GLI ARCO B ALENI 12
Titolo originale “Là où je vais” Traduzione di Mirella Piacentini Copertina di Laurent Moreau Là où je vais © Éditions Thierry Magnier, France, 2013 Per l’edizione italiana Copyright © 2016 Camelozampa Tutti i diritti riservati
Prima edizione: marzo 2018 ISBN 9788899842116
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Fred Paronuzzi
3300 SECONDI
Traduzione di Mirella Piacentini
11.10 Alla campanella Léa Troppo scema. Mi sento davvero troppo scema. Non il minimo segno, niente. Mi ignora. Sono trasparente. Quasi quasi avrei preferito il suo disprezzo. Una smorfia di sdegno. Perfino che mi prendesse in giro. Qualunque cosa ma non questo. Chi è che ha detto che esistiamo solo attraverso lo sguardo altrui? Ieri notte, dopo aver mandato il messaggio su Facebook, un messaggio di cui avevo pesato ogni sillaba, ci ho messo ore ad addormentarmi. Ore durante le quali mi sono immaginata non so quanti scenari possibili. Ogni volta con delle varianti minime. Ma, stranamente, questo non me l’ero immaginato. Il vuoto. Non avevo previsto il deserto. Sarà che forse ci credevo alla nostra storia. 7
Troppo scema, davvero troppo scema. Quando penso che stamattina, mentre salivo le scale, mi reggevo a malapena sulle gambe tanto mi batteva forte il cuore… da straziarmi il petto. E per cosa, eh, per cosa? Nella mia scatola cranica c’è uno tsunami, un gran casino fatto di frustrazione, rabbia, desiderio, smania e dolore. E allo stesso tempo, è di una banalità assoluta: io l’amo da morire e lei se ne frega. La prof è in ritardo. È da un pezzo che la aspettiamo, in corridoio. «Io vado via, mi sono rotto, può andarsene affanculo, quella» annuncia spavalda una voce. Ma nessuno si muove. L’abbiamo incrociata mentre andava verso la sala professori con quella sua andatura strana, a scatti, sbilanciata in avanti, come se fosse sul punto di scattare. Senza mai uno sguardo per nessuno. E in classe è peggio. O fa battute e rompe, o ringhia. L’abbiamo soprannominata “Pitbull”. In più, sembra una vera pila elettrica, sempre in movimento. Sembra di avere alla 8
lavagna un fantoccio che sbraita scomposto. Fa media con il prof di matematica. Lui è più il genere bradipo. Mal rasato, trasandato e più molle di un marshmallow. È da un’ora che non metto insieme due parole. Ho la luna storta. Di solito non sono così e allora mi lasciano nel mio brodo. Quando mi hanno chiesto come mai ho questa faccia – “da funerale, da tossica, da cadavere” – ho borbottato qualche monosillabo non troppo gentile. Nessuno ha insistito. “Si vede che ha le sue cose” ha buttato lì Jérémie, che non è mai a corto di quei bei cliché pesanti. Avrei potuto farlo tacere, quel moccioso brufoloso, ma non ne vale la pena. Oggi mi sento come una bomba pronta a esplodere. E si vede. Sono le undici e un quarto quando la prof alla fine arriva, col fiato corto e le braccia cariche. Non c’è più anima viva in corridoio. «Scusatemi» e inizia la litania: la fotocopiatrice si è rotta, la carta si è inceppata, è finito il toner… un classico. «Prof» fa Baptiste «non c’era bisogno di stressarsi tanto, fa male alla salute». «Sei molto gentile a preoccuparti» risponde 9
fredda la prof mentre le cadono le chiavi sul pavimento. «Si figuri, prof, è un piacere». Entriamo e nel caos prendiamo posto. È strano. Ci spostiamo da un punto all’altro all’inizio dell’anno, poi ci fermiamo. Prendiamo le nostre abitudini. Il posto che occupo io di solito è due metri dietro a quello di Julie, leggermente a destra. La vedo di tre quarti da dietro, di profilo quando gira la testa. Se si tira su i capelli, le vedo il collo, lungo e bianchissimo. Mi viene voglia di posare le labbra su quella nuca, di morderla. Guardo la grana compatta della sua pelle e mi viene voglia di assaggiarla.
Ilyes «Ilyes! Ehi, Ilyes, sono qui!» Eh no. Non lui, non adesso. Non ho nessuna voglia di vederlo, ancora meno di rivolgergli la parola. Ma non c’è modo di ignorare la sua voce che sbraita il mio nome dalle panchine sotto i platani. Allora gli faccio un cenno e poi riattraverso la pista ciclabile. Per terra è 10
pieno di mozziconi e sputi. Mi tende il pugno e io ci batto contro il mio. «Ilyes, fratello! Dove sei andato a finire? Non ti vediamo più. Cosa fai, ti nascondi? Hai una tipa, vero?» Mi afferra il braccio e si spancia dalle risate. «Dai, raccontami, la conosco? È una che ci sta?» Scoppia a ridere e io mi accontento di sorridere, sperando che passi presto ad altro. Non è cattivo, Steven. Veniamo dallo stesso quartiere, ci conosciamo da quando andavamo alle elementari. Ma parla troppo. A vanvera. E ascolta solo se stesso. A me questo non piace. Io poi che sono taciturno. Questo aggettivo, taciturno, l’ho imparato alle medie, in seconda, il mattino dopo il consiglio di classe del primo trimestre. La rappresentante di classe l’aveva annotato con cura di fianco al mio nome, senza capirne il senso. Me l’aveva servito così come l’aveva sentito. “Il prof di storia ha detto che sei bravo ma taciturno”. Solo che aveva scritto tachiturno e quindi ci avevo messo un po’ a trovare la parola e il significato nel dizionario online. Taciturno: poco loquace, che parla poco. 11
Tutto sommato, a me bravo e taciturno andava bene. Comunque, era sempre meglio di scemo e chiacchierone. «E tu come te la passi, Steve?» «Ma sì, dai, tranquillo… Hai mica una sigaretta?» Tiro fuori il pacchetto stropicciato dalla tasca dei jeans e glielo do. Lui estrae una sigaretta un po’ storta all’altezza del filtro. L’ultima prima della penultima. L’antepenultima, così si dice. Mi piacciono un sacco le parole così. Un po’ rare. Un po’ arzigogolate. Hanno un sapore particolare sulla lingua. «Tieniti pure il pacchetto. Io sto cercando di smettere, costa troppo». «Hai ragione, io non ci sto nemmeno più provando… Hai lezione adesso?» «Sì… cioè, non subito, arrivo un po’ prima per il teatro, abbiamo le prove». «Teatro? Davvero? Fai teatro? Da quando? Aspetta, te lo ricordi alle medie, quando ci avevano portato a vedere quella cosa… c’eri, no?» C’ero, sì. Lo spettacolo si intitolava L’Altro Mondo o gli Stati e Imperi della Luna di Savinien Cyrano de Bergerac. Ne avevamo 12
letto dei brani in classe. La prof di lettere, la professoressa Guillaud, era piena di entusiasmo e di progetti. Del resto, aveva fatto le cose in grande quando aveva deciso di fare uscire tutte le seconde insieme lo stesso giorno. Si era anche presa la briga di avvertirci: “Lo spettacolo è – come posso dire? – un po’ diverso da quello che siamo abituati a vedere a teatro… potreste rimanere sorpresi, all’inizio, forse sconcertati. Ma dopo un attimo, vedrete, è assolutamente… magico!” Vi lascio immaginare le risate. Qualcuno, sghignazzando, le aveva risposto: “Non si preoccupi, prof, siccome noi in questi posti non ci andiamo mai, non c’è pericolo che rimaniamo sconvolti”. Era seguita una lezione – chiassosa ma neanche più di tanto, la prof ci piaceva – sulla declamazione barocca. Quella a Dullin era stata la mia prima volta in un teatro del centro. Uno choc. Quattro gallerie, le dorature, il soffitto decorato, un lampadario gigantesco. Orfeo agli Inferi rappresentato sull’immenso sipario dipinto… che si era aperto su una scena illuminata solo dalle candele. 13
Sì, magico! Cioè, magico una volta messi a tacere quelli che urlavano come animali, la musica che muggiva dai cellulari e fermato il traffico di accendini che con le loro fiamme fendevano l’aria sopra le nostre teste. Magico una volta trovati e buttati fuori i casinisti. Il prof di educazione fisica si era quasi picchiato con un ragazzo. Eravamo stati a un passo dal far annullare lo spettacolo, ma Benjamin Lazar, l’attore, ci aveva tenuto a recitare. Lo spettacolo era cominciato con quasi mezz’ora di ritardo. Col viso invecchiato dal trucco, enigmatico, il corpo snello e armonioso come quello di un ballerino, armato solo di parole, Benjamin Lazar mi aveva trasportato fin sulla luna, e anche più in là… Steven non aspetta nemmeno la risposta. Non gliene frega niente se c’ero o no, se mi era piaciuto o no, si bea delle sue stesse parole e continua, senza fermarsi. «Cazzo, era stato veramente uno strazio! Non si capiva un accidente, era una roba che avrà avuto almeno duemila anni. Te lo ricordi Jérémie, quello piccolino, sempre tutto 14
nervoso? Era così fuori di testa che aveva mostrato il culo a tutta la sala, in piedi sulla poltrona. Da morir dal ridere! Io ero seduto proprio di fianco a lui e guarda caso mi han preso a me… Il giorno dopo, la preside ci ha fatto la predica, ha detto che la scuola aveva fatto la figuraccia del secolo e che per colpa di una manciata di imbecilli potevamo scordarci altre gite… Ma ti sembra normale essere insultati in questo modo?» Fa una pausa, sembra che stia riflettendo. «È lo stesso teatro che fai tu? Gente che sta lì a ciondolare con la faccia impiastrata di bianco?» Non so neanche perché mi prendo il disturbo di spiegarglielo. Leila, la mia sorellina, dice che dovrei insegnare perché di pazienza ne ho da vendere. Insegnare non credo, invece attore… «No no, per niente, noi facciamo cose contemporanee. È la storia di due barboni un po’ storditi. Avrà al massimo sessant’anni». Fa un tiro con la sigaretta, tira su col naso, poi fa partire uno sputo lunghissimo in direzione delle strisce bianche sull’asfalto. «Ah, ok… però guarda che se vuoi vedere dei barboni, quelli veri, basta che vai davanti 15
al supermercato. Puzzano di vino a dieci metri… Scoppia a ridere e ricomincia subito, senza tempi morti… Vedi, il teatro non è roba per me, un bel film d’azione, quello sì. C’è da dire che tu sei un secchione, ti piacciono i libri e tutto il resto, ma non dimenticarti, occhio eh, è pieno di checche lì dentro». E torna a piegarsi in due dal ridere per la battuta che ha fatto. È decisamente un buon pubblico per se stesso. È incredibile quanto questo tipo di scambi mi deprima.
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