Fig. 1. Scultore napoletano o toscano, Sarcofago di Elvira Moncada e Antonio Ventimiglia, datato 1406 (Collesano, chiesa di San Domenico).
Committenza ventimigliana a Collesano: il mausoleo di Elvira Moncada e Antonio Ventimiglia e una proposta per il gruppo dei dolenti della chiesa del Collegio Giuseppe Fazio
Recentemente si è portata a conoscenza degli studiosi e del grande pubblico la scoperta nei depositi della chiesa del Collegio, ovvero dei Santi Sebastiano e Fabiano, di Collesano di un gruppo scultoreo in legno composto da una Vergine Addolorata e da San Giovanni Evangelista, raffigurati come i Dolenti di un complesso più ampio che doveva comprendere al centro anche il Crocifisso, a oggi non identificato1. Non è stato difficile rilevare da subito la manifesta origine senese delle due sculture e datarle entro i primi decenni del XV secolo; inoltre, l’alta qualità delle statue e le precise connotazioni stilistiche che le imperniano hanno consentito l’avanzamento attributivo a un grande nome della scultura in legno senese, quel Francesco di Domenico detto di Valdambrino, amico di Jacopo della Quercia e di Lorenzo Ghiberti, che nel 1401 aveva partecipato al famoso concorso per la seconda porta del Battistero di Firenze, unico senese assieme a Jacopo della Quercia. Questa importante acquisizione apre nuovi e inediti scenari sulla produzione scultorea in Sicilia tra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento, periodo cui la critica non ha riservato grande attenzione né tantomeno giudizi elogiativi, se si eccettua la superba Madonna di Trapani, riferita a Nino Pisano, scultore a cui anche il nostro Francesco di Valdambrino nella sua iniziale formazione artistica a Pisa guarderà con particolare attenzione2. Scopo di questi brevi appunti è quello di contestualizzare le due opere appena rinvenute nel quadro isolano e di Collesano in particolare, ribadendo con ulteriori argomentazioni l’attribuzione al Valdambrino e avanzando alcune ipotesi su una probabile committenza ventimigliana all’interno della sistemazione della sepoltura di Elvira Moncada, morta nel 1412, e del marito Antonio Ventimiglia, morto nel carcere di Malta nel 1415, nell’antica chiesa di San Giacomo, poi passata all’or-
dine minorita e intitolata a San Francesco. Deficitarii appaiono, dunque, i contributi storiografici sulla produzione plastica in Sicilia fra la metà del XIV e i primi decenni del XV secolo, forse a causa della scarsa reperibilità di opere e di documenti riferibili a questo frangente cronologico. Un buco di quasi un secolo presenta lo scritto pionieristico sulla scultura in Sicilia di Gioacchino Di Marzo, che dal Mausoleo dell’arcivescovo Guidotto de Tabiatis, realizzato nella cattedrale di Messina dallo scultore senese Goro di Gregorio nel 1333, compie un salto fino al 1426, anno in cui Antonino Gambara, cittadino palermitano, esegue lo scenografico portale meridionale della cattedrale di Palermo, sul quale l’abate esprime un giudizio duro e ostile3. Anche Filippo Meli, nel suo breve compendio sull’arte in Sicilia, afferma lapidariamente: «La scultura nel secolo XIV in Sicilia segna una decadenza maggiore»4; non manca però di segnalare tre opere realizzate da artisti forestieri: la decorazione sopra la porta di palazzo Sclafani nel 1330 circa a opera di Bonaiuto da Pisa5, l’opera già ricordata di Goro di Gregorio e il portale del duomo di Messina, ricondotto già da Gioacchino Di Marzo a Baboccio da Piperno e iniziato prima del 14126. La scultura del Quattrocento, poi, per il Meli inizia addirittura con Francesco Laurana. L’ampio divario fra la produzione locale e le opere importate dal continente viene rimarcato anche dalla critica più recente, a partire da Francesco Negri Arnoldi7, che sottolinea appunto la modestia e l’arretratezza della produzione locale, prendendo come esempio la “rozza” tomba della regina Costanza d’Aragona, moglie di Ferdinando IV, morta nel 1363, posta nella cattedrale di Catania, ma possiamo anche aggiungere i rilievi della facciata della chiesa di San Francesco a Palermo, la cassa del sarcofago di Federico d’Antiochia, morto nel 1305, nella cripta della catte-
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Fig. 2. Particolare del Sarcofago di Elvira Moncada e Antonio Ventimiglia, datato 1406 (Collesano, chiesa di San Domenico).
drale della stessa città, i rilievi catanesi del cosiddetto Maestro di Mileto e il fonte battesimale firmato da un Nardo Crapanzano addirittura nel 1424, tutte opere che, per dirla con Francesco Abbate8, sembrano più vicine ai rilievi longobardi dell’altare di Ratchis (VIII secolo) che alla coeva produzione scultorea continentale. In questo contesto “sconcertante” fanno eccezione le sculture importate da altri ambiti culturali, che appaiono rare ma non così isolate come si è creduto, infatti dobbiamo considerare per l’ambiente siciliano la presenza di una committenza colta e aggiornata affianco della più numerosa schiera di signorotti ed ecclesiastici locali assolutamente disinteressati a quanto si sviluppava in campo artistico, forse assorbiti del tutto dall’instabilità socio-politica dell’isola. Capolavoro probabilmente ancora trecentesco è la splendida statua raffigurante una figura femminile coronata9, che si ricollega direttamente al puro gotico francese, interpretata dagli studiosi ora con Santa Caterina d’Alessandria ora con l’effigie della Regina Bianca, reggente dell’isola però fra il 1410 e il 1412; la statua è stata miracolosamente tratta in salvo da sotto le macerie a seguito del violento terremoto che nel 1968 ha colpito la valle del Belice e oggi si conserva nella chiesa
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Madre di Salaparuta. Come però si è potuto intuire, la componente culturale dominante nelle preferenze della committenza isolana più colta era quella di estrazione toscana, pisana e senese in particolare, grazie anche agli stretti rapporti, soprattutto di natura commerciale ma anche socio-politica, che si erano consolidati nel corso del XIV secolo tra le sponde dell’alto Tirreno e le più importanti città portuali siciliane. Non deve stupire allora che le testimonianze più rilevanti in questo senso si trovino appunto nelle grandi città della costa. In primo luogo a Messina, città in cui opere e artisti toscani giungevano soprattutto attraverso Napoli, e qui basta ricordare ancora una volta la tomba scalpellata dal famoso scultore senese Goro di Gregorio per il vescovo Guidotto de’ Tabiatis, che in origine doveva comprendere anche la cosiddetta Madonna degli storpi, oggi al Museo Regionale10; nel 1376 era giunto a Catania, commissionato da Federico IV d’Aragona, il busto-reliquiario che doveva contenere i resti mortali della patrona Sant’Agata, inviato da Avignone dall’orafo senese Giovanni di Bartolo11; a Trapani, prima del 1368, era altresì giunto quello straordinario capolavoro rappresentato dalla Madonna di Trapani, vero e proprio punto di riferi-
Figg. 3-4. Francesco di Valdambrino (attr.), Vergine addolorata e San Giovanni evangelista, 1406-1408 ca. (Collesano, chiesa del Collegio).
mento per la scultura siciliana nei secoli successivi, ormai concordemente attribuita a Nino Pisano12. In questo contesto sembrava giocare un ruolo secondario proprio Palermo. Infatti si è sempre sottolineato l’importante apporto dato dalla pittura toscana all’ambiente palermitano, con l’invio da Pisa delle opere di Jacopo di Michele detto Gera da Pisa, di Antonino Veneziano e di Turino Vanni e la documentata presenza dei pittori senesi An-
drea Vanni e Niccolò di Maggio13, la cui attività è testimoniata anche sulle Madonie e precisamente a Isnello, dove nel 1418 si impegna a dipingere un gonfalone insieme con Gaspare da Pesaro, oggi non più esistente14. Marginale era invece ritenuto il ruolo della scultura tanto che l’unico esemplare riconosciuto come produzione trecentesca di provenienza toscana era stato individuato da Negri Arnoldi nel piccolo rilievo raffigurante l’Annunciazione15 oggi al primo piano del Con-
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servatorio Bellini, sorto dove un tempo si trovava la chiesa dell’Annunziata. La recente pubblicazione del Crocifisso della sacrestia di San Domenico e, soprattutto, del gruppo dei Dolenti di Collesano16, dimostra però come nell’area palermitana le importazioni toscane erano dominanti anche in ambito scultoreo. E proprio nel campo della scultura in Sicilia tra Tre e Quattrocento è rimasto stranamente inedito, a parte qualche breve citazione sparsa nella critica locale, il mausoleo marmoreo di Elvira Moncada e Antonio Ventimiglia a Collesano, datato 140617, e che potrebbe costituire l’anello mancante per la commissione del gruppo dei due dolenti. Troppo lungo sarebbe ripercorrere qui le alterne vicende che videro Francesco II Ventimiglia, prima, e Antonio, dopo, detentori della contea di Collesano, per le quali si rimanda all’esaustivo saggio di Rosario Termotto18. Occorre però sottolineare che un periodo relativamente pacifico nei turbolenti rapporti fra la corona d’Aragona e il casato dei Ventimiglia, con Antonio conte di Col-
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lesano, va dai capitoli di pace del 1396 al 1408, anno del suo arresto e della successiva traduzione nel carcere del castello di Malta, dove rimarrà fino alla morte avvenuta nel 1415. In questo periodo, anche se oppresso dai forti debiti verso le emergenti famiglie feudali, Antonio promuove una fervente attività di rilancio e di espansione della contea collesanese. Nello stesso 1396 egli aveva inoltre sposato in seconde nozze Elvira Moncada, che alla cattura del marito avrà un ruolo determinante nelle successive vicende ereditarie della contea19. Nel 1406, se vogliamo prendere per buona la data riportata sulla cassa del sarcofago [fig. 1]20, Antonio Ventimiglia ed Elvira Moncada eleggono l’antica chiesa di San Giacomo a sede per il mausoleo di famiglia, volendo probabilmente emulare in ciò quanto il padre di Antonio, Francesco, aveva stabilito per sé nella cattedrale di Cefalù21. Questa scelta, importante nelle logiche egemoniche del tempo, deve avere innescato anche tutta una serie di ammodernamenti e adattamenti dell’edificio
e probabilmente deve aver propiziato l’arrivo a Collesano dei conventuali a opera di Gilberto Centelles, che aveva sposato Costanza, figlia di Antonio ed Elvira ed erede della contea, e il conseguente cambio del titolo della chiesa che viene ora dedicata a San Francesco22, in continuità di prassi con quanto avevano già fatto Francesco I a Castelbuono e Francesco II, ovvero la moglie Elisabetta Lauria, a Cefalù, anche se quest’ultimo, come detto, aveva infine optato per la sua sepoltura nella più prestigiosa cappella di famiglia all’interno della cattedrale normanna. La chiesa di San Francesco a Collesano oggi non esiste più e risulta difficile persino identificare l’esatta posizione del sito dove sorgeva; la sua importanza nell’assetto urbanistico del centro madonita è però testimoniato dal nome, San Francesco appunto, dato a uno dei quattro quartieri storici in cui si divideva l’abitato23. Nel frattempo, nel 1665, poiché la chiesa di San Francesco era in parte crollata, si era provveduto per volere del conte Luigi Moncada a trasferire il «Tu-
Fig. 5. Francesco di Valdambrino, Vergine addolorata, inizi del XV secolo (Pisa, Museo Nazionale di San Matteo. Da Sacre passioni..., cit.). Fig. 6. Francesco di Valdambrino, San Giovanni evangelista, inizi del XV secolo (Pisa, Museo Nazionale di San Matteo. Da Sacre passioni..., cit.).
Fig. 7. Francesco di Valdambrino, Angelo annunziante, primo decennio del XV secolo (Volterra, Pinacoteca Civica. Da Sacre passioni..., cit.). Fig. 8. Francesco di Valdambrino, Madonna dei Chierici, primo decennio del XV secolo (Volterra, cattedrale. Da Sacre passioni..., cit.).
mulo, seu Mausoleo de Conti di Collesano» nella chiesa affiancata al convento di San Domenico dei Padri Predicatori, l’attuale palazzo municipale. Il prezioso manoscritto del sacerdote Rosario Gallo del 173624, racconta nel dettaglio la traslazione delle salme di «Antonio Ventimiglia, la contessa Alvira Moncada sua moglie, Costanza loro figlia, moglie che fù di Giliberto Centeglies», poste all’interno del sarcofago marmoreo, e di «Pietro Cardona primo di questo nome Conte di Collesano, morto nel 1451», posto in una tomba ai piedi del sarcofago chiusa da lastra marmorea con epigrafe25: «furono all’ora pomposamente trasportati detti cadaveri coll’associamento di tutto il clero, conventi e compagnie, sonando le campane di tutte le chiese a mortorio, e fu condecentemente detto tumulo collocato in una cappella della chiesa di detto convento in cornu epistole vicino l’altare maggiore, per la debolezza de fondamenti nel corno destro [...] Sotto di questa macchina marmorea sta a piedi collocato il sepolcro del suddetto Pietro Cardona primo di questo nome [...] Finisce il suddetto mausoleo sepolcrale, che sta sostenuto dalla forza delli detti tre animali, con un lastricato di marmo artificiosamente architettato, che fa da corona al detto tumulo, quale vi si aggiunse nel trasporto suddetto»26. Il mausoleo dei conti di Collesano oggi non si trova più nella cappella vicino all’altare maggiore ma addossato alla parete di fondo, a sinistra della porta d’ingresso della chiesa, probabilmente spostato qui a seguito dei lavori eseguiti nell’edificio nel 176927. Per ricostruire l’aspetto del mausoleo dopo il trasferimento nella nuova sede risulta allora importantissimo un documento rintracciato e pubblicato da Rosario Termotto28. Si tratta di una nota di pagamento in favore di Giovan Giacomo Lo Varchi, poliedrico artista originario proprio di Collesano, che in data 8 febbraio 1667 riceve due onze e 24 tanari per «havere remediato alcuni mancamenti delli pietri di marmo, leoni, crucifisso et altri nel monumento di pietra delli Ill.mi Conti di questa terra, fare due mepoli (?) attorno detto Crucifisso, friscio con una riversa di stucco e depingere ancora l’armi di detti Ill.mi Cadaveri cioè in una balata l’armi di Moncada e
nell’altra l’armi di Cardona e farci li descritioni sotto detti armi in memoria de la traslatione di detti Ill.mi Cadaveri dalla chiesa olim convento di S. Francesco nella chiesa del convento di S. Domenico»29. Dunque il Lo Varchi viene incaricato di occuparsi della sistemazione del mausoleo dei conti di Collesano nella nuova sede, riparando le parti rovinate, fra le quali si cita un crocifisso oggi non più reperibile, ma anche con l’allestimento di parti realizzate ex novo: la doppia lapide con gli stemmi dei Moncada e dei Cardona, sulla quale viene incisa l’iscrizione a memoria della traslazione fra le due chiese collesanesi30, e alcuni lavori in stucco attorno al crocifisso, probabilmente un padiglione all’apice del mausoleo. Dalla descrizione che ricaviamo dal documento appare chiaro che anche l’attuale organizzazione del sarcofago è frutto di sostanziali modifiche rispetto al progetto del Lo Varchi; perduto il crocifisso con il suo apparato in stucco, dispersa la tomba di Pietro Cardona ai piedi del tumulo, oggi ci rimane la doppia lastra marmorea realizzata dal pittore collesanese nel 1665 e, soprattutto, il bel sarcofago marmoreo [fig. 1], organizzato in orizzontale su tre elementi: la lastra tombale, la cassa sepolcrale e lo zoccolo. La lastra presenta un gisant con la figura di Elvira Moncada, raffigurata esanime, con una posa rigidamente frontale e con un rilievo poco sviluppato; la testa velata affossa il suo volume su un cuscino e le due mani reggono un libro e la corona giaculatoria. Ai piedi di Elvira trova posto un cagnolino accucciato, elemento emblematico assai frequente nelle raffigurazioni funerarie, volendo indicare con esso la fedeltà del defunto, specialmente quella coniugale. Il rilievo si presenta di buona qualità e a questa altezza cronologica non trova riscontro in altri manufatti siciliani; il confronto con il trecentesco coperchio della tomba di Costanza d’Aragona a Catania, sicuramente più aggiornato rispetto ai rudi rilievi della cassa, può essere valido solo dal punto di vista iconografico, mentre stilisticamente la lastra di Collesano è più vicina ai coevi prodotti napoletani e toscani e si colloca quindi quasi certamente come prodotto di importazione. Interessanti sono anche le
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aggiornate soluzioni spaziali che tendono a far conquistare alla figura una superficie più ampia di quella disegnata dal rettangolo del coperchio, va in questo senso il lembo della veste che invade anche il bordo laterale della lastra, sul cui restante spazio corre l’iscrizione dedicatoria a Evira e Antonio incisa in «lettere callicane», ovvero in caratteri gotici31. Più semplice è la conformazione della cassa vera e propria, che non presenta figure rilevate ma è caratterizzata da un profondo rientro sul quale ritroviamo un ulteriore iscrizione oramai quasi illeggibile, ma che viene riportata per intero dal Gallo32, il quale la considera come continuazione di quella del coperchio. Continuando nell’esposizione con le parole del Gallo, il sarcofago «viene sostenuto da tre leoni ò arpie marmoree»; si tratta in realtà di due leoni alle estremità, che possiamo ritenere interamente rifatti dal Lo Varchi, e di un finissimo grifone al centro [fig. 2], raffigurato con caratteri pienamente tardo-gotici e da considerare coevo al rilievo del coperchio. Il mausoleo di famiglia di Elvira Moncada e Antonio Ventimiglia è sicuramente per l’ambiente collesanese la commissione artistica più impegnativa del primo Quattrocento, ma allo stesso periodo ventimigliano risalgono,
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come detto in apertura, anche le due statue in legno raffiguranti i due Dolenti sul Calvario [figg. 3-4], ricondotte alla mano dello scultore senese Francesco di Valdambrino33. Fino a non molto tempo fa le due sculture si presentavano talmente travisate da passare inosservate a qualsiasi ricognizione storiografica precedente, persino nel dettagliato manoscritto del Gallo non se ne trova traccia, probabilmente già accantonate in un magazzino attiguo a qualche chiesa. Soltanto dopo il recente restauro esse si sono rivelate, almeno in parte34, in tutto il loro valore qualitativo. Nella breve nota redatta da Rosario Termotto in calce all’articolo di presentazione delle due opere35, viene messo giù tutto il ventaglio delle ipotesi possibili per la provenienza e la committenza del gruppo scultoreo. Fra queste lo studioso non tralascia «l’ipotesi che il nostro gruppo ligneo possa provenire dall’antica chiesa di San Giacomo (non l’attuale) che con l’insediamento dei francescani conventuali (1451) sarebbe stata dedicata a San Francesco. In essa era custodito, fino al trasferimento seicentesco nella chiesa dei domenicani, il mausoleo funebre del conte Antonio Ventimiglia, della moglie Elvira Moncada e della figlia Costanza»36, poi
Figg. 9-10. Nino Pisano, Monumento funebre del vescovo Scherlatti (particolari con la Vergine addolorata e San Giovanni evangelista), 1362 (Pisa, Museo dell’Opera del Duomo).
però, pur sottolineando «che nei primi del Quattrocento anche Collesano è ancora sottoposto al dominio feudale della stessa potente famiglia», egli arriva alla conclusione che ciò «sembra poco per ipotizzare un legame Collesano-Toscana attraverso i Ventimiglia»37. I recenti studi hanno però dimostrato come il rapporto fra i Ventimiglia e i territori toscani, Pisa in particolare, si fossero consolidati nel tempo, soprattutto per quanto riguarda le commissioni artistiche. Già nel 1263, le decorazioni della trave-passerella del soffitto della cattedrale cefaludese, commissionate da Enrico Ventimiglia, sono di probabile matrice toscana, eseguite da maestri della scuola di Nicola Pisano38; inoltre proprio Enrico era stato a Siena a fianco di re Manfredi39 e nello stesso 1263 un Lotoringhus de Pisis firmava una campana della chiesa di San Francesco, sempre a Cefalù40. Francesco I e Francesco II avevano tra i loro più stretti collaboratori alcuni toscani, Vannes Tavelli e Andrea di Giovanni, fiorentino41. Il calice, detto di Sant’Antonio, del convento di San Francesco a Cefalù, donato da Elisabetta Lauria, moglie di Francesco II, è stato riconosciuto nelle poche parti originali
di manifattura toscana42. Ma probabilmente la notizia più sorprendente venuta alla luce proprio nel corso di questo convegno, riguarda il famoso reliquiario di San Bartolomeo, nel tesoro della chiesa Madre di Geraci43, commissionato da Francesco II e non da Francesco I, come si credeva, a «Pirus Martini de Pisis» prima del 1388, anno della morte del conte. La tenaglia cronologica che include il gruppo ligneo di Collesano dunque si stringe sempre di più, sia per le date di esecuzione delle due commesse, che a questo punto sembrano essere separate da appena due decenni o poco più, sia perché Francesco II, conte di Geraci ma anche di Collesano, era padre di Antonio, che nel primo decennio del Quattrocento, come detto sopra, era impegnato a erigere il mausoleo suo e di sua moglie Elvira all’interno della chiesa collesanese di San Giacomo. Non deve sfuggire neanche la collocazione che il detto mausoleo occupava all’interno dell’edificio «ritrovandosi in detta chiesa vicino le ferrate di quell’altare maggiore»44, in prossimità del tramezzo, dunque, che qui era costituito da un’inferriata che separava l’aula dell’assemblea dal coro dei frati e dall’altare45; su questa verosimilmente si doveva trovare la
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«trave del Crocifisso» e non di rado accanto al Cristo in croce, che poteva essere scolpito ovvero dipinto, venivano poste le statue dei due dolenti, come succedeva per esempio a Castelbuono nella Matrice Vecchia46 e nella stessa Collesano in quella superba struttura lignea, seppure tarda, che ancora oggi domina al centro della navata della basilica di San Pietro47. A seguito di queste argomentazioni penso che l’ipotesi della committenza di Antonio Ventimiglia per il gruppo dei dolenti di Collesano e della loro provenienza dall’antica chiesa di San Giacomo diventi la più plausibile. Le due statue devono essere state in seguito recuperate, probabilmente nella prima metà del XIX secolo, e camuffate per essere impiegate durante il rito della «Morti ‘e Passioni» del Venerdì santo come San Giovanni e la Maddalena, quando si dismisero le «quattro devotissime Bare di rilievo di carta pesta al naturale che rappresentano l’Oratione nell’Orto, la flagellazione, la Coronatione di spine e la Croce in collo»48 e la processione non fu più «accompagnata da diversi personaggi come Apostoli, Pilato, Erode, Sommi Sacerdoti, Giuda, Le Marie, Angeli e altri» che erano dei veri e propri attori viventi che intervenivano «alle volte con Recitatione»49. Rimane ancora un aspetto da chiarire, quello cioè della datazione quanto più precisa possibile delle due sculture e il loro inserimento nel percorso artistico del Valdambrino. Per quanto riguarda gli aspetti stilistici rimangono valide le argomentazioni già espresse nella precedente sede50. Il solo confronto con la coppia dei Dolenti del Museo di San Matteo a Pisa [figg. 5-6] è talmente eloquente che non bisognerebbero ulteriori discorsi probatori. Le due sculture di Collesano appaiono però evolute verso il linguaggio più maturo di Francesco e precisamente vicinissime al gruppo di statue realizzate per Volterra, sia all’Annunciazione51 della Pinacoteca Civica, con cui il confronto di certi particolari è davvero impressionante per corrispondenza [fig. 7], sia anche alla cosiddetta Madonna dei Chierici della cattedrale, in particolare per l’assoluta fedeltà dei tratti somatici fra il volto del Bambino [fig. 8] e quello del San Giovanni di Collesano. Tuttavia mi sembra di cogliere
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nelle opere collesanesi ancora un forte tributo pagato da Francesco di Valdambrino nei confronti di Nino Pisano, sulle cui opere egli si era formato a Pisa tra la fine del XIV e i primi anni del XV secolo52, ciò si percepisce chiaramente nella disposizione delle pieghe a ventaglio, nel taglio delle vesti vicino alla Madonna con il Bambino di Palaia, firmata e datata dal Valdambrino nel 140353, nell’eleganza della posa ancora tutta tardo-gotica, nonostante la netta padronanza delle figure sullo spazio, insomma, le statue di Collesano non sembrano avere ancora assimilato le componenti quercesche e tantomeno ghibertiane, che caratterizzeranno la fase del rientro di Francesco a Siena a partire dal 1408. D’altronde non mi pare che le statue di Volterra vadano collocate troppo lontane dal gruppo di mezzibusti, un tempo statue intere, dei santi Crescenzio, Savino e Vittore di Siena, oggi al Museo dell’Opera del Duomo, documentati al 140954. Dunque le statue di Collesano vanno sicuramente collocate prima di questa data e appartengono quindi ancora al periodo pisano o al massimo lucchese dello scultore. A riprova della stretta dipendenza dei Dolenti di Collesano ancora dalle opere di Nino propongo un ulteriore confronto con i rilievi del monumento funebre del vescovo Scherlatti del 1362, ora nel Museo dell’Opera del Duomo di Pisa, dove le figure della Vergine addolorata [fig. 9] e di San Giovanni [fig. 10] sembrano essere i prototipi dei Dolenti del Museo di San Matteo e, ancora di più, di quelli di Collesano. D’altronde, se accettiamo la committenza di Antonio Ventimiglia, difficilmente egli avrebbe potuto richiederle dopo il 1408, anno della sua incarcerazione, e se ricordiamo anche che l’inizio del progetto per il mausoleo di famiglia dovrebbe risalire attorno al 140655, ecco trovati i riferimenti cronologici che ci consentono di inserire le due sculture entro questo biennio. L’augurio è che i due Dolenti di Collesano, dopo l’auspicabile completamento del restauro, possano essere valorizzate come meritano da chi preposto allo scopo ai vari ordini e livelli e che se ne possa consentire presto la fruizione dignitosa e continua, che oggi non è possibile garantire.
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Si veda A. CUCCIA, G. FAZIO, Aria di Siena in Sicilia. La scoperta di tre inedite sculture in legno del Quattrocento toscano a Collesano e Palermo, in «Paleokastro. Rivista trimestrale di studi siciliani», supplemento a «Paleokastro Magazine. Rivista siciliana di cultura e turismo», I, 2, maggio 2010, pp. 35-42. 2 Su Francesco di Valdambrino, la sua formazione e il suo percorso artistico si veda A. BAGNOLI, Francesco di Valdambrino (notizie dal 1401. Morto prima del 20 luglio 1435), in Jacopo della Quercia nell’arte del suo tempo, catalogo della mostra (Siena, 24 maggio-12 ottobre 1975), Firenze 1975, pp. 120-135; ID, Francesco di Valdambrino, in Scultura dipinta. Maestri del Legname e pittori a Siena (1250-1450), catalogo della mostra (Siena, 16 luglio31 dicembre 1987), a cura di A. Bagnoli, Firenze 1987, pp. 133-151; M.G. BURRESI, Aggiunte per l’attività lucchese di Francesco di Valdambrino, in Scultura lignea. Lucca 12001425, catalogo della mostra (Lucca, 16 dicembre 199530 giugno 1996), a cura di C. Baracchini, voll. 2, Firenze 1995, I, pp. 173-193; ID, Una folla pensosa e cortese. Sculture note e inedite di Francesco di Valdambrino, del Maestro di Montefoscoli e di altri, in Sacre passioni. Scultura lignea a Pisa dal XII al XV secolo, catalogo della mostra(Pisa, 8 novembre 2000-8 aprile 2001), a cura di M.G. Burresi, Milano 2000, pp. 196-227. 3 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI, voll. 2, Palermo 1880-1883, I, pp. 41-42. 4 F. MELI, L’arte in Sicilia. Dal secolo XII fino al secolo XIX, [Palermo 1929] Palermo 1994, p. 81. 5 L. SARULLO, Dizionario degli artisti siciliani, vol. III, Scultura, a cura di B. Patera, Palermo 1993, p. 33, ad vocem. 6 F. CAMPAGNA CICALA, Il museo, l’itinerario, le opere, in F. ZERI E F. CAMPAGNA CICALA, Museo regionale, Palermo 1992, pp. 58-59. 7 F. NEGRI ARNOLDI, Materiali per lo studio della scultura trecentesca in Sicilia, in «Prospettiva. Rivista di storia dell’arte antica e moderna», 51-52, 1987. 8 F. ABBATE, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il Sud angioino e aragonese, Roma 1998, p. 122. 9 La si veda riprodotta in V. SCUDERI, Il patrimonio artistico del Belice, in «Paleokastro magazine. Rivista siciliana di cultura e turismo», I, 2, 2010, p. 5. 10 Si veda la nota 6. 11 G. TRAVAGLIATO, infra, nota 1, con relativa bibliografia. 12 Sull’attribuzione della statua e il successo del modello iconografico si veda L. SARULLO, Dizionario…, cit., p. 244, ad vocem, con precedente bibliografia. 13 R. LONGHI, Frammento siciliano, in «Paragone», 47, novembre 1953, pp. 3-44. 14 J. BRESC BAUTIER, Artistes, patriciens et confréries. Production et consommation de l’œvre d’art à Palerme et en Sicile Occidentale (1348-1460), Roma 1979, pp. 105, 108-109, 177-178, 213-215, 217-218, 230-231. Ringrazio per la segnalazione il dott. Salvatore Anselmo. 15 F. ABBATE, Storia dell’arte... cit., p. 119. 16 Si veda la nota 1. 17 La data del sarcofago si ricava da un’iscrizione che era incisa sulla cassa marmorea ma oggi non più leggibile, per cui ci dobbiamo servire della trascrizione di Rosario Gallo (Il Collesano in oblìo..., ms. del 1736, Collesano, Archivio Storico Chiesa Madre Basilica di San Pietro, c. 403): IAM CŒLORUM REGIONE POLI SUPER ASTRA VAGANTES, ATQUE BIS VNDENIS CHISTI SPIRAVIT AMORE, MILLE QUADRIGENTIS SENIS CURRENTIBUS ANNIS, ET SUORUM HEREDUM. Il testo si presenta di difficile interpretazione poiché Elvira Moncada, a cui si dovrebbe riferire, morì intorno al 1412 (si veda H.
BRESC, I Ventimiglia a Geraci, in Geraci Siculo. Arte e devozione. Pittura e Santi Protettori, a cura di M.C. Di Natale, Geraci Siculo - San Martino delle Scale 2007, p. 14), non nel 1406, e Antonio addirittura nel 1415; l’indicazione di questo anno è forse da intendere allora proprio con la data di costruzione del mausoleo di famiglia. Rimane tuttavia enigmatico quel numero ventidue (bis undenis), per il quale non sono riuscito a trovare nessuna spiegazione plausibile. 18 R. TERMOTTO, Collesano dai Normanni ai Ventimiglia. Profilo storico, in I Ventimiglia e le Madonie, atti del I seminario di studio (Geraci Siculo, 8-9 agosto 1985), a cura di V. Piccione, Geraci Siculo 1987, pp. 89-142. 19 Ibidem. 20 Si veda la nota 17. 21 O. CANCILA, Castrobono e i Ventimiglia nel Trecento, in «Mediterranea. Ricerche storiche», VI, 15, aprile 2009, p. 112. 22 Sulle vicende dei francescani conventuali a Collesano si veda R. TERMOTTO, Collesano tra urbanistica e arte, in A. ASCIUTTO, R. TERMOTTO, Collesano per gli emigranti, Castelbuono 1991, pp. 141-143. 23 Ivi, pp. 99-100. 24 R. GALLO, Il Collesano in oblìo..., cit., cc. 402-404. 25 L’iscrizione sulla tomba di Pietro Cardona, oggi non più esistente, recitava: PETRO CARDONA, CUIUS NOMINIS, EIUSQUE ILLUSTRIS FAMILIÆ, PRIMO ALPHONSI ARAGONAM, ET UTRIUSQUE SICILIÆ REGIS MUNIFICENTIA COLLISANI COMITI VIRO, PRÆTÈR CETERAS ANIMI INNUMERAS DOTES BELLO, ATQUE ARMIS PRÆSTANTISSIMO, NE SUB PULVIRES CITRÀ MERITUM HONOREM, CITRAQUE POPULAREM NOTITIAM DIUTIUS SIC OSSA EIUS LATERET: JOANNES PHILIPPUS FERRARIUS UTRIUSQUE JURIS DOCTOR COLLISANENSIS POSUIT. ANNO DNI 1561. OBIJT ANNO 1451. Ivi, c. 403. 26 Ibidem. 27 V. M. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, [I ed. in latino 1757-1760], tradotto e annotato da G. Di Marzo, voll. 2, Palermo 1855-1856, I, p. 341. 28 R. TERMOTTO, Giovanni Giacomo Lo Varchi pittore di Collesano (1606-1683). Un allievo dello Zoppo di Gangi, in «Bollettino della Società Calatina di Storia Patria e Cultura», 5-6, 1996-1997, pp. 292-293. 29 Ibidem. 30 La lapide, ancora oggi posta sul sarcofago marmoreo, recita: D. O. M. MORTALITATIS EXUVIAS. QUAS ALVIRA DE MONCADA COLLISANI COMITISSA, EIUSQUE VIR ANTONIUS AD DIVI FRANCISCI ANNO 1406 DEPOSUERANT. DISIECTO AD LAPSUM FLUMINIS TEMPLO, EXCELLENTISSIMUS DOMINUS ALOYSIUS DE MONCADA, ET ARAGONA DUX MONTIS ALTI, COLLESANI COMES, STATUS S(UÆ) C(ATHOLICÆ) M(AIESTATIS) CONSILIARIUS, SUPREMUSQ(UE) REGIÆ DOM(US) PRÆFECTUS, AD DIVI DOMINICI ASPORTANDAS 1665. MARMOREOQ(UE) TUMULO AD FUTURAM IMMORTALITATEM PRIMI COLLISANI COMITIS CORPUS AB ANNO 1451. HAUD SATIS DECENTER SITUM DECENTIUS INSCRIPTO LAPIDE HUMARI IUSSIT ANNO 1665. 31 L’iscrizione recita: HOC SUA FRIGENTI RETINET TUMULATA SEPULC ( HRO ) OSSA COLLISANI COMITTISSA ALVIRA PROPAGO INCLITA MONCATÆ COMES, AST ANTONIUS EIUS EXTITERAT CONI ( U ) X , AMBO TELLÙRE RELICTA .
ottenuto dall’abbinamento dei rosella con i verdi acidi contenuti da verdi più chiusi e impreziositi dai galloni e da una decorazione gigliata in oro», mentre non è riuscito a liberare gli incarnati da quella pesante coltre di stucco e colori che ancora nasconde la plastica e la superficie originale. 35 R. TERMOTTO, Ipotesi sulla provenienza e sulla committenza, in A. CUCCIA, G. FAZIO, Aria di Siena... cit., pp. 41-42. 36 Ivi, p. 42. 37 Ibidem. 38 G. ANTISTA, La committenza dei Ventimiglia a Cefalù: città e architettura. 1247 – 1398, tesi di Dottorato di ricerca in Storia dell’Architettura e Conservazione dei Beni Architettonici, Palermo 2009, pp. 47-60. 39 Ibidem. 40 G. MISURACA, Cefalù nella storia, [Palermo 1962] Cefalù 1984, p. 244. 41 G. TRAVAGLIATO, infra, nota 35. 42 Per i rapporti fra i Ventimiglia e il convento di San Francesco a Cefalù e in particolare sul Calice di Sant’Antonio si veda G. ANTISTA, La chiesa e il convento di San Francesco a Cefalù all’epoca dei Ventimiglia, in «Espero», III, 27, giugno 2009, pp. 1; 6. 43 G. TRAVAGLIATO, infra. 44 R. GALLO, Il Collesano in oblìo..., cit., c. 402. 45 Su alcuni tramezzi di chiese siciliane si veda G. FAZIO, Ecclesiæ formam renovavit. L’intervento apologetico di Francesco Gonzaga nella cattedrale di Cefalù (1588-1593), in Manierismo siciliano. Antonino Ferraro da Giuliana e l’età di Filippo II di Spagna, atti del convegno di studi (Giuliana, 18-20 ottobre 2009), a cura di A.G. Marchese, in corso di stampa. 46 La grande Croce dipinta che oggi si trova nella Matrice Nuova era infatti collocata «nel mezo della chiesa sospeso in aria sovra una trabe dorata, sovra del quale sono l’imagine di Maria Vergine et Gioanni di rilevo»; A. MOGAVERO FINA, Notizie sull’antica Matrice Maria SS. Assunta, Palermo 1978, p. 14. 47 Sulla macchina lignea della chiesa Madre di Collesano si veda G. FAZIO, La cultura figurativa del legno nelle Madonie tra la Gran Corte vescovile di Cefalù, il Marchesato dei Ventimiglia e le città demaniali, in corso di stampa. 48 R. GALLO, Il Collesano in oblìo..., cit., ora in R. TERMOTTO, Ipotesi..., cit., p. 42. 49 Ibidem. 50 A. CUCCIA e G. FAZIO, Aria di Siena..., cit., pp. 38-39. 51 Ivi, p. 40. 52 M.G. BURRESI, Una folla pensosa..., cit., passim. 53 La si veda riprodotta in A. CUCCIA, G. FAZIO, Aria di Siena..., cit., p. 42. 54 A. BAGNOLI, Francesco..., cit., p. 140-142; lo stesso Bagnoli aveva già proposto di collocare la realizzazione della Madonna dei Chierici e dell’Annunciazione di Volterra poco dopo la Madonna di Palaia, poiché i caratteri di questo gruppo di sculture «anzichè ghibertiani come spesso si è detto, sono ancora coerenti con la cultura pisana del giovane Valdambrino e confrontabili pure con alcune teste marmoree all’esterno del duomo di Lucca». Ivi, p. 133. 55 Si veda la nota 17.
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Si veda la nota 17. Si veda la nota 1. Il restauro ha infatti restituito quasi integralmente l’aspetto delle vesti rese con un «distillato cromatismo
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