Ci si vede all'Obse

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GLI ARCO B ALENI 13


Titolo originale “Vi ses i Obsan” Traduzione di Samanta K. Milton Knowles Copertina e illustrazione di Alessandro Baronciani Vi ses i Obsan © Text Cilla Jackert, pubblicato per la prima volta da Rabén & Sjögren, Svezia, nel 2014 Per l’edizione italiana Copyright © 2016 Camelozampa Pubblicato in accordo con Rabén & Sjögren Agency. Tutti i diritti riservati Prima edizione: giugno 2018 ISBN 9788899842185

La traduzione è stata realizzata con il contributo finanziario dello Swedish Arts Council

Questa pubblicazione riflette unicamente le opinioni dell’autore e la Commissione non può essere ritenuta in alcun modo responsabile dell’uso che possa essere fatto delle informazioni ivi contenute.

Alta leggibilità Questo libro utilizza il Font EasyReading® Carattere ad alta leggibilità per tutti. Anche per chi è dislessico. www.easyreading.it


Cilla Jackert

Traduzione di Samanta K. Milton Knowles


Cilla Jackert, nata nel 1968 a Stoccolma, affianca all’attività di scrittrice quella di sceneggiatrice di varie serie televisive prodotte dagli anni ‘90 a oggi. Nel 2013 è stata premiata come migliore autrice (Best Debut Author) e nello stesso anno ha vinto il premio Slangbellan. Ci si vede all’Obse è entrato nella cinquina finale del Barnets Romanpris 2015 (Premio per il Miglior Romanzo).

Samanta K. Milton Knowles è traduttrice dallo svedese per diversi editori italiani, come Iperborea, Feltrinelli, Salani, Rizzoli, Marsilio. Per Saltkråkan AB, società degli eredi di Astrid Lindgren, analizza le traduzioni in italiano delle opere della madre di Pippi Calzelunghe per verificarne la qualità.

Finito di stampare nel mese di giugno 2018 presso Grafiche Turato, Rubano (PD) per conto di Camelozampa





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Prologo Annika amava dire le bugie. A volte mentiva per pigrizia. Altre volte per cattiveria. Poteva mentire per far colpo su qualcuno. O per essere gentile. A volte diceva bugie perché era divertente, ma poteva benissimo mentire anche senza alcuna ragione. A voler essere generosi, si poteva dire che mentire era il suo hobby. A non voler essere generosi, si poteva invece dire che Annika era una bugiarda patentata. Perché lo era. E non si vergognava affatto di sciorinare una menzogna dopo l’altra. «Mi trasferirò in Egitto». «Mio padre suona dodici strumenti». «Ieri per cena abbiamo mangiato carne di serpente. Aveva lo stesso sapore del pollo». Gli amici di Annika sapevano che diceva bugie. I genitori di Annika sapevano che la maggior parte delle cose che la figlia raccontava avevano poco a che vedere con la realtà. E dato che tutti coloro che Annika frequentava sapevano che preferiva inventarsi una fandonia intrigante piuttosto che raccontare una verità noiosa, poco importava che dicesse bugie. Scherzasse. Ingannasse. Raccontasse panzane. 9


O almeno, Annika si illudeva che fosse così. Fino a che un giorno non volle raccontare la verità su cosa le era successo durante l’estate tra la sesta e la settima classe. Perché nessuno le credette. «Smettila di dire bugie, Annika» dissero i suoi amici. Ad Annika non parve strano che le rispondessero così. Perché tutto quello che le era successo quell’estate era talmente inverosimile da sembrare più una bugia. Invece era la pura verità.

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Primo capitolo Le vacanze estive tra la sesta e la settima classe per Annika iniziarono proprio come al solito: una normalissima festa di fine anno nella chiesa Gustaf Vasa in Odenplan, a Stoccolma. Nella normalissima chiesa sedevano file e file di normalissimi bambini con normalissimi vestiti stirati di fresco che di lì a poco si sarebbero sporcati di torta alla panna guarnita con le prime fragole dell’estate. Sulle ginocchia impazienti dei bambini erano poggiati normalissimi mazzi di fiori di lillà bianchi e viola, che riempivano la chiesa del loro profumo gentile e normale per la stagione. Cinquecento normalissimi bambini cantarono l’inno Dei fiori il tempo or giunge, come in ogni normalissima festa di fine anno, con la loro normalissima maestra di musica in piedi davanti a loro che agitava in aria un legnetto abbastanza normale, di cui nessuno capiva la funzione. Davanti all’altare della chiesa c’era un normalissimo coro, e in prima fila c’era Annika. Aveva lo stesso aspetto di sempre, a parte che per una volta si era spazzolata i capelli. Però aveva lasciato perdere la frangia, perché c’era appiccicata una gomma da masticare che la mamma voleva tagliare via. Il resto dei capelli ricadeva liscio lungo la schiena sopra il normalissimo vestitino bianco che aveva una macchia di pennarello rosso decisamente poco 11


normale proprio sul cuore. Ad Annika quella macchia piaceva, perché era facile inventarsi qualche bella bugia su una chiazza rossa proprio sopra il cuore. «È sangue» era solita dire Annika quando qualcuno la indicava. Inoltre il vestitino aveva le tasche. E quelle erano quasi meglio della macchia. In quel momento Annika se ne stava con le mani in tasca, proprio come la maestra di musica le aveva detto di non fare, e cantava Dei fiori il tempo or giunge con voce alta e chiara. Era la sua canzone preferita e voleva che tutti lo capissero. Di per sé il testo era abbastanza stupido, e la melodia era pessima, ma non c’era altra canzone che meritasse di essere cantata a voce così alta e chiara. Lo sapevano tutti quelli che, come Annika, amavano le vacanze estive. «Quest’estate andrò in tournée con la mia band» spiegò Annika ai suoi compagni fuori dalla chiesa, dopo aver ascoltato uno degli incomprensibili discorsi della direttrice, che puntualmente era finito con lei che piangeva e si soffiava il naso forte e chiaro dritto nel microfono. «Mio Dio quante cose ti inventi» disse lo Gnomo, uno dei compagni di classe di Annika. Annika alzò le spalle. 12


Non le importava se i suoi compagni le credevano oppure no. Tanto erano noiosissimi. Sinceri. Dovevano sempre dire la verità. «Di’ le cose come stanno» dicevano sempre. «E perché mai?» rispondeva sempre Annika. Appena i suoi compagni aprivano bocca lei si addormentava, per protesta. Certo, si addormentava solo per finta, perché non era mica così facile addormentarsi. Se lo fosse stato, Annika avrebbe potuto affittare i suoi compagni di classe alle persone con disturbi del sonno. Loro si sarebbero seduti sul bordo del letto della persona interessata a parlare di colonie estive dove ti insegnavano a pagaiare in canoa canadese oppure di campi estivi di equitazione dove si facevano gare di salto in cui gli ostacoli erano talmente bassi che il cavallo a malapena doveva alzare gli zoccoli per superarli. «Ronf» diceva Annika. Una cosa però era certa. Nessuno si addormentava quando Annika raccontava delle sue vacanze estive. Quindi che importanza aveva il fatto che non ci fosse niente di vero? «Quest’estate andremo a Fantomenland, allo zoo di Eskilstuna» disse lo Gnomo. «Ronf» disse Annika. «Mi divertirò un sacco» disse lo Gnomo. 13


«Doppio ronf» disse Annika. «Ora però sei cattiva» disse lo Gnomo, che a differenza di Annika era sempre sincero. «Sai perché? Perché il mio cervello è stato preso d’assalto da un’ameba che si nutre delle parti buone e lascia solo ciò che è cattivo e antipatico». «Per la prima volta ti credo» disse lo Gnomo. Poi fece una risatina, arricciando il naso. Era carino. Anche Annika rise. «Devo andare» disse lui. Si sporse in avanti per salutarla con un abbraccio. «Lo fai perché sei innamorato di me?» chiese Annika. «Puoi smetterla di fare la scema?» rispose lui, mentre le sue guance diventavano rosse come quelle di uno gnomo. «Che problema c’è? Tutti i ragazzi sono innamorati di me. È una cosa perfettamente normale, non c’è nulla di cui vergognarsi». «Non mi vergogno mica. E non sono innamorato di te» si affrettò ad aggiungere lo Gnomo. Si diedero un abbraccio veloce. Lui profumava di sale e di ammorbidente alla mela. Quando le chiese cosa avrebbe fatto durante le vacanze aveva ancora le guance rosse. «Andrò...» iniziò Annika. «Lascia perdere» la interruppe lui. Poi corse dai suoi genitori che lo aspettavano poco più in là. Si voltò e la salutò con la mano. Lei ricambiò il 14


saluto. Era una bella sensazione sapere che era innamorato di lei. Era vero. Provava pena per lui che aveva dei genitori noiosi che sicuramente gli facevano una testa così sul fatto che doveva sempre dire la verità. “Stai dicendo la verità, Gnomo?” Gli dicevano di sicuro così tutti i giorni. Tranne che magari lo chiamavano Rasmus invece che Gnomo, dato che era quello il suo vero nome. I genitori di Annika non pretendevano mai la verità. Nemmeno se si intasava il water perché Annika aveva provato a far andare giù con lo sciacquone una torta immangiabile che aveva preparato senza seguire la ricetta. «Quando sono tornata da scuola era già così» aveva detto Annika mentre la mamma stava in ginocchio con la testa girata dall’altra parte e un braccio infilato nella tazza. «Ti credo» aveva risposto la mamma. Si può dire che Annika avesse ereditato il talento per le bugie dai suoi genitori. I genitori di Annika si chiamavano Gugge e Ossian Bosse, e abitavano nel pezzo di Drottninggatan che era talmente lontano da Vasastan che nessuno sapeva che si chiamasse ancora Drottninggatan. Di solito Annika diceva di abitare nel Palazzo degli Spiriti che si trovava a un isolato di distanza, ma in 15


realtà viveva in un appartamento normale al primo piano di un palazzo abbastanza nuovo che non era per niente infestato dai fantasmi, purtroppo. L’appartamento era composto da quattro stanze più la cucina. Una delle camere era quella di Annika. Aveva la vista su Observatorielunden, il parco dell’osservatorio astronomico che si trovava dall’altra parte della strada. I suoi genitori dormivano in un’altra camera. Poi la famiglia ovviamente aveva un salotto con il divano e la TV e una libreria con così tanti libri che le mensole sembravano amache. E poi c’era ancora una stanza, che per qualche oscuro motivo si chiamava lo studio, ma che dopo le vacanze estive sarebbe diventata la cameretta del fratellino o della sorellina di Annika. Mancava però un’intera estate prima del suo arrivo, e Annika aveva intenzione di godersi particolarmente tanto quelle vacanze. «Non ci sarà poi tanta differenza» aveva detto la mamma tutta la primavera, prendendo Annika in braccio e cullandola come quando era piccola. Il che non era facilissimo, perché improvvisamente Annika era solo due centimetri più bassa di sua madre, che oltretutto aveva la pancia che cresceva di settimana in settimana. Annika sapeva che la mamma mentiva bene quanto lei. Anche se non riguardo alle stesse cose. Ovvio che tutto sarebbe cambiato con l’arrivo di 16


un fratellino o di una sorellina. Non solo. Sarebbe peggiorato, questo Annika lo sapeva bene. Infatti aveva amici che erano fratelli minori, e sapeva esattamente quanto potessero essere terribili. Non facevano altro che rubare soldi, prendere i vestiti e rivelare tutti i segreti e le bugie dei loro fratelli maggiori. “La mamma crede che io non capisca che sarà tutto diverso” pensò Annika correndo per gli ultimi metri fino al portone, poi su per le scale, attraverso la porta e fino alla bacheca in cucina. Attaccò il diploma scolastico con una puntina accanto al calendario su cui la mamma aveva scritto a caratteri cubitali quanto tempo era passato da quando lei e il papà le avevano concepito il fratellino o sorellina. Ormai c’era scritto “settimana 27”, il che voleva dire che mancavano ancora tredici settimane prima che arrivasse il bebè. «Tira fuori le cose che vuoi portarti in campagna» disse la mamma arrivando nell’ingresso con un grosso borsone morbido che posò accanto alla porta. Aveva l’aria stanca, e Annika si domandò come sarebbero state le cose quando sul calendario ci sarebbe stato scritto “settimana 35”. «Non ho bisogno di niente» disse Annika. Sarebbero partiti per la campagna già il giorno successivo e, anche se non lo avrebbe mai detto ai 17


suoi amici, Annika adorava passare l’estate nella piccola casetta rossa nello Småland. «L’estate scorsa puzzavi di cane tutto il tempo. Quindi a questo giro non ti porti un solo paio di pantaloni» disse la mamma andando in cucina ad aprire il rubinetto. O almeno così credette Annika. Perché a giudicare dal rumore sembrava che la mamma avesse aperto il rubinetto. L’acqua scrosciò. La cosa strana però fu che l’acqua scrosciò per terra, invece che nell’acquaio. Infatti la mamma non aveva aperto il rubinetto. Il rumore scrosciante proveniva da svariati litri di liquido amniotico che precipitavano sul pavimento di linoleum che secondo la mamma aveva un disegno che sembrava una malattia della pelle. «Papà» gridò Annika. «PAPÀ!» «Il bebè sta per nascere!» gridò la mamma. «Il bebè sta per nascere!» gridò Annika. «Il bebè sta per nascere?» Il papà spalancò la porta del bagno. Non si abbottonò neanche i pantaloni, si precipitò subito dalla mamma, che si era accasciata a terra. Aveva l’aria spaventata. Anche la mamma aveva l’aria spaventata. Annika era abituata a vedere i suoi genitori tristi, arrabbiati, contenti o stanchi. Non spaventati. Era la prima volta. 18


«Il bebè sta per nascere» disse la mamma. «Allora andiamo all’ospedale» rispose il papà cercando di farla alzare. Era come cercare di far stare un elefante su due zampe. Non riusciva a spostarla di un millimetro. «Non hai capito. Il bebè sta per nascere ADESSO». E poi la mamma gridò, ed era un grido che Annika non aveva mai sentito prima. Proveniva dal profondo della sua pancia. Sembrava un animale. Una vacca in trappola. Era terribile. Anche Annika avrebbe voluto gridare. Avrebbe voluto gridare al bebè che si era sbagliato, che doveva rimanere dentro la pancia ancora per mesi. Invece non fece niente. Non disse niente. Rimase solo lì in piedi a guardare la faccia della mamma accartocciarsi in una smorfia. «MUOOOOIO» guaì lei, e Annika le credette. «Respira» strillò il papà gettandosi sul telefono. Fece il numero, e non appena sentì qualcuno rispondere gridò nella cornetta: «Dovete venire subito! Mia moglie sta partorendo!» Il suo ruggito sovrastò quasi quello della mamma. Poi si zittì. Evidentemente qualcuno gli stava dicendo cosa fare, perché si tirò dietro il telefono e andò a sedersi accanto alla mamma. «Va bene» disse. «Ho capito». Poi voltò la testa e guardò Annika dritta negli occhi. «Vai in camera tua e aspetta lì». 19


In un’altra occasione Annika avrebbe protestato, ma quel giorno corse in camera, si scaraventò sul letto e nascose la faccia nel cuscino che odorava di capelli e di sangue per tutte le volte che le era uscito il sangue dal naso e nessuno aveva avuto la forza di cambiare la federa. Si sdraiò tutta distesa con le braccia lungo i fianchi e strinse gli occhi più forte che poteva. Perché gli esseri umani non avevano le palpebre anche sulle orecchie? Non voleva sentire le grida della mamma né la voce del papà sempre più in preda al panico. Non voleva sentire il personale dell’ambulanza irrompere nell’appartamento e cominciare a darsi ordini a vicenda con voci calme ma allo stesso tempo tese. «È vivo?» La voce della mamma era sottile. Era strano che Annika riuscisse a sentirla attraverso la porta e in mezzo a tutta quella confusione. Perché aveva detto così? Perché il bebè non doveva essere vivo? Un uomo gridò che non c’era tempo da perdere, poi Annika sentì ancora più rumore e fracasso e alla fine il papà gridò: «ANDIAMO IN OSPEDALE, ANNIKA! MA NON C’È PERICOLO. ANDRÀ TUTTO BENE. TUTTI STANNO BENE. TI CHIAMIAMO DOPO». Poi Annika sentì sbattere la porta. E le voci quando arrivarono giù in strada. Sentì il papà gridare qualcosa alla mamma. 20


Sentì le sirene dell’ambulanza, prima subito fuori dalla finestra e poi sempre più lontane. Nee – noo – nee – noo – nee – noo. Poi ci fu silenzio. Silenzio assoluto. Due bambini passarono fuori dalla finestra. Stavano discutendo di cosa si intendesse per “l’ultimo sorso” di una bibita. «Quello non è l’ultimo sorso. Quello è sporco sul fondo della bottiglia» disse uno. «Quando la bibita è mia decido io quant’è l’ultimo sorso» replicò l’altro. I loro passi si affievolirono a mano a mano che si allontanavano lungo la strada. Poi tornò il silenzio. Annika si addormentò un istante dopo che erano passati i bambini.

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