Il nonno bugiardo

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i peli di gatto


Titolo originale Ο ΨΕΥΤΗΣ ΠΑΠΠΟΥΣ Published in agreement with Bookboom, Book Marketing & Promotion Services, 37, Rodou st., GR 151 22 Athens Copyright © 2007 Alki Zei

Traduzione dal greco di Tiziana Cavasino

Per l’edizione italiana Copyright © 2017 Camelozampa Tutti i diritti riservati www.camelozampa.com

Prima edizione italiana: maggio 2018 ISBN 9788899842130

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Alki Zei

IL NONNO BUGIARDO illustrazioni di Andrea Antinori traduzione di Tiziana Cavasino



Un nonno diverso

Andonis era stanco di aspettare il nonno. Anche se lo sapeva che non era mai puntuale, non riusciva a rassegnarsi. Ogni sera, quando lo salutava, il nonno gli diceva: “Ci vediamo domani alle cinque e cinque minuti e cinque secondi”, ma non compariva mai prima delle cinque e mezzo. E ora erano le sei meno venti e il nonno... svanito nel nulla. “Vediamo quale scusa troverà stavolta” pensava Andonis. Che il nonno fosse un gran bugiardo, lo sapeva. Come il Barone di Münchhausen. Il Barone era diventato famoso in tutto il mondo per le sue fandonie. Il nonno tuttavia non era barone e mai sarebbe diventato celebre fino ai confini della terra per le sue menzogne. La cosa veramente strana era che, spesso, le storie che il nonno inventava si rivelavano vere, e così Andonis era costretto a credergli. Ma quella che gli credeva sempre, qualsiasi cosa le dicesse, era Larissa, la collaboratrice domestica

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russa che lavorava a casa loro ma andava anche a casa del nonno. Larissa lo adorava. Signore nonno, lo chiamava e lui la chiamava Lara, come la protagonista di Dottor Zivago, un film ambientato in Russia che gli piaceva tanto. Alcune delle cose che il nonno diceva che gli erano capitate, il giorno dopo le scrivevano i giornali o le mostrava la tivù al telegiornale. Non con le stesse parole con cui le aveva raccontate lui, ovviamente, ma erano così simili che tutti si convincevano che il nonno le avesse vissute. Come quella volta che era in gran ritardo e all’improvviso era arrivato con un cerotto in testa. Per un attimo Andonis aveva pensato che se lo fosse attaccato apposta, per giustificare il ritardo. Sotto il cerotto tuttavia si intravedeva del sangue rappreso. Ma anche quello ovviamente poteva esserselo fatto con un pennarello rosso – dal nonno ci si poteva aspettare di tutto. Aveva raccontato che era andato al quartiere Monastiraki a cercare alcuni vecchi programmi di teatro – il nonno era un attore in pensione – e mentre risaliva la via Mitropoleos, si era imbattuto in un corteo di studenti. Si era unito a loro. Gli studenti si erano radunati fuori dal 10


Ministero dell’Istruzione e chiedevano di entrare per parlare col Ministro. Le porte tuttavia erano rimaste chiuse e la polizia fuori a sorvegliarle. I ragazzi avevano cominciato a spingere i poliziotti, e il nonno anche lui a spingere, ma la polizia aveva tirato fuori i manganelli. Aveva ricevuto un colpo di striscio e aveva iniziato a sanguinare. “Vergogna” gridavano gli studenti. Una ragazza lo aveva preso per mano e lo aveva trascinato via mentre gli altri facevano largo per farli passare. Lo aveva portato in una farmacia e mentre il farmacista gli disinfettava la ferita la

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ragazza gli aveva chiesto: «Nonno, che ci facevi tu con gli studenti?» «Volevo dare una mano» aveva detto il nonno e la ragazza gli aveva dato un bacio sulla guancia. La sera al telegiornale avevano fatto vedere il corteo, gli studenti, la polizia, i manganelli e i gas lacrimogeni. Niente nonno, però, niente ragazza e niente bacio sulla guancia. «Eh, le telecamere non riprendono tutto» aveva mormorato il nonno bugiardo. Finalmente il campanello suonò tre volte. Si erano già fatte le sei meno cinque. Andonis frequentava la scuola a tempo pieno e usciva alle quattro e mezza. Dalle cinque meno un quarto era a casa. Aveva le chiavi, apriva la porta ed entrava. Il papà e la mamma, però, che tornavano a casa tardi, non volevano che stesse da solo. La mamma spesso mancava da Atene per qualche giorno. “Vai di nuovo a scavare?” la punzecchiava il papà. La mamma era archeologa e andava in varie città a fare gli scavi, come li chiamavano. Anche il papà tornava tardi e faceva giusto in tempo a vedere Andonis prima che andasse a dormire. Era architetto e lavorava in uno studio di architettura. 12


Quest’anno che Andonis sarebbe andato in quarta, avevano deciso di mandarlo alla scuola a tempo pieno. A dire il vero, era stato il nonno a convincere la mamma e il papà, perché loro erano titubanti. «Farlo stare a scuola tutte quelle ore?» dicevano contrariati. «Tu alla sua età ci stavi» disse il nonno al papà. «Lascia perdere me» rispose il papà, «quelli erano altri tempi...» Andonis fu l’ultimo a essere interpellato, quando il nonno aveva già organizzato tutto, e lo convinse che la scuola a tempo pieno era una meraviglia. «Ti liberi dei compiti perché li fai a scuola e quando torni a casa hai tutto il tempo per te». L’unico problema era chi sarebbe andato a prendere Andonis a scuola. La mamma, che da quando Andonis era piccolo e fino all’anno prima aveva sempre lavorato solo mezza giornata, adesso diceva che il tempo non le bastava per fare bene il suo lavoro. Per non dire che aveva bisogno di andare anche in biblioteca a studiare! Una vera secchiona la mamma. Quindi sarebbe tornata a casa tardi. Il nonno, poi, neanche a parlarne di andare a

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prendere Andonis a scuola così presto. Lui aveva i suoi programmi. «Dopo le cinque tutto quello che volete» diceva loro. Ciò nonostante il nonno ne venne a capo. Quello stesso giorno trovò la soluzione. Si mise d’accordo con la signora Vasso che aveva la rivendita a scuola. Lei avrebbe fatto attraversare la strada ad Andonis e da lì a casa erano solo due passi. Gli avrebbe dato un occhio finché non apriva il portone. Questo le aveva proposto il nonno e la signora Vasso aveva accettato immediatamente. Figuriamoci se non riusciva a convincerla! «Cosa le hai promesso? Confessa» lo stuzzicava il papà. «Nulla» rispondeva il nonno bugiardo. Nel frattempo si era liberato un appartamento nel pianerottolo immediatamente sotto di loro e il papà tutto contento aveva proposto al nonno di prenderlo in affitto per lui. Loro abitavano nel quartiere Ambelokipos, in un condominio di viale Alexandra, verso la fine, in alto. Il nonno abitava lontano, quasi sotto l’Acropoli, nel quartiere Thission. «Lasciare la mia casa? Ma siamo matti!» Il papà aveva cercato di convincerlo dicendogli 14



che non solo non avrebbe più fatto tutta quella strada ogni giorno per venire da Andonis, ma, se si fosse ammalato, anche solo per una semplice influenza, avrebbero potuto facilmente prendersi cura di lui. «Non sono ancora da ricovero» aveva detto il nonno, «e anche se mi viene l’influenza posso curarmi da solo. Sì, lo so, tra poco compio ottant’anni, e allora?» Il nonno abitava in una vecchia palazzina a tre piani senza ascensore. L’appartamento era piccolissimo, al terzo piano, e lui diceva che gli faceva bene salire e scendere le scale a piedi. Aveva due stanze in tutto e una cucina così piccola che il frigorifero aveva dovuto metterlo nel corridoio, e si riusciva appena a passare. Da una finestra, però, si vedeva l’Acropoli e dall’altra l’Osservatorio astronomico. La verità era che quella casa aveva qualcosa di magico. Innanzitutto, le pareti erano tutte piene di locandine e fotografie; foto del nonno e dei personaggi che aveva interpretato in teatro, ma anche di altri attori, sia greci sia stranieri. In una stanza, “il salone”, come lo chiamava Lara, c’era un divano che poteva anche essere vecchio, ma non si vedeva, perché era coperto da una stoffa arancione a righe blu e ti potevi sedere 16


comodamente perché ti appoggiavi sui cuscinoni, uno blu e uno arancione. La televisione era in un angolo, sopra uno sgabellino; c’erano anche tre sedie come quelle che si trovano spesso nei caffè. Lì riceveva i suoi allievi. L’altra stanza, che Lara non sapeva come chiamare e la chiamava “l’altra stanza”, aveva un lettino, un armadietto di legno e sul muro, ovunque ci fosse spazio, mensole di libri. La finestra che dava sull’Acropoli aveva nella parte interna un gran davanzale e lì il nonno si appoggiava quando voleva scrivere qualcosa. Apriva una poltrona, di quelle pieghevoli col tessuto sia nella spalliera sia nel sedile, si sedeva lì e un po’ scriveva e un po’ ammirava l’Acropoli. “Quale matto lascerebbe una casa del genere per andare a vivere ad Ambelokipos?” pensava sicuramente il nonno. Andonis aveva il sospetto, però, che il nonno avesse anche un altro motivo per non voler andare ad abitare vicino a loro. Adesso aveva tutti i fine settimana liberi, e il sabato e la domenica a casa loro non ci metteva neanche piede. Se avesse abitato vicino, di sicuro il sabato o la domenica mattina gli avrebbero chiesto di

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portare Andonis a spasso o in qualche teatro per bambini. Ad Andonis piaceva, inoltre, quando qualche volta cadeva festa durante la settimana e non c’era scuola, e allora il nonno se lo portava a casa sua. Se il tempo era bello, se ne andavano a passeggio sull’Acropoli o sul Filopappo e dopo andavano in un ristorantino a mangiare spiedini di carne e patate fritte. Poi tornavano a casa del nonno, sfogliavano qualche libro e il nonno si metteva a recitare parti di commedie o di tragedie: il suo volto si trasformava così tanto che Andonis pensava non fosse suo nonno ma qualcun altro. Di pomeriggio, prima di riportarlo a casa, il nonno gli preparava le crêpe. Scuoteva con destrezza la padella e la crêpe volava in aria e poi atterrava dall’altra parte. Aveva imparato a farle a Parigi, aveva detto, quando aveva vissuto lì con papà piccolo, perché al papà piacevano molto… Andonis tuttavia non ricordava di aver mai visto suo padre mangiare crêpe. D’altra parte, chi avrebbe dovuto prepararle? La mamma non le sapeva fare e Lara preparava una cosa che somigliava alle crêpe, i blini, come li chiamava lei, ma lui non avrebbe mai fatto a cambio con le crêpe del nonno. Una domenica che la mamma era di nuovo via 18


per gli scavi, il nonno se lo era portato a casa sua dal mattino fino al tardo pomeriggio perché voleva farlo conoscere ai suoi allievi. Andonis si domandava come facessero a stare tutti quanti dentro la stanzetta del nonno. Erano quattro ragazze e tre ragazzi: alcuni stavano seduti sulle sedie, altri sul divano e altri ancora per terra, sui cuscini. Andonis stava in piedi, attaccato alla porta. Tutti gli allievi chiamavano il nonno maestro. “Va bene, maestro”, “Come vuole, maestro”. Lui parlava e loro lo ascoltavano immobili. Nella classe di Andonis nessuno stava mai così attento ad ascoltare quello che diceva il maestro, per quanto lui fosse un maestro vero e non un attore che recitava bene la sua parte. Ma vuoi vedere che anche il nonno era un maestro vero, visto che insegnava tutte quelle cose ai suoi allievi? E cosa non diceva loro! Vicende che aveva vissuto – vere, false? Chi lo sa! – e poi parlava del teatro e dei sacrifici che avrebbero dovuto fare se volevano dedicarcisi. Perché sulla scena potevano anche recitare la parte di principi e regine, ma nella vita vera se la sarebbero passata male. Tranne che non volessero diventare star della televisione. In quel caso però dovevano dimenticare il

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vero teatro. Poi aveva fatto recitare loro vari ruoli. Lui, in piedi in un angolo, li ascoltava in silenzio, e solo quando avevano finito li correggeva, se pensava che qualcosa non l’avessero detta a dovere. Terminata la lezione si erano messi a chiacchierare e una ragazza aveva domandato: «E suo nipote non vuole diventare attore?» Silenzio. Il nonno tardò a rispondere e alla fine disse: «Per il momento non... dà segni». Non se lo portò più a casa di domenica, anche se Andonis avrebbe tanto voluto riascoltare anche lui questo... maestro e conoscere meglio i ragazzi. «Nonno bugiardo che dici di volermi bene e poi il fine settimana te ne vuoi stare più lontano possibile!» mugugnò Andonis mentre correva ad aprirgli la porta perché era passato un bel po’ da quando aveva sentito suonare tre volte il campanello. Aprì la porta senza chiedere chi è, come il papà e la mamma gli avevano sempre detto di fare, tanto non poteva essere altri che il nonno: solo lui suonava tre volte di seguito. Era curioso di sentire quale novità si sarebbe inventato per 20


spiegare il suo ritardo. Magari questa volta avrebbe detto che lo avevano rapito i terroristi! Il nonno entrò lesto lesto, corse in cucina e preparò la caffettiera per fare il caffè. Beveva solo caffè francese. Andonis lo aveva seguito e aspettava di sentire cosa gli avrebbe detto. Ma lui aprì bocca solo dopo che il caffè fu pronto, solo dopo essersene riempito una bella tazza ed essersi seduto a berlo al tavolo della cucina. «Non sai cosa mi è successo oggi. Mi domando come ho fatto ad arrivare. Ci ho messo una vita a trovare un taxi che ci facesse salire, dopo aver pure litigato col tassista». Andonis non fiatava. Sapeva che, se anche avesse detto qualcosa, il nonno non lo avrebbe ascoltato. Prima doveva raccontarla tutta, la sua storia. «Prima di venire qua, sono andato a fare una passeggiata sulla collina di Filopappo. E lì, da una panchina seminascosta dai cespugli, mi è giunto alle orecchie un fievole gemito, come una brezza che agitava le foglie degli alberi. Ero sicuro si trattasse di un gemito e, per di più, di ragazza. Mi sono avvicinato e cosa ho visto? Una giovane donna distesa sulla panchina con gli occhi socchiusi, che respirava a fatica. Capelli corti, neri, e la pelle scurissima. Mi è balzato il

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cuore in gola. Identica a Margot – com’era circa trent’anni fa. Aveva una camicia rosa e una delle due maniche era sollevata. Le ho guardato il braccio: pieno di buchi. No, non avrei chiamato la polizia. Ho fatto qualche telefonata col cellulare per vedere quale ospedale era di turno. L’ho aiutata ad alzarsi e a gran fatica ci siamo spostati per cercare un taxi. Quando finalmente se n’è fermato uno, il tassista ha capito che c’era qualcosa che non andava e non voleva farci salire. Dopo avergliene cantate quattro, ho minacciato di chiamare la polizia. E così alla fine ci ha fatti salire. L’ho lasciata all’ospedale Evangelismos. Nello zainetto che aveva accanto ho trovato la sua carta d’identità. Studentessa, diciannove

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anni. Devo avvisare i suoi genitori prima che li chiamino dall’ospedale. Se per caso non sanno nulla? Qualcuno li deve preparare. Portami l’elenco telefonico». Mentre andava a prendere l’elenco, Andonis pensò che la prossima volta che il nonno avrebbe fatto tardi avrebbe raccontato che erano arrivati i Talebani a impossessarsi del Partenone. E Margot, come gli era venuta in mente di punto in bianco? Margot era un’altra storia, una di quelle che il nonno raccontava che gli erano capitate a Parigi – vera? falsa? chi lo sa! – quando ci era andato negli anni della dittatura. Tutte le volte che Lara ascoltava quella storia, le venivano le lacrime agli occhi. «Dài, Andonis!» Andonis gli portò l’elenco e il nonno cominciò a sfogliarlo rapidamente. Trovò il numero e chiamò. Qualcuno rispose, a quanto pare, ma non c’era la persona che il nonno cercava, perché Andonis gli sentì dire: «Che chiamino questo numero appena tornano» e gli diede il numero di casa e del cellulare. «È urgente, ha sentito? Urgente!» Quando il nonno si calmò un pochino e ricominciò a bere il caffè, Andonis gli andò vicino, rimase in piedi dietro di lui e lo

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abbracciò dalle spalle. «Nonno, nonno, ma com’è possibile che ogni giorno ti succede qualcosa per strada?» Il nonno si voltò e lo guardò con stupore, come se Andonis avesse detto qualcosa di molto strano. «Non lo sai che ogni giorno succede qualcosa? Non solo per strada, ovunque – basta avere occhi per vedere. Ma perché non telefonano? Se quando tornano la mamma o il papà non hanno ancora chiamato, vado in ospedale a vedere come sta Margot». «Ma quale Margot, nonno? Se hai detto che sulla carta d’identità c’era scritto Elefteria». «Ma mi ricorda Margot» rispose il nonno con ostinazione. Quando la mamma non c’era perché andava agli scavi, Lara rimaneva a dormire da loro. Allora anche il nonno si fermava fino a tardi, mangiava con loro, aspettava che tornasse il papà e gli faceva compagnia mentre cenava anche lui e facevano quattro chiacchiere. Gli altri giorni, invece, non appena la mamma o il papà tornavano a casa, il nonno diceva: “Adesso io me ne vado”. E per cena non restava mai. Ad Andonis piacevano davvero tanto i giorni 24


in cui rimaneva col nonno e con Lara. Se ne stavano tutti e tre in cucina e mentre Lara preparava da mangiare, il nonno raccontava le sue storie. Anzi no, non le raccontava, le recitava e interpretava tutti i ruoli. «Signore nonno, tu racconti meglio di sceneggiato televisivo. Perché non vai a recitare e lasci tutti di stucco?» diceva Lara. Il nonno ormai da anni non recitava né a teatro, né al cinema, né in televisione. Era andato in pensione presto presto, cosa che né la mamma né il papà riuscivano a capire. Papà glielo aveva chiesto mille volte, ma… una parola ottenere una risposta dal nonno se una cosa non te la voleva dire! Diceva soltanto: “Mi sono stancato della scena” e Andonis non capiva di quale scena parlasse finché il nonno non gli spiegò che gli attori chiamavano “scena” il palcoscenico del teatro. Non che se ne stesse con le mani in mano. Oltre a dare lezioni di recitazione a casa, gratis ovviamente, correva da una scuola all’altra o in cittadine e paesini dove metteva in scena spettacoli con i ragazzi giovani, sempre senza prendere un soldo. Durante le vacanze estive, prima che Andonis andasse in villeggiatura con i genitori, il nonno se lo prendeva per un mese

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e se ne andavano in giro in un sacco di posti. Aveva amici dappertutto e tutti lo aspettavano a braccia aperte. In cucina le storie le sceglieva Lara. «Signore nonno, raccontaci per favore di quella volta che tu hai vestito da inglese e sei scappato». Anche ad Andonis piaceva la storia di quando il nonno s’era messo in testa una parrucca rossiccia e aveva fatto finta di essere un cittadino britannico anche se non conosceva una parola di inglese. «Comunque sia, gli inglesi non parlano e quando gli fai una domanda, loro scuotono la testa. Perciò non avrei avuto problemi» diceva lui. Allora, più di trent’anni fa, quando in Grecia c’era la dittatura e papà aveva otto anni – più piccolo di Andonis adesso – il nonno voleva a tutti i costi scappare di nascosto dalla Grecia. Diceva che sicuramente lo avrebbero arrestato e lo avrebbero mandato in esilio perché era sindacalista. «Perché li mandavano in esilio questi sindacalisti?» domandava Andonis che non sapeva esattamente cosa fosse un sindacalista. «Perché si battevano per i diritti degli attori, 26


degli operai e, in generale, di tutti i lavoratori. E questo ai dittatori non piaceva» gli aveva spiegato il nonno. Il papà non gli aveva mai raccontato come se la passava a Parigi quando il nonno se l’era portato con lui. Ma cosa poteva dirgli? Il nonno gli aveva già raccontato tutto. Sì, ma la nonna? Che ne era stato della nonna? Nessuno parlava mai di lei e ogni volta che Andonis faceva domande, loro rispondevano in modo vago. Il nonno, poi, glielo aveva detto chiaramente che era fuori discussione: «È un argomento di cui non parlo» mugugnava ogni volta e cambiava discorso. Andonis aveva letto e aveva visto in televisione opere in cui si parlava di bambini scomparsi. Ma una nonna scomparsa non esisteva neppure in Harry Potter. Un giorno o l’altro il nonno “reciterà” anche questa storia. Una sera in cui ci sarà il temporale e cadranno i fulmini e saranno tutti e tre seduti in cucina e Lara sarà spaventata – perché lei ha paura di tuoni e fulmini – il nonno, per distrarla, dirà: «Venite che vi racconto la storia della nonna, che fa più paura dei tuoni». È raro però che cadano fulmini e saette e, se

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anche cadono, durano così poco che il nonno farà appena in tempo a recitare alcuni versi: Il cielo rabbuiato distende sul Partenone la nera volta, colonne bianchissime lo sostengono nella tempesta il fulmine semina empi serpenti. «Come li dice bene, signore nonno» dirà meravigliata Lara e dimenticherà la sua paura.

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