CATARSI O IMITAZIONE: LA VIOLENZA NEL PANORAMA MEDIATICO CONTEMPORANEO

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FacoltĂ di Lettere e Filosofia Corso di laurea triennale in Scienze Umanistiche per la Comunicazione Tesi di laurea in Storia Contemporanea

Catarsi o Imitazione: la violenza nel panorama mediatico contemporaneo

Relatore: Prof. Zeffiro Ciuffoletti Correlatore: Prof. Giovanni Cipriani

Candidato: Camilla Meloni

Anno Accademico 2010/2011


Ai miei nonni


INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO I

3

GLI EFFETTI DELLA VIOLENZA RAPPRESENTATA SULLA SOCIETÀ

PRINCIPALI TEORIE SUGLI EFFETTI DEI MEDIA

3

IL PROBLEMA DELLA VIOLENZA RAPPRESENTATA

9

GLI EFFETTI DELLA VIOLENZA RAPPRESENTATA

10

IL PROBLEMA DELL’AGGRESSIVITÀ

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CATARSI, UN POSSIBILE EFFETTO POSITIVO

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LA PAURA

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L’ASSUEFAZIONE E DESENSIBILIZZAZIONE, L’ABITUDINE ALLA VIOLENZA

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CAPITOLO II

29

LA REALTÀ INFLUENZATA DALLA RAPPRESENTAZIONE DI SE STESSA


NOI E LA REALTÀ

29

REALTÀ DI SECONDA MANO

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LA NARRAZIONE COME STRUMENTO DI COSTRUZIONE SOCIALE

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RAPPRESENTAZIONI SOCIALI MEDIALI

35

REALTÀ MEDIATE: UN PROBLEMA SOCIALE

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CAPITOLO III

41

IL PROCESSO SPETTACOLO, LA MORBOSA ATTENZIONE ALLA VIOLENZA

LA VIOLENZA NATURALE

41

LA VIOLENZA DOPO IL PATTO SOCIALE, IL RUOLO CATARTICO DEL PROCESSO

43

DALLA PUBBLICITÀ IMMEDIATA ALLA PUBBLICITÀ MEDIATA, E IL DIRITTO DI ESSERE INFORMATI

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UNA MORBOSA CURIOSITÀ

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LA TELEVISIONE UN NUOVO MODO DI MEDIARE IL PROCESSO: INFORMAZIONE O SPETTACOLO

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LA SPETTACOLARIZZAZIONE DEL PROCESSO: IL CASO ITALIANO E IL PROCESSO PARALLELO

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BIBLIOGRAFIA

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SITOGRAFIA

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INTRODUZIONE

Guardando la televisione, ascoltando i telegiornali, possiamo notare che le notizie veicolate ogni giorno dai media, parlano sempre di più di persone che usano violenza sui loro simili; i casi di giorno in giorno aumentano e i motivi diventano sempre più assurdi. Osservando tutto questo, mi sono chiesta se la continua veicolazione della violenza, sia reale che fittizia, abbia uno sviluppo positivo o negativo sulla nostra società; se questo continuo assistere alla violenza abbia un effetto catartico, come sosteneva Aristotele nell’Antica Grecia, o se invece, ci porti prima ad un’assuefazione e desensibilizzazione, considerandola normale, e poi ad usarla come soluzione

ai

nostri

problemi.

Ancora

se

la

continua

spettacolarizzazione dei processi, sui reati più efferati, abbia mantenuto un ruolo di ammonimento, come le esecuzioni capitali pubbliche nelle piazze nel medioevo e durante la rivoluzione francese; oppure avessero solo lo scopo di intrattenerci e di alimentare il nostro morboso interesse alla violenza, portandoci a conoscere particolari di macabre azioni, svolgendo quasi una funzione di tutor. Il tema principale di questa tesi è dunque, la violenza, o meglio la violenza mediata soprattutto dalla televisione, e il rapporto dell’uomo con essa. Nel primo capitolo vengono affrontati, dopo una breve introduzione sulla relazione dei media con la società, i principali effetti che questa ha sull’essere umano, a volte immediati, come l’imitazione di un comportamento violento verso il prossimo o noi


stessi, altre volte meno visibili ma permanenti nel tempo, come la percezione di una realtà più pericolosa di quanto non lo sia veramente, e la conseguente paura di essa, o la desensibilizzazione ad un comportamento violento portandoci a non reagire di fronte alla violenza reale. Soffermandoci in ultima analisi sull’effetto che può avere sulla società in quanto i media agiscono in maniera significativa nella costruzione dell’universo sociale; infatti attraverso la creazione dell’Agenda setting, riescono a portare al centro dell’attenzione pubblica determinati argomenti invece di altri, a volte spingendo le istituzioni a prendere una posizione ed intervenire. Nel secondo capitolo viene affrontato il rapporto tra rappresentazione mediale della realtà e realtà stessa, in quanto l’una influenza l’altra e viceversa; come l’uomo insegni e acquisisca informazioni attraverso la narrazione prima orale adesso sempre più spesso mediale, e quanto i mezzi di comunicazione, incidano sulle nostre costruzioni sociali, come strumenti di creazione e di veicolazione di esse. Vedremo in ultimo quanto, questo dipendere della realtà dalla sua rappresentazione, scateni le preoccupazioni dell’opinione pubblica e la riflessione politica e filosofica. Infine il terzo capitolo si concentra sulla violenza, la giustizia ed il pubblico, percorrendo a grandi linee la storia del rapporto tra l’uomo e la violenza ed il ruolo educativo svolto dalla giustizia che ormai sembra perdersi, passando da una funzione catartica ad una funzione di spettacolo, per via dell’intervento di un narratore d’eccezione come la televisione, portando il pubblico a considerare l’informazione sui primi reati efferati uno spettacolo, argomento di programmi di intrattenimento, creando dei processi paralleli in cui ognuno può formarsi “la propria opinione”, ma in generale già veicolata dal mezzo televisivo.


CAPITOLO I

GLI EFFETTI DELLA VIOLENZA RAPPRESENTATA SULLA SOCIETÀ

PRINCIPALI TEORIE SUGLI EFFETTI DEI MEDIA

Negli studi intorno agli effetti dei media sul pubblico, si sono distinte due posizioni nettamente contrapposte nate da una più generale discussione sulla società e sulla cultura di massa. La

prima

sostanzialmente

ottimista,

favorevole

ai

mezzi

di

comunicazione di massa, considera la società moderna industriale figlia prediletta del progresso. “La nuova società è “di massa” perché, diversamente da quanto accadeva in passato, la gran parte della popolazione ha in essa la possibilità di accedere o, almeno, di avvicinarsi al centro della società, abbandonando le posizioni periferiche e marginali nelle quali era stata fino ad allora relegata.”1

La seconda invece pessimista, contraria ai mezzi di comunicazione di massa, considera la società e la cultura a essa associate come frutti di un processo degenerativo imputato 1

G. LOSITO, Il potere dei media, Nuova Italia scientifica, Indiana University, 1994, p. 23.

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“da destra, all’avvento delle masse popolari sulla scena politica e sociale e, da sinistra, al regredire della razionalità sostanziale a mera ragione formalizzata, in obbedienza alla logica inesorabile dello sviluppo capitalistico.(…) Come ogni merce, anche il prodotto culturale viene fabbricato in serie e immesso sul mercato secondo strategie di vendita rivolte a un pubblico che deve poter essere per quanto possibile culturalmente e ideologicamente omogeneo.”2

Umberto Eco (1964) definisce gli esponenti di queste due posizioni contraddistinte, “integrati” e “apocalittici”. I primi sostengono che i mass media sono parte fondamentale della cultura contemporanea, e nonostante alcuni effetti “perversi”, come il dominare di prodotti e di contenuti spettacolari e di scarso impegno, hanno alzato il livello d’informazione e cultura. Gli altri invece, sono i pessimisti, ritengono che gli effetti più diffusi e gravi riguardino l’appiattimento della cultura e dei gusti, l’uniformazione delle tematiche culturali e dei valori, la superficialità e la spettacolarizzazione dei loro contenuti. Come indica Livolsi, i più “apocalittici” arrivano a ritenere “Che la società della comunicazione sia sul punto di trasformarsi nella società del rumore e dello spettacolo, dove solo una minoranza particolarmente qualificata sarà in grado di sottrarsi ai pericoli di una più attuale e più pericolosa omologazione di idee, atteggiamenti, valori e comportamenti.”3

In genere si dà maggiore attenzione alle posizioni degli apocalittici per via dei loro scenari preoccupanti. Nel tempo i mezzi di comunicazione di massa sono stati accusati di sostenere regimi dittatoriali, di essere cattivi informatori, di persuadere e di manipolare. Per parlare di manipolazione, qualcuno deve essere indotto da 2

Ivi, p. 26.

3

M. LIVOLSI, Manuale di sociologia della comunicazione, Laterza, Bari-Roma, 2009, p. 214.

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qualcun altro a fare qualcosa, con la convinzione di farlo liberamente. Manipolare significa quindi cercare di persuadere, tuttavia il processo non è così semplice. Sulla base degli studi di psicologia sociale, combinati a quelli relativi alle tecniche di comunicazione, molti studiosi hanno teorizzato alcuni postulati che cercano di descrivere gli effetti che ha un messaggio su chi lo riceve, in particolare se è di tipo persuasivo. I ricercatori hanno focalizzato i propri interessi sul messaggio stesso, analizzandone il tipo di trasmissione, di ricezione, di decodificazione, e di assimilazione, per vedere se riesce a produrre qualche effetto sul ricevente. Si deve precisare, però, che non può esserci nessuna persuasione se non sussistono le premesse oggettive, del contesto ambientale, sociale, culturale, e quelle soggettive proprie del ricevente. In altre parole, non si può convincere chi non è disposto a farsi persuadere. Nella storia degli studi sulle comunicazioni di massa, la tematica degli effetti ha attraversato tre fasi. La prima fase, che va dagli anni ’20 quasi fino agli anni ‘60, è stata ispirata dall’idea che gli effetti dei mass media fossero diretti e immediati, si è pensato che questi avessero un notevole potere di plasmare le opinioni e le convinzioni, di cambiare le abitudini di vita, di modellare attivamente il comportamento, secondo la volontà di chi poteva controllarne l’attività e il contenuto. Occorre ricordare che, verso la fine degli anni ’40, cominciarono a diffondersi negli Stati Uniti le ricerche motivazionali, che si proponevano d’indagare preconscio e inconscio dei consumatori per trovare i motivi segreti ed irrazionali che stavano alla base delle loro scelte di consumo. Una volta conosciute le loro aspirazioni, i bisogni e i sensi di colpa e le frustrazioni, si sarebbe trovato il modo di convincerli, soprattutto per quanto riguardava il comportamento di acquisto. I successi di alcune campagne pubblicitarie sembravano dar ragione alle nuove tecniche, tanto che qualcuno sentì la necessità di lanciare un grido d’allarme. Packard denunciò i pubblicitari come “manipolatori”, “persuasori dell’inconscio”. Nel suo libro “I persuasori occulti” si legge:

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“molti di noi vengono oggi influenzati assai più di quanto non sospettino, e la nostra esistenza quotidiana è sottoposta a continue manipolazioni di cui non ci rendiamo conto. Sono all’opera su vasta scala forze che si propongono, e spesso con successi sbalorditivi, di convogliare le nostre abitudini inconsce, le nostre preferenze di consumatori, i nostri meccanismi mentali, ricorrendo a metodi presi a prestito dalla psichiatria e dalle scienze sociali.”4

La seconda fase, relativa agli anni ’60-‘70, è caratterizzata da un rifiuto dell’approccio semplicistico precedente, si attribuisce allo spettatore un ruolo attivo nella ricezione dei messaggi e non più un ruolo passivo. Viene attribuito un ruolo più modesto nel provocare uno qualsiasi dei loro effetti, secondo Joseph Klapper le comunicazioni di massa non sono, in genere, una causa necessaria e sufficiente degli effetti sull’audience, ma piuttosto funzionano attraverso la mediazione di altri fattori. Inoltre l’attenzione si concentra sugli effetti dannosi dei media in relazione alla delinquenza, al pregiudizio, all’aggressività e all’eccitazione sessuale. Nella terza fase si torna a sottolineare l’efficacia pesante dei media. La ricerca si concentra sugli effetti reali e potenziali, accettando però le più recenti concezioni sociali. Si ha uno spostamento dell’attenzione verso i cambiamenti a lungo termine, le percezioni, il ruolo svolto da variabili aggiunte di contesto, i fenomeni collettivi e le forme istituzionali dell’offerta. Si ha anche un rapido rinnovarsi dell’interesse nei confronti degli effetti, visto essenzialmente in termine di socializzazione a lungo periodo e costruzione sociale della realtà; come sostenuto dagli apocalittici e prima menzionato, si arriva a ritenere “che la società della comunicazione sia sul punto di trasformarsi nella società del rumore e dello spettacolo, dove solo una minoranza particolarmente qualificata sarà in grado di sottrarsi ai pericoli di una più attuale e più pericolosa omologazione di idee, atteggiamenti, valori e comportamenti.”5

4 5

V. PACKARD, I persuasori occulti, Enaudi, Torino, 1958, p. 5 M. LIVOLSI, Op. cit., p. 214.

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Possiamo quindi evidenziare una fase in cui domina una concezione deterministica e indifferenziata dell’impatto dei media sugli individui; una fase intermedia in cui gli effetti vengono differenziati e mediati da filtri di varia natura; una fase attualmente in corso, in cui viene ampliato e ridefinito il concetto stesso di effetto: da un cambiamento atteggiamentale a breve termine assume l’accezione di strutturazione e/o ristrutturazione a lungo termine delle immagini della realtà. Ricercatori e studiosi, che si sono occupati dei media negli anni, sono convinti che i significati e le interpretazioni della realtà sono costruzioni sociali, dal momento che siamo sempre più in contatto con rappresentazioni mediate di un complesso mondo fisico, sociale e non soltanto con le caratteristiche oggettive del nostro ristretto ambiente personale. In sostanza, le conoscenze che noi abbiamo e condividiamo sulla realtà del mondo hanno spesso un’origine mediale. Da questi studi, che cercano di chiarire le conseguenze della transizione a una società dei media, affrontando la questione di come i media danno forma ai significati e delle conseguenze che ciò ha sul comportamento, possiamo evidenziare due tipi di effetti, quelli diretti e quelli indiretti o meglio definiti a breve o lungo termine. Si parla di effetti diretti o a breve termine, quando l’esposizione ai contenuti dei programmi televisivi o ad altri messaggi veicolati dai mezzi di comunicazione di massa, concorre a modificare la probabilità di attuare un determinato comportamento o uno schema cognitivo già esistente.

Se

prendessimo in esame gli schemi che servono per decodificare un serial televisivo, vedremmo il formarsi di questi dopo non molte puntate. Tali schemi guideranno la lettura delle puntate successive e ne condizioneranno il gradimento o la valutazione e così via. Ma più importante è che schemi cognitivi analoghi saranno utilizzati per valutare una situazione reale simile a quella del serial televisivo.

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In questo campo rientrano anche la maggior parte delle ricerche che cercano una relazione diretta tra la visione di un programma che contiene scene di violenza e l’aumento delle probabilità di attuare un comportamento aggressivo. Ricordiamo la teoria dell’apprendimento sociale di Albert Bandura degli anni ’60, che evidenzia l’importanza del comportamento imitativo, secondo cui possiamo affermare che i modelli non solo insegnano un comportamento aggressivo, ma riducono inibizioni nei confronti dell’aggressività dimostrando come può essere efficace farne uso in situazioni problematiche. Gli effetti indiretti o a lungo termine, riguardano invece l’influenza che la rappresentazione della realtà offerta dai media esercita, appunto, nel lungo periodo sul modo in cui noi stessi ci rappresentiamo nella realtà. Noi ricaviamo le informazioni sulla realtà e il nostro ambiente da due fonti principali: la nostra esperienza diretta e il sistema dei mezzi di comunicazione di massa che estendono notevolmente la nostra capacità di conoscere luoghi, cose o persone estranee alla nostra quotidianità. Si viene a formare un problema che riguarda la relazione fra la rappresentazione della realtà che ci costruiamo attraverso i media e la realtà stessa. Numerosi studi hanno affermato che i mass media alterano profondamente il rapporto dell’uomo con la realtà poiché pongono se stessi al posto del realismo. Si è venuta a costituire, specie contro la televisione una sorta di capro espiatorio: la colpa di un aumento della criminalità stessa attribuita direttamente e semplicisticamente alla tv. Chi invece è dalla parte dei media sostiene che essi sono espressione e conseguenza di una società e di una cultura “violenta”; Joseph Klapper sostiene infatti che i mezzi di comunicazione di massa sono specchio della realtà e non formatori di essa. In realtà i mezzi di comunicazione di massa, ancorché sempre più potenti e penetranti, specialmente nel tempo della rete e della diffusione dei social network, sono pur sempre dei mezzi che pur trasportando e intensificando i flussi dei messaggi e lo scambio vengono usati da uomini e

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donne nelle forme più varie.

IL PROBLEMA DELLA VIOLENZA RAPPRESENTATA

Visto l’interesse degli studiosi a proposito delle visioni preoccupanti degli apocalittici, molti politici e filosofi ma anche molti genitori, di conseguenza buon parte dell’opinione pubblica si è interessata alla troppa violenza che invade i nostri mass media, con particolare attenzione alla televisione, soprattutto sugli effetti che questa può causare. “La

rappresentazione

della

violenza

può

influire

direttamente

sul 6

comportamento? In particolare, può avere un effetto più catartico o più imitativo?”

Questa questione attraversa l’intera discussione sulla violenza televisiva. Un dirigente televisivo, facendo riferimento alle ricerche, che verranno trattate successivamente, afferma l’importanza del problema. Un tempo prevaleva una sorta di equilibrio tra la tesi della funzione catartica della violenza rappresentata e la tesi contraria dell’accrescimento della violenza; invece oggi si ritiene che prevalga l’ipotesi della funzione emulativa rispetto alla funzione catartica7. Sempre secondo il dirigente televisivo, un servizio pubblico non può nascondersi dal possibile pericolo di un comportamento emulativo degli spettatori di violenza in tv; questo grazie all’esperienza di numerose ricerche ormai piuttosto sedimentate. Attualmente i più recenti bilanci teorici, riconoscono che la violenza della società è influenzata notevolmente dalla violenza rappresentata. Non possiamo, infatti, ignorare che il mondo sociale indagato sia mutato radicalmente. Le prime ricerche sugli effetti dei media degli anni cinquanta, si 6

M. C. LASAGNI, G. RICHERI, Televisione e qualità. La ricerca internazionale. Il dibattito in Italia, RAI VQPT, Roma, 1996, p. 184. 7 Ivi, p. 184.

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riferivano a un’esperienza sociale che presentava caratteristiche ben diverse da quella attuale. I processi di socializzazione erano più lenti e lineari, le persone crescevano in mondi sociali familiari coerenti e relativamente “incontestati” e solo in un secondo momento incontravano altre agenzie di socializzazione, dall’ambiente scolastico al gruppo dei pari, e infine i mass media. Oggi questi processi si sono notevolmente accelerati, i diversi agenti di socializzazione si sovrappongono e interagiscono secondo nuove modalità, le persone vivono fin dalla prima infanzia immerse in un mondo dominato e saturato dai mass media. Contrariamente a quanto affermava Klapper negli anni sessanta in cui non vi era nulla di certo sulla correlazione, se ne esiste una, tra l’entità delle rappresentazioni di violenza nei mezzi di comunicazione e la probabilità che esse producano degli effetti8.

GLI EFFETTI DELLA VIOLENZA RAPPRESENTATA

Per queste ragioni quando parliamo di effetti, occorre distinguere tra effetti a breve termine e a lungo termine. Quelli a breve termine sono di più facile individuazione sia in esperimenti di laboratorio sia in contesti naturali. Mentre quelli a lungo termine sono di più difficile documentazione, possono manifestarsi dopo molto tempo, in modo imprevedibile per accumulo e interazione di circostanze e fattori che non possono essere dettagliatamente previsti, individuati e valutati nelle loro relazioni significative. L’attenzione di psicologi e sociologi si è concentrata soprattutto sugli affetti individuali dei media violenti. L’interesse maggiore si è diretto verso i comportamenti aggressivi, sebbene non si tratti degli unici effetti e forse nemmeno dei più importanti. 8

Cfr. J.T. KLAPPER, Gli effetti delle comunicazioni di massa, Etas kompas, Milano,1964, p,178

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Vi sono, infatti, anche influenze di tipo cognitivo, sulla conoscenza e le immagini dell’io, degli altri e del mondo; effetti che riguardano la dimensione affettiva, cioè l’interiorizzazione e l’espressione di sentimenti ed emozioni; effetti legati all’acquisizione di valori e modelli normativi che orientano i giudizi e i comportamenti. Tutte le teorie sugli effetti a lungo termine dei media violenti si basano su una visione negativa della tele-dipendenza, una visione normativa dell’uso dei media che attribuisce conseguenze negative a un’esposizione assidua e prolungata, sintomo di un malessere individuale o di un disagio sociale, in particolare dell’incapacità di istituire soddisfacenti relazioni con gli altri nella vita quotidiana.

IL PROBLEMA DELL’AGGRESSIVITÀ

Il primo tipo di effetti a essere stato individuato è la produzione di attitudini e comportamenti aggressivi; questo effetto attira ancora oggi l’attenzione degli studiosi e dell’opinione pubblica. Tarde, sociologo noto per avere elaborato negli ultimi anni dell’ottocento una teoria dell’imitazione come processo sociale, osservava che già in quell’epoca una delle conseguenze dei crimini che avevano ricevuto un maggiore eco sulla stampa e nell’opinione pubblica, come i delitti di Jack lo squartatore, era lo scatenare delle ondate imitative. Da allora il problema dell’imitazione di atti aggressivi è rimasto centrale nel dibattito sulla violenza nei media. Una ricerca interessante condotta negli Stati Uniti sui dati statistici degli omicidi nel corso degli anni settanta, ha mostrato che nei giorni che seguivano importanti incontri di pugilato tra pesi massimi trasmessi in televisione si registrava un aumento di omicidi in tutto il paese. Inoltre si notò che le vittime presentavano perlopiù le caratteristiche del pugile sconfitto.

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Tutti i principali studi che hanno tentato di spiegare il collegamento tra violenza e aggressività dello spettatore, si basavano sul concetto di modello. I media propongono dei modelli personali e di comportamento, che possono suscitare dei processi imitativi. Quando si assume qualcuno come modello, si è più facilmente influenzati da ciò che il modello fa rispetto a quello che dice, come ha ampiamente dimostrato anche la pubblicità. Occorre considerare che i mass media conferiscono prestigio e legittimazione ai personaggi e alle situazioni di cui si occupano, godendone loro stessi. Così i modelli proposti dai media dispongono di una certa forza di attrazione e suggestione. Questo spiega perché ciò che si vede in televisione risulti più suggestivo e influente di ciò che si apprende ascoltando o leggendo. L’esposizione alla violenza rappresentata attraverso quali meccanismi può produrre il pensare, il sentire, l’agire violento in chi guarda? Il cinema e la televisione a volte suggeriscono le modalità con cui realizzare atti violenti. Le cronache di crimini e delitti mostrano in vari casi analogie con situazioni viste al cinema o in televisione. A volte i loro autori dichiarano esplicitamente di essersi ispirati a modelli nella loro preparazione ed esecuzione. Charles S. Clark racconta di come verso la metà degli anni Ottanta, Juan Valdez un ragazzo di 13 anni di Manteca, in California, avesse confessato di aver ucciso il padre di un amico. Quando venne chiesto al ragazzo di spiegare il perché del suo terribile gesto9 questo rispose che non lo sapeva con esattezza ma che lo aveva visto fare in televisione10. Il filosofo contemporaneo Karl Popper a questo proposito scrive “C’è ormai un discreto numero di casi in cui i responsabili di atti criminali hanno ammesso di aver ricevuto ispirazione per i loro crimini dalla televisione. Ed è stato clamoroso il caso di due ragazzi, di dieci anni e mezzo, che a Liverpool hanno rapito e ucciso senza alcun motivo un bambino di due anni nel febbraio del 1993.”11

9 Aveva preso a calci, pugnalato,percosso e strangolato l’uomo con una catena per cani e poi aveva cosparso le ferite di sale. 10 C. S. CLARK, in K. R. POPPER, Cattiva maestra televisione, Marsilio, Venezia, 1994, p. 56 11 K. R. POPPER, Op. cit., p. 18

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Osservare scene di aggressione può evocare e innescare altri pensieri e sentimenti di ostilità e aggressione, questo viene definito effetto priming. Secondo tale prospettiva, molti degli effetti a breve durata derivano da un processo cognitivo, perlopiù inconsapevole e involontario, che fa scattare un’associazione significativa tra l’evento rappresentato, i pensieri e i sentimenti già presenti nello spettatore, richiamati e in certo modo attivati sulla base di una varietà di fattori quali: la similarità o un’altra forma di associazione o relazione nei significati o nei contesti. Gli studi sull’effetto priming offrono una prospettiva utile a spiegare in termini cognitivi l’immediato effetto d’istigazione dell’aggressività verso gli altri o se stessi che può essere indotto dalla violenza rappresentata. Questi studi si sono diretti quasi esclusivamente sugli effetti a breve termine, anche se alcuni autori ritengono che frequenti esposizioni alla violenza televisiva possono facilitare anche la fissazione a più lungo termine di forme di pensiero aggressivo. Tale approccio però non considera le dimensioni relazionali che mediano l’accettazione e la riproduzione di comportamenti violenti,

che

invece

assumono

maggiore

rilievo

nella

prospettiva

dell’apprendimento sociale della violenza. “Se loro lo fanno, posso farlo anch’io”. Guardare personaggi, sia nel quotidiano che attraverso i media, che ricorrono alla violenza può spingerci a imitarli, indebolendo le inibizioni precedentemente apprese verso i comportamenti violenti. I primi esperimenti sull’apprendimento dell’aggressività attraverso l’osservazione di modelli violenti furono condotti dallo psicologo Bandura all’inizio degli anni sessanta. Questi furono eseguiti nell’ambito della teoria dell’apprendimento sociale, sempre elaborata negli stessi anni dallo psicologo. Secondo questa teoria gli individui apprendono il comportamento sociale attraverso tre diversi percorsi. Le persone apprendono innanzitutto per esperienza diretta, poi attraverso l’osservazione del comportamento di

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persone reali in ambienti sociali nei quali sono fisicamente e socialmente integrati. Infine l’apprendimento può avvenire con l’osservazione di modelli e situazioni attraverso i mass media. In questi esperimenti dei bambini potevano vedere attraverso uno schermo persone adulte picchiare una grossa bambola di plastica. I modelli inveivano contro la bambola, la scagliavano a terra, la colpivano con calci e pugni e con oggetti. Altri bambini invece venivano posti alla visione di scene non violente. Successivamente i bambini potevano giocare con diversi giocattoli, tra cui una bambola uguale a quella vista nello schermo. È risultato che i bambini esposti al modello violento erano più portati a colpire e picchiare la bambola. La possibilità di una risposta aggressiva nel bambino aumentava poi notevolmente in presenza di due fattori: avere subito una frustrazione successiva; osservare che il comportamento aggressivo del modello non veniva inibito e punito. Secondo Bandura la televisione costituisce un’importante tutore, un pedagogo, spesso negativo, per i bambini e i giovani offrendo a essi modelli di aggressività e violenza. L’idea di fondo è che i mass media possano influire in modo significativo sui processi di socializzazione, in particolare sul profilo di valori che l’individuo assume come i propri personali criteri di orientamento e di giudizio. La preoccupazione che i mass media potessero costituire una scuola di aggressività e delinquenza era già espressa in una delle prime ricerche degli anni trenta, basata su una serie di interviste e osservazioni su carcerati “attraverso l’esibizione di tecniche criminose e di schemi di comportamento criminale; facendo nascere il desiderio di ottenere senza fatica denaro e lussi; suggerendo metodi discutibili per raggiungere queste mire; facendo sorgere uno spirito di malintesa avventurosità, durezza e imitazione di bravate; sollecitando intensi desideri sessuali; e inducendo a sogni ad occhi aperti di ruoli da criminale i film possono

creare

atteggiamenti

e

fornire

tecniche

che

portano,

del

tutto

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involontariamente, a un comportamento delinquente o criminale.”12

Sessant’anni dopo, Bailey (1993) intervistando condannati per reati aggravati e reati sessuali, conclude che la violenza televisiva ha avuto in un quarto dei casi di aggressione un ruolo significativo. Indubbiamente l’apprendimento televisivo della violenza è un fatto. Secondo la prospettiva dell’apprendimento sociale, mediale, della violenza, l’esposizione ripetuta ai modelli violenti dei mass media tende non solo a produrre un comportamento violento di imitazione a breve termine, ma ad un orientamento più generale della persona verso valori indesiderabili e socialmente pericolosi. Qui si pone il problema degli effetti a lungo termine di una lunga esposizione a contenuti violenti, che ha ispirato una serie di studi longitudinali. Svariate ricerche condotte soprattutto negli Stati Uniti a partire dagli anni settanta, da organismi governativi e professionali, hanno confermato che un’assidua e reiterata esposizione alla violenza dei media favorisce comportamenti aggressivi. In un ampio studio condotto da Huesmann e Heron (1986) che ha coinvolto cinque diversi paesi su un periodo di sei anni, aggressività ed esposizione alla violenza televisiva risultavano interdipendenti. In particolare una precoce e abituale esposizione si correlava alla possibilità di comportamenti criminali in età adulta. Come può questa esposizione produrre un processo di apprendimento sociale della violenza? Secondo Huesmann il comportamento sociale è in gran parte controllato da copioni cognitivi che si formano nel corso della crescita del bambino. Questi copioni si costruiscono attraverso l’esperienza diretta oppure attraverso l’osservazione di modelli, come quelli dei media. Osservando una grande quantità di violenza reale nelle relazioni interpersonali o di violenza rappresentata dai media il bambino può 12

BLUMER, HAUSER, 1933, cit. in J. T. KLAPPER, Op. cit., p. 181

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sviluppare e fissare copioni aggressivi. Non tutti i copioni potranno essere recuperati e attivati, Huesmann assegna un’importanza particolare alla similitudine tra situazione rappresentata e l’ambiente reale in cui l’individuo si trova ad agire, per un recupero dei campioni. Mentre altri autori sottolineavano il nesso tra aspetti cognitivi e relazionali; ritenevano che si dovesse realizzare: un processo di disinibizione dell’aggressività, che indebolisce e riduce l’efficacia dei meccanismi inibitori che la famiglia e altri agenti di socializzazione oppongono alla libera esplicitazione degli

impulsi aggressivi e violenti; un progressivo ri-

orientamento dei valori e delle credenze dell’individuo verso modelli che comportano l’accettazione e la giustificazione di comportamenti violenti. Questo processo di generalizzazione simbolica è basato su due meccanismi fondamentali: il meccanismo delle gratificazioni/ punizioni e l’assunzione del ruolo dell’altro. Nel primo gli individui tendono a riprodurre e consolidare quei comportamenti che vengono premiati e quindi fonte di gratificazione, mentre lasceranno cadere i comportamenti disapprovati. Anche i media possono esercitare questa funzione, quando la violenza appare un mezzo efficace e normalmente utilizzato per raggiungere scopi o risolvere conflitti nelle relazioni interpersonali, viene a rivestirsi agli occhi del destinatario valori positivi e in un certo modo legittimata, mentre ciò non accade quando essa viene punita ed esecrata. Nel secondo, i modelli di valore risultano più persuasivi quando vengono incarnati nelle persone che amiamo e ammiriamo, ma anche in modelli positivi di personaggi reali o immaginari che incontriamo nei media. La stima per una persona o personaggio che assumiamo come modello diventa il tramite per l’acquisizione di quei valori e di quelle norme che incarna e rappresenta. Se chi usa la violenza in tv e nei film appare come un modello sociale vincente e affascinante, oppure se la sua azione non viene punita ma premiata, la violenza appare più utile, buona e giustificabile. Questo meccanismo entra in funzione anche nei confronti della vittima;

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quando questo è attraente, presenta caratteristiche simili agli spettatori o vengono mostrati realisticamente il dolore e la sofferenza che essa prova, aumenta nello spettatore il senso di ansietà e di rifiuto della violenza. La violenza è più accettabile quando non mostra conseguenze sulla vittima; lo è anche quando questa è lo stesso malvagio o il protagonista negativo; quando infine si disumanizza la vittima o il nemico, riducendo in tal modo l’ambivalenza psicologica legata ai processi di identificazione con l’altro. La violenza dei media può alimentare anche l’aggressività verso se stessi, fino alla forma estrema di violenza auto-inflitta che è il suicidio. Il suicidio per imitazione si è presentato numerose volte nel corso dei secoli e non è legato esclusivamente all’avvento dei giornali, della radio e della televisione. La prima epidemia di suicidi per imitazione di cui si ha notizia, e che ha dato origine alla stessa espressione che indica l’effetto, si è verificata in Germania all’indomani della pubblicazione del romanzo di Goethe I dolori del giovane Werther (1774). Lo stesso accadde dopo la pubblicazione di Le ultime lettere di jacopo Ortis (1802). Il problema dei suicidi per imitazione è riemerso con prepotenza negli Stati Uniti a partire dall’inizio degli anni sessanta. All’indomani del suicidio di Marylin Monroe si è notato infatti nella città di Los Angeles un netto incremento di suicidi. Due fattori sembrano spiegare l’ondata dei suicidi per imitazione che ne seguì la morte: il modo in cui la notizia venne presentata dai media e l’identificazione con la suicida. La relazione tra la copertura dei media e l’incremento dei suicidi è emersa da vari studi successivi. Phillips (1974) in un’ampia ricerca, ha mostrato che quando il suicidio di una persona nota riceveva una notevole attenzione da parte dei mass media si registrava una certa crescita del numero di persone che si toglievano la vita nel mese successivo. Maggiore era lo spazio che i media davano alla notizia, più ampio risultava l’effetto. L’effetto Werther si può verificare anche in relazione a un racconto di fiction, un aumento dei suicidi si era registrata in Germania negli anni ottanta

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in seguito alla trasmissione di una fiction televisiva, il cui tema era il suicidio di un ragazzo normale con problemi nei rapporti con i genitori, la ragazza, gli insegnanti, gli amici. Nelle settimane successive si notò un aumento notevole nel suicidio di giovani maschi che avevano scelto la stessa modalità del protagonista. Una ricerca svolta in Inghilterra sull’influenza di tre film, ha rilevato che l’imitazione riguardava la tecnica ma non ha comportato un’importante aumento nei suicidi. Quindi l’effetto imitativo sembra dipendere da: l’identificazione con la vittima; la copertura mediatica e le modalità di presentazione con uso di toni emotivi o sensazionalistici; anche se l’episodio non è reale.

CATARSI, UN POSSIBILE EFFETTO POSITIVO

Altri studiosi, riferendosi alla teoria di Aristotele13, hanno ipotizzato che la rappresentazione di atti criminosi o violenti nei media possa avere un effetto positivo. L’esposizione a drammi e scene di violenza cinematografica o televisiva, può assolvere anche una funzione catartica. Partecipare a una situazione drammatica o violenta in modo virtuale, simbolico, ma con un forte coinvolgimento emotivo, può favorire una scarica innocua, forse salutare, delle tendenze aggressive; può favorire una depurazione delle emozioni negative e socialmente pericolose. Questa tesi, risalente agli anni cinquanta, può trovare riscontri empirici, se riferita a singole situazioni e a particolari momenti di stress, ma mantiene un valore essenzialmente congetturale, non comprovato da una base sufficientemente solida di ricerche empiriche, per ciò che riguarda un apprendimento a più lungo termine di valori e comportamenti pro-sociali. 13 Il filosofo aveva sostenuto che assistere alle tragedie offriva agli spettatori uno sfogo emotivo (catharsis) capace di liberarli da sentimenti negativi come pietà e paura. Vedendo i personaggi del dramma vivere eventi tragici, lo spettatore presumibilmente si purificava dei propri sentimenti negativi e questo processo aveva delle conseguenze positive non solo per l’individuo ma anche per la società.

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LA PAURA

La paura è un altro effetto della violenza televisiva, si può avere come reazione a eventi reali ma anche a racconti di fiction. La reazione è maggiore se vi sono somiglianze tra la rappresentazione televisiva e l’esperienza e l’ambiente di vita dello spettatore. La paura diminuisce se il destinatario impiega procedure cognitive per prendere la distanza da quello che sta vedendo “ma via, sono solo effetti speciali!”; mentre la reazione sarà maggiore se egli tende a calarsi e a identificarsi nelle situazioni e nei personaggi. Infine la reazione aumenta in persone più emotive e impressionabili poiché implica coinvolgimento emotivo. Accanto a reazioni di paura acuta, legate a eventi reali o rappresentazioni particolarmente drammatici, è possibile evidenziare un altro effetto dell’esposizione alla violenza che emerge da un più lungo processo di coltivazione televisiva. Questa prospettiva di analisi ha come presupposto l’idea che la televisione non sia solo l’insieme di diversi contenuti, di programmi e generi, ma un mondo unitario e coerente. “I telespettatori entrano e “abitano” ogni giorno per un certo numero di ore, anche molte ore, dentro questo mondo dal quale ricavano idee, opinioni e norme di comportamento su una grande varietà di situazioni della vita reale. La televisione domina l’ambiente simbolico della vita moderna, entra prepotentemente nei processi di costruzione del senso comune, si intreccia con pratiche e le routines quotidiane, costituisce il comune denominatore culturale di persone e gruppi sociali anche molto diversi e lontani tra loro.”14

Durante gli anni settanta, nell’analisi dei media questa prospettiva ha segnato un vero e proprio punto di svolta; orientandola verso gli effetti a lungo termine. Da questa ricerca longitudinale è emerso che i media 14

G. GILI, La violenza televisiva, Carocci, Roma, p.144

19


proponevano una visione della realtà stereotipata, selettiva e distorta. “La popolazione all’interno del mondo televisivo era distribuita in modo iniquo e professionisti e ruoli sociali godevano di una visibilità molto differenziata. La televisione tendeva a mostrare in prevalenza persone appartenenti alle classi medio-alte. Le donne comparivano assai meno degli uomini ed erano generalmente più giovani. Anziani e bambini erano poco presenti, così come gli appartenenti alle minoranze etniche, di solito relegati in ruoli secondari. Mentre i colletti blu e gli addetti ai servizi costituivano ormai oltre i due terzi della popolazione affettiva, solo un quarto dei personaggi televisivi apparteneva alle categorie professionali. Godevano invece di grande visibilità coloro che si occupavano di affari e finanza, manager e professionisti, ma anche le autorità statali e le forze dell’ordine, in particolar modo giudici e poliziotti. E, in modo complementare, criminali e fuorilegge.”15

La televisione appariva letteralmente intrisa di violenza. Il delitto e il crimine avevano una frequenza dieci volte maggiore che nella vita reale. Una seconda linea di ricerca tentava di identificare i caratteri fondamentali del processo della coltivazione televisiva. Dalle ricerche risultò che le persone portate a sovrapporre con facilità e a confondere l’immagine del mondo televisivo e quella del mondo reale erano coloro che trascorrevano più tempo davanti alla televisione. Nei forti consumatori si produceva una specie di slittamento cognitivo, per cui erano più inclini a ritenere che il mondo reale presentasse le stesse caratteristiche del mondo televisivo. “La tesi centrale della teoria della “coltivazione televisiva” è dunque che quanti “vivono” per un maggior numero di ore al giorno nel mondo televisivo presentino un “differenziale di coltivazione” rispetto ai telespettatori meno assidui: in loro lo spostamento di realtà appare più significativo. Sono perciò anche più inclini a credere che il mondo reale presenti quei caratteri di violenza e insicurezza che caratterizzano il mondo televisivo.”16

15 16

Ivi, p.145 G. GILI, Op. cit., p.146.

20


Dunque gli spettatori più assidui rappresentavano il mondo reale come quello televisivo, essenzialmente malvagio. Questo tendeva a creare stati d’ansia, timore, insicurezza e senso del pericolo verso l’ambiente sociale in cui vivevano. In secondo luogo venivano proiettati sul mondo un senso di alienazione e di tristezza, quindi il mondo reale non solo appariva pericoloso e malvagio, ma anche popolato da individui egoisti di cui non ci si può fidare. In sintesi, lo slittamento di realtà prodotto dalla coltivazione televisiva genera diffidenza e ansia generalizzata, uno stato emotivo duraturo e diffuso che rende difficile instaurare rapporti con gli altri e con il mondo. Alcuni studiosi, tra cui Gerbner, ritenevano che “La “coltivazione televisiva” dell’insicurezza e della paura sia funzionale al rafforzamento delle componenti integrative e di controllo sociale nella società. Il senso di pericolo,di insicurezza e di vulnerabilità, coltivato quotidianamente all’insegna dello spettacolo e del divertimento, può stimolare non tanto sentimenti di aggressività, quanto soprattutto un desiderio di ordine e di repressione della violenza e della devianza.”17

Questa teoria è stata criticata da numerosi ricercatori ritenendola alquanto semplicista e riduttiva. Tuttavia numerose ricerche, hanno confermato il dato secondo cui nei forti consumatori si presenta più spesso una visione della realtà ispirata da ansia e paura, anche se riferita a programmi di contenuto più realistico.

L’ASSUEFAZIONE E DESENSIBILIZZAZIONE, L’ABITUDINE ALLA VIOLENZA

Un altro effetto è costituito dall’assuefazione alla violenza. Qui la violenza perde il suo carattere eccezionale e inquietante. Gli spettatori 17

Ivi, p.147.

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tendono a considerare il comportamento violento come più normale e accettabile, o almeno esso tende a suscitare un minore senso d’ansia e paura. Si ha un atteggiamento di maggiore indifferenza e neutralità affettiva non solo verso le immagini ma anche verso la violenza reale. Varie ricerche hanno tentato di analizzare queste situazioni. “In una di esse, bambini e giovani maschi che avevano assistito a una fiction violenta sono risultati emotivamente meno sensibili di fronte alla successiva visione di una breve sequenza filmata che mostrava un atto di aggressione in termini realistici rispetto ai membri del gruppo di controllo che invece avevano assistito in precedenza a un film di argomento non violento.”18

Generalmente gli studiosi tendono a enfatizzare l’aspetto della desensibilizzazione emozionale nei confronti della violenza rappresentata o reale. Dai risultati delle ricerche emerge anche un’altra osservazione sulla relazione tra assuefazione alla violenza e attivazione di comportamenti aggressivi. L’assuefazione non implica necessariamente una riduzione dell’inclinazione aggressiva, ma possono intrecciarsi e costituire due effetti complementari. Come suggeriscono molte ricerche empiriche sull’apprendimento sociale della violenza da un lato, dalle dichiarazioni di molti giovani autori di delitti dall’altro, l’indebolimento della partecipazione emotiva e la reazione morale di rifiuto della violenza può favorire i processi di disinibizione dell’aggressività come conseguenza di una percezione più superficiale e incosciente della violenza e delle sue conseguenze. Cousins

già

nel

1949

aveva

rilevato

questa

disinibizione

dell’aggressività, ritenendo che i fumetti dell’orrore e la televisione fossero le cause prime di una cattiva condotta e delinquenza giovanile; egli citava i casi di bambini disinibiti da questi mezzi: “In un sobborgo di Boston, un ragazzo di nove anni mostrò, riluttante, a suo

18

G. GILI, Op. cit., p.148.

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padre la pagella pieni di insufficienze e quindi propose un mezzo per risolvere la situazione: si poteva inviare all’insegnante, per Natale, una scatola di cioccolatini avvelenati. ‘È facile, papà; l’hanno fatto la settimana scorsa alla televisione. Un signore voleva uccidere sua moglie, così le mandò dei dolci con del veleno dentro e lei non seppe chi l’aveva fatto’. A Brooklyn, New York, il figlio di un poliziotto, di sei anni, gli chiese dei proiettili veri perché la sorellina ‘quando le sparo non muore davvero come muoiono tutti quelli che Hopalong Cassidy uccide’. A Los Angeles, una domestica sorprese un ragazzo di sette anni nell’atto di versare del vetro macinato entro una pentola in cui cuoceva la cena per la famiglia. Non vi era malizia in questo atto. Si trattava soltanto di un esperimento: il bambino era soltanto curioso di sapere se nella realtà questo sistema funzionasse altrettanto bene che per televisione.”19

Nel caso dell’esposizione televisiva, l’effetto di banalizzazione o trivializzazione della violenza sembra derivare dalla stessa logica della programmazione di flusso. È questa visione ininterrotta a favorire l’effetto a lungo

termine.

L’assuefazione

e

la

desensibilizzazione

derivano

dall’abitudine a una violenza più normale e quotidiana. Due aspetti appaiono particolarmente rilevanti. Il primo riguarda le news e la continua ininterrotta serie di violenze, tragedie e dolori di cui ci rendono testimoni. McLuhan osserva che, grazie ai mezzi di informazione, il mondo è diventato un teatro globale, in cui siamo tutti protagonisti e attori. Scrive in The global village “Il campo elettrico della simultaneità coinvolge tutti nelle problematiche degli altri, e tutti gli individui, i loro desideri e le loro soddisfazioni sono compresenti nell’era della comunicazione.”20

Questa osservazione di McLuhan contrasta con il cinismo della legge giornalistica che stabilisce una scala graduata della relativa notiziabilità per i

19 20

J. T. KLAPPER, Op. cit., p.179 M. MCLUHAN, The global village, cit in G. GILI, Op. cit., p. 150

23


disastri21. Tale insensibilità professionale coltiva l’insensibilità dei riceventi. Secondo questa logica dell’informazione televisiva si va favorendo un’esposizione distratta agli eventi che coinvolgono gli altri uomini, anche i più violenti e drammatici. Il secondo riguarda la fiction; si è notato che l’effetto di trivializzazione può derivare anche dall’estetizzazione o dall’umorismo di cui può rivestirsi la violenza. Nel primo c’è una sorta di assuefazione alla violenza “bella” della fiction che spinge all’imitazione, in bilico tra naturalezza del gioco e la gratuità del piacere. Nel secondo caso, la violenza viene rappresentata in un contesto umoristico che suscita risate e divertimento. Le situazioni umoristiche in genere producono un effetto terapeutico. Quando però la violenza diventa umoristica, finisce per apparire più accettabile, perde di gravità e drammaticità. Viene evidenziato anche un quarto effetto. Per alcuni studiosi la principale conseguenza dell’irruzione dei mass media nella vita delle persone fin dai primi anni di vita determinerebbe una specie di comprensione e accelerazione del processo di socializzazione che conduce i bambini e gli adolescenti a diventare adulti anzitempo, senza che siano adeguatamente maturati gli schemi cognitivi e morali d’interpretazione della realtà. Nei primi anni di vita si formano quelle certezze fondamentali che lo accompagneranno per tutta la vita. Questo processo è avvenuto per generazioni in un ambiente familiare, relativamente incontestato, protetto, un sistema di relazioni sociali coerente. Negli ultimi decenni, questo sistema è stato messo in discussione dalla precoce scolarizzazione e dalla presenza della televisione come ospite fisso della vita domestica. La casa, la famiglia ha perso il suo carattere di ambiente protetto. Il bambino viene a conoscenza e si confronta fin dai primi anni di vita con altri modelli personali, di valore e di comportamento. Questi gli prospettano altri modi di essere e di agire spesso in conflitto con quelli familiari, senza le necessarie mediazioni e 21

un europeo equivale a 28 cinesi e 2 minatori gallesi equivalgono a 100 pakistani.

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salvaguardie. Secondo la tesi di Postman (1982) questa accelerazione e compressione del processo di conoscenza sociale porta a una vera e propria morte dell’infanzia. I mass media audiovisivi, introducono i bambini nel mondo degli adulti, senza che ne siano preparati. “Troppo presto si trovano a contatto con dei modelli improntati a un realismo, e anche un cinismo, riguardo a ciò che ci si può aspettare dalla vita e dagli altri, che distrugge in loro quella condizione di credulità, di fiducia e di innocenza che caratterizza la vita infantile.”22

Il grande meccanismo che rende possibile questa socializzazione anticipatoria è sostituito dalla rivelazione del retroscena. Secondo Meyrowitz la televisione mostra apertamente il retroscena di molte situazioni sociali e questo produce delle profonde modificazioni nel rapporto tra uomini e donne, nella visione dell’autorità e nello stesso processo di socializzazione. L’effetto fondamentale della televisione sta nell’aver modificato il modo con cui i bambini guardano il mondo degli adulti. Imparano molto prima, in modo crudo e senza tanti complimenti o cautele, che gli adulti possono essere corrotti, violenti, mentitori. Questo spiacevole retroscena gli si presenta troppo presto, prima che il bambino sia in grado di elaborare adeguatamente un processo di disincanto. Per cui, dopo anni di fruizione di violenza televisiva, il bambino è portato a credere che la violenza, l’aggressività e l’inganno siano normali, nelle relazioni interpersonali. Non bisogna però dimenticare che il mondo televisivo non è lo specchio del mondo reale, ma ne presenta un’immagine più violenta e pericolosa. 22

G. GILI, Op. cit., p. 152

25


In una situazione simile, chi ha il compito di educare il bambini, faticherà ad offrire un’immagine coerente dell’io e della società. Si ha una sorta di socializzazione anticipatoria alla disillusione e alla sfiducia. La televisione con la sua rappresentazione distorta del mondo, porta a pensare che i modelli di valori e di comportamento proposti dagli adulti siano una finzione, rendendo il compito educativo dei genitori più difficile, e generalizzando il rischio dello sviluppo di personalità disincantate e ciniche.

LA VIOLENZA RAPPRESENTATA SULLA SOCIETÀ

Passando in rassegna i diversi approcci e avvicinandoci alle prospettive più complesse, come quella di Gerbner e Meyrowitz, emerge che i media violenti contribuiscono a creare anche l’ambiente simbolico, il clima culturale della società. I problemi sociali come ricorda Griswold sono dei costrutti culturali, e non semplicemente dati. “Il mondo è pieno di eventi paurosi, tragedie private, deprivazioni persistenti e su larga scala… A volte, comunque, la sofferenza umana che “capita” viene trasformata da un mero accadimento in un oggetto culturale significativo, che viene a sua volta designato come problema sociale. Quando si compie questa trasformazione, diventa possibile per la gente cercare soluzioni, perché l’esistenza di un “problema” implica l’esistenza di una “soluzione.”23

I media contribuiscono in modo significativo alla costruzione culturale dei problemi sociali. Secondo le leggi della teoria dell’Agenda setting24, certi tipi di violenza o di devianza amplificati ed enfatizzati dai media, vengono portati al centro 23

W. GRISWOLD, Sociologia della cultura, il Mulino, Bologna, 1997, p.133, op. cit. in G. Gili, Op. cit., p. 154 La teoria dell’Agenda setting (McCombs e Shaw 1972) afferma che i media hanno la capacità di imporre non tanto le opinioni su singoli temi, quanto la gerarchia per importanza di quei temi presso l’opinione pubblica. I media svolgono una funzione di gatekeeping, un “portierato” che fa passare alcuni argomenti e notizie, e altri no. 24

26


dell’attenzione dell’opinione pubblica e sovraccaricati emotivamente, cosicché anche altre istituzioni sono spinte a prendere posizione e a intervenire. La rappresentazione della violenza non influisce solo sul clima d’opinione ma può influenzare anche sull’azione delle istituzioni che si occupano di violenza sociale. Quest’influenza

può

verificarsi

sia

sui

modi

di

agire

e

sull’organizzazione; sia sui processi di legittimazione o delegittimazione. In una società dove i media spesso sono i mediatori e i gatekeepers dell’accesso al pubblico, essi sono in grado di imporre adattamenti alle altre istituzioni di modificare i loro codici comunicativi e i loro modelli d’azione. Quelle che subiscono maggiormente quest’influenza sono quelle politiche, giudiziarie e del controllo. Il modo in cui viene trattata la violenza, la criminalità e la devianza nei media, influisce anche sui processi di legittimazione e delegittimazione delle istituzioni. Gerbner suggerisce che la rappresentazione televisiva di un mondo violento e pericoloso faccia aumentare il senso di insicurezza e di vulnerabilità negli individui, stimolando il desiderio di ordine che agisce nel senso di una legittimazione delle istituzioni del controllo sociale e dell’accettazione di misure anche repressive da esse disposte25. Al contempo, l’intervento dei media in situazioni che riguardano direttamente tali istituzioni, come nei processi giudiziari che dividono l’opinione pubblica, crea delle definizioni che possono influenzare quelle delle istituzioni. I media possono diventare dei tribunali che interferiscono sull’operato delle autorità competenti o sui comportamenti dei soggetti realmente coinvolti; si crea nei fatti una doppia verità, una verità parallela. La giustizia televisiva affianca e si sostituisce alla magistratura nel decretare l’innocenza o la colpevolezza. Come abbiamo visto, la violenza rappresentata è correlata a molteplici 25

Cfr. G.GILI, Op. cit., p. 156

27


effetti; non solo su singoli spettatori, ma anche sulla stessa società, attraverso la visione deformata che a volte i media danno della realtà o attraverso l’influenza che ha sulle istituzioni, spingendole ad occuparsi delle problematiche che i media ritengono importanti. Quindi in una società in cui i media sono diventati i primi e a volte gli unici dispensatori d’informazione, nessuno può dirsi immune ai suoi effetti.

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CAPITOLO II

LA REALTÀ INFLUENZATA DALLA RAPPRESENTAZIONE DI SE STESSA

NOI E LA REALTÀ

In una società, come la nostra, invasa dai media; gli oggetti di cui ci circondiamo, gli argomenti delle nostre conversazioni, trovano nei contenuti veicolati da questi, continui riferimenti. In questo senso le nostre conoscenze sulla realtà del mondo, come gran parte delle nostre nozioni apparentemente più personali hanno spesso un’origine mediale. La pervasività dei mezzi di comunicazione di massa e l’autorevolezza di cui, in genere, godono o più semplicemente, il fatto che molto spesso essi rappresentano l’unica e più immediata fonte informativa, a cui gli individui possono accedere rispetto a certi aspetti della realtà, genera una significativa dipendenza, in particolar modo questo lo notiamo nelle idee e nelle immagini che questi ultimi possono farsi di molti aspetti della realtà. È riguardo a queste considerazioni che notiamo come gli effetti dei media vadano di fatto ricercati nella costruzione della conoscenza,

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individuale e collettiva, e delle rappresentazioni della realtà che essi sono in grado si contribuire a costruire e a veicolare. È da precisare che la realtà comunicata dai media, è l’insieme delle sue rappresentazioni, versioni inevitabilmente incomplete e più o meno ideologicamente connotate, una realtà quindi di seconda mano1. In particolare, il mezzo televisivo è in grado di proporre immagini della realtà molto simili a quelle derivanti dall’esperienza diretta, potendo quindi indurre nei telespettatori, meno dotati di mezzi critici, una confusa distribuzione tra la realtà e la sua versione televisiva; portandolo a prendere come veri o verosimili determinati stereotipi, assumendoli a volte come universalmente validi2.

REALTÀ DI SECONDA MANO

L’avvento dei mass media ha determinato per molte popolazioni un enorme ampliamento d’orizzonte, dando loro la possibilità di venire a conoscenza di eventi, tematiche, problemi inerenti all’intero pianeta. Questa funzione positiva, tuttavia non si attua in modi sempre corretti. La teoria dell’agenda setting, formulata da McCombs e Shaw, studia le modalità con cui l’attività informativa dei mass media veicola questi nuovi orizzonti. Viene messo in evidenza come i media non si limitano a veicolare dati “puri” sulla realtà, ma assegnano agli eventi, alle questioni, alle persone oggetto delle notizie: una diversa rilevanza, legata alla frequenza e alla risonanza con cui sono stati proposti al pubblico; e una diversa valutazione di merito, esplicita o implicita3. 1

Cfr E. CHELI, La realtà mediata. L’influenza dei mass media tra persuasione e costruzione della realtà, Franco Angeli, Milano, 1993, p. 169 2 Ivi, p. 170 3 Cfr E. CHELI, op. cit., p. 107

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La teoria dell’agenda setting sostiene che la comprensione di gran parte della realtà sociale da parte degli individui è mutuata dai media. Questi, infatti, attuano una selezione, cioè una scelta su quali eventi, questioni, persone debbano essere inclusi nelle notizie da veicolare. Si tratta di una scelta inevitabile, in quanto quello che avviene nel mondo è sempre molto superiore allo spazio disponibile sui mezzi di comunicazione; ciò significa che i media non forniscono rappresentazioni complete della realtà, ma solo porzioni, spesso esigue di essa. Un altro fattore che incide sulla rappresentazione della realtà è la valorizzazione che viene data a una certa notizia rispetto alle altre facendole assumere un ruolo centrale per gli individui. Questi due fattori contribuiscono alla definizione dei confini della realtà, cioè all’inclusione, di dati soggetti, tematiche, eventi nelle mappe cognitive dei riceventi. Altro punto, molto importante, che agisce sulla qualificazione delle notizie è la narrazione. Il modo in cui il problema viene trattato, gli aspetti sottolineati o taciuti, i giudizi più o meno esplicitamente espressi a riguardo, le parole e le espressioni scelte, incidono sulla percezione e la conseguente valutazione di tale problema,e quindi sugli atteggiamenti e le opinioni che su di esso il pubblico si forma. Come evidenziato da questa teoria i mezzi di comunicazione di massa, a volte, ma sempre più spesso, ci portano ad avere opinioni su una realtà filtrata e mediata da loro. Anche Gerbner con la sua cultivation theroy, studia questa mediazione della realtà, non solo in campo informativo con particolare attenzione alla tematica della violenza, sostenendo che vi è una notevole discrasia tra la realtà e l’immagine che di essa ne da la televisione; e che tali immagini distorte possono avere conseguenze molto rilevanti qualora vengano prese per buone dai telespettatori.

31


Gerbner, in sostanza, sostiene che i mass media influenzano ciò che la gente crede della realtà.

LA NARRAZIONE COME STRUMENTO DI COSTRUZIONE SOCIALE

Come messo in evidenza dalla teoria di McCombs e Shaw la narrazione, svolge un ruolo fondamentale nella valutazione negativa e positiva di ciò che viene trasmesso dai mezzi di comunicazione di massa. L’importanza della narrazione, nei processi conoscitivi degli esseri umani, o meglio in quei processi attraverso i quali comprendono e interpretano la realtà, viene messa in evidenza da Bruner nella sua psicologia popolare, ovvero una psicologia “primitiva” del senso comune, che rappresenta il modo con cui nell’ambito di una determinata cultura si tenta di spiegare il comportamento degli esseri umani. Diviene centrale, l’agire dotato di senso ma anche le rappresentazioni e i discorsi con i quali vengono esternate, le une e gli altri strumenti primari di interpretazione dell’esperienza individuale e sociale e, più in generale, della realtà. Secondo Bruner le vere cause dell’agire umano sono la cultura e la ricerca del significato all’interno della cultura stessa4. Nella psicologia popolare vi è la tendenza di rappresentare l’agire umano e l’intera realtà su base narrativa, costruendo di volta in volta racconti con premesse, svolgimenti e conclusioni all’insegna della sequenzialità. 4

Cfr G.LOSITO, Il potere del pubblico. La fruizione dei mezzi di comunicazione di massa, Carocci, Roma, 2005, p. 85

32


“La narrazione, dunque, consente alla psicologia popolare di organizzare l’esperienza e di mettere ordine in essa, “costruendo” in tal modo un mondo comprensibile in cui può trovare posto non soltanto l’ordinario, ma anche l’eccezionale e tutto ciò che è deviante rispetto ai valori e alle norme socialmente condivisi.”5

Come detto sopra la narrazione ha un ruolo fondamentale nei processi di conoscenza, in quanto evidenzia la precipua natura sociale di questi stessi processi, messi in atto all’insegna dell’esigenza di condividere con altri i significati attribuiti e da

attribuire

all’esperienza individuale e sociale. In questo senso la psicologia popolare di cui parla Bruner è un fattore determinante nell’orientare la comprensione e l’interpretazione dei testi mediali, in una relazione circolare tra la stessa e i mezzi di comunicazione di massa. “Fare riferimento alla funzione narrativa dei mass media significa, infatti, disporre di uno strumento concettuale in più per chiarire come e perché il rapporto con il pubblico sia un rapporto d’interazione che si viene determinando all’insegna della reciprocità: come in ogni narrare, il rapporto tra testo mediale e fruitore può essere assimilato alla condivisione di una storia, resa possibile dal fatto che la narrazione, da un lato, e la comprensione del racconto, dall’altro, attingono entrambe alla stessa matrice culturale, agli stessi processi di conoscenza sociale, alle stesse strategie discorsive.”6

I mass media, in particolare la tv, raccontano sempre delle storie. Tra i diversi autori che hanno attribuito alla televisione una funzione “affabulatoria” troviamo J. Fiskie e J. Hartley, i quali attribuiscono alla televisione una funzione “bardica” in quanto assume una valenza culturale e sociale, secondo loro la televisione “canta le gesta della comunità” rielaborandole e rendendole accessibili a tutti, 5 6

Ivi, p. 86 Ivi, p. 86-87

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come facevano i bardi nel passato; questa funzione fa si che abbia un ruolo centrale nel mondo moderno. Infatti, essa individua nella cultura in cui opera i modi di intendere la realtà e i modelli di comportamento e i valori dominanti, proponendoli, rafforzandoli e legittimandoli in modo che essi possano essere accettati e interiorizzati7. Dunque, svolge una funzione sociale come quella della narrazione in generale. Infatti, secondo lo scrittore contemporaneo Paolo Jedlowski,la narrazione è mettere in comune una storia, ed è quindi un fatto sociale che svolge delle funzioni sociali, come quella comunitaria, in cui il narratore e il destinatario entrano in contatto, e la funzione referenziale, che riguarda la condivisione dei contenuti del racconto. “La narrazione si inserisce nel tessuto della vita quotidiana. La nostra vita ogni giorno è costantemente accompagnata, interpretata, duplicata e moltiplicata come in un gioco di specchi dai racconti che ci facciamo gli uni con gli altri.”8

Quanto affermato dall’autore, può essere esteso al rapporto ormai quotidiano che abbiamo con i mass media, anche se con essi non vi è una relazione diretta. “Ascoltiamo le storie narrate dai mass media, le comprendiamo, le interpretiamo e le raccontiamo a nostra volta, per come le abbiamo comprese e interpretate, ad altre persone con le quali le rielaboriamo, spesso comprendendole e interpretandole sotto una nuova luce, o addirittura le reinventiamo, per raccontarle ad altri ancora e con essi di nuovo trasformarle e reinventarle, acquisendo su base sociale competenze narrative che poi utilizzeremo in un nostro rinnovato rapporto con i media e così via.”9

7

Cfr G. LOSITO, op. cit., p. 87-88 P. JEDLOWSKI, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p. 164 9 G. LOSITO, op. cit., p. 89 8

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Come già detto sopra, queste narrazioni mediali non agiscono solo a livello individuale ma più in generale sull’esperienza sociale, contribuendo a formare delle rappresentazioni sociali.

RAPPRESENTAZIONI SOCIALI MEDIALI

Parliamo di rappresentazione sociale quando siamo di fronte a una

realtà

socialmente

condivisa,

esito

e

condizione

della

comunicazione e delle interazioni sociali. Per Moscovici, fondatore della teoria delle rappresentazioni sociali, queste sono “Sistemi cognitivi che hanno una logica e un linguaggio loro particolari, una struttura di implicazioni relative sia a valori sia a concetti; uno stile di discorso che è loro proprio. Noi non vediamo in esse unicamente “opinioni su”, “immagini di” e “atteggiamenti verso”, ma delle teorie, delle “scienze” sui generis destinate alla scoperta del reale e a mettere ordine in esso.”10

Possiamo considerare una rappresentazione sociale come una teoria di senso comune, una teoria socialmente condivisa, spesso caratterizzata da stereotipi e pregiudizi, alla quale si può implicitamente ricorrere per spiegare un determinato aspetto della realtà, rendendolo in tal modo comprensibile e oggetto della comunicazione con altri. Pertanto, non rispecchia la realtà, ma la costruisce in base a conoscenze, credenze, orientamenti di valore diffusi in una determinata cultura. Infatti, nella nostra società sono diffuse rappresentazioni sociali dei più diversi aspetti della realtà. Quali sono i processi che contribuiscono alla formazione di queste rappresentazioni? 10

S. MOSCOVICI, Le rappresentazioni sociali, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 10

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Moscovici ne indica due: l’oggettivazione e l’ancoraggio. Nel primo processo si ha una selezione e un’organizzazione delle informazioni cognitive e valutative che riguardano l’oggetto della rappresentazione sociale e che si vengono a formare nel contesto socio-culturale in cui la rappresentazione stessa prende corpo. Nel secondo, la rappresentazione dell’oggetto in questione viene ricondotta al sistema simbolico, cognitivo e normativo preesistente. Lo schema figurativo formatosi, a questo punto diviene un mezzo per classificare, comprendere e interpretare la realtà attribuendole significati socialmente prodotti e condivisi. La rappresentazione sociale è quindi un punto essenziale di riferimento per affrontare ciò che non è familiare e potenzialmente pericoloso, per orientare di conseguenza le condotte individuali e collettive, quindi per rassicurare e rinsaldare l’identità personale e sociale. I mass media, nelle rappresentazioni sociali contemporanee, svolgono un ruolo fondamentale sia nei processi di oggettivazione e di ancoraggio. Forniscono informazioni nuove e riproducono quelle già esistenti sugli oggetti delle rappresentazioni sociali, attribuendo a queste stesse informazioni una maggiore o minore rilevanza, disponendole in ordine di salienza nella loro agenda e proponendole al pubblico con questo stesso ordine; attribuendo ad esse significati, nell’ambito di schemi coerenti organizzati sulla base di un riferimento esplicito e/o implicito a valori, con la conseguente possibilità di influenzare non soltanto opinioni e atteggiamenti, ma anche la formazione, il consolidamento e l’eventuale cambiamento delle rappresentazioni sociali11. È a proposito di queste considerazioni sul rapporto tra messaggi veicolati dai media e i fruitori stessi, che nella società moderna, possiamo parlare di realtà mediata, in quanto le rappresentazioni individuali e allo stesso tempo quelle sociali, vengono sempre più 11

Cfr G. LOSITO, op. cit., p. 92

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spesso narrate e veicolate attraverso i mezzi di comunicazione di massa; contribuendo a costruire una realtà sempre più fittizia e manipolata.

REALTÀ MEDIATE: UN PROLEMA SOCIALE

Con la nascita degli studi degli effetti dei media, si è sviluppata in parallelo a questi una ricca letteratura critica su i problemi evidenziati dagli studi stessi; molti sono i sociologi, e filosofi che hanno scritto sui problemi che sarebbero potuti sorgere nel vivere in una società invasa dai mezzi di comunicazione di massa, con particolare attenzione alla televisione, che da una rappresentazione della realtà spesso amplificata, soprattutto se guardiamo al tema della violenza; vi sono stati anche politici che durante le loro cariche istituzionali hanno esternato queste preoccupazioni sia negli Stati Uniti, che in Italia. Il presidente degli Stati Uniti durante il suo discorso del primo giugno 1999, faceva sue le preoccupazioni di molte associazioni che si battono contro la violenza in televisione, sostenendo che essa: rende i bambini meno sensibili al dolore e alla sofferenza altrui; li rende più paurosi del mondo intorno a loro; rende più probabile un loro comportamento aggressivo verso gli altri. “I nostri bambini sono stati nutriti da una dose quotidiana tossica di violenza. Ed è una cosa che si vende bene. Ora, trent’anni di studi hanno mostrato che questo desensibilizza i bambini alla violenza e alle sue conseguenze… È possibile nello stesso tempo apprezzare il diritto alla libertà di espressione garantita dal Primo Emendamento e preoccuparsi delle limitazioni necessarie…”12

12

B. CLINTON cit. in, K. R. POPPER, Cattiva maestra televisione, Marsilio, Venezia, 2002, p. 49

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Mentre in Italia alcuni anni prima, in una lettera del 1996 inviata dal Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, alle massime autorità di governo e alla presidenza della Rai; si faceva presente che si doveva intervenire a tutela dei minori, in quanto in quei giorni erano stati trasmessi dei servizi relativi alla vicenda di cronaca dei “Bambini di Satana” in onda sulle reti televisive e radiofoniche della Rai. “…Si tratta di immagini e di espressioni verbali che, per la crudezza e la volgarità delle rappresentazioni – al centro delle quali sono sempre collocati soggetti minorenni e spesso bambini -, travalicano decisamente i confini del lecito, oltre che del buon gusto… Per questi gravi motivi, mi è parso doveroso richiamare la sua attenzione sulla intollerabilità di una situazione che – ella ne converrà certamente – deve cessare al più presto, anche in osservanza di quanto stabilito dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, siglata a New York nel 1989 e resa esecutiva in Italia fin dal 1991, nonché dalla Carta di Treviso, firmata nel 1990 dai giornalisti italiani e da Telefono

Azzurro,

nell’informazione…

in

materia

di

tutela

dei

diritti

dei

minori

13

Dalle parole dei due presidenti, possiamo osservare una palese preoccupazione per la troppa violenza mostrata, ma anche una preoccupazione più generale di un’educazione sbagliata data da programmi troppo poco attenti alla formazione di chi osserva. A questo proposito, il filosofo statunitense Condry, nel suo saggio sul rapporto dei bambini con la televisione, “Ladra di tempo, serva infedele”, sostiene che i bambini osservino la televisione nel tentativo di capire il mondo che li circonda, ma questa fornisce loro una realtà falsata. Facendo notare che l’influenza della televisione non dipende solo dall’esposizione ma anche dai contenuti che essa veicola, in particolate che “Il contenuto della televisione destinata ai bambini presenta personaggi maschili e femminili in ruoli stereotipati; chi guarda molto la

13

O. L. SCALFARO cit. in K. R. POPPER, L’informazione Violenta, Società Aperta, Roma, 1996, p. 37-38

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televisione mostra, nei propri atteggiamenti in fatto di ruoli sessuali, l’influsso di ciò che ha visto in tv. Nel modo di rappresentare le persone molto giovani o molto anziane, i medici e la polizia, o i malati mentali, le convenzioni televisive distorcono gravemente le situazioni della vita reale.”14

Nel suo saggio, mette in evidenza anche il ruolo che ormai ha assunto la televisione, che non è quello di informare circa il mondo reale, ma quello di vendere merci; è ormai uno strumento commerciale, che ha assunto come suoi i valori del mercato. “Scopo primario della televisione, anche quella sua parte che si definisce “istruttiva”, è conquistare l’audience. Anche se la tv istruttiva per lo più non si occupa di vendere prodotti, essa compete con la tv commerciale per l’attenzione del pubblico.”15

Mentre l’autore contemporaneo Sartori, ha una visone forse più apocalittica, in quanto sostiene che la nuova generazione sta subendo, o ha già subito, una “mutazione” da homo sapiens, prodotto dalla cultura scritta, a homo videns, nel quale la parola viene spodestata dall’immagine. Secondo lui ci troviamo in una rivoluzione multimediale caratterizzata dal tele-vedere; nella quale viene creato un nuovo essere umano allevato davanti alla televisione, ancor prima di saper leggere e scrivere. Secondo Sartori la televisione non è soltanto uno strumento di comunicazione o di svago, ma anche al tempo stesso uno strumento per la formazione del fanciullo, il quale riceve il suo stampo formativo, da immagini di un mondo tutto concentrato sul vedere16, del quale ancora non ha strumenti per comprenderlo ed eventualmente difendersi. L’ultimo filosofo di cui riporto le preoccupazioni, ma non per importanza, è il liberale Karl Popper, il quale mette in evidenza il 14

J. CONDRY, in op. cit., K.R.POPPER, 2002, op. cit., p. 85 Ivi, p. 87 16 Cfr G. SARTORI, Homo videns, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 15 15

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ruolo educativo, mal esercitato, dei mezzi di comunicazione, con particolare attenzione alla televisione, e nonostante la sua posizione liberale si pone il problema di una limitazione dell’enorme potere che ha adesso la televisione; sostenendo che l’enorme ruolo educativo di questo mezzo è ormai innegabile e che per questo vada controllato17. Nel suo ultimo saggio “Una patente per fare tv”, definisce concretamente le sue preoccupazioni riguardo la televisione, che già aveva fatto presente in un’importante intervista rilasciata alla Rai nel 1993. Popper sostiene che tra il mezzo televisivo e i piccoli fruitori vi è un problema educativo, in quanto i bambini nella loro evoluzione mentale sono in misura considerevole dipendenti dal loro ambiente, e ciò che noi definiamo educazione influenza positivamente questo ambiente. Il punto è che la televisione è ormai parte di questo ambiente, per il quale siamo ovviamente responsabili18. Secondo lui, per proteggere questo ambiente educativo, dovrebbe essere istituita un’organizzazione per il controllo della disciplina, un organo controllato dai professionisti della produzione televisiva. Istituendo così una patente, un brevetto, che possa essere ritirato qualora vengano infranti certi principi. In questo modo chi opera nel campo televisivo si sentirà in obbligo di rispettare le regole fissate dall’organizzazione. Scopo di questo brevetto sarà soprattutto quello di sensibilizzare, chi è coinvolto nel fare tv, al ruolo di educatore in quanto portano delle immagini sia davanti ai bambini e ai giovani che agli adulti. Chi fa televisione deve sapere di avere parte nell’ educazione degli uni e degli altri19.

17

Cfr K. R. POPPER, 1996, op. cit., p. 18 Cfr K. R. POPPER, 2002, op. cit., p. 75 19 K. R. POPPER, 2002, op. cit., p.77 18

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CAPITOLO III

IL PROCESSO SPETTACOLO, LA MORBOSA ATTENZIONE ALLA VIOLENZA

LA VIOLENZA NATURALE

La violenza fa scandalo e ci spaventa, ma è connessa con la stessa struttura del sociale, è antica come il mondo e da sempre permea la vita collettiva e individuale; importante componente della memoria collettiva. “Le potenze del cielo e della terra, così come le hanno «pensate» gli uomini, sembrano mosse solo da istinti perversi: parricidi, fratricidi, incesti. Dal sangue di Urano, evirato dal figlio Cronos, nascono le Erinni. Gli dei sembrano indifferenti all’ingiustizia e alla sopraffazione. Questo spiega come al fondo di ogni legittimità formale, allora e per i secoli a venire, troveremo spesso un atto di illegittimità sostanziale, un dramma violento. La storia dell’umanità inizia con un crimine orrendo: un fratricidio per futili motivi. Non c’è regno, città, dinastia, movimento ideologico che non abbia i suoi scheletri nell’armadio. Romolo uccide Remo e fonda Roma. Persino la

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religione comincia con una crocefissione che ha tutta l’aria di un errore giudiziario.”1

Possiamo affermare, che nella storia dell’uomo la violenza ha sempre giocato un ruolo a volte importante altre volte marginale. Nell’antichità l’uomo si faceva governare dai propri istinti, conquistando spazi e cose, animali e persone, piacere ed egemonia. I tabù non bastavano, anzi spingevano alla trasgressione. La violenza viene ripagata con altra violenza. La vita quotidiana è costantemente accompagnata dalla paura, la morte incombe come esito inevitabile di una sopravvivenza precaria; la rivalità e i commerci richiedono soluzioni, che affidano alla forza delle armi o al casuale giudizio divino la pacificazione dei conflitti all’interno e all’esterno del villaggio. Poco alla volta, i consociati affidano la loro sicurezza al capo, ai più forti, ai più ricchi, e poi a quello che si chiama Stato con le sue norme, le sue procedure, le sue sanzioni. La vendetta privata diviene illegale; a sua volta nasce il processo, con il compito di separare il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, e di punire il colpevole. La società per evitare la rovina, deve punire il colpevole e ciò serve anche da antidoto alla tentazione di imitarlo. Si ha il passaggio dallo stato di natura allo stato civile in cui l’uomo controlla i propri istinti primordiali e diventa così cittadino. “Questo passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell’uomo un cambiamento molto significativo, sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto, e attribuendo alle sue azioni la moralità che loro mancava. È soltanto allora che la voce del dovere si sostituisce all’impulso e il diritto al desiderio; l’uomo che fino a quel momento aveva

1

L. DE CATALDO NEUBURGER, Mass media, violenza e giustizia spettacolo, CEDAM, Padova, 1996, p.

7

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pensato soltanto a se stesso, si vede obbligato ad agire spinto da altri principi e a consultare la sua ragione.”2

Con questo patto sociale ‘individuo rinuncia alla propria forza incontrollata delegandola allo stato, in cambio di sicurezza e protezione.

LA VIOLENZA DOPO IL PATTO SOCIALE, IL RUOLO CATARTICO DEL PROCESSO

La giustizia assume il compito di eliminare chi rompe il contratto sociale e quello di convincere coloro che non l’hanno ancora sottoscritto. La punizione del trasgressore diventa anche una sorta di ricompensa che lo stato assegna a chi rispetta la legge, come contropartita al fatto di aver rinunciato a imitare o punire con le proprie mani il colpevole; soluzione simbolica che dovrebbe placare l’immaginario e le frustrazioni degli osservanti. Le modalità di realizzazione di questo accordo sono diverse, come sono differenti i modelli di rapporto tra cittadino e stato moderno. Lo stato moderno si avvale di diverse forme di punizione, più o meno violente, legittimandole, attraverso l’apparato giudiziario, per conseguire il suo scopo: rassicurare e proteggere. Ripercorrendo il millennio europeo che va dal X al XIX possiamo evidenziare due modi in cui veniva intesa e praticata la giustizia. Quello derivante dalle consuetudini barbariche che invasero l’Impero Romano, e che possiamo chiamare principio di giustizia retributiva: per ogni offesa criminosa si impone un risarcimento in funzione alla natura della colpa e dell’estrazione sociale del colpevole, 2

J.J.ROUSSEAU, Du Contrat social, op. cit. in, F. GIANARIA e A. MITTONE, Giudici e telecamere, Einaudi, Torino, 1994, p. 4

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in sostituzione della vendetta viene prevista una composizione a favore delle vittime anche senza la mediazione dell’apparato giudiziario. L’altro deriva dal sistema giuridico proprio dell’Impero Romano e si sviluppa come diritto dello stato a reprimere e punire ricorrendo a pene simboliche che giungono ad essere drastiche per i casi: di stregoneria, eresie, incesto, sodomia, incendio, parricidio, infanticidio e assassinio; queste comportavano mutilazioni orribili e pene capitali spettacolari. Si assiste quindi all’abbandono della vendetta privata, la comunità da esecutore diviene osservatore. La vittima, il suo gruppo, il villaggio, diventa pubblico che assiste, impara e controlla3. Le strutture giudicanti si fortificano e professionalizzano. Si costruisce il rito e si moltiplicano le sue regole. Il colpevole diventa semplicemente un imputato e perfino le folle più inferocite, si fermano di fronte al carisma crescente di chi ha il compito di giudicare. La folla ormai pubblico, assiste controlla e impara. Il giudizio diventato spettacolo serve allo stato e alla società stessa per controllare gli istinti dell’individuo, per ammonire lo spettatore. Ecco che la violenza diviene legale, e non solo serve alla giustizia ma assume una funzione catartica, persino educativa. “I vendicatori diventano pubblico, il giudizio spettacolo. A tutto possono rinunciare ma non al nuovo ruolo di spettatore che assiste, controlla e impara. Il processo diventa strumento sempre più autorevole e diffuso, si imbelletta, con addobbi e formule, ma continua ad alimentarsi al suo nucleo primordiale: la vendetta. E la vendetta pretende di mostrarsi, vuole esser consumata lentamente, è ingorda di folla e di palcoscenici. Solo le vendette nascoste delle società segrete e dei gruppi chiusi si compiono in silenzio affinché pochi comprendano e imparino, le vendette legali si lasciano

3

Cfr F. GIANARIA e A. MITTONE, op, cit., p. 7

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ammirare con morbosità dal maggior numero di cittadini che ormai guardano senza sporcarsi le mani.”4

Il processo deve ammonire, insegnare al popolo che il comportamento sbagliato non viene tollerato, e quindi punito, per questo motivo la pubblicità dei processi diviene lo strumento pedagogico essenziale per insegnare a obbedire alla legge. Ma insieme alla funzione educativa del processo cresce un’altra funzione, quella ludica. Lo spettacolo giudiziario diventa un passatempo: un gioco come tanti, affascinante come le sfide di cui non si conosce l’esito in anticipo. Ma quando il processo ci tocca da vicino, allora i tempi della recita diventano eccitanti, si accorre per gustare le ansie visibili dell’imputato, per ascoltare le parole rotte di quegli infelici impigliati in una maglia inestricabile, per partecipare al gruppo al rito sacrificale in attesa del castigo che diventa festa5. La salute del criminale diventa importante per il popolo, che vuole vederlo condannare; una morte da suicida lo deluderebbe. Nelle piazze diventa familiare la forca, strumento di giustizia, che raduna immense folle. “Questi grandi assembramenti si svolgono in un vero e proprio clima di isteria collettiva: le passioni si scatenano, scoppiano sommosse. È un gigantesco delirio comunitario, una celebrazione quasi mistica della morte e del soprannaturale.”6

Il criminale serve, è rassicurante, la comunità distinguendosi da lui, si riconosce nelle proprie abitudini e si sente rimborsata e rassicurata del proprio vivere onesto. Un processo emblematico che costruisce e punisce un capro espiatorio utile a purificare i propri simili dei loro delitti. 4

S. SATTA, Il mistero del processo, Adelphi, Milano, 1994, p. 20 Cfr F. GIANARIA e A. MITTONE, op, cit., p. 10 6 J. C. CHESNAIS, Storia della violenza, Longanesi, Milano, 1982, p. 128 5

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DALLA PUBBLICITÀ IMMEDIATA ALLA PUBBLICITÀ MEDIATA, E IL DIRITTO DI ESSERE INFORMATI

Con l’affermarsi del pensiero politico illuminista, si ha sempre più l’esigenza di trasformare il modo in cui la giustizia viene amministrata per adeguarla alle richieste dei sudditi, che pretendono sempre di più di assumere la veste di cittadini. Per questo la pubblicità dei processi diventa essenziale, come strumento di controllo sull’esercizio della giurisdizione, attuazione concreta della legge. Ormai il pubblico non si accontenta più di assistere compiaciuto, pretende di controllare per conoscere, per formarsi e formare un’opinione, per dissentire. Quindi quando i riformisti liberali individuarono la possibilità di rendere possibile a tutti la conoscenza dei fatti accertati dal giudizio, ma anche rendere effettivo il controllo sui modi in cui si svolgeva il giudizio, cioè la verifica del rispetto del principio di legalità considerato valore cardine della convivenza civile; e sottrarre l’individuo alle violenze e alle torture, non potevano non battersi perché il processo si svolgesse per la maggior parte alla luce del sole. E la pubblicità delle udienze venne individuata come la più idonea garanzia perché si svolgano correttamente, sottoponendoli a quel controllo sociale che si propone come uno dei momenti più caratteristici della democrazia moderna. La pubblicità diventa simbolo di giustizia e libertà, fornendo all’imputato una maggior protezione dalla calunnia e dalla parzialità del giudicante, al giudice un riparo dal sospetto, ai testimoni uno stimolo ad essere corretti e sinceri.

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A questo punto, dopo aver sottolineato l’importanza della pubblicità delle udienze penali, è doveroso fare una distinzione tra pubblicità processuale ed extraprocessuale, o secondo il linguaggio tecnico, tra pubblicità immediata e pubblicità mediata. Con la prima ci si riferisce alla presenza e assistenza di terzi alle procedure giudiziarie; con la seconda si identifica il diverso tipo di conoscenza che si realizza quando i membri di una collettività traggono informazione attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Con l’avvento dell’informazione attraverso i mezzi di comunicazione di massa, anche la forma di garanzia tradizionale del processo, cioè la presenza fisica del pubblico nelle aule di giustizia, è in fase di declino; ormai solo i diretti interessati frequentano le udienze, mentre si ha la possibilità di conoscenza offerta dai mezzi di informazione. Non vi è più l’esigenza di presiedere personalmente nelle aule di giustizia, gli operatori dell’informazione assistono per noi alle udienze, riportandoci in seguito la cronaca del dibattimento. Ecco che l’informazione sul processo acquisisce una crescente autonomia e non si limita ad essere canale di comunicazione verso il cittadino, ma diventa via di ritorno degli umori, delle rabbie, dei desideri della pubblica opinione verso le aule di giustizia. Il flusso informativo non produce effetti solo sul pubblico ma anche sull’attività giudiziaria oggetto di interesse mediale; interazione che incide anche sulle regole e sui contenuti del gioco processuale. Grazie ai mezzi di informazione il cittadino esercita il suo diritto di essere informato, di conoscere quanto lo circonda, di essere messo al corrente di quanto si verifica sulla scena sociale; anche attraverso la pubblicità mediata dei processi. La tutela dell’ambiente e della salute, il rispetto del territorio, il controllo delle amministrazioni pubbliche sono diventati oggetto di interazione tra il mondo giudiziario e i cittadini che ne seguono l’attività.

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Diverso è il rapporto che continua tradizionalmente a legare lo spettatore a un diverso tipo di processi penali, quelli che trattano di crimini e gli effetti dell’anormalità. In queste vicende, da sempre, un legame morboso avvolge il processo e il suo pubblico, mentre i divulgatori devono occuparsi di soddisfare questa insaziabile curiosità7.

UNA MORBOSA CURIOSITÀ

“Nell’immaginario collettivo, il criminale, il suo mondo e i suoi atti occupano un posto specifico e centrale… Deve poter piacevolmente inorridire di fronte alla estranea insondabilità del criminale, così come del folle, del suicida, del mostruoso, del diverso insomma.”8

L’uomo è sempre stato segretamente affascinato dalla violenza, dal “lato oscuro”, dall’agire diversamente rispetto al buon senso, per questo rimane indifferente di fronte alle informazioni dei grandi numeri, alle ben ordinate statistiche, ma reagisce di fronte alla cronaca, al particolare, all’avvenimento che mette in atto una differenza che meglio evidenzia la quotidiana sicurezza del reale. Risulta decisivo il fatto di poter osservare dall’esterno il crimine nelle sue diverse forme. Il criminale diventa oggetto di rappresentazioni pittoriche, letterarie e teatrali, diviene oggetto di spettacolarità; motivo di interesse per alte culture, ma in un secondo momento anche di culture popolari attraverso la cronaca locale sui giornali illustrati e la letteratura d’appendice.

7

Cfr F. GIANARIA e A. MITTONE, op, cit., p. 23 R. VILLA, Percezione e consumo del crimine, in U. LEVRA, La scienza e la colpa, Electa, Milano, 1985, p. 154 8

48


Il processo diventa luogo di evocazione del fatto di sangue e luogo di prefigurazione della pena si combinano per suscitare emozioni di compassione e di orrore. Le pagine dei cronisti rievocano atti inspiegabili che rompono la regolarità del vivere comune; la trasgressione alimenta la notizia, lo stupore per la diversità aumenta, ed accresce l’interesse per l’eccezione. La cronaca giudiziaria fa tesoro di questa aspettativa, distinguendo il piccolo omicidio dal delitto tremendo; mentre il primo viene relegato nei resoconti degli accadimenti banali, il secondo oltrepassa i confini dell’abituale per presentare l’assurdo9. Entra nell’interesse del popolo non solo il criminale, ma l’atto stesso e la vittima, attraverso la descrizione o l’illustrazione dei dettagli. L’interesse e la curiosità aumenta, e la presenza del delitto nella cronaca quotidiana non è più un “fatto diverso”, ma viene eguagliato a tutti gli altri fatto di cronaca. Nella società di massa il delitto è consumabile nel telegiornale, equiparato e omologato a una rete di altri fatti. Il gatekeeper10, conoscendo le aspettative collettive gradua i temi da esporre al pubblico per soddisfarlo e a volte indirizzarlo. La sequenza degli argomenti scelti e presentati costruisce temi nuovi di interesse, li ordina per importanza, stimola campagne di opinione funzionali a innovazioni legislative o cambiamenti di costume. Si può assistere all’azione deformante dei mass media in quelli che vengono definiti pseudo eventi, cioè quei fatti che vengono estratti dall’anonimato

al

solo

scopo

di

attirare

attenzione,

creare

impressione,mobilitare opinione; fatti che altrimenti non avrebbero alcuna rilevanza, vengono trasformati in notizia per essere gettati nei canali dell’informazione di massa.

9

Cfr F. GIANARIA e A. MITTONE, op, cit., p. 24 Selezionatore di notizie.

10

49


Assistiamo dunque alla sopraffazione della notizia rispetto al fatto, come quando quest’ultimo viene compiuto in vista del primo o come quando il momento giudiziario è preparato o sfruttato, al solo scopo di farne cassa di risonanza per obiettivi diversi, per strategie che usano dell’occasione iniziale per fini del tutto estranei11. Viene quindi presentata attraverso i mass media una realtà che ha subito filtri, scomposizioni in classifiche di importanza, inserimenti in categorie preferenziali, titoli e commenti, che la rendono sempre più distante dai fatti e segnano irrimediabilmente la sorte del pubblico mediato, destinato a un ruolo ignorante e passivo. Credere che i fatti veicolati siano oggettivi, è probabilmente illusorio; ma non sarebbe inutile pretendere che vengano fissate e rispettate delle regole che guidano la raccolta e la diffusione dei fatti di

devianza,

per

poter

controllare

gli

effetti

esplosivi

dell’informazione. Quando parliamo di selezione di notizie o di produzione dell’informazione attraverso gli pseudo eventi, dobbiamo constatare l’incidenza nei processi di formazione e di mutamento della percezione collettiva dei fenomeni sociali; in quanto l’informazione stessa, ha il potere di diffondere modelli, costruire immagini, e avere effetti sulla realtà, coltivando la società secondo prospettive politiche e sociali. Dall’altra parte però la società, condiziona e stimola i mezzi di comunicazione di massa con richieste, aspettative, desideri e paure. Entrambi si alimentano di morbosa curiosità verso quello che inconsueto, che attira l’attenzione ed esercita fascino e curiosità, che allo stesso tempo messo, in confronto con la vita quotidiana la fa apparire normale e rassicurante. Inconsueto, che allo stesso tempo esercita il fascino di un “divertimento” dal sapore antico, come quello di poter assistere all’atto violento, anche se questo ci viene raccontato in un secondo momento in un aula di tribunale o attraverso i mass media. 11

Cfr F. GIANARIA e A. MITTONE, op, cit., p. 25

50


Questa particolare attenzione per il criminoso si può considerare come uno strascico di un’antica abitudine alla violenza, lasciata alle spalle in favore di una società moderna; e che si ripresenta nell’interesse morboso verso l’inconsueto. Per queste ragioni, a volte il pubblico mediato del processo è un cercatore di svago, che vuole cogliere nello spettacolo giudiziario i risvolti ludici di una sequenza dall’esito sconosciuto. L’aspetto essenziale del gioco non è infatti nel tipo di emozione prodotta, ma nell’obbedire a una serie di mosse previste e giudicate da regole, all’interno delle quali sono ammessi imprevisti, trucchi e violenze. L’osservazione del processo più essere molto emozionante e coinvolgente, se è vero che esso è a sua volta un gioco, e i suoi protagonisti dei giocatori più o meno corretti. Il legame con la verità dei fatti svanisce e l’attenzione del pubblico si concentra sul racconto della verità giudiziaria, quella ricostruita sul palcoscenico dell’aula. La curiosità viene accesa dal debutto della notizia e si prolunga nei giorni occupati dalla ricerca delle cause del fatto e dallo snodarsi delle cadenze processuali, in cui si contrappongono verità verosimili e inconciliabili. La scena è dominata dall’incertezza che diventa motivo di interesse. Come avviene nel divertimento che nasce dall’azzardo, le regole sono scritte ma l’esito è sconosciuto; come spesso sono i fatti che lo presuppongono. Perfino la sentenza non riesce quasi mai a dissolvere l’enigma che rimane irrisolto e a disposizione dello spettatore perché possa continuare a dubitare, a rifiutare la soluzione dei giudici che non lo hanno convinto, ad attendere un colpo di scena che riapra il gioco. Tutto questo viene reso possibile, anche da un altro elemento che entra nelle aule di giustizia e che è ormai nelle nostre case: la televisione.

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LA TELEVISIONE UN NUOVO MODO DI MEDIARE IL PROCESSO: INFORMAZIONE O SPETTACOLO

Il processo giudiziario entra in televisione, e la televisione entra nelle aule come occhio discreto che ha il compito di controllare, e fare vedere al pubblico quello che avviene all’interno dell’aula. Il pubblico non è più costretto a presiedere fisicamente al processo per esercitare il controllo ma può usufruirne comodamente da casa sua, sarà quindi la televisione insieme agli altri mezzi ad effettuarlo. Ecco che con l’entrata della televisione al fianco dei mezzi tradizionali, ormai accettati, nelle aule giudiziarie ci si pone il problema che questo sia uno strumento di garanzia in più oppure uno strumento altro. È da sottolineare che il problema non riguarda il diritto di informare; i professionisti dell’informazione raccontano e commentano i processi in televisione, e questo è espressione del diritto di cronaca e del diritto di essere informati. Si tratta di analizzare e interpretare gli effetti della ripresa televisiva in aula, sia verso l’interno, in quanto può condizionare la realtà che registrano, sia verso l’esterno, diffondendo a volte una verità incompleta e fittizia12. Tutto questo dipenderà anche dalle modalità d’uso del mezzo, dalla sua maggiore o minore visibilità in aula, dall’utilizzo della diretta o meno, dal grado di completezza o meno della ripresa, dai montaggi. La questione che si viene quindi a formare è la necessità di se il prodotto della presenza della telecamera in aula sia informazione o spettacolo. La televisione, nella società contemporanea, svolge due ruoli molto importanti, quello di informare le persone a proposito di ciò che 12

Cfr F. GIANARIA e A. MITTONE, op. cit., p.39

52


avviene nel mondo, e di divertire e svagare il pubblico; in una visione semplicistica del mezzo queste due funzioni sono ben distinte; purtroppo nella realtà, appare più complicato fare una distinzione netta. Queste due funzioni si possono identificare in due grandi modelli: quello dell’occhio impassibile puntato sui fatti, che osserva e si limita a registrare, e riportare la realtà; e quello che invece inventa la realtà, vede il mezzo audiovisivo come una dimensione autosufficiente che crea eventi specifici, costruiti con strumenti diversi dal reale. Queste due macrovisioni, possono coesistere nello stesso programma e possono coesistere anche nella Tv dell’evento.

LA SPETTACOLARIZZAZIONE DEL PROCESSO: IL CASO ITALIANO E IL PROCESSO PARALLELO

Il problema di definizione degli effetti portati dal mezzo televisivo nelle aule di tribunale, è stato molto sentito in Italia durante gli anni ’90. La televisione aveva già trattato i temi svolti nei processi, utilizzando

però

inchieste

giornalistiche,

che

illustravano

e

documentavano la ricostruzione dei fatti affidati ad una voce fuori campo. Verso la fine degli anni ’80 la RAI lanciò una serie di programmi che utilizzavano la trasmissione in diretta per ottenere un diverso coinvolgimento del pubblico, in fatti e vicende di attualità. Questi nuovi programmi erano caratterizzati da una nuova comunicazione multimediale, che consentiva la partecipazione immediata e diretta alla trasmissione di utenti sconosciuti, che portavano una testimonianza inedita sui fatti trattati; riguardanti casi

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giudiziari, aperti o conclusi, in cui ci fosse qualcosa ancora da chiarire13. Insieme a programmi come “Il testimone”, “Linea diretta” e “Samarcanda”, che utilizzava collegamenti multipli in diretta; nascevano trasmissioni, che trattavano argomenti di cronaca tradizionalmente riservata ai quotidiani, soprattutto della sera ed a periodici specializzati, come “Io confesso” ed “Un giorno in pretura”. Nel primo si assisteva alla confessione di un personaggio misterioso, che raccontava ad una conduttrice, vicende scabrose e drammatiche di cui era stato protagonista; nel secondo, stando comodamente in poltrona potevamo assistere ad un processo penale. È con questa nuova tipologia di programma televisivo, e in particolare con “Una giornata in pretura” che il processo diventa spettacolo; facilitato anche dalla nuova struttura del processo stesso. Infatti, in quegli anni si assiste alla sostituzione del processo inquisitorio da parte di quello accusatorio; innovazione che strutturalmente è adatta alla rappresentazione televisiva. Nel

nuovo

processo

le

parti

diventano

protagoniste

dell’istruzione dibattimentale. A loro spetta il compito di individuare in contraddittorio i temi della prova, i testimoni, i documenti che materialmente costituiranno davanti agli occhi del giudice la prova della colpevolezza o dell’innocenza dell’imputato. Ciascuna parte utilizzerà tutti gli elementi in suo possesso per convincere il giudice delle ragioni dell’accusa o della difesa. “Così la tecnica dell’esame incrociato, le strategie seguite, i risultati delle indagini e contro indagini, tutto concorre a realizzare uno spettacolare confronto tra accusa e difesa davanti al giudice ed al pubblico che assiste all’udienza.”14

13 14

Cfr L. DE CATALDO NEUBURGER, op. cit., p. 204 L. DE CATALDO NEUBURGER, op. cit., p. 205

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In questo modo, il dibattimento può esaltare la figura del pubblico ministero o del difensore, quella dell’imputato più di quella della vittima, o viceversa. Da questi elementi di spettacolarità, nasce il successo di un programma come “Un giorno in pretura”, che soddisfa in modo naturale la curiosità delle persone per le vicende di cronaca nera. Insieme al successo di questi programmi, crescono anche delle opinioni contrarie a questa spettacolarizzazione. Nella stampa di quegli anni non era difficile leggere articoli e trafiletti in cui veniva data voce a questo dissenso; non era difficile trovare giornalisti che si ponessero il problema etico di fare dell’aula di tribunale uno studio televisivo. “È vero che il dibattimento è pubblico. E proprio per questo deve potervi assistere chiunque lo desideri. Ma ciò non vuol dire che chi assiste all’udienza possa trascurare le esigenze di giustizia, né che le aule giudiziarie debbano trasformarsi in studi televisivi.”15

Vittorio Barosio, autore dell’articolo sopra citato, evidenzia sempre nello stesso articolo, l’importanza di moderare la presenza della televisione nelle aule, in quanto è un motivo di distrazione per i presenti nel processo, a differenza dei giornalisti che documentano; inevitabilmente la macchina da presa porta la giustizia sul piano dello spettacolo. In più Barosio si pone un altro problema quello dell’imputato o meglio pone l’accento sul discorso di dare in pasto ai telespettatori un semplice imputato non ancora giudicato colpevole. “Un ultima considerazione, non più giuridica ma morale. Anche se le riprese televisive fossero lecite, è giusto, è bello, è civile che la Rai dia in pasto agli spettatori i momenti di angoscia di un imputato? Ed è giusto che un condannato o, peggio, un semplice imputato sia esibito in effige sull’intero territorio nazionale e venga così « bollato » per sempre? Perché è chiaro che,

15

V. BAROSIO, No alla Tv in aula, in “La Stampa”, 25 settembre 1988

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una volta terminato lo show televisivo, gli spettatori non sapranno mai se alla fine del processo in Appello o in Cassazione, la persona mostrata a tutti sul banco degli imputati sarà risultata colpevole o innocente.”16

Si accusa quindi la televisione di avere poca attenzione per la dignità di chi si trova sulla gogna in quel momento; gli anni sono passati, ed i programmi televisivi si sono moltiplicati, copiati e quasi omologati, ormai sentiamo parlare di processi non solo da giornalisti o in programmi specializzati ma li possiamo trovare anche nei tolkshow, come banale argomento di conversazione da salotto. Mentre nei primi programmi televisivi, in cui venivano trattati questi argomenti, insieme al testimone venivano interrogati specialisti, ora si chiede di esprimere un opinione su eventi scottanti anche al Vip; si ha quasi l’impressione che non si aspetti altro che un momento macabro per andare a indagare su persone, fatti e cose, dare una propria opinione senza rendersi conto del potente mezzo comunicativo che sta veicolando il nostro pensiero, aumentando in qualche modo la morbosa curiosità, già presente nelle persone, per fatti di cronaca nera. Alle volte il mezzo televisivo si veste da investigatore, accusatore, e giudice allo stesso tempo, dando in pasto al pubblico un capro espiatorio che non sempre combacia con il colpevole giudiziario; portando il pubblico a dubitare del sistema giuridico contemporaneo, che non è di certo perfetto, e degli specialisti che si occupano di indagare sulla verità, creando in loro la presunzione di avere la soluzione al delitto, grazie alle poche e manipolate verità che la Tv stessa fabbrica e veicola allo spettatore. Possiamo

quindi

assistere

non

più

ad

un

processo

spettacolarizzato in cui la tv entra nelle aule e riporta anche se non interamente la verità giudiziaria a cui assiste; ma siamo di fronte alla creazione di un processo parallelo, portato avanti da conduttori vestiti da giudici fittizi in cui delle volte non si tiene conto della verità 16

Ivi

56


propria, ma di una verità di comodo, cioè quella che attira di più l’attenzione e procura audience.

57


BIBLIOGRAFIA

LUCIANO ARCURI, Crescere con la Tv e Internet, Il Mulino, Bologna, 2008 JEAN BAUDRILLARD, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Raffaello Cortina, Milano, 1996 ENRICO CHELI, La realtà mediata. L’influenza dei mass media tra persuasione e costruzione della realtà, Franco Angeli, Milano, 1993 JEAN-CLAUDE

CHESNAIS,

Storia della violenza, Longanesi, Milano,

1982 LUISELLA DE CATALDO NEUBURGER, Mass media, violenza e giustizia spettacolo, CEDAM, Padova, 1996 UMBERTO ECO, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano, 2001 FULVIO GIANARIA, ALBERTO MITTONE, Giudici e telecamere, Einaudi, Torino, 1994 GUIDO GILI, La violenza televisiva, Carocci, Roma, 2006 JURGEN HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari, 1984 JOSEPH T. KLAPPER, Gli effetti delle comunicazioni di massa, Etas kompas, Milano, 1964 MARIA C. LASAGNI, GIUSEPPE RICHERI, Televisione e qualità. La ricerca internazionale. Il dibattito in Italia, Raivqpt, Roma, 1996 UMBERTO LEVRA, La scienza e la colpa, Electa, Milano, 1985

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MARINO LIVOLSI, Manuale di sociologia della comunicazione, Laterza, Bari-Roma, 2009 GIANNI LOSITO, Il potere dei media, Nuova italia scientifica, Indiana University, 1994 GIANNI LOSITO, Il potere del pubblico, Carocci, Roma, 2005 MARSHALL MCLUHAN, Il villaggio globale, Sugarco, Milano, 1992 ENRICO MENDUNI, Televisioni, Il Mulino, Bologna, 1998 VANCE PACKARD, I persuasori occulti, Enaudi, Torino, 1958 KARL R. POPPER, Cattiva maestra televisione, Marsilio, Venezia, 1994 KARL R. POPPER, L’informazione violenta, Società Aperta, 1996 KARL R. POPPER, Cattiva maestra televisione, Marsilio, Venezia, 2002 GIOVANNI SARTORI, Homo videns, Laterza, Bari-Roma, 2010 SALVATORE SATTA, Il mistero del processo, Adelphi, Milano, 1994 MAURO WOLF, Gli effetti sociali dei media, Bompiani, Milano, 2003

SITOGRAFIA

www.aiart.org www.ilcorriere.it www.laRepubblica.it www.lastampa.it www.vocealta.it

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RINGRAZIAMENTI …Il sentimento non è mai Parola e nemmeno pietà, ma solamente un grazie della vita… -Alda Merini-

Grazie a tutte le persone che mi sono state vicine in questo percorso, lungo e tortuoso; alla mia famiglia, ai miei amici, a chi ho incontrato per poco tempo, ma ha saputo lasciarmi qualcosa. Però un grazie particolare va a mio cugino Mario, che mi ha aiutato e spronato, a Chiara che mi ha sopportato e ha concretamente contribuito a questa tesi correggendola, a volte ad orari improbabili; grazie a P e Andre due fantastici compagni di viaggio, spero di non perderli lungo il viaggio; poi devo ammetterlo se mi laureo ad aprile è anche grazie a loro. Grazie alle persone incontrate in via Fiesolana, e a quelle passate da lì; grazie per gli incoraggiamenti, per il tempo passato insieme, a guardare film o semplicemente a ridere. Grazie. Grazie a Valeria e Agata che sono state, e saranno sempre molto importanti per me, anche se non lo dimostro molto; grazie a tutte le persone incontrate a Firenze, per le serate passate in spensieratezza e perché con il loro essere diverse da me, mi hanno insegnato molto. Infine ringrazio quelle persone che mi hanno dato il cattivo esempio… perché mi hanno fatto capire come non voglio essere mai.


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