Jacopo mio garzone sculture siciliane n

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GIUSEPPE FAZIO

Jacopo mio garzone Sculture siciliane nell’ambito di Giacomo Del Duca

Nel panorama artistico e culturale siciliano del secondo Cinquecento un posto di rilievo è occupato dalla famiglia Lo Duca, romanizzata poi in Del Duca, originaria di Cefalù ed operante principalmente a Roma, a Messina e in area madonita. Ideale capostipite della famiglia può considerarsi il sacerdote Antonio, ispiratore e fautore del progetto michelangiolesco della basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma1. Al suo seguito si trasferirono nella città capitolina, insieme ad altri membri della famiglia, i di lui nipoti Giacomo e Ludovico, entrambi scultori e facenti parte, soprattutto Giacomo, della cerchia michelangiolesca. Per la ricostruzione delle vicende della famiglia Del Duca risulta essere fondamentale il corpus documentario rintracciato nell’Archivio Storico Diocesano di Cefalù da Nico Marino2, da cui si evince, tra le altre cose, che anche un figlio di Giacomo, Giovan Maria, e i figli di Ludovico, Giovan Paolo e Giovan Pietro, hanno intrapreso l’attività di scultori, fino ad oggi sconosciuta. In questa sede si cercherà di leggere criticamente il corpus documentario citato assegnando o riassegnando ai vari membri della famiglia alcune opere scultoree presenti in Sicilia.

1 Fondamentale per la ricostruzione della vicenda è il saggio di C. Valenziano, ‘Introduzione alla Historia dell’erettione della chiesa di s. Maria degli Angioli in Roma nelle therme Diocletiane...’, ‘O Theologos. Cultura cristiana in Sicilia, 7-8 (Palermo 1979) pp. 29-250. 2 N. Marino – R. Termotto, Cefalù e le Madonie. Contributi di storia e storia dell’arte tra XVII e XVIII secolo (Cefalù 1996).

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Fig. 1. Pace con la PietĂ (Giacomo Del Duca, qui attr., ultimo decennio del XVI sec); bronzo parzialmente dorato. Messina, Museo Regionale. 40


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La Pietà di Messina Tra le numerose opere pubblicate nel poderoso catalogo della mostra “Splendori di Sicilia. Arti decorative dal Rinascimento al Barocco”3, passa quasi inosservata una piccola immagine che riproduce una pace bronzea raffigurante la Pietà (fig.1), conservata nel Museo Regionale di Messina. L’opera proviene dalla Cittadella fortificata del capoluogo peloritano ed è giunta nelle collezioni del museo a seguito del devastante terremoto del 1908. La scheda storico – descrittiva che nel catalogo sopra menzionato accompagna l’immagine4 si limita a rintracciare nell’opera la presenza di “moduli stilistici e compositivi ispirati ad un Manierismo di matrice michelangiolesca” e ad assegnarla ad anonima bottega messinese della seconda metà del XVI secolo. In realtà l’opera presenta ben più di una semplice ispirazione a moduli michelangioleschi, trattandosi infatti della replica compositiva di uno dei tre disegni che lo stesso Michelangelo eseguì e donò all’amica Vittoria Colonna entro il 1546. Il maestro fiorentino concepisce infatti per Vittoria un Crocifisso con il Cristo vivo, un Cristo e la Samaritana e, appunto, una Pietà (fig. 3), unico fra i tre disegni di Michelangelo ancora esistente, conservato presso il Boston Isabella Stewart Gardner Museum. La prima fonte a stampa che fa menzione dei disegni michelangioleschi per Vittoria Colonna è il Condivi (1553)5. Vale la pena, per una maggiore comprensione iconografica, riportarne per intero la descrizione della Pietà: “Fece a requisizione di questa signora un Christo ignudo quando è tolto di croce, il quale come corpo morto abandonato cascherebbe a’ piedi della sua santissima madre, se da due angioletti non fusse sostenuto a braccia. Ma ella, sotto la croce stando a sedere con volto lacrimoso e dolente, alza al cielo ambo le mani a braccia aperte, con un cotal detto che nel troncon della croce scritto si legge: <Non vi si pensa quanto sangue costa>. La croce è simile a quella che dai Bianchi, nel tempo della moria del trecentoquarant’otto, era portata in processione, che poi fu posta nella chiesa di Santa Croce di

3 Splendori di Sicilia. Arti decorative dal Rinascimento al Barocco, catalogo della mostra, M. C. Di Natale cur. (Palermo 2001). 4 Idem, p. 372. 5 A. Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, a cura di E. Spina Barelli (Roma 1553; Milano 1964).

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Fig 2. Pietà (Pietà Dusmet) (Giacomo Del Duca, attr., 1549-1551); terracotta. Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica (v. tav. I). 42


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Firenze”6. A parte la croce, che nel disegno di Boston risulta essere recisa ma che da un’incisione di Giulio Bonasone (fig. 4) datata 1546 sappiamo trovare riscontro in quanto letto, la descrizione del Condivi corrisponde, come si può vedere, esattamente al disegno michelangiolesco. È probabile che Michelangelo per la realizzazione del disegno della pietà si sia ispirato al Pianto sopra la passione di Christo, composizione prosastica di Vittoria Colonna sulla passione e morte di Cristo e in modo particolare sui sentimenti di Maria sotto la croce. Scrive infatti la Colonna: “Hor chi potria pensar con quanto affetto rengraziava el celeste Patre... che l’havesse fatta Madre de sì obediente figlio, et con che ardente charità ringratiava el Spirito Santo che per amor excessivo la faceva dilettar in questa pena et con due mirabil dilettione rengratiava la incarnata sapientia, el suo amatissimo Christo, che con tanta humil obedientia havesse consumato el sacrificio di se stesso, et con excessivo amore ringratiava gli Angeli che fussero presenti ad emendare el mancamento de l’homo”7. Si capisce bene come, sia nella prosa di Vittoria sia nel disegno di Michelangelo, la Vergine con le braccia rivolte al cielo è nell’atteggiamento di chi sta ringraziando, ed inoltre il riferimento agli angeli sembra una citazione letterale. La Colonna dedica anche un sonetto al tema della pietà, la lettura del quale è di fondamentale importanza per la comprensione della composizione michelangiolesca: “Mentre la madre il suo Figlio diletto / morto abbracciava nel fido pensero / scorgea la gloria del trionfo altero / ch’Ei riportava d’ogni spirito eletto. // ... ma, perchè vera madre Il partorio, / certo è che infino a la sua sepoltura / sempre ebbe il cor d’ogni conforto privo”8. Si noti come Michelangelo riproponga nel rapporto fra la figura della Vergine e quella del Cristo, posto fra le gambe di lei, l’immagine della partoriente menzionata nel sonetto della Colonna. Il disegno con la Pietà ebbe larghissima diffusione per tutto il Cinquecento e anche nel secolo successivo, lo ritroviamo infatti riprodotto in numerose incisioni, ma anche in bassorilievi e dipinti, più o meno fedeli all’originale. Ad esempio chi scrive ha rintracciato, casualmente, una placchetta bronzea con lo stesso tema nei Musei Civici di Padova. Questa 6

Idem, p. 81. Cfr. P. Ragionieri (cur.), Vittoria Colonna e Michelangelo, catalogo della mostra (Firenze 2005) pp. 175-176. 8 Cfr. Idem, pp. 159-160 7

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Fig. 3. PietĂ (Michelangelo Buonarroti, ante 1546); disegno a matita e gesso nero. Boston, Isabella Stewart Gardner Museum. 44


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presenta una cornice architettonica caratterizzata dalla figura di Dio Padre al centro del timpano spezzato, tipico degli architetti di matrice michelangiolesca. Proprio questa tipologia di cornice la ritroviamo nella pace, anch’essa bronzea e parzialmente smaltata, conservata presso Casa Buonarroti a Firenze9, il che induce a sospettare una fonte comune alle due opere anche per la cornice, probabilmente un’incisione. Altro esempio, stavolta in pittura, ci è offerto dalla tela di Scipione Pulzone della basilica romana di Santa Maria in Aracoeli. Ritornando alla pace di Messina, essa è già stata studiata da numerosi storici locali, prima fra tutti Maria Accascina che nel 1974 la attribuiva a Ludovico Del Duca10. Quanto all’oscura figura di Ludovico11 non si hanno notizie circa una sua presenza nella città peloritana, mentre ben documentata dalle fonti, dai documenti e dalle opere superstiti è il lungo soggiorno messinese del più noto fratello Giacomo12. A questo, peraltro, sono stati già attribuiti altri quattro rilievi che presentano lo stesso soggetto, uno conservato al museo del Louvre, un altro nella Biblioteca Apostolica Vaticana, un terzo nella chiesa di Santo Spirito in Sassia a Roma (fig. 6) e uno, sempre a Roma, conservato nella Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini (fig. 2), tornato alla ribalta dopo essere stato esposto nell’edizione romana della mostra “Michelangelo. Grafia e biografia”13. In quella occasione Paola Berardi ribadisce in catalogo la paternità di Giacomo Del Duca che era stata messa precedentemente in discussione14. Giacomo utilizza poi le figure del Cristo e della Vergine separate in due delle formelle del Tabernacolo Farnese, oggi a Napoli al museo di Capodimonte, la Madonna nella scena della Pietà e il Cristo in quella della

9 Vedila riprodotta in C. Strinati (cur.), Michelangelo: grafia e biografia. Disegni e autografi del maestro, catalogo della mostra (Firenze 2002) p. 70. 10 M. Accascina, Oreficeria in Sicilia dal XII al XIX secolo (Palermo 1974) pp. 228-230. 11 Su Ludovico Del Duca cfr. V. Scuderi, ‘ad vocem’, in L. Sarullo, Dizionario degli Artisti siciliani. Scultura, III.3 (Palermo 1993) pp. 94-95. 12 Su Giacomo del Duca cfr. S. Benedetti, Giacomo del Duca e l’architettura del Cinquecento (Roma 1972) con bibliografia precedente; F. Paolino, Giacomo Del Duca. Le opere siciliane (Messina 1990). 13 Cfr. P. Berardi, ‘La Pietà Dusmet’, in Jacopo Del Duca “nell’hombra di Missere”, supplemento a Michelangelo: grafia (Firenze 2002) pp. 17-18. 14 Ibidem.

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Fig. 4. PietĂ (Giulio Bonasone, da Michelangelo, 1546); incisione a bulino. 46


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Deposizione15. Fra le opere menzionate quella più vicina alla nostra è sicuramente il rilievo di Palazzo Barberini. Si tratta di un bassorilievo in terracotta, probabilmente un bozzetto, meglio conosciuto come Pietà Dusmet, facente parte della donazione del 1949 da parte di quella famiglia al Museo romano16. Ad una composizione identica, fra la terracotta romana e la pace messinese corrisponde un’iconografia leggermente diversa. Le due opere differiscono infatti soltanto nella zona superiore dove, attorno al braccio trasversale della croce, che ritorna ad essere quella tradizionale e non più quella utilizzata da Michelangelo, a Roma sono raffigurate alcune teste di puttini alati, appena scalfite nel materiale fittile, mentre a Messina esse sono sostituite da nubi – nella zona sottostante al braccio della croce – e dai simboli del sole e della luna – nella zona soprastante –. A parte queste diversità iconografiche e la diversa resa del legno della croce, spiegabile con la diversità del materiale e con lo stato bozzettistico dell’opera romana, la concordanza dell’originalità dei due rilievi rispetto al prototipo michelangiolesco lascia spazio a pochi dubbi circa la loro comune paternità, almeno per quanto riguarda l’ideazione. Consideriamo alcuni dettagli iconografici e stilistici. Della croce abbiamo già detto, come pure della presenza dei puttini e degli altri simboli attorno ad essa, assenti in Michelangelo; le figure nel disegno di Boston si distendono su una sconnessione del terreno appena accennata dal chiaroscuro mentre nei nostri rilievi esse sono disposte come su tre gradoni: su uno siede la Vergine, su un altro camminano gli angeli e sul terzo poggiano i piedi del Cristo; sui tre gradoni sembra poi dispiegarsi un grande lenzuolo sindonico; manca nei nostri rilievi la corona di spine che nel disegno di Michelangelo è posta in primo piano a sinistra dei piedi del Cristo; la figura della Vergine diventa estremamente frontale e perde plasticità, da notare il dettaglio delle mani che presentano nell’opera messinese l’indice staccato dalle altre dita, particolare presente in tutte le opere di questo soggetto attribuite a Giacomo ed assente in ogni altra replica. Ma ciò che colpisce maggiormente è il cambiamento di atteggiamento nei due artisti, infatti la potenza espressiva michelangiolesca, nei due rilievi si dissolve in un pietismo di matrice più popolare. Se poi prendiamo in

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Ibidem. Ibidem.

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Fig. 5. Portale (Giacomo Del Duca, 1574); pietra travertino. Roma, Chiesa di Santa Maria in Trivio. 48


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esame anche la cornice – con il susseguirsi di girali e volute che culminano nel timpano spezzato, rivisitato in chiave ormai manierista, e che si risolvono nella testa di cherubino al centro in alto – confrontandola con le incorniciature di portali e finestre dei progetti di Giacomo, ad esempio con quelli della chiesa romana di Santa Maria in Trivio (fig. 5), le affinità sembrano essere davvero probanti. Per quanto riguarda la datazione, se la Pietà Dusmet è collocabile intorno al 1549, anno delle formelle di Santo Spirito in Sassia e della Biblioteca Apostolica Vaticana17, la pietà di Messina è da collocare o al 1571, data del primo viaggio a Messina di Giacomo, o più probabilmente subito dopo il 1589, anno del suo definitivo trasferimento nella città dello Stretto.

Giacomo Del Duca e alcuni suoi familiari nelle fonti e nei documenti Le fonti che si occupano di Giacomo Del Duca, a lui contemporanee o quasi, sono principalmente due: l’edizione giuntina delle Vite del Vasari (1568) e le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti... del Baglione (1642). Più cospicue sono le raccolte di documenti pubblicate dal Benedetti (1972), dalla Paolino (1990) e dal già citato Nico Marino (1995, 1996). Tali documenti sono di fondamentale importanza per la ricostruzione degli ultimi anni di vita di Giacomo e per le successive vicende della famiglia Del Duca, ma la loro scarsa divulgazione18 ha fatto sì che ancora nella cronologia della vita dell’artista, pubblicata nel 200219, venga usata dalla Berardi l’errata indicazione della morte avvenuta a Cefalù il 9 luglio 1604. Ma procediamo con ordine. Il Vasari non dedica una “vita” intera a Giacomo e ai Del Duca. L’unico accenno si trova nella “Vita di Michelangelo”, a proposito del tabernacolo per Santa Maria degli Angeli, in cui l’autore si esprime in questi termini: “Jacopo Ciciliano, eccellente gettatore di bronzi, che fa che vengono le cose sottilissimamente senza bave... che in questo genere è raro

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Ibidem. Si tratta di ricerche pubblicate a spese degli autori in pochi esemplari a diffusione lo-

cale. 19

Berardi, Jacopo Del Duca, p. 21.

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Fig. 6. Tomba Foderati (Giacomo Del Duca, attr., 1549 ca.): particolare con la PietĂ ; marmo. Roma, Chiesa di Santo Spirito in Sassia.

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maestro”20. Più ampio è lo spazio che dedica al siciliano il Baglione, che redige il primo catalogo delle opere romane e in cui si trova il dettaglio biografico della morte violenta subita dal Del Duca21, di cui parleremo in seguito. Sandro Benedetti in appendice al suo monumentale volume su Giacomo, pubblica una serie di documenti di capitale importanza per la conoscenza dell’artista22. Essi sono divisi in due parti: la prima raccoglie alcune lettere che Giacomo scrive a Leonardo Buonarroti, nipote di Michelangelo, la seconda è un regesto su alcune opere romane di Giacomo. Quella che qui interessa è la prima parte. Dalle lettere, infatti, si colgono notizie utili sulla cultura del siciliano e sul suo rapporto con Michelangelo. Leonardo è padrino di battesimo del figlio di Giacomo, che in onore del maestro viene chiamato proprio Michelangelo (documento 1). Giacomo si dispiace con Leonardo di non poter concorrere alla tomba del Maestro ma vuole lo stesso onorare la sua memoria realizzando un grande tabernacolo bronzeo (fig. 13) a sue spese e su disegno lasciato da Michelangelo23. In quella sede il Del Duca esprime tutto il suo debito nei confronti del maestro: “io me vergogno a dire che sono qualche cosa et sono niente et non so niente ma quel poco che sono tenuto et la conoscenza chio in Roma, lho per avere stato sotto lombra de Missere” (lettera del 15 marzo 1565). D’altronde Michelangelo stesso parla di Giacomo in una sua lettera, infatti il Del Duca può essere identificato con quel “Jacopo mio garzone” che nel 1542 scolpisce per Raffaello da Montelupo “quattro teste di termini” per la tomba di Giulio II in San Pietro in vincoli24. Nel 1566 Giacomo riceve la commissione per la tomba di papa Paolo IV (opera non eseguita25), e volendo utilizzare come modelli alcuni disegni di Michelangelo ne chiede la concessione al nipote ed unico erede Leonardo (lettere del 14 febbraio, del 8 marzo e del 18 aprile 20 Cfr. G. Vasari, La vita di Michelangelo..., curata e commentata da P. Barocchi (Firenze 1568; Milano-Napoli 1962) pp. 1759 ss. 21 G. Baglione, Le vite de’ Pittori, Scultori et Architetti dal 1572 al 1642 (Roma 1642) pp. 5455. 22 Benedetti, Giacomo Del Duca, pp. 445-509. 23 Si tratta del cosiddetto Tabernacolo Farnese, oggi conservato a Napoli nel Museo di Capodimonte (cfr. Benedetti, Giacomo Del Duca, pp. 61-76). 24 Berardi, Jacopo Del Duca, p. 20. 25 Ibidem.

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Fig. 7. Madonna con il Bambino (Bottega dei Gagini, 1533): particolare con la Dormitio Virginis; marmo. CefalĂš, Basilica Cattedrale (v. tav. II).

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del 1566). Da queste lettere si evince anche un certo rapporto con Daniele da Volterra, da identificare con quel Mastro Daniello già morto alla data dell’ultima lettera e di cui emerge anche una attività di scultore in bronzo. Infine, l’aver avuto “prestate doi banchi de falegname per un poco di necessità che io ne ho havuto” (lettera del 3 maggio 1566), testimonia la familiarità di Giacomo anche con il legno, notizia che sarà utile nel proseguo del nostro discorso. Ideale prolungamento del lavoro del Benedetti è da ritenersi il volume di Francesca Paolino26, che si concentra sull’opera di Giacomo nel territorio messinese. I documenti, proposti per la prima volta o riproposti dall’autrice, chiariscono i termini del soggiorno di Giacomo nella città dello Stretto, permettono di anticipare il suo arrivo al 1589, anno in cui viene nominato architetto ufficiale della città, e lasciano intuire che Messina fu l’ultima dimora stabile dell’artista27, facendo escludere dunque un fin ora equivocato ultimo soggiorno cefaludese. Arriviamo ora ai ricordati documenti rintracciati e pubblicati da Nico Marino nel 199628. Essi si riferiscono alla supplica rivolta da Giovan Maria Del Duca, figlio di Giacomo, alla Gran Corte Vescovile di Cefalù per l’eredità del chierico don Francesco Lo Duca, suo zio, nella cui casa Giovan Maria visse dopo la morte del padre, e al relativo processo. Tra le testimonianze ai vari capitoli alcuni testi devono rispondere al quesito “come conoscono al q. Jacomo lo duca undi lo conoscero e di che età lo giudicavano come sanno che sia morto a che loco e a che tempo”29. Come nota lo stesso Marino, si capisce subito che il “Jacopu lo duca” che “si seppellio a la ecc. a de la nuziata a li IIII di Xbro III ind 1604”30 deve essere un omonimo dello scultore, altrimenti non si capirebbe la richiesta di accertamento sulla sua morte, se essa fosse avvenuta a Cefalù. Tutte le testimonianze concordano nell’affermare che il nostro “Jacobo lo Duca” morì a Messina intorno al 159831: una di essa, poi, conferma 26

Paolino, Giacomo Del Duca. Eadem, pp. 111-117. Per la data di morte di Giacomo la Paolino riprende lo studio precedente di F. Basile, Studi sull’architettura di Sicilia. La corrente michelangiolesca (Roma 1942) p. 109, in cui si colloca al 17 gennaio 1600. 28 Marino – Termotto, Cefalù, pp. 3-10. 29 Idem, p. 6, nota 27 a. 30 Documento di registrazione nel “liber mortuorum” della Cattedrale di Cefalù in cui si parla però della sepoltura e non della morte (riportato in Basile, Studi, p. 109). 31 Marino – Termotto, Cefalù pp. 7, nota 27 b-c-d-e-f. 27

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Fig. 8. Portale (Bottega dei Gagini, secondo-terzo quarto del XVI sec.); marmo. Cefalù, Chiesa della Santissima Trinità. 54


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l’assunto del Baglione che il Del Duca fosse morto di morte violenta32. Gli incartamenti del processo proseguono con una serie di lettere che Giovan Maria scrive allo zio don Francesco durante il lungo viaggio a Messina e a Roma per risolvere alcune faccende relative all’eredità del padre. Anche in queste sono contenute informazioni di grandissimo rilievo. La prima lettera è scritta a Messina nel febbraio 160133, e da essa si evince che lo stesso Giovan Maria aveva intrapreso l’attività di scultore: infatti si parla di una Madonna da rifare al suo rientro a Cefalù per cui ha già percepito la somma di ottanta onze. Inoltre egli raccomanda allo zio di conservare “quelli modelli di creta cotta di mano di mio patri quali mi fanno molto bisogno e teneteli in custodia e che non si guastino e salvateli ogni minimo pezetto perchè ne o di bisogno assai in certe cose che io o di fare che alla mia venuta di Roma piacendo a Idio venerò a Cefalù e me le piglierò”34. L’abitudine di Giacomo a realizzare bozzetti in terracotta è un’ulteriore conferma per l’attribuzione della Pietà Dusmet. Le altre quattro lettere, datate tra il 22 marzo 1603 e il 28 maggio 1610, sono tutte scritte da Roma35. Per rimanere nell’ambito delle notizie che qui ci interessano, da esse apprendiamo che il 10 febbraio del 1603 moriva Ludovico Del Duca, anch’egli un quotato gettatore di bronzo36, e che i due figli di lui, Giovan Pietro e Giovan Paolo, sono anch’essi scultori. Infatti essi si rifiutano di restituire a Giovan Maria “li rilievi e disegni” che egli ritiene opere di suo padre Giacomo37. Le liti fra i contendenti si prolungano per alcuni anni, almeno fino al 160838. Il 17 maggio 1610 muore anche Michelangelo39, figlio di Giacomo, che però non sembra avere intrapreso la carriera artistica. Giovan Maria prolunga il suo soggiorno a Roma fino al 1613, infatti nel testamento dello zio Francesco viene definito, insieme ai due figli di Ludovico, “abbitanti in Roma”40. Nel 1614, anno del pro32 33 34 35 36 37 38 39 40

Ibidem, nota 27 b. Idem, p. 8, appendice 1. Ibidem. Idem, pp. 8-10, appendice 2-3-4-5. Cfr. V. Scuderi, Marino – Termotto, Cefalù p. 8, appendice 2. Idem, p. 9, appendice 4. Idem, p. 9, appendice 5. Idem, p. 5, nota 8.

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Fig. 9. Pietà (Giovan Maria Del Duca (?), primo quarto del XVII sec.); marmo parzialmente dorato. Gibilmanna, Museo Fra’ Giammaria da Tusa. 56


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cesso, Giovan Maria è già a Cefalù. Insieme con lui deve essere giunto in patria, forse per la prima volta, almeno uno dei riappacificati cugini, cioè Giovan Paolo. Alla luce di quanto detto acquista infatti nuovo valore l’atto di commissione del 1619, rintracciato da Rosario Termotto41, ad un “Paolo Lo Duca, oriundus alme Romae” della statua e del fercolo di San Giacomo per la chiesa eponima di Collesano, di cui diremo in seguito.

Tracce e problemi di “michelangiolismo” nel territorio madonita Dal quadro fin qui tracciato risulta chiaro che uno dei tramiti principali per la diffusione dei modi michelangioleschi in Sicilia deve essere stato quello importato dai vari componenti della famiglia Del Duca. Se però il loro apporto alla cultura del territorio messinese è stato ampiamente indagato42, risulta tutta da rivedere o da scoprire l’attività dei Del Duca nella loro terra d’origine, cioè a Cefalù e nel territorio circostante. La tradizione attribuisce a Giacomo alcune opere presenti nella cittadina normanna: il restauro del Convento di San Domenico, il portale della chiesa della Santissima Trinità (fig. 8), adiacente al detto convento, la Dormitio sul basamento della Madonna gaginesca datata 1533 (fig. 7) conservata in Cattedrale43, la Pietà del Museo “Fra’ Giammaria da Tusa” (fig. 9) a Gibilmanna44. Fra le opere non più esistenti sarebbe, invece, il Tabernacolo monumentale eseguito su disegno di Michelangelo e portato presumibilmente a Cefalù dal vescovo Francesco Gonzaga (1588–1592) nel corso dei lavori di adeguamento posttridentini della Cattedrale, in seguito rimosso dal vescovo Castelli nel 1784 41 Cfr. R. Termotto, ‘Pittori, intagliatori lignei e decoratori a Collesano (1570-1696). Nuove acquisizioni documentarie’, Bollettino della Società Calatina di Storia patria e Cultura, 7-9 (1998-2000) (Caltagirone 2000) pp. 281-283. 42 Cfr. Paolino, Giacomo Del Duca. Più recentemente T. Pugliatti, Il frammento della memoria. Sopravvivenze architettoniche del sec. XVI a Messina e nel messinese, relazione letta in occasione del convegno “Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale”, Convegno Internazionale di studi in onore di Maria Accascina, Palermo-Erice, Giugno 2006. 43 Cfr. Valenziano, Introduzione, p. 166. 44 Cfr. C. Valenziano, ‘Un opera di Jacopo ciciliano a Gibilmanna?’, L’Arte dei poveri. Museo “Fra Giammaria da Tusa” dei frati Minori Cappuccini. Santuario di Gibilmanna – Cefalù (Palermo 1999) pp. 34-37.

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Fig. 10. San Giacomo Maggiore (Giovan Paolo Del Duca, 1619); legno policromo e dorato. Collesano (PA), Chiesa di San Giacomo (v. tav. III). 58


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e distrutto durante l’incendio scoppiato nel 1809 nei depositi della Cattedrale, così come supposto da Crispino Valenziano45 che propone di identificare l’opera con quella offerta a Filippo II di Spagna per il monastero di San Lorenzo all’Escorial e mai giunta a destinazione: ipotesi senz’altro affascinante, ma senza riscontri iconografici e documentari, non facilmente verificabile, anche perchè le descrizioni che ci sono rimaste delle due opere divergono in alcuni punti46. Per ciò che riguarda le altre opere menzionate cercherò di approfondirne la lettura critica e stilistica. Diciamo subito che per quanto concerne il Convento di San Domenico lascio la parola agli storici dell’architettura, che hanno sicuramente più specifiche competenze per giudicare l’intervento di Giacomo. La prima opera scultorea che, secondo la tradizione, fu eseguita da Giacomo è dunque il basamento della Madonna della Cattedrale47. Essa è attribuita alla mano di Antonello Gagini, ma il modellato alquanto debole ed incerto fa pensare piuttosto ad un’opera di bottega. Di ancora minor qualità risulta essere il plinto di basamento che raffigura la Dormitio Virginis, in particolare il sarcofago della Vergine privo di qualunque riferimento prospettico e le figure realizzate con una plasticità approssimativa. Nulla in questo rilievo lascia presagire le opere più mature di Giacomo, esso è dunque da assegnare piuttosto ad un modesto frequentatore della bottega gaginiana di Palermo48. Stesso discorso per il portale della chiesa della Santissima Trinità. Mai infatti il Del Duca ha utilizzato in altre opere i motivi a “candelabra” e a “grottesche” presenti nel modellato cefaludese. Questi motivi sono invece comuni nel repertorio, ancora una volta, della bottega dei Gagini: si veda per esempio ciò che rimane nel Museo Diocesano di Palermo della monumentale Tribuna della Cattedrale, o i diversi portali con motivi simili sparsi per l’isola. È dunque più accettabile una realizzazione gaginesca dell’opera. Più complesso è il caso della 45

Valenziano, Introduzione, pp. 165-166. La descrizione del Tabernacolo per Filippo II è riportata in Benedetti, Giacomo Del Duca, pp. 468-471; la descrizione del Tabernacolo di Cefalù è riportata in Valenziano, Introduzione, p. 165. 47 Cfr. T. Viscuso, ‘Elementi dell’arredo plastico e pittorico delle navate dal ‘500 in poi’, Documenti e testimonianze figurative della basilica ruggeriana di Cefalù, catalogo della mostra (Palermo 1982) pp. 134-135. 48 Anche il presunto apprendistato di Giacomo presso la bottega dei Gagini risulta essere poco credibile e comunque non giustifica l’attribuzione dell’opera. 46

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Fig. 11. Crocifisso (Giovan Paolo Del Duca (?), 1632 ca.); legno policromo. Collesano, Chiesa Madre.

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Pietà di Gibilmanna. Il soggetto è chiaramente ripreso dall’omonima scultura vaticana non però reinterpretando il linguaggio michelangiolesco ma citandolo letteralmente in chiave popolaresca, con la sola aggiunta delle lumeggiature auree, tipiche delle opere di matrice gaginiana. La sua attribuzione ad un Del Duca è convincente ma probabilmente, come già intuito da Crispino Valenziano49, non a Giacomo, che utilizza i modi del maestro in maniera sempre originale, ma ad altro membro della famiglia. Come ipotesi di studio si avanza qui la proposta di identificare l’opera con la Madonna che Giovan Maria, del quale non si conosce nessuna opera certa, si impegna a realizzare al suo rientro da Roma50 o comunque con una sua ulteriore creazione. D’altronde sappiamo con certezza che don Francesco Del Duca succedette come priore di Gibilmanna allo zio Antonio e che, quindi, quando Giovan Maria gli scrive di rassicurare i committenti, che si intuisce essere una comunità religiosa, circa la realizzazione dell’opera51, probabilmente si riferisce ai frati Cappuccini, che fin dal 1535 si erano insediati proprio a Gibilmanna. L’unica opera documentata ad un Del Duca è, come detto sopra, il San Giacomo (fig. 10) di Collesano52, realizzato nel 1619 da Giovan Paolo, figlio di Ludovico. La mancanza nell’opera di un linguaggio di ascendenza michelangiolesca è spiegabile con il fatto che Giovan Paolo probabilmente non era mai stato prima a Cefalù e rimane talmente colpito dall’immagine del Cristo che campeggia nel catino della Cattedrale da volerlo omaggiare riproponendolo in quest’opera: infatti la scultura ha la posa e l’atteggiamento tipico più di un’icona orientale che di una statua lignea dell’inizio del XVII secolo, come pure la somiglianza fisionomica fra le due figure del Cristo e di San Giacomo è davvero notevole. Ma a Collesano esiste un’altra scultura dal “michelangiolismo” abbastanza evidente, nella possenza delle carni e nella muscolatura ben evidenziata, soprattutto nella zona toracicoaddominale. Si tratta di un Crocifisso (fig. 11) esposto sulla parete della 49

Cfr. Valenziano, ‘Un’opera’, p. 35. Cfr. Marino – Termotto, Cefalù, p. 8, appendice 1. Anche se il pagamento di ottanta onze per un’opera di dimensioni così ridotte sembra decisamente un prezzo troppo elevato. 51 Ibidem. 52 Cfr. supra, nota 41. Dell’opera mi sono già occupato in G. Di Fazio, In fimbriis aureis circumamicta varietatibus. La statuaria lignea nelle Madonie nei secoli XVI e XVII, tesi di laurea, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore prof. T. Pugliatti (a.a. 2003-2004) pp. 189-192. 50

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GIUSEPPE FAZIO

Fig. 12. Crocifisso, Giacomo e Giovan Maria Del Duca (?), fine del XVI – primo quarto del XVII sec., legno in origine policromo. Cefalù, Basilica Cattedrale (sacrestia). 62


JACOPO MIO GARZONE

navata destra della chiesa madre53. L’opera è da datare intorno al 1632, poiché in quell’anno si da inizio ai lavori per una Cappella del Crocifisso a sinistra del presbiterio, quella che oggi è occupata dalla tela della cosiddetta Madonna dei Miracoli54. Rosario Gallo, nel suo manoscritto, cita il nostro Crocifisso asserendo che esso sarebbe giunto a Collesano da Roma55, ma probabilmente non è il Crocifisso ad essere giunto da Roma bensì il suo autore, che dunque potrebbe essere un Del Duca e nel caso specifico, visto il precedente, ancora una volta Giovan Paolo. Un altro inedito Crocifisso (fig. 12), dalla chiara matrice michelangiolesca, è quello conservato oggi nella sacrestia della Cattedrale cefaludese e proveniente dal convento di San Domenico. Anche per quest’opera è realistica l’attribuzione ad un Del Duca, ad una mano diversa però rispetto al Crocifisso di Collesano. La splendida statua presenta grande affinità con un disegno di Michelangelo, oggi al Louvre. Potrebbe trattarsi di un’opera lasciata incompleta a Messina dallo scultore e terminata a Cefalù dal figlio Giovan Maria, infatti le esili braccia appaiono inadeguate al potente busto del Cristo; ma potrebbe anche trattarsi di un’opera realizzata “in toto” da quest’ultimo, ricordiamo infatti che Giovan Maria era entrato in possesso dei modelli in terracotta del padre, fra cui avrebbe potuto esserci anche un Crocifisso, e che egli dichiara di volersene servire al suo rientro da Roma per dei lavori che gli erano stati commissionati56. Uno di questi bozzetti in terracotta potrebbe aver fatto da modello per un piccolo rilievo marmoreo incastonato nel monumento funebre dei coniugi Cuccia, posto nella cappella della Pietà all’interno della chiesa Madre di Isnello. Esso raffigura la Vergine con il Bambino assisa su un trono di nubi e sorretta da testine di Cherubini (fig. 14). Il rilievo esula dal contesto locale e rimanda a moduli manieristi romani, stavolta non michelangioleschi ma di estrazione raffaellesca, alla Andrea Del Sarto o, meglio, alla Andrea da Salerno. Per la sua importazione nel paesino madonita il tramite più verosimile è, ancora una volta, quello dei Del Duca – l’abitudine di inserire all’interno del monumento funebre un piccolo rilievo marmoreo 53 54 55

Idem pp. 233-235 e relativa bibliografia. Cfr. R. Termotto, Collesano. La Basilica di S. Pietro (Castelbuono 1992) p. 100. Cfr. R. Gallo, Il Collesano in oblio..., ms., p. 328. Collesano, Archivio Storico Parrocchia-

le. 56

Cfr. Marino – Termotto, Cefalù, p. 8, appendice 1.

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GIUSEPPE FAZIO

Fig. 13. Tabernacolo Farnese (Giacomo Del Duca, 1565): particolare con la Crocifissione; bronzo. Napoli, Museo di Capodimonte.

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figurato, al posto del più usuale stemma araldico o del ritratto del defunto, è infatti una costante in Giacomo, vedi la Tomba Crivelli di Santa Maria in Aracoeli –. L’opera isnellese può essere collocata tra il 1620, quando Giuseppe Cuccia acquista il diritto di sepoltura nella cappella, e il 1632, che è la data apposta sul monumento funebre57. Il filone michelangiolesco nelle Madonie non si esaurisce però con le opere accostate alla cerchia dei Del Duca, altri canali devono aver contribuito alla diffusione in questo lembo di Sicilia dei modi del maestro fiorentino. Prendiamo ad esempio la mastodontica tela con il Giudizio Universale (fig. 15) dipinta da Giuseppe Salerno nel 1629 per la chiesa madre di Gangi58, chiaro riferimento al Giudizio sistino filtrato attraverso le varie copie e incisioni che lo riproducevano. Altra opera presente nel territorio madonita che esprime un linguaggio non isolano è il sontuoso San Sebastiano (fig. 16) di Petralia Soprana59. La figura del santo martire sicuramente non è un prodotto locale ma di un colto artista tosco-romano della prima metà del Cinquecento, che partecipa in prima persona all’evolversi di quel linguaggio plastico che, partendo da Donatello – confronta ad esempio il David del Bargello –, attraverso l’esperienza chiave di Michelangelo – tutta michelangiolesca è la conformazione toracicoaddominale – approda ai moduli manieristi – vedine l’esile figura estremamente allungata –. L’elevata qualità dell’opera ha fatto avanzare il nome di Jacopo Sansovino per la sua realizzazione, sull’argomento però ci si riserva di parlare più diffusamente in altra sede.

57 Cfr. I Li Volsi. Cronache d’arte nella Sicilia tra ‘500 e ‘600, testi di G. Salvo Barcellona, A. Pettineo, A. Anzelmo, R. Termotto, N. Marino, P. Ragonese (Palermo 1997) p. 105. 58 Cfr. R. De Maio, Michelangelo e la Controriforma (Firenze 1990) p. 93. 59 Di Fazio, In fimbriis, pp. 86-88 e relativa bibliografia.

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Fig. 14. Tomba Cuccia (Ignoto scultore della cerchia dei Del Duca, 1620-1632): particolare con la Vergine con il Bambino; marmo. Isnello, Chiesa Madre. 66


JACOPO MIO GARZONE

Fig. 15. Giudizio Universale (Giuseppe Salerno, 1629); olio su tela. Gangi, Chiesa Madre.

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GIUSEPPE FAZIO

Fig. 16. San Sebastiano (Ignoto scultore tosco-romano, prima metĂ del XVI sec.); legno policromo parzialmente dorato. Petralia Soprana, Chiesa di Santa Maria di Loreto. 68


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