse vantaggioso per il capitale un mondo di liberi produttori, di liberi creatori e fruitori dell’ “essere-per-lamorte” ? E’ vero che in un mondo di tal fatta non sarebbero più necessari nè ospedali, nè

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LETZTE STUFE

DUBBI IV Ma c’è possibilità di soddisfazione estetica nel mutamento di un mondo ? Può oggi il mutamento costituire un modello estetico ? Possono, gli “esseri-per-la-morte” essere attratti da questa opportunità ? O la funzione estetica si manifesta solo nel presente, nel fugace virtuale dell’attimo del consumo ? E’ il consumo qualcosa che rimanda a una dimensione infinita, perenne, o invece parziale, storica ? Forse l’essere-per-la-morte non fa più distinzioni. Caduta la possibilità di una vita eterna, l’eternità vivente dell’essere-per-la-morte aspira solo a consumare il possibile/disponibile per-la-morte stessa. Oltre quella si ritorna al niente, da dove si è venuti, là dove non c’è consumo perchà non c’è alcun “per” per cui progettarsi. Solo dunque per un sogno estetico, dunque per un’utopia, ancor più gratuita della gratuità del capitale potrebbe darsi la condizione del mutamento. Solo per un’utopia che fondi il presente come luogo dell’essere autocosciente. Solo nella sua accecante nudità che si specchia nel sè, può, questo essere, essere l’essere che muta il mondo. Dunque anche il mutamento, anche la rivoluzione, come qualcosa che rimanda sostanzialmente all’estetica, che si muove in questo campo....

Unificazione dei diversi mercati, culturale, religioso, artistico, scientifico, economico, in un unico grande mercato universale: Il mercato degli oggetti e dei fatti estetici. La dimensione del consumo diventa la categoria unificante di ogni mercato e permette la permeabilità degli ambiti storicamente ritenuti e tenuti separati. In questo senso, ciò che contraddistingue e caratterizza la dimensione dell’uomo contemporaneo è, più che la mercificazione del suo lavoro, della sua capacità produttiva, il fatto che l’uomo moderno viene consumato. L’unificazione dei “mercati paralleli”, impone infatti un unico approccio all’ente, a tutto ciò che è: questo approccio consiste nel fatto che l’ente può essere consumato ed esiste solo in quanto tale. L’esistenza dell’essere, -della cultura, dello spirito- può ancora darsi solo nello stesso ambito dimensionale. E’ più che evidente che la forma storicamente necessaria per venire consumato è l’essere merce, ma l’essere merce è appunto solo una forma storicamente determinata della possibilità di consumo.

Con una stoica perdita dei sensi, allora ? con una potente etica della razionalità del dover essere ?

Ma cos’ è allora, il consumo ? Il consumo pare costituire la condizione stessa dell’essere.

No. Al contrario, parrebbe di poter dire che il cambiamento possa darsi solo attraverso il potenziamento asintotale dei sensi, per mezzo di una sorta di autocoscienza non standardizzata, qualcosa che ha a che fare solo tatticamente col razionale; solo con una voglia di fruizione complessiva, con una tensione al consumo totale, può, l’essere-per-la-morte che è l’uomo, abbandonarsi al vizio di mutare.

Il consumo è l’atto che trasforma le molteplici forme dell’essere. L’essere esiste cioè solo in quanto, allo stesso tempo, consuma e viene consumato.

La gratuità del mondo, la sua incredibile complessa razionalità, contro una gratuità ancora maggiore, una razionalità profonda -o del profondo-, una complessità delle possibilità tale da non lasciare occhi che possano discernere con le categorie contabili.

In questa prospettiva l’essere in senso umanistico, l’ essere dell’umanesimo, cessa semplicemente di essere e appare in tutta la sua evidenza per ciò che è sempre stato: un’invenzione, un’astrazione ipostatizzata a tal punto da assumere -come nel più classico dei casi- una presunta realtà autonoma. Quella realtà giustificata allo stesso tempo dalla presunta soggettività o oggettività (a seconda della filosofia che si applichi) dell’ente. Su tale base si sono potuti costruire tutti gli edifici morali; l’etica stessa lo pretende come proprio strumento e fondamento, insostituibile appiglio.

La rivoluzione come inedita liberazione di energie, di volontà di fruizione, di consunzione, di esplosione dell’essere. La rivoluzione, poi, infatti, si rimangia i suoi figli. Come dire che li consuma.

Più modestamente gli esseri consumanti appaiono essere degli IN/OGGETTI in balia dei contesti al punto che i loro contorni possono sfumare fino a

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scomparire. (Sarebbe stato altrimenti possibile l’olocausto ?)

EUROPA E NAZIONALITA’

Angelo Rossi, poeta dell’Etruria, amava raccontare che un bicchiere di Campari ti trasforma in un altro; P.K. Feyerabend, dalle sue cattedre posticce sostiene la stessa evidenza, sostituendo al bicchiere la parola, o quel ramo che pende in modo inconsueto lungo il sentiero. Qualcuno, in una casa di Berna, alle prese con un orologio, riporta il tempo alle sue dimensioni relative e lo Zar Nicola dichiara guerra al Giappone perchè il suo servo, quella mattina, gli ha infilato maldestramente uno stivale.

La fine dell' utopia cosmopolita dell’internazionalismo, come l'affievolirsi di quella, non minore, dell’Europa unita, segnano l'inizio della fine di quella particolare configurazione storica dominata dal concetto di civilizzazione. Civilizzazione come processo caratterizzato e determinato dalla standardizzazione dei linguaggi organizzativi . Questa configurazione era quella dell’organizzazione totale sotto il paradigma della scienza e della tecnica mediata (o scaturita) dal capitale sia nella forma di capitale privato multinazionale che in quella di capitale monopolistico di stato. Tale paradigma ebbe applicazioni e atteggiamenti differenti nelle situazioni date: si chiamò Taylorismo e Fordismo in America, in Europa riuscì a diventare nazismo (la forma ancora insuperata di semplificazione organizzativa) e in Unione Sovietica, passando per lo Stachanovismo si impose come Piano e Burocrazia.

Da improvvisi lampi o lunghissimi pomeriggi possono prender forma scoperte mirabili o catastrofi. Dunque la caratteristica precipua dei progetti gettati è quella di essere pro-gettati (gettati da qualcosa per qualcosa) e pro-gettanti, cioè consumati e consumatori. Interviene un evento, un catalizzatore, e si attivano.

In realtà tutte queste forme dell’organizzazione che si adegueranno dopo la grande crisi e la seconda guerra, alle necessità imposte dalla democrazia del consenso e del capitale sempre più inter-nazionalizzato, non fanno altro che sondare per strade diverse e a livelli diversi, le possibilità che si aprono all’ingegneria della civiltà. Sono i tentativi, le prove storiche della civilizzazione.

I soggetti, i progetti gettati, sono solo dei campi. Null’altro.

Il principio organizzativo ha fondato tutte queste esperienze. E l’organizzazione è sempre, in varia misura, semplificazione; dei pezzi (soggetti) e delle procedure. Come d’altra parte ogni ambito del pensiero, in quanto pensare è sempre organizzare l’intuizione, cioè semplificarla, renderla comunicabile. Le procedure fornite dalle scienze naturali, applicate alle scienze umane e sociali -e di volta in volta aggiornate ai contesti storico culturali delle aree fisiche, dei territori in cui vengono utilizzate- costituiscono il fondamento stesso della civilizzazione. La struttura democratica del consenso ha però reso evidente in particolare dopo la seconda guerra mondiale almeno nei paesi del nord, che non possono essere oltrepassati dei limiti di semplificazione dei bisogni della domanda oltre i quali diventerebbe di nuovo necessario lo sconfinamento nel totalitarismo; ma allo stesso tempo non possono essere superati i limiti opposti, e cioè quelli di una adesione troppo orientata al singolare che nelle sue varianti di Tacher- e Reaganismo ha prodotto danni enormi al tessuto sociale dei paesi che l'hanno adottato. Tra questi limiti si è data una strutturazione mediana del consenso, quella italiana, perseguita come sommatoria di consensi parziali di gruppi e “sottoclassi” spesso depositari di interessi ed aspettative contrapposte pur all'interno delle stesse, supposte, classi di appartenenza.

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La sommatoria infinita dei consensi però, a prescindere dal fenomeno marginale del rozzo voto di scambio, legittimava una certa "ecumenicità" della rappresentanza politica non a caso stabilmente insediata per 50 anni sotto l'effige della fede. Come è possibile, si può pensare, che proprio ciò sia avvenuto ? In realtà, seppure i raggruppamenti sociali possono apparire -ad una occhiata che li legge attraverso gli strumenti analitici -reddito, professione, ecc.-che sono serviti a costruirli e delimitarli, (quindi tautologicamente)- spesso in conflitto, se non contrapposti, essi sono unificati dal fatto di essere composti essenzialmente da individui che sono prima di tutto dei consumatori. Sotto tale profilo l’interclassismo, non solo è stato possibile, ma addirittura appare essere l’unica forma organizzativa che risponde alla “qualità” nascosta del corpo sociale, e quindi esso può aver aspirato legittimamente ad esprimere l’ INTERCLASSE dirigente; interclasse che, come dimostrano gli eventi di Tangentopoli, non poteva non condividere la stessa qualità nascosta del corpo sociale! Questa interclasse dirigente va in crisi non perchè una altra classe si affermi, ma perchè i contenuti e la domanda che essa ha rappresentato non sono più quelle che oggi afferma il corpo sociale. E in questo senso, contrariamente a quanto possa sembrare, si tratta di un mutamento dalle caratteristiche più epocali che strettamente politiche. Solo le forze che comprenderanno questo fatto potranno ambire a governare nei decenni futuri. E la domanda che si afferma non è meno ecumenica della precedente: il bene "pulizia morale", è infatti un bene che in linea di massima attraversa le stratificazioni di classe. E non è una nuova classe a richiederlo. A chiederlo è una modificazione della coscienza della domanda, se così può essere definita. In un certo senso, nelle nostre società non c'è più bisogno di attendere nuovi soggetti messianici portatori del mutamento. Le classi stesse, nella pioggia di informazioni da cui sono perennemente inondate, paiono sviluppare modalità di mutamento congenito e continuo: quelle per cui si rendono necessari i continui rilevamenti di audience o di gradimento. E' in questa prospettiva che le ideologie sono veramente tramontate. Esistono tuttavia delle minoranze che sembrano invece muoversi ancora su terreni che appaiono essere dei residui dei “mercati paralleli” culturali, ideologici, ecc. che nel corso storico ebbero sicuramente dignità pari, se non maggiore, di quella del mercato dei beni economici. Ma esse sono destinate a medio termine, a un decadimento che non può essere rimesso in discussione dal riemergere di nuovi-vecchi miti delle culture particolari,

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siano esse regionali o etnico-razziali. Ciò che ci dicono queste escrescenze violente e repentine (che in un futuro prossimo potranno senza dubbio proliferare) tra le righe delle loro secessioni (Jugoslavia) o delle loro riunificazioni (Germania), è che il principio di civilizzazione ha raggiunto di nuovo un suo limite. Il limite della cultura. Nel dibattito intorno all'integrazione degli immigrati nei paesi di accoglimento, si pone sempre più l'accento sulla necessità di mantenere una identità linguisticoculturale come presupposto per una integrazione che non sia semplice assorbimento e annientamento dei patrimoni individuali e collettivi, cosa questa che in ogni modo potrebbe essere definita fuorchè come integrazione. Rimanda a qualcosa di analogo ciò che accade nel rapporto tra le diverse culture nazionali e regionali e la macrocultura della civilizzazione alla fine di questo secolo. Qualcosa che ci fa dire che un certo quadro è ormai definitivamente tramontato. Primo, perchè esso può vegetare solo a condizione di allargare indefinitamente le possibilità di consumo, cioè in un contesto di continuo sviluppo economico -cosa oggigiorno come minimo in forse-. (E come potrebbe altrimenti essere accettabile la civilizzazione ?) Secondo, perchè pare che la qualità dell’ offerta non regga più ad una domanda sempre più diversificata e difficilmente ricomponibile, se non a prezzo di superare i limiti della democrazia -anche quella parziale- economica. Il riemergere dei nazionalismi in Europa, con ciò che ne viene in termini di rischi di varia natura, potrebbe quindi essere interpretata in questa chiave: l’universalismo, il cosmopolitismo, la civilizzazione, non pagano più perchè semplificano troppo, nella loro ansia -comprensibile- di organizzare ciò di cui, tra l’altro, sembrerebbe esserci grande bisogno: il governo continentale, sovracontinentale, mondiale, dell’economia, cioè di tutto. Ma non mi sentirei di dire che, nel quadro attuale, i rischi di tale evoluzione siano per forza maggiori di quelli offerti da un cosmopolitismo del capitale universale. Anche se, purtroppo, niente, proprio niente, garantisce che gli attuali sviluppi siano legati a qualche tipo di coscienza storica che non si traduca in quella di nuove volontà di potenza nazionali o regionali che salgono alla ribalta. Ma in ogni caso è fuor di dubbio che una grande epoca si è conclusa. D’ora in poi, pare doversi dire che gli esperimenti politico-organizzativi non potranno più essere esclusivamente gestionali, ma “creativi”, di ri-progettazione teorica e strutturale. Non si tratta più cioè, di gestire il capitale, ma, se si vuole, di ri-crearlo, in quanto la perdita di valore della civilizzazione è anche perdita di valore del capitale. E a questo fine, quel concetto di “risorse umane” potrebbe acquisire una valenza teorica portante, allorchè depurato degli interessi parziali attribuitegli dalla cultura

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"d'impresa", cioè del capitale. Volontà dell’io volli e rassegnazione del “tutto è giusto” per sopravvivere dentro la storia. Eticità ed estetica compenetrate nella storia. Possibilmente uomini di buona volontà. Cioà la dignità del costruire comunque sulla sabbia, di mediare... Ovvero la forma archetipica e tragica e grande della Politica.

Ma quali territori di eventi dovranno essere attraversati ? Vengono in mente le parole di Nietzsche: “........ io vi racconto la storia dei prossimi secoli: quelli del Nichilismo”.

16 Settembre l992 22 settembre 1992 Gorbaciov parla a Berlino di una sinistra che si fondi sull’etica. Fine del determinismo (auspica). L’utopia torna al grembo del razionale. Dell’umanesimo razionale. Il positivismo è scalzato. Pare dunque che la battaglia debba spostarsi al livello delle due utopie la cui “Ursprung” è situata all’inizio della civilizzazione occidentale. Cioè appunto, forse all’inizio dell’idea stessa di utopia. Ma l’utopia è sempre bifronte. L’altra utopia continua ad essere quella estetica. Etica, tragedia, Apollo, ... Estetica, poetica, Dioniso, ... Aristotele, Platone, Nietzsche... Mi sfugge quale posto trovi il consenso, o il suffragio universale in questa storia... Come può un’etica divenire qualcosa di coscientemente interiorizzato e non di prescritto ? Come può, l’estetica, trasformarsi in qualcosa che non fa male al mondo... Come può la libertà di ciascuno essere la condizione della libertà di tutti e viceversa... Si prenda, ad esempio, il problema ecologico. La fatica, l’automazione, le “libere leggi del mercato”. Si prenda ad esempio l’amore... La sinistra, cioè l’utopia del “Vorwarts”, l’utopia del paradiso, è incatenata a questo dilemma. La soluzione si situa forse solo in un virtuale Zarathustra, in un nuovo animale: quello per cui l’”io volli” nietzschano consiste nella mediazione infinita -o accettazione infinita- come volontà. Volontà di potenza ?

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Ciò che si muove nel campo dell’etica è, nel migliore dei casi, saggezza. E ci sarebbe da ricordare come la saggezza sia qualcosa di acquisibile lungo un tempo lungo, di privazioni e sperpero e viceversa. Se è solo privazione rientra nell’ambito della psicoanalisi e come tale è solo falsità pretina, qualcosa cioè di inevitabilmente malato, patologico. Se è solo sperpero (di energia di qualsivoglia genere) è qualcosa di umido che ricorda dissolutezza e incapacità di sentirsi come un tutto; e ancora, quindi, qualcosa che ha bisogno di analisi. Nel tempo storico, le due opportunità sono mediate e richiamate alla luce di volta in volta, come necessità immanente del momento, assolutizzate dal capitale nel suo oscillare tra crisi e sviluppo. Non si da mediazione in equilibrio che in subitanei istanti che durano solo qualche lustro, e solo in qualche luogo o regione del pianeta. Narciso e Boccadoro possono corrispondere alle fasi del ciclo. E la fortuna che tiene ancora in vita il mondo degli uomini è che le fasi in certa misura, non inglobano ancora simultaneamente il globo. E i singoli attori oscillano tra i due punti ognuno secondo il proprio karma storicamente determinato. Una società in grado di attuare tale sincronia, sarebbe infatti l’ultima. Dopo, il pianeta sarebbe abitato da altri esseri. Come nella poesia di Caproni: “Saremo nuovi non saremo noi saremo altri...” (Siamo lontani da questo ?) Gadamer a 92 anni, da Heidelberg ci parla di saggezza. Neanche lui è troppo

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convinto che basti. Ma certo, per ragioni ben evidenti, non può dirci che non ci crede e che dobbiamo rassegnarci alla contraddizione. Che questo mondo esploda, è infatti una possibilità vitale. L’unica che ci resti. 6 ottobre 1992 Vittorio Hosle e la sua dittatura ecologica dell’etico stato sembrano ignorare che l’umanità è una natura incessantemente, storicamente evolutiva (o involutiva), comunque cangiante. La cosiddetta sovrastruttura culturale (prendiamo, ad esempio l’idea di uno sviluppo illimitato, oppure la voglia storica di consumo) non avvengono all’esterno della cosiddetta natura, la quale, se è tale, contempla anche la cultura come sua variabile. La contempla, per inciso, nell’ organizzazione gerarchica degli insetti, e nelle migrazioni internazionali degli uccelli. Può contemplarla, credo, anche nella mutante cultura umana. Anche nello stadio in cui quest’ultima pretende di costituirsi al di fuori e in modo assolutamente indipendente dalla natura. La natura umana (la cultura) non è in verità che una possibilita’ estetica (un modo) della natura universale. Anche la dittatura ecologica come tale non è che un modello estetico che può essere previsto tra le tante possibilità. Resta da vedere se la sua presunta eticità sia compatibile col carattere estetico della specie uomo, cioè della natura, e ciò dal punto di vista strutturale, non da quello teorico, il quale, come ogni altra opportunità convenzionale, non può non ammetterla. Resta cioè da vedere se esista una compatibilità “storica” di tale scelta, visto che le opportunità estetiche si realizzano, nella specie uomo, all’interno della storia, la quale ultima è il modo specifico in cui l’uomo realizza la propria “naturalità”, cioè la propria esteticità.

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ANCORA INTORNO ALLA SCIENZA Per Emanuele Severino la civiltà occidentale nei suoi esiti attuali non è altro che il risultato dell’approccio evolutivo e trasformante dell’uomo, l’approccio modulato sull’ idea della realtà del divenire. La razionalità scientifica non è che il portato, l’esito finale di questa visione che pervade di sè la metafisica occidentale, contro l’idea dell’ “essere che non può non essere” parmenideo. Questa impostazione critica della cultura occidentale come essa si è dispiegata nel corso della storia implica una considerazione di fondo che è costituita dunque dalla visione opposta: quella per cui può esistere e può darsi un essere solo in quanto assolutezza e stabilità. Dal nostro punto di vista (in divenire, o stabile ?) queste prospettive appartengono entrambe all’estetica, sono due modi di concepire l’esistenza, vale a dire due estetiche differenti, per semplificare ancora, potremmo dire che si tratta di due stili, due schemi rappresentativi, due stili e due metodi di rappresentare l’esistente, come dà ad intendere Hermann Hess. Entrambi quindi rimandano ad un’ estetica parziale che si è formalizzata storicamente. L’estetica assoluta, in quanto tale non esiste, poichè l’estetica è qualcosa che si forma ed attiene, ed implica, e si relaziona alla storia influendo su di essa. Ma l’estetica è dentro la storia, come la storia è solo un succedersi di estetiche. Ciò che pare contraddistinguere gli ultimi due secoli di storia è che il rincorrersi di estetiche diventa repentino rispetto a quanto precedentemente era avvenuto secondo tempi e scarti molto più prolungati. Singole estetiche si erano imposte nei diversi campi del sapere, dall’interpretazione del “reale” o del “sociale" all’ interpretazione dell’ essere, ed erano potute durate secoli. Ciò accadde anche per le arti. Negli ultimi due secoli, questo movimento di estetiche, di interpretazioni, diventa molto più rapido e non più sincronico nello spazio e nel tempo. Diverse e spesso contemporanee estetiche entrano in vigore e durano per qualche decennio, permeano di se la società, vengono poi sopraffatte. Si assiste in questo campo a qualcosa di simile a quanto accade nella moda: un succedersi di estetiche, di stili e di atteggiamenti che riprendono e rivisitano variabili tratte da altri periodi, le mescolano, le mettono a confronto, le integrano, le associano; c’è un sincretismo formidabile di stili, un ritornare al Passato, un rendere attuale e moderno ciò che era tradizione. Un eclettismo totale.

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La confusione, che è evidente in campo filosofico e nel campo delle scienze umane, deriva essenzialmente da questo: i punti di riferimento di singole estetiche con cui interpretare l’esistente vengono meno e ci si trova di fronte a una molteplicità di estetiche o ad estetiche che comunque implicano la molteplicità, (tra queste estetiche c’è da annoverare la scienza e le sue diverse interpretazioni), le quali non possono ambire a costituire un unico punto di riferimento per il ragionamento e per l’analisi. Questo stato di cose permane anche in politica: non solo quindi nella teoria delle scienze umane, ma anche nella prassi. Nella prassi, cioè nel succedersi quotidiano della vita, si assiste a nient’altro che ad un implicarsi reciproco e successivo di estetiche. Il tornare alla ribalta di approcci mistico-teologici con cui interpretare la realtà è uno dei tanti possibili stili, modi, mode per concepire l’attività conoscitiva dotatandola di senso. E abbiamo visto quale rapporto abbia tale situazione con l’attività del consumo. Da questo punto di vista, ciò che Severino chiama dominio dell’apparato scientifico-tecnologico come esito della metafisica occidentale, a mio parere è soltanto il mondo con cui la storia attuale influisce sulle molteplici estetiche disponibili. Vale a dire, la storia, le modalità dello sviluppo storico collettivo nelle società moderne, influiscono oggi proprio attraverso la scienza, sulle singole estetiche. Tanto è vero che sistemi differenti e situazioni differenti implicano comunque e in ogni caso, secondo una certa prassi consolidata e ritenuta assolutamente indispensabile, l’utilizzo della scienza per il raggiungimento dei propri fini. (Vedi come si tenda a pubblicizzare il messaggio evangelico). Ma è vero anche che dentro la stessa scienza esistono molteplicità di stili interpretativi, molteplicità di estetiche anche dentro la scienza, anche dentro ciò che pretende di essere fuori dai campi, in quanto fonda, essa stessa i campi di analisi. L’apparato concettuale e tecnico della scienza e della tecnologia non è così uniforme come lo si vorrebbe rappresentare; dentro tale apparato giocano e continuano a darsi contraddizioni tra differenti prospettive estetiche. La scienza, in questo senso, sembra non rappresentare altro che ciò che nel medio evo ha rappresentato la teologia: l’involucro complessivo, il metavalore, che raccorda ogni possibile atteggiamento che pretenda di essere in qualsiasi modo “sensato”..

valida dimostrazione. Cio’ avvviene anche oggi. Dentro la teologia attuale che è la scienza, e fuori di essa. In questa prospettiva, quello che Severino definisce come il dominio della scienza e della tecnica, io direi, diversamente, che si tratta del dominio dell’ idea di scienza e tecnica come capacità di interpretazione oggettiva dell’essente, che pretende di essere definitiva, perlomeno dal punto di vista del metodo, non per forza dei risultati, i quali restano pur modificabili proprio in forza della modificabilità delle teorie scientifiche. Quello che definisce come assoluta e dominante questa logica è in sostanza, l’interpretazione del metodo scientifico come metodologia che pretende di essere esaustiva, cioè di esaurire tutte le possibili vie della conoscenza umana. E’ l’idea cioè, che il metodo logico-matematico, il metodo analitico, siano gli strumenti fondamentali per interpretare il mondo e dotarlo del carattere dell’oggettività. Più che di dominio della scienza e della tecnologia si dovrà dunque parlare del dominio di una epistemologia, di una certa filosofia della scienza. E’ evidente che il problema è proprio qui: questa visione si pone al di fuori del campo estetico e cerca di fondarne un altro autonomo, che non è neanche un campo etico -ed è qui la forza della scienza e della tecnologia come epistemologia, ma un campo ulteriore che è quello dell’ oggettività come cosa che pertiene nè all’ estetica, nè all’etica, ma che diventa addirittura comprensivo di esse, che le ingloba e che quindi pretende di leggere l’etica e l’estetica alla luce dei suoi strumenti, dei suoi metodi, innanzitutto riducendo tali campi a campi di osservazione composti di variabili già filtrate -”purificate”- dal metodo. Riuscire a ridefinire scienza e tecnologia invece come qualcosa di assolutamente pertinente al campo estetico, come d’altra parte qualsiasi altra manifestazione dell’agire umano su questo pianeta, costituirebbe una delle grandi rivoluzioni democratiche e “positive” del millennio che sta per iniziare.

All’interno dell’apparato teologico e della situazione di dominio imposta e sostenuta da questa estetica (quella della scolastica, ad esempio) si sono comunque date delle contraddizioni, antagonismi e lotte intestine dai caratteri non raramente dirompenti. I vari concili che si sono succeduti, le varie encicliche, le infinite eresie, ecc. ne sono

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UN MODALITA’ DI CRITICA ESTETICA DELLA SOCIETÀ A rigore non dovrebbe essere necessario formulare interpretazioni analitiche su aspetti o campi delle società. A rigore, potrebbe darsi la possibilità di criticare/interpretare la società com’è, con un metodo puramente estetico. E’ il metodo del cosiddetto “luogo comune”, o se vogliamo è il metodo della critica degli anziani, dei vecchi, quando, parlando del mondo attuale, (che non è più il loro), si chiedono: ma dove sta la bellezza di questo mondo ? Dove sta la bellezza che può essere vissuta con gli occhi, con il gusto, con il tatto, con l’udito ?

sempre profondamente ed essenzialmente estetica. Una interpretazione, anche. Un’analisi non può che essere solo la ricerca della conferma a tale intuizione estetica. E l’intuizione è, solitamente, un’evidenza. Solo questa opportunità fonda la possibilità di una società democratica. L’altra è un’opportunità tecnocratica ed ideologica.

Dove stanno quelle pietanze, quegli odori, quei rumori lievi del tempo che fu ? C’è in ciò la nostalgia della giovinezza dei vecchi, c’è il sentimento di un tempo definitivamente trascorso. Ma c’è anche dell’altro. Oggi, la fantasmagoria dei tempi attuali impone un senso sesto con cui interpretare (giustificare) il presente: la luccicanza delle città e delle fabbriche, la seduzione delle infinite merci, ecc.: la civiltà della scienza e della tecnologia si afferma dentro il sesto senso della funzionalità, del concetto, dell’analisi. Un sesto senso che ormai sopravanza i restanti, dei quali solo poche tracce rimangono. Ma se si va alla periferia della scienza, della città, della civiltà, nelle favelas del terzo mondo, cosa dedurrà il sesto senso analitico e giustificante la funzionalità del tempo che corre ? Cosa potrà affermare degli aromi acidi emananti dalle grandi torri di compensazione delle grandi multinazionali della chimica ? Quale concetto potrà giustificare il seccarsi delle piante secolari ? Quale analisi progressiva saprà legittimare questo tipo di progresso ? Quali antidoti e quali analisi alternative che utilizzino la stessa lingua potranno metterlo in discussione ? Verrà in nostro soccorso l’analisi contestuale o quella costi/benefici ? Utilizzeremo le analisi statistiche o quelle preorientate dalla certezza che il nostro sviluppo è ancora imperfetto e che quindi bisogna fare altre scoperte che lo perfezionino ? Un uomo vecchio potrebbe semplicemente dire che tutto questo non va bene perchè puzza, perchè non accontenta l’occhio o il palato, perchè urta l’orecchio. In ciò direbbe cose naiv, luoghi comuni, ma in definitiva direbbe le cose finali e iniziali che orientano qualsiasi analisi e qualsiasi ricerca. Agirebbe in modo estetico, utilizzando gli stessi strumenti che determinano l’analisi successiva dello scienziato, del ricercatore. Una critica è possibile senza analisi concettuali o categoriali. Una critica anzi è

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pubblicità della Coca-Cola è in grado di superare le barriere culturali di popoli diversi.

Epilogo (marzo 1994) La vittoria di Berlusconi è la vittoria della politica come estetica e come marketing. Teoria e prassi diventano rispettivamente immagine televisiva e metodo scientifico di rilevamento dei dati. Politica come estetica significa politica che trova il proprio fondamento non più nella intrinseca razionalità del progetto, (razionalità della politica), cioè nella capacità del progetto politico di parlare all’animale sociale razionale, quanto invece nella capacità di seduzione del corpo sociale. Da questo punto di vista Berlusconi avrebbe potuto ottenere un grande successo elettorale (come d'altra parte ha ottenuto) anche prescindendo dagli argomenti/slogan utilizzati in campagna elettorale. Politica come marketing significa invece (ma è complementare), che gli strumenti analitici e operativi del marketing vengono messi al servizio del messaggio politico nel senso che il progetto politico viene informato dai parametri costitutivi di questa scienza sociale. Vale a dire che il messaggio/programma viene edificato tenendo conto dei risultati ottenuti dal rilevamento. I messaggi saranno allora estremamente semplificati, poichè debbono essere universalmente percepibili e condivisibili; così anche i programmi. Non c’è più quindi una valenza “razionale/oggettiva” del messaggio. Gli argomenti potrebbero essere i più disparati, purchè la percepibilità e condivisibilità siano massime. Il segmento di mercato a cui rivolgersi è talmente ampio in politica, che il messaggio deve far valere tutte le opportunità possibili unificandoli in macroslogan capaci di cogliere nei meccanismi più reconditi e privati dell’animale sociale. (Da tener presente che infatti Berlusconi tenta la carta di mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, per così dire, cioè il massimo delle aspirazioni assistenziali del meridione col massimo delle aspirazioni liberistiche del settentrione, o, in altra prospettiva, il massimo di volontà accentratrice, col massimo di volontà federalista/secessionista: Alleanza nazionale e Lega).

In altri termini, riesce a ridefinire una sorta di interclassismo nuovo che sostituisce alla ecumenicità del medium costituito dal cattolicesimo, il medium ecumenico della seduzione pubblicitaria. La pervasività del metodo è superiore alla precedente in forza soprattutto della elasticità/ flessibilità che gli è connaturata. La ideologia è ferma; la pubblicità è invece in grado di evolversi in tempo reale parallelamente alle modificazioni culturali del corpo sociale. In ciò consiste la modernità dell’approccio berlusconiano. Ed è questo il compimento di un’ ipotesi per la quale Bettino Craxi si era battuto per tre lustri, senza riuscirvi, stretto com’era in un abito modificabile solo fino ad un certo punto: l’abito socialista. Corollario di quanto sopra è il superamento della composizione della leaderschip sulla base della capacità di convincimento dell’elettorato per mezzo di argomenti razionali. Quando Berlusconi parla, non deve convincere proprio nessuno; ciò che dice è il portato della ricerca di mercato politico, e quindi egli non è altro che un attore che enuncia gli argomenti a cui il corpo elettorale ha già risposto positivamente. Egli si limita a vendere un prodotto (Forza Italia) che è già stato sperimentato nelle diverse simulazioni a campione e che ha già acquisito un gradimento percentualmente noto. La lotta politica quindi da questo punto di vista può ben riassumersi sul piccolo schermo del quale egli controlla pezzi rilevanti. In questo senso avevano ragione i macchiettisti di “Tunnel” a dire che il risultato delle elezioni del 27/28 marzo altro non era che la sconfitta del buon senso e la vittoria delle mortadelle e dei prosciutti. Cioè la battaglia politica si definisce sempre più come vendibilità del prodotto, come capacità di piazzare il prodotto politico. In altre parole, Berlusconi sancisce l'irruzione definitiva della logica di mercato in campo politico, fatto questo che doveva per forza di cose accadere visto che già da tempo la cultura e l'informazione si erano strutturate come mercato.

Puntando su questo obiettivo il cavaliere struttura un messaggio concertato che supera le divisioni nello stesso modo in cui una

La commerciabilità di un prodotto, com’è noto è affidata alla capacità di far valere le sue caratteristiche nei tempi brevi. I tempi lunghi non servono al venditore. I magazzini devono svuotarsi

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nel tempo più breve possibile e in prospettiva i magazzini devono scomparire. Lean production politica significa il massimo di ancoraggio al presente, alla domanda di mercato, nessuna chance per progetti di ampio respiro e a tempi lunghi di realizzabilità che sarebbero troppo rischiosi e di difficile percezione. I grandi disegni sono banditi. Si venda prima possibile. L’importante è realizzare. Cosa fare: il mercato chiede lavoro ? noi vendiamo un milione di nuovi posti di lavoro in due anni ! Più o meno come: le rughe sulla pelle significano invecchiamento ? noi vi vendiamo un cosmetico che in due settimane vi ridona la giovinezza ! Come si comportava la sinistra nel frattempo ? I progressisti si erano dati un programma serio, irto di chiarezza e razionalità; un programma che prometteva sacrifici in vista di un successivo superamento delle difficoltà presenti. Il risultato, la godibilità di tale azione era riservata al futuro. Un programma dunque di buon senso, dignitoso e da digerire razionalmente. Un programma che probabilmente avrebbe avuto bisogno di un altro mercato o di un altro posizionamento; sarebbe probabilmente andato bene per un paese diverso, ma non era evidentemente adatto per l’Italia del 1994. Si parla oggi, a sinistra di una carenza di leaderschip, della necessità di un avvicendamento alla guida della sinistra che tuttavia ha ottenuto un risultato consistente. Ma il problema è forse soltanto che un prodotto “buono” come quello espresso dalla sinistra in questa occasione è gradito ancora solo ad una minoranza. Un pò come succede per i prodotti alimentari biologici. Allargare la fetta di mercato è operazione dai tempi medio-lunghi ed ha a che fare con una capacità non solo di penetrazione, ma anche e soprattutto di "ri-creazione" del mercato, cioè come in altri termini si esprimeva Gramsci, sulla possibilità di riacquisizione di una egemonia culturale. Come ciò sia possibile è il problema della sinistra, (non soltanto in Italia) la quale ha a suo svantaggio l’handicap di credere oggi nella razionalità -astratta- del consenso, cioè in altri termini, in un mercato perfettamente concorrenziale dei progetti politici razionali.

secolo si è fondata invece in gran parte sulla capacità di vendere un futuro radioso. La capacità seduttiva delle masse portata all’eccesso nell’epoca delle televisioni e delle immagini è riassumibile proprio nella capacità di vendere una realtà virtuale come oggettiva. E sembra che ormai molti convengano sul fatto che l’unica realtà che ci resta -nel progressivo disfacimento del tessuto di rapporti sociali quotidiani- è proprio quella virtuale dello schermo televisivo. Vendere il Paradiso, paradossalmente, è di nuovo di moda. Berlusconi si è sostituito ai maestri, superandoli. Berlusconi è in qualche modo un genere spurio di moderno marxista. E il suo schema di partito-movimento strutturato territorialmente in corrispondenza delle filiali della sua holding, la Fininvest, non è poi troppo lontano dal quello di partito-guida, elite, avanguardia...: di che cosa è problema che ci riguarderà. I tempi lunghi della sinistra. La progettualità espressa dalla sinistra ha bisogno, per affermarsi, di tempi lunghi. E’ chiaro per esempio, che non sarebbe concepibile pensare la ristrutturazione ecologica dell’economia in tempi mediobrevi. Ampie progettualità necessitano di tempo e necessitano anche della disponibilità del corpo sociale di porsi in un atteggiamento prospettico, rivolto verso il futuro, verso le generazioni future. Ma cosa accade nei tempi lunghi della sinistra ? Accade che le variabili che incidono sulla cultura della società variano, e variano ancor più velocemente nell’epoca dei mass-media, i quali costituiscono un contesto virtuale e fluente che è sempre più dotato di oggettività. Il progetto di per sè, da solo, non è in grado di realizzare una egemonia culturale nella società, poichè esso non è che un pezzo dell’infinità delle informazioni e delle possibilità, e come succede per i prodotti (anche spesso per i migliori) rischia di perdersi nell’infinita molteplicità delle merci. La variabilità culturale diventa dunque controllabile e gestibile solo nei tempi brevi, e i tempi brevi della politica sono misurabili con gli strumenti statistici di cui il marketing costituisce una sintesi formidabile.

La grande crescita dei movimenti e dei partiti della sinistra nell’arco del

I progetti di riforma delle società sono cioè strutturalmente svantaggiati rispetto ad una politica che ammette come propria unica finalità la

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gestione dell’esistente attraverso la verifica continua del consenso per mezzo dei rilevamenti doxa, ecc. Per un tal genere di approccio, quindi, si tratta soltanto di governare il corporativismo sociale mantenendo tendenzialmente intatta la percentuale di consenso necessaria al mantenimento del potere. La politica berlusconiana dovrà essere probabilmente questo, cioè la politica dello staff di esperti di marketing sociale e politico che lo affiancheranno: una politica che si ridurrà sostanzialmente a statistica. Quali gli effetti presumibili di questa politica ? Tra i tanti possibili, uno enorme per portata e per conseguenze: l’atomizzarsi indefinito del tessuto sociale, che potrebbe portare alla definitiva perdita di identità delle aggregazioni e dei gruppi e all' assottigliarsi del dialogo/conflitto tra le diverse formazioni sociali. La tecnica del rilevamento infatti, è di per sè puntata sul soggetto, a prescindere dalla sua appartenenza di classe. Le aggregazioni dei dati permettono una ricomposizione dei bisogni e della domanda sociale che va decisamente al di là della strutturazione delle classi secondo parametri di reddito o di status. In questo contesto Berlusconi si presenta (già ora) come il grande principe che supera la destrutturazione del tessuto sociale e gestisce l’ingestibile moltiplicazione dei bisogni e degli interessi. I risultati della sua azione non avranno -se non marginalmente-alcun carattere di eticità o razionalità da rinvenirsi in qualche principio guida informatore (che come il nome del suo movimento-partito indica, è del tutto assente), ma semplicemente saranno legittimati dal mantenimento della percentuale di consenso -verificata in tempo reale e magari resa pubblica sulle sue televisioni- necessaria al mantenimento del potere. In questa ottica egli potrà ben essere additato come colui che sa continuamente rispondere ai bisogni -anche i più diversificati- che emergono dal sociale. A rigore, potrebbe ridiventare statalista, ove i rilevamenti lo richiedessero, e d’altra parte non perderebbe una goccia di potere, anzi ! Forza Italia è l’incitamento a questa trasversalità totale, così accentuata che non ha referenti di sorta, se non sè stessa. L’autoreferenzialità dello slogan è già il programma. Una ecumenicità laica sarà il suo stile. L’accusa di inevitabile incoerenza in cui dovrebbe incorrere il Cavaliere rispetto alle promesse fatte in campagna elettorale (meno tasse e più

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posti di lavoro), lascia in questo quadro, il tempo che trova, poichè l’importante sarà poter dimostrare che a tempi diversi devono corrispondere misure diverse nell'interesse del bene comune. Ciò che era vero e necessario ieri può non esserlo oggi e può ritornare ad esserlo domani. Purchè la percentuale di consenso necessaria al mantenimento del potere (audience) resti intatta. Ed i mezzi per farlo non mancano di certo al cavaliere. Attestarsi su questa posizione di critica sarà quindi poco produttivo per i progressisti, poichè di rimando essa può essere fatta oggetto di accuse di astrattezza e di scarsa considerazione per il concreto dispiegarsi delle situazioni economico-sociali. (non consiste infatti in ciò il realismo politico ?) L’evento elettorale di marzo può dunque a buon titolo essere assimilato a quanto avvenuto in campo economico con l’introduzione dei processi di automazione flessibile gestiti dai calcolatori e automodificantesi in relazione alle richieste che emergono dal mercato. Il passaggio da produzione di massa a produzione automatizzata e flessibile può costituire un buon paragone per capire cosa è successo col voto italiano: basta sostituire politica alla parola produzione. La produzione di massa, orientata da bisogni di massa visibilmente materiali (p.es. la mobilità è stato il bisogno elementare imperante del miracolo economico ben rappresentata in Italia dalla famosa Fiat-600), si trasforma in produzione orientata a bisogni sempre più parcellizzati e a forte contenuto “spirituale” (il bisogno di mobilità diventa il bisogno di una mobilità particolare, più o meno confortevole e tagliata sull’esigenza individuale: gamma imponente di fiat-uno -oltre 45 modelli-, ed anche station-wagon, tetto apribile, sedili ribaltabili, colori e tessuti, ecc.). In politica questo potrebbe voler dire: non più grandi progetti rigidi, ma infinità di progetti e misure sempre più particolari a seconda della percentuale di atomizzazione raggiunta dal mercato della politica. Dal partito di massa, per la verità scomparso ormai da qualche tempo, si passa al partito flessibile non solo come struttura, ma anche come contenuti e progettualità. Un processo di liberazione delle energie sociali e politiche che era iniziato a sinistra, viene portato a compimento con grande spregiudicatezza dalla destra giungendo a toccare il fondamento stesso della politica: cioè il confronto/dialogo tra posizioni

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o di altri consimili i cui esercizi preferiti consistono proprio nell’umiliazione dell’animale politico.

diverse e definite. La visione classica della sinistra appare del tutto tagliata fuori, superata dalla sua stessa rigidità. Chissà che una funzione progressiva non possa invece tornare ad aquisire un -per la verità improbabile- approccio anarchico ! “Liberismo” significa infatti essenzialmente questo, nell’immaginario collettivo: libertà dalle rigidità, burocratiche, etiche, ideologiche, di ogni sorta. (Ma non ancora del capitale il quale invece continua a rappresentare l'ossatura naturale della società). In questa chiave, Berlusconi interpreta un bisogno tipico della modernità ed ha in un certo senso ragione il grande trasformista Pannella a dire che la sinistra è conservatrice. In linea teorica infatti, il poter rispondere alla varietà dei bisogni tipica della società post-moderna è indice di grande innovazione ed è anche indice di rispondenza reale ai bisogni senza le mediazioni ideologiche e finalistiche caratteristiche del passato. In un certo senso significa anche maggiore democrazia, laddove il nuovo potere fornisce risposte alla varietà della domanda realizzando un prodotto politico continuamente adattabile ed apparentemente non subalterno a logiche precostituite. La modernità dell’approccio berlusconiano viene fuori anche da altre cose: per esempio dal fatto che la rappresentanza politica appare in Forza Italia portata da personaggi che non sono più i politici classici, ma invece da uomini e donne pescati nel sociale. L’animale politico viene sostituito dall’animale produttivo (per eccellenza l’imprenditore, il libero professionista) prestato alla politica. Questa vicinanza dell’uomo produttivo alla società mette in penombra il paleopolitico di professione vissuto come facente parte di una vera e propria casta lontana dalle situazioni reali e tendenzialmente disponibile alla corruzione. Il linguaggio usato da questo nuovo animale è per lo più un linguaggio semplice, alla portata di tutti (e questa non è innovazione da poco), con scarsa propensione all’approfondimento razionale e riflessivo, e con spiccata tendenza all’utilizzo di luoghi comuni immediatamente percepibili. Naturalmente la scienza della comunicazione sostiene e orienta metodicamente questo approccio, ma ciò che dall’esterno viene percepito è l’assoluta familiarità dei discorsi, anche negli accessi irosi di uno Sgarbi

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Naturalmente gli anni ’80 hanno fornito tutte le basi e il training a che tale approccio diventasse accettabile, dispiegando una vera e propria egemonia culturale, o sub-culturale, mediata dall’immagine televisiva il cui contenuto di edonismo misto ad una parodia della cultura di impresa non ha pari, almeno in Europa, per pervasività e forza annientatrice dei punti di riferimento critici. La "metodologia berlusconiana" non è però di per sè conservatrice o reazionaria. Tale diventa dal momento in cui l’utilizzo dei media ha orientato e continua ad orientare la domanda su categorie regressive: l’approccio pubblicitario autoreferenziale che viene cucito sulla dimensione politica fa corrispondere tendenzialmente la cultura politica all'essenza stessa della cultura mediata dalla pubblicità: una cultura di cui forma e immagine sono il nocciolo. Il contenuto politico diventa qualcosa che assomiglia alla stessa pasta di quello rinvenibile nell’immagine sofisticata e seducente dei prodotti; è noto che alla pubblicità non interessa la qualità del prodotto, ma soltanto la forma, l’involucro. La politica berlusconiana è una politica estetica perchè non ha contenuto se non quello che essa sa darsi come immagine. E’ in ciò la sua forza dirompente in quanto potrà assumere di volta in volta i contenuti più desiderati e richiesti, proprio perchè l'importanza dei contenuti in questa chiave diventa marginale, posticcia, rispetto alla forma. Forza Italia non sottolinea infatti nessun attributo che permetta di individuarne una collocazione precisa. Si presenta come patrimonio di tutti. E’ un invito a procedere con determinatezza. In quale direzione non viene esplicitato. Sarebbe infatti riduttivo, posizionerebbe il prodotto in una nicchia, non gli permetterebbe di spaziare. Berlusconi è l’interprete più vero della oggettiva trasversalità dei soggetti nelle società postmoderne. In questa sua grande capacità egli si caratterizza come l’uomo della provvidenza. Potrebbe ottenere grandi risultati se avesse una identità, ma siccome il tempo delle identità è concluso, egli interpreterà il ruolo che chiunque altro al suo posto potrebbe giocare: farsi i propri affari, promettendo agli altri di creare le condizioni per fare altrettanto.

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Ma dal metodo berlusconiano si può imparare molto; anche a ricordare, visto che il fondamento del marketing risiede nelle scienze sociali, di cui com’è noto, Marx è stato uno dei padri.

Note

Ed anche nell’organizzazione e nella prassi del suo movimento si può trovare materia di riflessione: non ha forse questo partito di funzionari Fininvest, qualche remota somiglianza con quelle avanguardie rivoluzionarie che nei paesi islamici della nascente Unione Sovietica iniziavano e concludevano i loro comizi con la frase: Hallah è grande ?! Nel loro piccolo questi venditori tirati a lucido con la divisa blu conciliano mafiosi e piccoli imprenditori del nord, operai sottopagati e grandi finanzieri, dipendenti ministeriali e giovani desiderosi di affermarsi o semplici tifosi del Milan. La loro ideologia non c'è. Molti tra quelli che li sostengono non li stimano. Ma essi rappresentano la logica estetica, gratuita, del capitale, così drasticamente vuota che risulta riempibile con ogni immaginabile contenuto soggettivo. Il mondo strabiliante delle merci in questo modo diventa istituzione.

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