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JESSICA SCHIEFAUER
Traduzione di Samanta K. Milton KnowlesTitolo originale: När hundarna kommer
Copyright © Jessica Schiefauer 2015 Published by agreement with Nordin Agency
Traduzione dallo svedese di Samanta K. Milton Knowles
Copertina di Fredrika Siwe
Per l’edizione italiana
Copyright © 2022 Camelozampa Prima edizione italiana: ottobre 2022 ISBN 9791280014870
Tutti i diritti riservati www.camelozampa.com
L’edizione italiana è stata realizzata con il contributo finanziario dello Swedish Arts Council
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Camelozampa ha scelto per questo libro carta certificata FSC®, contribuendo in questo modo a salvaguardare le foreste e le popolazioni che da esse dipendono.
Alta leggibilità
Questo libro utilizza il Font EasyReading® Carattere ad alta leggibilità per tutti. Anche per chi è dislessico. www.easyreading.it
Si dice che chi viene colpito dallo sguardo del lago venga marchiato a vita. Si dice che l’acqua abbia due occhi, uno buono e uno cattivo.
L’occhio buono è luminoso e scintillante, e la sua forza si deposita in te come una perla. L’occhio cattivo è freddo e nero, e se ti scorge sei spacciato. Ma queste sono solo favole, e noi alle favole non ci crediamo.
APRILE
La lente a contatto sulla punta dell’indice di Isak sembra una piccola ciotola tremolante. Il fondo è leggermente bluastro, i bordi trasparenti. Isak allarga le palpebre e guarda verso l’alto come gli ha detto l’ottico. Quando entra in contatto con la sclera, la lente è fredda e bagnata e Isak deve fare uno sforzo per tenere l’occhio spalancato e dirigerla fino all’iride con l’aiuto dell’indice. Batte le palpebre un paio di volte, poi guarda il proprio riflesso nello specchio del bagno.
Le guance sono punteggiate di acne, il mento ruvido per la barba rada. Ma il tutto è messo in ombra dagli occhi, adesso che non ci sono più gli occhiali spessi a nasconderli.
Gli occhi di Isak sono due grandi stelle che lo guardano attraverso lo specchio.
Anton cammina per casa trascinando i piedi. Si annoia. È domenica, piove, non ci sono caramelle e non ha nessuno a cui telefonare.
Isak è sul divano di pelle in soggiorno. Ha i piedi sul tavolo, un panino in una mano e con l’altra sfoglia una rivista di moto. Isak è più grande, ma Anton più alto: quando si siede accanto al suo fratellone sbatte le ginocchia sul tavolino. Isak ha qualcosa di diverso, ma Anton non riesce a capire cosa. «Che fai?»
Isak alza lo sguardo dalla rivista. «Che ti sembra?»
Anton ignora il commento. «Ci inventiamo qualcosa?» «Tipo?»
Anton alza le spalle. «Boh, qualsiasi cosa. Giochiamo a carte. O a ping-pong».
Isak arriccia il naso. «Nah».
«Cazzo quanto sei palloso!»
Isak dà un morso al panino. «Zitto. Sto leggendo».
Anton lancia un’occhiataccia al fratello. Rimane un attimo in silenzio, tamburellando con le dita sulla coscia.
«Allora guardiamo un film».
Isak ingolla l’ultimo boccone di panino e annuisce. «La tua lista o la mia?»
«Sulla tua cos’è rimasto?»
Isak scava nella tasca di dietro dei pantaloni e tira fuori il portafogli. Nello scomparto interno c’è un foglio di carta spiegato e ripiegato talmente tante volte che è tutto pieno di pelucchi negli angoli.
Anche Anton tira fuori il portafogli, anche lui ha un foglio uguale. Li aprono, li confrontano. Anton indica la propria lista.
«Questo?»
Isak scuote la testa.
«Già visto. Stupido». Ne indica un altro.
«Io voglio vedere quello».
Anton alza gli occhi al cielo.
«Quello l’ho visto almeno cento volte».
«No che non l’hai visto».
«Sì, invece».
«E quando?»
«Di notte».
«Ah sì, eh?»
Per un po’ rimangono lì imbronciati. Poi Isak indica la lista di Anton.
«E quello l’hai visto?»
Anton alza le sopracciglia.
«Ma ce l’abbiamo?»
«Pa’ sì».
«E sai dov’è la chiave?»
In risposta, Isak fa un ghigno soddisfatto.
La pioggia martella sui vetri. Nel film due uomini si picchiano sul tetto di un palazzo. Isak continua a toccarsi gli occhi. Batte forte le palpebre e le
strofina con i polpastrelli. Anton lo guarda di sottecchi.
«Che hanno i tuoi occhi?»
«Ho le lenti. Prudono un po’». Adesso Anton vede cosa c’è di diverso. Isak non ha gli occhiali. Di solito li porta sempre: montatura da pilota e lenti spesse che fanno sembrare gli occhi piccoli e pungenti.
«E perché?»
Isak non distoglie lo sguardo dalla tivù. «Che cazzo te ne frega?»
«Ma hai detto che prudono!»
Isak stringe le palpebre per qualche secondo, poi le riapre e si tocca la coda dell’occhio con la punta del dito. Poi mette le mani dietro la nuca e si sforza di non battere le palpebre in continuazione.
«Lo vuoi vedere o no, il film?»
Anton si appoggia allo schienale del divano, senza rispondere. Sullo schermo, un uomo è sdraiato in una vecchia fabbrica vuota, legato. Grida, ma nessuno lo sente.
Isak è all’angolo di una strada, in una zona residenziale piena di villette. Sta lì, appoggiato a un lampione. In mano ha uno Zippo: apre il coperchio, lo richiude, di tanto in tanto riesce perfino ad accendere la fiamma con lo stesso movimento. Il fuoco divampa e poi si spegne, divampa e poi si spegne, un segnale lampeggiante che non sembra avere alcun destinatario.
Dai palazzoni arriva qualcuno. Isak lo riconosce: si chiama Ruben. La gente lo evita, qualche volta la polizia è passata in zona e il giorno dopo si è sparsa la voce che fossero intervenuti perché Ruben era ubriaco e spaccava la roba. Cammina dritto verso Isak, con la schiena un po’ gobba, come se avesse mal di pancia. Quando è più vicino, Isak vede che ha gli occhi rossi e il suo corpo è come scosso dagli spasmi.
«Ehilà!»
Isak smette di giocare con l’accendino. «Ehi».
«Che fai?»
Isak non sa che fare con le braccia. «Aspetto».
«Che aspetti?»
«Un amico».
Ruben si tocca la testa, poi si guarda intorno. I marciapiedi sono deserti. «Qui?»
Isak vaga con lo sguardo. «Mm-mh. Qui».
Ruben lo squadra.
«Ah. Mi compri le cicche?»
Indica il supermercato Ica con una mano, con l’altra tira fuori un paio di banconote dalla tasca. «Tieni».
Gli allunga due pezzi da venti. Sul dorso della mano gli corre un fulmine tatuato. È fatto male, inizia dal polso e finisce sulla nocca del dito medio. Probabilmente sarebbe dovuto essere rosso con i bordi neri, ma le linee nere sono storte e spezzettate, il colore rosso sembra fuoriuscire dai contorni, cancellandoli. Isak guarda il fulmine, le banconote, la mano grezza. Non sa quanti anni ha Ruben, ma di sicuro ha l’età per comprarsi le sigarette.
«Perché non te le compri da solo?»
Lui sogghigna. Ha una specie di tic all’occhio.
«Ho un debito lì. Che non posso ripagare». Isak annuisce in segno di comprensione e prende le banconote.
Quando Isak torna con le sigarette, Ruben agguanta subito il pacchetto. Il fulmine ondeggia sul dorso della mano mentre lo apre.
Infila una cicca tra le labbra, si batte sulle tasche, poi guarda Isak.
«Mi fai accendere?»
Isak tira fuori lo Zippo, lo fa scattare. La fiamma potente annerisce la punta della sigaretta. Ruben ne tira fuori un’altra e la allunga a Isak, ma lui scuote la testa.
«Non fumo».
Ruben guarda Isak, poi l’accendino, poi di nuovo Isak.
«Non fumi?»
Isak si sbriga a infilare lo Zippo in tasca. «Nah».
Ruben lo fissa per un po’, poi scrolla le spalle. «Whatever. Grazie dell’aiuto».
Poi si incammina verso la fermata dell’autobus. Isak lo segue con lo sguardo, valutando se è meglio andare o rimanere, quando Ruben si gira per metà e grida qualcosa.
«Ehi, sabato prossimo c’è una festa! Al lago. Ci vai?»
Isak indica sé stesso. «Io?»
Ruben si batte la mano sulla fronte per mostrare quanto è stupido Isak.
«E chi se no, fallito!»
Isak esita, strizza gli occhi. Poi annuisce.
«Forse. Vediamo. Sì, credo di sì».
Ester sbatte la porta del suo armadietto con uno schianto che rimbomba da una parete all’altra. Nei giardini delle villette fioriscono i narcisi, mancano nove settimane alla fine del quadrimestre e sia i giorni che gli alunni si trascinano lungo i corridoi del liceo.
Veronica esce dall’aula degli esami un paio di minuti dopo. Scaraventa il libro di letteratura svedese contro la parete. Quello si apre a mezz’aria e atterra con un botto sul pavimento di cemento, dritto su un pezzo di snus ancora fresco. Veronica parte a grandi passi per recuperarlo. Al caro vecchio August Strindberg è finito del tabacco nell’occhio: il liquido marrone gli cola lungo il naso. Ester sghignazza.
Veronica la fulmina con lo sguardo.
«Non c’è nulla da ridere!»
Si siede sulla panca nell’angolo e batte frustrata i talloni sul pavimento.
«Non ne sapevo neanche una. Neanche una!»
Ester le si siede accanto, cercando di non guardare il volto deturpato di Strindberg.
«Be’, non abbiamo praticamente aperto libro».
Veronica la guarda di sbieco.
«Ma tu le sapevi tutte lo stesso, di’ la verità».
Ester non sa che dire, si limita ad alzare le spalle.
Veronica fa il broncio, segue con l’unghia finta la svastica che il precedente proprietario del libro ha inciso sulla copertina. Ester conta le mattonelle a mosaico del corridoio: sono trentacinque, in uno schema di due verdi e due blu e una quinta di un
orrendo color oro in contrasto con gli altri due. Il resto della parete è di cemento. Molto tempo fa era intonacato di una sfumatura celeste bebè. Ormai è più grigio che altro, per via dei milioni di messaggi che ci sono stati scarabocchiati nel corso degli anni. Tutto l’edificio assomiglia stranamente a una prigione senza le porte d’ingresso chiuse a chiave. Neanche la sezione più nuova, quella vicino alla palestra, infonde una qualche vaga voglia di vivere.
L’orologio del corridoio ticchetta. Il sole primaverile brilla scherzoso fuori dalle finestre sporche.
Veronica tiene il broncio. Ester le dà una botta sul fianco.
«Saltiamo l’ultima ora?»
Veronica alza lo sguardo. È talmente sorpresa che le sopracciglia spariscono sotto la frangia.
«Ma tu non salti mai lezione!»
Ester scrolla le spalle.
«A inglese oggi abbiamo studio individuale. Barbro non prenderà neanche le presenze perché non c’è, era scritto sulla bacheca della sala insegnanti».
Veronica scuote la testa.
«A volte mi chiedo se sei umana».
Ester ignora il suo commento. Si è già alzata e sta camminando verso l’invitante luccichio del sole.
Al centro della città ci sono una piazza lastricata, una stazione degli autobus e un municipio con la facciata grigia. Ci sono tre caffetterie, ma solo una rimane aperta dopo le sei. C’è un cinema, ma proietta solo film adatti dagli undici anni in su e oltretutto è chiuso tutti i giorni, tranne il giovedì.
Il resto del centro non offre altro che un negozio di caramelle che l’ufficio igiene farebbe meglio a chiudere, un argentiere che vende gioielli sia sopra che sottobanco, un negozio di dischi quasi defunto, un negozio di scarpe costosissimo, un negozio della Jeans & Clothes, due pizzerie e una paninoteca. Ma oggi perlomeno è primavera, perlomeno fa caldo, perlomeno c’è un vago profumo di vita nell’aria. La gente ha sbottonato la giacca e tirato fuori il mento dal colletto, e sotto la pensilina sul cui vetro qualcuno ha scritto due grandi “H” a bomboletta è seduta una signora con la faccia al sole. Sembra pacifica e soddisfatta, le lettere le disegnano sottili linee d’ombra sulle guance. Alla caffetteria c’è un gruppetto di ragazzi dell’istituto professionale. Hanno scatolette di snus e pacchetti di sigarette nelle tasche di dietro dei pantaloni, stanno seduti a gambe larghe e ridono forte per qualcosa che sta scritto sulle locandine dei giornali dall’altro lato della strada. Diversi seguono con lo sguardo il seno di Veronica, si scambiano occhiate e poi fanno tutto il possibile per non dare a vedere cosa hanno visto o notato o pensato. Ester prende il tè gusto “Alture del Sud” e Veronica prende “Panna al Rabarbaro”, ma hanno lo stesso sapore. Uno dei ragazzi guarda in continuazione il loro tavolo e Veronica, per pura combinazione, si toglie il maglione. Appoggia i gomiti sul tavolo e si sporge in avanti, come se avesse qualcosa di molto confidenziale da raccontare a Ester, facendo apparire una profonda fessura nella scollatura. Il ragazzo ci annega con lo sguardo per diversi secondi prima di
riuscire a staccarsi e cominciare a ridere sguaiato e all’apparenza imperturbato. Come al solito, Ester fa finta di non accorgersi di cosa sta succedendo, non lascia trasparire la propria invidia per tutti gli occhi puntati su Veronica. Soffiano sul tè. Non c’è molto da dire né da fare, quindi bevono a piccoli sorsi finché le tazze non sono vuote e poi se ne vanno con le mani in tasca su per le tantissime salite fino alle zone residenziali. Lì si separano: Veronica si dirige verso i condomini con gli appartamenti in affitto, Ester invece verso le villette a schiera. L’aria è fresca, tra poco calerà il crepuscolo e poi arriverà l’alba e poi di nuovo il crepuscolo, e a quanto pare la vita non offrirà molto più di così.
La ghiaia scricchiola sotto i piedi di Anton. Ha gli zoccoli di legno di suo padre e il vecchio cappellino da baseball di Isak, e sta prendendo la scorciatoia verso il bosco. Sta portando fuori il cane del vicino. Si chiama Jack ed è un vecchio golden di quasi dodici anni. Cammina strusciando il naso per terra, annusando distrattamente il ciglio della strada. Jack sembra stanco, oggi, e trema un po’ anche se l’aria della sera è mite.
Dal pendio arriva un altro ragazzo con un cane. Frequenta la sezione parallela e abita in una delle ville sulla collina. Anton sa che si chiama Simon, ma non si conoscono. Il cane di Simon è sciolto, ma cammina di fianco a lui alzando gli occhi di continuo per non perdersi neanche un comando. È bello, un grosso labrador con il corpo armonico e il pelo nero lucido. Jack comincia subito a tirare e strattonare il guinzaglio e Anton si sente ridicolo: gli zoccoli di legno scivolano sulla ghiaia e Jack ansima come un idiota, guaisce e abbaia e fa casino. Il labrador comincia a zampettare, ma Simon fa un movimento con la mano e il grosso cane si rilassa, senza alcun accenno a scappare nonostante la libertà. Solo quando Jack e Anton sono a qualche metro di distanza, Simon afferra il collare e lo tiene con presa lassa con gli indici e i medi infilati sotto il cuoio.
Simon ha i capelli lunghi raccolti in una coda di cavallo e un cerchietto d’oro all’orecchio. È uno di quelli che la gente reputa bello. A scuola le ragazze
lo seguono con gli occhi e lui ricambia con uno sguardo disinteressato che le spinge a guardarlo ancora di più. Rimangono immobili, tutti e quattro.
Anton tiene forte il guinzaglio di Jack, mentre il labrador si è seduto sui garretti al comando di Simon. Anton fa un cenno con la testa verso il bellissimo cane. «È tuo?» Simon annuisce.
«Si chiama Manda. E quello?» Magari non è intenzionale, ma c’è qualcosa nel tono di voce di Simon che risveglia la rabbia in Anton –perché Jack non è suo e perché Manda è molto più bella, perché Simon ha una calma… irritante. «È del mio vicino di casa».
Jack si calma, smette di tirare, all’improvviso non sembra più importargli niente di Manda. Cammina sul posto, alza la zampa e fa la pipì sul ciglio della strada. A Simon viene una ruga tra le sopracciglia. «È malato?»
All’inizio Anton non capisce cosa intende. Poi vede che l’urina di Jack ha un colore leggermente rosato. Simon annuisce, quasi a sé stesso.
«Eh sì, è malato. Non ha per niente un bell’aspetto».
Anton gli lancia un’occhiataccia talmente cupa da farlo ammutolire. Simon cerca con dita impacciate il collare di Manda, stringe forte il cuoio lucido. Lei lo guarda sorpresa, si alza, attende un ordine. Simon cambia il peso da un piede all’altro.
«Be’, noi proseguiamo. Vieni, ragazza». Superano Anton. L’interesse di Jack si risveglia:
il cane allunga il naso per annusare Manda, ma lei si scansa con grazia, non degnando il maschio di uno sguardo. Nemmeno Simon si volta, si limita a lanciare un saluto oltre la spalla: «Ci si». Anton non risponde. Per un paio di secondi osserva i lombi lucidi del labrador, le zampe slanciate che pestano con tale eleganza la ghiaia. Poi tira il guinzaglio, trascinando il vecchio cane stanco e scontroso lungo la strada sterrata.