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24 EAST racconti dal sud-est asiatico
scritto da carlo convertini.
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dedicato a mattia ed alice.
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per potervi mettere in viaggio lungo le prossime pagine p r o vat e a d i m m a g i n a r e , piuttosto che un romanzo, la struttura di un album musicale: ognuna delle storie che incontrerete non sono altro che delle brevi canzoni, con un ritmo ed una durata propria. le canzoni spesso sono scritte per sopravvivere in solitudine ed allo stesso modo ognuna delle storie in questo libro è stata scritta con uno stato d’animo, scenario ed intenzione diversa al fine di poter camminare da sole e, si spera, trovare spazio tra le memorie di chi legge. Buon ascolto.
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TRACCE Introduzione 1. Sette ore, sedicesimo piano, sesto giorno 2. La prima classe 3. Diversità di stomaco 4. Il cane non l’avevo considerato 5. Lavori in corso 6. Una sola stagione 7. Il tempo di annoiarsi 8. Mi aiuta con questo maiale? 9. Un giorno in una vita 10. Spiritualità 11. Coscienza pubblica 12. Tutto quel che ci lasciamo alle spalle 13. Una nuova ragazza 14. Spaghetti o noodles? 15. Jazz, vino rosso e torta di mele 16. Digiuno e levatacce 17. La prima fotografia 18. Tassisti - Atto Primo 19. Bendati 20. La voce di Singapore 21. La valigia 22. Quella notte in India 23. Definire la distanza 24. Un'alba chiamata Sibu 25. Il viaggiatore solitario 26. Il bagno all'aperto 27. Un addio corale 9
11 15 19 23 27 31 35 37 41 45 51 55 59 63 67 71 73 77 81 83 85 89 91 97 99 103 107 111
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Partire, forse arrivare Camminando Calcutta Sei un bicchiere d'acqua 24 ore da monaco buddista Indispensabile Indiana Jones un corno! Tassisti - atto secondo Della città Questo farà male L’arte di fare domande Cicatrice musicale Cinque uomini su una barca Tassisti - atto terzo La donna che sapeva Le viscere di Conrad Lo straniero Impronta Verso il prossimo porto
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INTRODUZIONE È buio pesto e non si vede nessuno in giro, si sente solo una voce che sussurra come da un posto profondo e pieno d’eco: "Non stai andando da nessuna parte...sei tutti gli errori che avresti potuto fare...ti devi dare una mossa! Hai quasi trent'anni e che cos'hai messo assieme? Non molto più di pezzetti e avanzi". Immagina di essere alla guida della tua macchina quando all’improvviso ti rendi conto di aver smarrito la via. Non hai una mappa o un telefono per chiamare aiuto. Che cosa fai? Aspetti di incontrare qualcuno per strada? Continui a muoverti nella speranza di trovare un segnale? Cosa fai se la strada è senza uscita? Fai retromarcia e torni indietro? Dov'è esattamente indietro? Le risposte a quelle domande io non le avevo, così ho fatto l'unica cosa che pensavo valesse la pena di fare: ho spento il motore ed ho proseguito a piedi. In altre parole sono sceso dalla mia vita, ho fatto scelte che 11
non avrei mai pensato di poter fare, nuotando tra dubbi e solitudine, sospinto proprio da quei pezzetti e avanzi, e da una domanda che, almeno per me, doveva trovare una risposta: esiste un'altra maniera di vivere? Di tutte le domande che mi ero fatto quella era la più scomoda, forse perché era quella giusta. Una domanda che è come un vento che soffia contro finché, finalmente, non lasci che la tua barca segua quel movimento, e quando ci si comincia a muovere basta poco per ritrovarsi in partenza. Mentre attraversavo i controlli di sicurezza lasciandomi alle spalle ogni cosa tutto quel che avevo era una valigia di 23 kg con sopra un'etichetta che recitava “questo è tutto quel che hai”, sprovvisto di un'idea precisa di quel che stavo facendo o dove fossi diretto ed in quel momento così delicato un pensiero è venuto a trovarmi: “L'indovino l’aveva previsto quindi qualsiasi cosa succeda, andrà tutto bene”. Quel pensiero è legato ad una storia troppo lunga per rientrare in questa introduzione, ma ciò che conta è che pochi mesi prima della mia partenza uno sconosciuto al quale a vederlo non avresti dato un soldo, in un anonimo bar nella parte orientale di quella meravigliosa città che è Istanbul aveva previsto quel che poi mi sarebbe davvero accaduto - “A Novembre 12
qualcosa cambierà il corso della tua vita!” - aveva detto. Ebbene, l’indovino aveva ragione, ho trovato una parte della risposta alla domanda proprio quel Novembre. Naturalmente io non credo a queste cose. Naturalmente si tratta solo di una fortunata coincidenza. Eppure quel giorno all'aeroporto con un biglietto di sola andata Roma-Kuala Lumpur, quel pensiero mi ha dato la spinta necessaria a camminare via dal mio passato e tutto quel che amavo e di fare un passo in una direzione che, in tutta sincerità, era come una curva di cui non puoi vedere la fine. Questo libro racconta tutto quel che ha seguito quel passo.
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sette ore, sedicesimo piano, sesto giorno Ho preso nota: a Kuala Lumpur sono le 10 del mattino mentre in Italia sono le 3 di notte e quelle sette ore di differenza per il momento fanno sentire tutto il loro peso. Ăˆ come se vivessi in due luoghi contemporaneamente, con il corpo che si ostina a seguire i ritmi italiani e la mia testa che cerca di concentrarsi sul presente, aggrappandosi a quei pochi riferimenti che finora sono riuscito a collezionare. Da qualche parte bisogna pur cominciare, ed allora comincio da un sabato qualsiasi, sedicesimo piano del Darby Park Hotel, un sabato che non sembra fermare i martelli pneumatici. Guardando fuori dalla finestra scorgo una successione molesta di cantieri, a dieci minuti a piedi dalle famigerate twin towers malesi - le Petronas Towers - torri d'acciaio e cemento visibili ovunque tu sia, ma anche simbolo di una nazione che dalla metĂ degli anni ottanta ha visto crescere 15
enormemente il proprio ruolo in quest’area del mondo e per non essere da meno ha pensato bene di dotarsi di un’icona alta 451 metri. Sono trascorsi sei giorni dal mio arrivo e mi resta ancora appiccicata addosso un po’ di confusione, anche perché mi è mancato il tempo di esplorare il vicinato. Ho investito le mie energie principalmente in due attività: capire in che cosa consiste il mio lavoro e trovare un tetto sotto cui potermi proteggere dalla pioggia torrenziale. Ad essere onesti molto più nella prima che nella seconda. Sin da subito ho capito che c’è molto da imparare e se non voglio farmi sbattere fuori e gettare al vento questa opportunità ho bisogno di sentirmi a mio agio quando le cose cominceranno a muoversi. Mi ritrovo ancora una volta ad avere a che fare con una moltitudine variegata di sconosciuti e le domande che si portano dietro, alcune piuttosto bizzarre, altre molto più semplici e dirette come “Ma che diavolo ci fai qui?”. Non saprei, c’è sempre una risposta facile, ma spesso non intrattiene l’interlocutore. Chissà poi come ci sono finito qui, quante strade, decisioni, precipizi e deviazioni mi hanno portato per mano a questo giorno qualsiasi, eppure la cosa che conta è che in qualche maniera, quando il telefono è squillato io ero pronto, pronto per dire di si ad una sfida del genere. 16
Il presente allora, che è tutto quel che conta. Fisicamente si registra un leggero shock dovuto alla escursione termica a cui sono stato sottoposto: la media giornaliera è sopra i trenta gradi mentre io arrivo dall’inverno europeo e quando cammino fuori dai locali condizionati è un po’ come se attraversassi qualcosa di solido: quest’aria umida e carica ti si poggia sulle spalle, è lì testarda a contrastare ogni gesto ed il clima, lo sappiamo tutti, è una di quelle cose che non puoi ignorare troppo a lungo. Infatti qualche giorno fa quando ho avuto la brillante idea di raggiungere il campus dove lavoro a piedi nonostante fosse ormai chiaro che dietro l’angolo o forse dovrei dire sopra la mia testa c’era un temporale in arrivo. L’acqua improvvisamente aveva sostituito l’aria e nonostante avessi comperato un ombrello lungo il tragitto, quando sono finalmente arrivato i miei colleghi mi hanno chiesto se mi ero appena fatto la doccia. La colpa di tutto ciò è dovuta alla posizione della Malesia, così vicina all’equatore, nel bel mezzo del Mare Cinese Meridionale e divisa in due parti - quella peninsulare e l’isola del Borneo - protetta e circondata da Tailandia, Filippine, Singapore ed Indonesia, con un clima tropicale che potrebbe essere descritto sinteticamente come: umido e provvisto di una sola 17
lunga interminabile monotona stagione - estiva sopra i trenta gradi, interrotto di quando in quando da burrascosi temporali che nella maggior parte dei casi si scatenano attorno alle 6 del pomeriggio (che è l’ora in cui finisco di lavorare). Quindi, signore e signori, una volta registrati posizione e condizione climatica posso ufficialmente dichiarare che l’avventura è cominciata, l’imperativo adesso è raccogliere informazioni, stare vicino alla gente, imparare facendo, re-inventarsi e costruire le fondamenta con ogni mattone possibile. Tutto è andato bene per adesso, anche quando ho fatto la valigia c’era davvero poco tra cui scegliere dato che ho passato gli ultimi anni ad alleggerirmi. È buffo notare che secondo la compagnia aerea la mia vita pesa 23 Kg che stanno poi in una valigia che, a ben pensarci, puoi abbracciare. Mi piace quindi dire che “la mia vita sta tutta in un abbraccio”. Dopo tanto alleggerirsi adesso è giunto il momento di invertire la rotta. Sono qui per dimostrare, innanzitutto a me stesso, che esistono altri mondi e che evolversi è l’unica ricetta per non rinchiudersi in se stessi fino a considerarsi finiti. Sarà mia premura quella di trovare le parole giuste per raccontare questo viaggio ad Est nella sua cruda e calda bellezza. 18
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la prima classe La mia prima lezione si è svolta nella classe BB3, una stanza 4x10 metri che mi ha subito fatto pensare ad un container. La cosa non mi ha sorpreso visto lo stato del resto del college, ricavato sulla base di un complesso già esistente alla quale sono stati successivamente aggiunti un paio di nuovi blocchi attorno al nucleo centrale. La classe quindi si chiamava BB3. Un piano terra a cui sono arrivato, chissà da dove, in perfetto orario: nove del mattino, accendo le luci, l'aria condizionata ed il proiettore. Connetto il cavo video al mio portatile e sprovvisto di un registro attendo pazientemente l’arrivo degli studenti, chiunque essi siano. Il corso assegnatomi quel giorno era, per mia stessa ammissione, piuttosto noioso: Scienza delle Costruzioni. Trattasi di una quantità indicibile di nozioni su come costruire un edificio dalle fondamenta su su fino al tetto. Argomenti del genere 19
annoierebbero chiunque così mi è sembrato necessario escogitare qualcosa per mantenere alto il morale della ciurma e rendere le lezioni più interessanti, anche perché francamente parlare di sezioni, calcoli e grafici sugli spessori di un muro vuol dire perdere metà della classe nei primi dieci minuti ed il resto entro un’ora. Come biasimarli? Trattandosi della prima lezione del nuovo trimestre ho fatto ciò che mi è stato suggerito di fare, ossia una breve introduzione ed un'infarinatura generale sul corso. In altre parole si cominciano a prendere le misure, così ho parlato per metà del tempo di cosa sarebbe successo nelle settimane successive e l’altra metà di come ero arrivato a sedermi lì davanti a loro data l’evidente curiosità che si respirava nell’aria. Seduti nei loro banchi, li ho osservati uno ad uno ed ho pensato: che gran bel minestrone la mia prima classe! Ricordo un ragazzo Francese, una ragazza Turca, cinque Cinesi-Malesi, un Indiano-Malese, un Indonesiana ed un ragazzo Iraniano. Ben presto mi sono stancato di ascoltare la mia voce parlare così ho sentito il bisogno di capire chi avevo di fronte e, per cominciare, gli ho chiesto di indicarmi il miglior ristorante nella zona e anche dove potevo comprare uno zaino per i miei viaggi: domande classiche insomma. Sovvertendo i cosiddetti protocolli dopo un 20
po’ ho anche chiesto di illuminarmi sulle loro generalità e dopo aver provato invano a ripetere e memorizzarne i nomi ho dichiarato che mai avrei saputo ripeterli (cosa peraltro non vera). La prima classe non è stata una lezione completa, la lezione sarebbe dovuta durare quattro ore ma non ho superato la seconda. Orari a parte ho comunque dimostrato grande onestà, infatti in piedi di fronte alla classe ho sussurrato “ragazzi, lasciate che vi dica una cosa, questo è potenzialmente (con grande enfasi sulla parola potenzialmente) un corso che potrebbe risultare noioso...ma voi siete stati fortunati perché ci sono qui io e quindi farò di tutto per trasformarlo in qualcosa di divertirete!”. Naturalmente ho subito chiuso lì la lezione senza spiegare come sarei riuscito a raggiungere quell’obiettivo. Ho pensato fosse una frase d’effetto, suonava bene. Un'altra lezione mi attendeva al pomeriggio e quindi non c’è stato tempo per metabolizzare quel che mi stava accadendo. Mi sono forzato di vivere quella situazione in maniera del tutto naturale: il meinsegnante, il proiettore, il parlare per ore in una lingua straniera. Naturalmente strano. Quella mattina la mia prima classe si è conclusa sprovvista di titoli di coda, ossia di domande bizzarre 21
poste nel momento meno opportuno, domande che non avrebbero tardato a raggiungermi nel corso delle settimane e mesi successivi. Domande che nulla hanno a che fare con il corso in questione, domande che credo ogni docente, a prescindere dal rango, ad un certo punto deve affrontare. Ne cito alcune: A) B) C) D)
Quanti anni ha? Lei è sposato? Possiamo aggiungerla su Facebook? Ci può insegnare una parola in italiano?
PS: interrogato su come avrebbero dovuto chiamarmi non sono riuscito a trovare niente di meglio di: Mr.Carlo.
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diversitÀ di stomaco Più del colore della pelle, più della religione, più della lingua e del conto in banca, è lo stomaco a fare la differenza. In una città che per costituzione raccoglie una miriade di culture differenti molto presto ho dovuto fare i conti con la manifestazione culinaria di questa diversità e ristoranti di ogni colore, profumo e nazionalità - dall’Iran al Giappone, dall’Australia al Perù ogni piano terra presenta una piccola porta verso un’altra nazione e come per magia basta fare un passo e dalla strada si entra in un microcosmo fatto di noodles di ogni spessore, involtini, zuppe e salse, spezie infuocate, materiali gelatinosi, piatti dei quali non vorresti sapere e bevande multicolore. Così, come in un carnevale da tavola, ogni giorno mi ritrovo a consumare pasti di varia natura e per sopravvivere all’impiastro ho dovuto adottare delle contromisure, una formula semplice ma efficace, una 23
sorta di motto da presentare quando è giunto il momento di ordinare: “Io mangio qualsiasi cosa p u rc h é n on s i a p i c c a n t e - gelatinoso-fr ittooleoso”. Perché è in questi momenti che lo stomaco più di altri organi prende il sopravvento. La mia teoria, per così dire, è che cresciamo tutti assimilando un’educazione semplicemente nutrendoci, un’educazione difficile da sradicare o mettere a tacere. Lo stomaco poi - ogni stomaco - impara a conoscere i propri limiti modellati un pasto alla volta attorno alla nostra cucina nativa ed i nostri stessi geni. Ma anche in questi casi c’è chi è più fortunato ed io ne ho conosciuti a frotte di gente che avrebbe potuto mangiare delle pietre appena scottate in padella a colazione ed una costata di vetri frantumati per pranzo senza nemmeno il bisogno di fermarsi a chiedere un amaro. Per gli altri, come il sottoscritto, dotati di un organo sensibile e irritabile, l’approccio al cibo diventa un dettaglio tutt’altro che trascurabile e se ci penso un poco alla volta, il fatto di essere italiano, forse, amplifica ulteriormente la questione. Ero seduto a pranzare con alcuni miei amici - un Indiano, un Vietnamita, un Neozelandese ed un’Americana - e mentre chiacchieravamo in armonia raccolti attorno allo stesso tavolo qualcosa dentro di noi ci rendeva profondamente diversi. Il mio amico 24
Indiano, ad esempio, sosteneva di mangiare raramente qualcosa di non-piccante, l’Americana invece avrebbe gradito del latte con i suoi hamburger, il Vietnamita poi sosteneva che ogni tanto gradiva la carne di cane, mentre il Neozelandese avrebbe potuto mangiare una scatoletta di cibo per gatti senza fare una piega. Visti da una certa distanza raccolti attorno a quel tavolo c’erano un gruppo di persone divise a metà. Sopra il livello del tavolo infatti eravamo tutti più o meno simili, parlavamo la stessa lingua e riuscivamo a convivere e comunicare, ma sotto il livello del tavolo vi era una tale diversità di stomaco da renderci tutti egualmente bizzarri. Se qualcuno fosse così matto da organizzare un campionato mondiale di stomachi, quello Italiano credo risulterebbe tra i più delicati e forse capitolerebbe nei gironi di qualificazione. Forse la cucina italiana è come una lingua che parlano tutti: non ha bisogno di traduzioni, di inter pretazioni, magheggi o rielaborazioni. Una volta qualcuno mi ha chiesto come definirei la cucina italiana, io ci ho pensato un attimo e poi gli ho detto: “Un piatto italiano lo riconosci subito perché quello che vedi è quello che poi finirà nel tuo stomaco, nella transazione non succede nulla di strano”. 25
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il cane non l’avevo considerato Una casa. Un posto a cui tornare quando la notte ti si chiude addosso e le mani non riescono a stringere molto di più di quest’aria satura di acqua. Un luogo remoto che pian piano si fa sempre più vicino, che prima di essere luogo fisico è solo un angolo nascosto della tua mente, una visione, una foto scattata per sbaglio. Mi ci è voluto del tempo, chilometri, ore gettate al vento, discussioni e amarezza lungo le gengive. Cercare casa è sempre una scocciante lotteria in cui le tue aspettative valgono quanto la polvere: ogni porta che si apre distrugge immancabilmente l’immagine che l’annuncio ha descritto. Così le enormi camere diventano dei loculi, i soppalchi sono due pezzi di legno attaccati a due metri dal pavimento ed il balcone assomiglia ad un’uccelliera. 27
Sesti, ventesimi, quarantesimi piani che quando ci arrivi guardi in basso e vedi la città spalmata, brulicante, dispersa all’orizzonte e ti domandi: come sarà vivere in questa casa?. Per giorni e settimane ti ritrovi proprietari arroganti in bettole abitate, schiacciato come sardine salgono e scendono, in stanze dove del sole sembra voler entrare.
a discutere con miracolosamente in ascensori che nemmeno la luce
Col tempo ho imparato a non sottovalutare quelle poche ore buone in cui sei ai box e la casa rappresenta una roccaforte di cui posso saggiare i confini, chiudere gli occhi o piangere nella consapevolezza che quei muri lasceranno che tutto passi. Così a forza di entrare nelle case sbagliate alla fine l’ho trovata! Spaziosa e su due livelli, con una buona cucina, giardino, piscina che in un paese dal clima tropicale è una configurazione di default - ed un husky (femmina) di proprietà dei miei inquilini, una coppia neozelandeseindonesiana che dall’oggi al domani hanno incrociato il mio percorso con un corredo peloso. Le mattine poi, quei sabati o domenica mattina, sono gloriosi e la città con il suo ruggito, i suoi affanni e malanni sembra essere lontanissima.
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Non ricordo quante case ho cambiato negli ultimi dieci anni e a ben guardare la mia vita chissà quante ne cambierò in futuro, ma ricordo di certo che ognuna di loro aveva un volto, un odore ed un costo preciso. Anche quelle erano case a cui tornare nel cuore della notte quando non era rimasto altro da fare, case fatte di stanze da addobbare, di piccoli segreti che conoscevi solo col tempo, ma anche case fatte di persone con cui ho condiviso molto o nulla, ma ho sempre condiviso.
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lavori in corso, come sempre Eccolo che arriva. Questo è uno di quei famosi lunedì mattina che ci eviteremmo volentieri: sapete quello di cui sto parlando. Quei lunedì mattina fatti apposta per metterti di cattivo umore, senza via d’uscita, senza preavviso, senza sconti possibili. Quei lunedì mattina che quando arrivano c’è solo una cosa che puoi fare: bere un caffè doppio, fare una doccia gelata e vestirti in modo tale che il weekend ti resti addosso ancora per un po’. Seduto alla mia scrivania circondato da fogli di ogni dimensione, modelli in scala dei miei studenti, una tazza gialla di caffè istantaneo ed un cane di vetro regalatomi da una collega cinese* comincio una nuova settimana lavorativa come chiunque altro. Sono passate otto settimane da quando sono entrato nel fantastico mondo dell’insegnamento e senza accorgermene ho attraversato quel confine che separa studenti ed insegnanti fino a ritrovarmi dall’altra parte. 31
Ma a ben guardarmi non credo di averlo attraversato del tutto, infatti la mia sensazione è di essere rimasto incastrato nel mezzo. La sede centrale del college per cui lavoro è a Singapore e negli ultimi vent’anni questa istituzione si è sviluppata a macchia d’olio, dall’India fino ad arrivare in Nuova Zelanda, con insegnanti e studenti da tutto il mondo e che riescono a comunicare grazie all’inglese che, letteralmente, fa da collante, da moneta di scambio tra cotanta diversità.
Un lunedì qualsiasi apri la porta e mezzo mondo ti si spalanca davanti. Colleghi che provengono dalla Polonia, Svezia, Lituania, Cina, Filippine, Scozia, 32
Giappone, Corea del Sud e studenti dalla Turchia, Iran, Francia, Indonesia, Taiwan, India, Maldive, Sudan, Kazakhstan... Insegnare è un po' come fare uno show per un numero limitato di spettatori paganti ed esigenti, è un po’ come recitare, solo che il pubblico qui è più importante di te e non tarda a fartelo notare: domanda, prende appunti, registra, va tenuto sveglio e ricettivo, va seguito, ascoltato, coccolato, istruito. Non basta andare in scena e recitare la parte in maniera impeccabile, bisogna trasmetterla, anzi, trasmetterla è la cosa che più conta alla fine della fiera. Un giorno, forse un venerdì, che il venerdì uno prende tutto quello che della settimana non ha funzionato e miracolosamente lo trasforma in un “va tutto bene”, rientrato da una lezione ho ritrovato sulla mia scrivania un piccolo box contenente dei biglietti da visita e sotto il mio nome c'era scritto: Interior Design Lecturer. Perbacco! La vista di quel titolo mi ha lasciato un po’ perplesso: per la prima volta qualcuno prepara un biglietto da visita per me ed è davvero una strana sensazione, qualcosa che non mi appartiene. Ho guardato il biglietto per qualche secondo e poi ho concluso che mi sentirei molto più a mio agio se sotto il mio nome ci fosse scritto: Lavori in corso, come sempre. 33
* Il calendario cinese assegna ai nati di ogni anno un animale e, per quanto mi riguarda, io sono nato nell’anno del cane il che naturalmente genera tutta una serie di peculiarità esattamente come succede con i segni zodiacali.
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una stagione sola Una stagione sola, fortunatamente la più calda possibile. Dodici mesi di sole all’anno si portano via gli alti e bassi, le pause e la linea che separa il dentro dal fuori. Vivere in un posto con una sola stagione restituisce più spazio perché interno ed esterno sono la stessa cosa, ti porta a riconoscere la tua pelle, a sentirti libero di andare per chilometri senza il fardello del meteo ed il peso delle cose. La Malesia è una terra gonfia d’acqua, di natura rigogliosa, prepotente e vasta ma nonostante ciò il pensiero di avere una sola lunga stagione è un po’ come fare lo stesso lavoro per tutta la vita: è monotono. L’inverno ti spinge a proteggerti, a cambiare le tue abitudini perché attorno a te tutto si trasforma e si evolve mentre qui un albero avrà sempre lo stesso vestito e non sentirà mai freddo. Ma quanto il meteo può influenzare il mio vivere? Come reagisce il mio corpo? Forse in questa giostra 35
avrò una cosa in meno di cui preoccuparmi dato che qualsiasi cosa decida di fare i trenta gradi sono sempre garantiti. Viaggiare, a mio modo di vedere, ha un sapore completamente differente: io sono il mio bagaglio e la necessità di avere un tetto sopra la testa non è poi così reale. I confini sono umidi, facili da attraversare e si perdono in un verde rigoglioso e misterioso. A parte vivere senza un ritmo naturale ho riconosciuto un altro effetto collaterale dovuto al clima locale: questa è di fatto una vita ad aria condizionata. Nei taxi, nella metropolitana, in ufficio e in tutti gli interni possibili c’è sempre in agguato quella brezza ingannatrice o, come mi piace chiamarla, la stagione portatile. La città intera è collegata ai generatori di fresche carezze che consumano quantità abnormi di energia pur di tenerci surgelati. Camminandola posso sentire le pulsazioni dei palazzi e degli enormi grattacieli che ingurgitano energia come sanguisughe attaccate al terreno. Con una stagione sola non hai bisogno della cravatta e cammini a piedi nudi per la maggior parte del tempo, ed anche quando il sole è così solido da poterlo toccare devi sempre aspettarti che piova e che succeda alla maniera tropicale. 36
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il tempo di annoiarsi Quando finisco una lezione se per un attimo smetto di pensare al fatto che sono nel Sud-Est asiatico, in mezzo alla giungla, docente per un college internazionale, facendo un lavoro che praticamente mi sto insegnando da solo, tutto quello che vedo davanti a me sono una ciurma di ragazzini che consumano intere giornate divisi tra l’ultima applicazione dell’Iphone, un commento o una foto su Facebook e, nel tempo vuoto che gli resta dalle prime due attività, a guardare la televisione. Il quadro che ho di fronte è disperato e mi domando come posso ispirare le loro menti quando tutto il tempo che hanno a disposizione per pensare viene spazzato via dalla Facebook attitude, come mi piace chiamarla. L’espressione vuole essere provocatoria e sottolinea l’incapacità di sviluppare un’opinione propria e di ridurre tutto il nostro pensare ad un mi piace o non mi piace. Tutti i miei studenti sanno che ho una pessima 37
opinione di Facebook, che non guardo la televisione da anni e che non possiedo un Iphone. Questo genera sconforto e disorientamento nei loro volti. Uno di loro un giorno ha alzato la mano e mi ha chiesto: “E che cosa fa?”. Così ho deciso di raccontargli il perché io sono stato più fortunato di loro e che la mia fortuna è stata crescere in un mondo in cui c’era il tempo di annoiarsi. Gli ho raccontato cosa significa crescere senza Facebook e telefonini, quando i personal computer erano rarissimi ed i videogiochi stavano su una cassetta e, se si voleva giocare, ci voleva un tempo interminabile: praticamente non si giocava, si aspettava di giocare e basta. Ai miei tempi (questo mi ha fatto sentire vecchio) per trovare le risposte si tirava la giacchetta di chi ci stava attorno oppure si mettevano le mani su libri fatti di carta, non nella bianca pagina di Google. Si stava fuori, si stava per strada vivendo nel mondo reale e non attraverso un qualche surrogato elettronico. Ai miei tempi ci si annoiava, diciamolo, e a forza di annoiarsi uno si ritrovava a fare i conti con i propri pensieri che, per quanto stupidi possano essere, erano comunque un segno di attività celebrale. Parlando di queste tematiche mi sono lasciato trasportare e mentre tutti continuavano a guardarmi 38
come se venissi da un altro mondo (cosa, peraltro, assolutamente vera) gli ho urlato “...a voi manca lo spazio per pensare! Non vedete che tutte queste cose vi stanno fregando del tempo?!? Siete continuamente distratti, non riuscite a soffermarvi su niente! Tutto è intrattenimento, un gioco che dura dalla mattina alla sera!”. A parole del genere scagliate senza grossi preamboli non poteva che seguire un languido silenzio: una cosa piuttosto rara in una classe di adolescenti. Prima di lasciarli andare gli ho chiesto di farmi un favore, anzi, di farsi un favore: “chiudete la finestra di Facebook, spegnete la televisione e, letteralmente, nascondete il telefonino per qualche ora e fate qualcos’altro, qualsiasi cosa sia, persino nulla, annoiatevi, regalatevi un momento di pace, guardatevi attorno, guardate il mondo e le persone con i vostri occhi e non attraverso un display”. So benissimo che la mia è una battaglia persa in partenza ma voglio poter credere che magari un giorno uno di loro aprirà un libro, andrà a vedere una mostra o pagherà per vedere un film che non sia stato sceneggiato per una spugna (con tutto il rispetto per gli invertebrati).
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mi aiuta con questo maiale? Aggettivi, voglio collezionarli per definire l’atmosfera che si respira in questa città e tutto ciò che mi viene in mente ha a che fare con le parole mix, minestrone, incrocio, sovrapposizione, puzzle. Perché è così che vedo questa realtà a causa di tutte le prospettive, culture e lingue che si sovrappongono quotidianamente fino a costituire il tessuto vivido dentro cui mi muovo. Questa giovane nazione si è dichiarata indipendente dalle mani inglesi nel 1963 e si è costituita sulla base degli accordi presi tra tre diverse razze già presenti sul territorio - Malesi, Indiani-Malesi e Cinesi-Malesi generando contraddizioni che a volte diventano ricchezza culturale altre fonte di contrasti più o meno accesi. Vivo in un minestrone e la cosa mi fa sentire a mio agio perché a prescindere di quale cultura si parli la 41
diversità è a mio modo di vedere uno dei valori più importanti che abbiamo e va salvaguardata ad ogni costo, anche quando a causa del colore smorto della mia pelle vengo trattato come una banconota con due gambe o come l’ennesimo turista imbecille che non ha alcuna idea di dove si trovi e si sforza inutilmente di pronunciare i nomi delle strade. La mia prospettiva, come materia plastica e calda, si evolve con il passare del tempo e quasi per osmosi la percezione del mondo che mi circonda assume pian piano dei contorni definiti. Si comincia da cose piccole, come spiegare ai tassisti la strada per arrivare a casa “gira a sinistra e poi prosegui fino all’ambasciata del Cile, devi fermarti dove c’è un muro bianco e se vuoi tornare indietro devi fare inversione perché la strada, più avanti, è chiusa”. Poco importa se quelle strade sono le uniche che conosco in tutta la città: si è innescato un processo mentale inarrestabile in cui, nei limiti del possibile, cerco di integrarmi con qualcosa di molto distante dal mio bagaglio culturale. Quando vivevo a Milano ho imparato che puoi anche provare a lottare con una città, puoi sforzarti di evitare ciò che non ti piace, puoi provare ad immaginarla diversamente, ma sarà del tutto inutile: prima impari a capirla ed accettarla e prima comincerai a trarne beneficio. Come ogni altra città anche Kuala Lumpur 42
ha le sue regole: come prendere un taxi o attraversare la strada, quali mezzi di trasporto evitare, i posti dove puoi e non puoi mangiare, la sua andatura, come interpretare qualcuno che cerca di darti delle indicazioni e via dicendo. A questo poi bisogna aggiungere tutta una serie di tasselli legati alle varie culture e religioni locali, che richiedono il giusto rispetto e che attraversano il mio vivere quotidiano da ogni angolo possibile. Sono andato a fare la spesa qualche giorno fa - attività che notoriamente trovo deprimente - e la cassiera, una ragazza Malese di religione Musulmana, mi ha chiesto un favore. Mi ha chiesto se potevo prendere in mano il prosciutto di cui vado ghiotto e passarlo davanti allo scanner per i codici a barre dato che lei non poteva farlo trattandosi di carne di maiale. Quello che mi affascina di questa città è soprattutto questa continua sovrapposizione di culture, che è forte e persistente, un odore pungente, una continua alternanza di piccole e grandi tradizioni, magari bizzarre, ma sempre uniche e assolutamente dignitose. Non mi interessa minimamente giudicare queste usanze, al contrario, voglio osservarle e cercare di comprenderle.
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Sarebbe facile presentarmi aggrappato al mio fardello culturale Italiano-occidentale e comportarmi di conseguenza, bollando tutto quello che mi circonda come un’incomprensibile accozzaglia di credenze, ma sarebbe come se la mia cultura diventasse uno scudo dietro cui nascondermi quando invece dovrebbe essere un materiale di scambio, un porto da cui partire alla scoperta di nuovi mondi. Non esistono culture migliori di altre, non esistono religioni giuste o sbagliate, come non esistono razze superiori. Giochiamo a questo gioco e finiamo con l’ammazzarci l’un l’altro. Ogni volta che ci si trova di fronte ad una cultura diversa dalla propria bisogna fare i conti con delle differenze, a quel punto è il singolo individuo che deve scegliere se dare più peso a ciò che ci divide o a ciò che ci unisce. Con il mio prosciutto in mano ho sorriso alla cassiera e ho dovuto provare più volte prima di riuscire a far funzionare lo scanner e portarmi a casa il mio appetitoso maiale, ma in quel frangente non ho minimamente pensato che quella situazione fosse strana o paradossale, ho solo pensato che non sono portato per fare il cassiere.
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un giorno in una vita La sveglia dentro il telefono produce il primo suono della giornata. Sono le 6.53 del mattino e nascondersi tra le lenzuola non servirà. Con grande amarezza faccio il primo passo fuori dal letto. Mezzo nudo mi muovo verso il bagno. Piscio guardando fuori dalla finestra per controllare che tempo fa, ma non riesco a vedere il sole. La faccia va lavata svariate volte, a schiaffate. Post-it sullo specchio “Penso quindi sono”. Non riesco a pensare a nulla. Doccia prendimi con te. Che giorno è oggi? Scendo in cucina. Eccoti Bialetti! Il secondo suono giornaliero è il fischiettio della moca. Un’intera tazza di caffè Balinese, succo d’arancia, cereali. In piedi davanti all’armadio mi accingo svogliato alla selezione vestiti. Ho lezione tutto il giorno. Camicia sobria, pantaloni, sneakers. Ricomponi la borsa. Dov'è il caricabatterie? Mettiti le scarpe, è ora di tornare per 45
strada. Primo buongiorno della giornata alla guardia di sicurezza. Gli occhi sono mezzi aperti. Non riesco a pensare a nulla. Primo tentativo: fallito. Secondo tentativo: fallito. Terzo: un taxi mette la freccia ed all’ultimo momento possibile accosta. “Buongiorno, Jalan Damai, Raffles College, ti mostro la strada”. Accomodati. “Gira a sinistra”. Finestrino chiuso, aria condizionata. Anche stamattina la radio è inascoltabile. “Stai sulla destra, svolta qui, qui! Adesso sempre dritto”. Paga la corsa e scendi più in fretta che puoi. Terzo buongiorno alla guardia di sicurezza. Timbra il cartellino. Serie di buongiorno a colleghi vari mentre raggiungo la mia scrivania con sorriso auto-indotto. Ho tempo per un altro caffè? Avvia il PC. Controlla la posta ufficiale. Il caffè, eccolo che comincia a fare effetto. Raccolgo i vari cavi e la borsa. Trasferimento dal blocco A al blocco B. Accendo le luci al neon e l’aria condizionata. Serie di buongiorno agli studenti che miracolosamente già siedono nei loro banchi. Accendo il proiettore, il laptop e ripulisco la lavagna. Controlla la posta privata. Apri i file giornalieri. Aspetta che tutti siano in classe. Rimprovera i ritardatari con aria 46
severa. Registra le presenze. Si parte. Pensieri sparsi cominciano ad affollare la mia mente. Concentrati sulla lezione odierna. Il proiettore aiuta. Parla per tre ore, mantieni alta l’attenzione, fai domande, falli ridere, raccontagli delle storie. Cammina in mezzo a loro, falli sentire sotto pressione. Continua a parlare. Spiega, fai domande. Respira adesso. Sto parlando troppo e non sopporto di sentirmi parlare. Ho bisogno di una pausa. “Facciamo una pausa di dieci minuti!”. Gli occhi sono completamente aperti adesso. Corsa in bagno. Piscia, lavati la faccia, ignora lo specchio. Asciutto torna in classe. Dove sono gli studenti? Rimproverali con disappunto. Finiamo questa lezione. Assegna i compiti. Allarme: è in arrivo una valanga di stupide domande. OK, è ora di chiuderla qui. Torno in ufficio. Controlla la posta. Ho fame. Chi viene a pranzo? Allora? Pranzo? Due colleghi rispondono all’appello. Cinque minuti di cammino sotto il sole verso l’area mensa dell’hotel più vicino. Scegli cosa mangiare: Cinese? Thai? Malese? Subway? McD? Vietnamita? Vegetariano? Indiano? Italiano? Il solito: riso con verdure a me sconosciute e pollo.
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Paga il pranzo e raggiungi i tuoi colleghi. Brevi conversazioni di natura lavorativa. Devi andare, hai un’altra lezione nel pomeriggio. Rientra al college senza sudare. Entra in classe. Uno studente dorme sul banco. CHE DIAVOLO CREDI DI FARE? Aspetta che tutti siano arrivati. È una lezione pratica. Ripartisci istruzioni. Tienili occupati con esercizi di ogni genere. Fai domande, fai qualche battuta. Respira adesso. Prenditi una pausa. Corsa in bagno. Piscia, lavati la faccia. Devo proprio essere io quello nello specchio. Torna in classe. Tienili occupati. Chiamali usando dei soprannomi. Assegna i compiti con precisione chirurgica. Il pomeriggio è ormai andato. Torna in ufficio. Siediti e rilassati. Controlla la posta. Rispondi alle email, sms, Skype, telefonate perse. Auricolari nelle orecchie = messaggio subliminale: non rompetemi le palle! Che ora è? Che fare questa sera? Controllo il calendario. Nessun piano. 18.15 torniamocene a casa. Successione di ciao e buona serata. Timbra il cartellino. Cammina fino al supermercato. Compra del cibo per il frigorifero. Torna a casa stracarico ascoltando però 48
della buona musica. Quando è stata l’ultima volta che hai fatto la spesa? Pensiero lucido: odio fare la spesa. Ho la testa piena di note. La guardia apre il cancello. Riempi il frigorifero e la dispensa. Spogliati e preparati per la piscina. Nuota, fai esercizio. Torna in camera. Doccia veloce. Indossa una maglietta qualsiasi, flip-flop, shorts. Scendi in cucina. Non essere pigro. Cucina qualcosa di gustoso. Tagliata di manzo con rucola e pomodorino fresco (le scaglie di parmigiano sono un lusso). Mangia. Pensiero lucido: mangiare da soli può essere deprimente. Torno in camera. Accendo l’aria condizionata. Controllo la posta ed il telefono. Scelgo un bel film. Come mi sento? Mi addormento ma fortunatamente la sveglia è stata impostata. C’è un nuovo messaggio ma è troppo tardi per altre parole. Spengo il telefono. Questa giornata è finita.
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spiritualitÀ Contrasti. L’Italia è un Paese, almeno sulla carta, monoteista il che si traduce nel fatto che la gente da per scontato quella che è la tua religione. Al contrario da questo lato del mondo la religione rappresenta un tassello che raramente viene dato per scontato, ha un peso specifico e gioca un ruolo tangibile nella vita quotidiana delle gente. Ma piuttosto che parlare di religione o di religioni, a me piace parlare di spiritualità che mi pare essere qualcosa che abbiamo realmente tutti in comune, qualsiasi sia il nostro credo o sembianze del nostro dio. La spiritualità è qualcosa che sta realmente vicino all’uomo e può essere considerata un valore universale indipendentemente da quelle che sono le ragioni, le culture o le manifestazioni esteriori alle quali attribuiamo infinita importanza. Ma in cosa consiste la mia spiritualità? Me lo sono mai domandato? Dev’essere qualcosa che nulla ha a che fare con la vita di tutti i giorni, con quell’immagine visibile e superficiale che mostriamo al 51
mondo in un giorno qualsiasi. La spiritualità dev’essere dentro di noi, o almeno in un luogo difficile da raggiungere, un luogo silenzioso, un luogo dove puoi entrare solo se prima hai abbandonato i vetri della vita edonistica, un luogo solitario, un luogo che vive laggiù alla fine della strada. Un luogo che è in realtà una camminata, un cammino fatto a piedi nudi, che libera la mente e allevia il cuore e i suoi inutili capricci. Chissà se ci ho mai provato a camminarla quella strada, a lasciare questa nuda materia, a lasciare questi patemi, queste incomprensioni, questi scogli, queste parole che si perdono facilmente e le ore, le giornate perse senza riuscire a capire chi siamo o chi sono le persone che contano qualcosa. Forse la spiritualità non dev’essere un dare e avere come la maggior parte delle cose che facciamo, come tutti i rapporti in cui ci infiliamo. Magari è solo una camminata in cui dobbiamo starci vicini, è la speranza di un silenzio o qualcosa che questo mondo complicato non può raggiungere. La spiritualità mi pare si traduce nella ricerca di qualcosa di autentico, nitido, visibile solo in determinate condizioni e solo dai nostri occhi, anche se sono chiusi. Tutto ciò che è autentico è spirituale, 52
tutto ciò che è indiscutibilmente vero ai nostri occhi. Forse in alcuni casi si tratta di una persona, o di una storia, forse si tratta di un luogo fisico che ci appartiene in maniera assoluta. Riconoscere l’autenticità in qualcosa è un’attitudine in n a t a , è l a c a p ac i t à d i r i conoscere del le corrispondenze e assonanze tra la nostra musica interiore ed il suono di qualcosa che risiede fuori da noi ma che in qualche modo ci appartiene profondamente. Così preziosa e rara, semmai un giorno avremo la fortuna di riconoscerla, dovremmo incamminarci subito verso l’autenticità e proteggerla, nasconderla, ripulirla dalla polvere. Dove si nasconde allora questa autenticità? Non è forse vero che potrebbe essere in ogni cosa? Non è forse vero che risiede nella natura, nella sincera bellezza della natura? Ma può risiedere anche in delle persone, persone forse difficili da riconoscere. Qualcuno che non ha maschere o che non si aggrappa a parole vuote tutto il tempo. Allora spiritualità e autenticità sono una cosa sola e non si possono spiegare, istituzionalizzare o barattare. Non sono manifestazioni esterne all’uomo quanto piuttosto riflessi interiori. Forse ce le portiamo dentro tutta la vita come un piccolo tesoro, solo che alcuni le 53
riconoscono ed altri le ignorano, ma non sarà un prete o una bella storia scritta in un libro a farmele trovare. Chissà forse il silenzio, la vecchiaia o l’attesa mi porteranno nella giusta direzione, o forse è una questione così intima da non poter essere condivisa ma solo protetta.
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coscienza pubblica Guardando fuori dal finestrino del taxi sono stato improvvisamente colto da una visione: se i trasporti pubblici rappresentassero la coscienza di una città Kuala Lumpur avrebbe bisogno di un analista. E non sarebbe l’unica città che mi viene in mente. Mi improvviserò quindi analista al fine di indagare la coscienza di una città. Autobus: mai preso uno, per principio. Un autobus malese si distingue per essere uno degli oggetti motorizzati più inquinanti che abbia mai visto. Se siete per strada e sentite strombazzare per lunghissimi minuti qualcosa avvolto in una nuvola nera, eccolo è lui! Il mezzo di trasporto del futuro! Generalmente un autobus si ferma in una non precisata zona-fermata e qualcuno scende urlando ai passanti come un venditore di pesce al mercato. Il novanta per cento degli autobus è ad un passo dalla rottamazione e 55
vantano il primato di percorrere illegalmente stradine secondarie causando il blocco totale del traffico. Bicicletta: è un’opzione da prendere un considerazione, tenendo bene a mente che non esistono piste ciclabili e che le strade sono pezzi d’asfalto su un terreno paludoso che vive e si muove. Poi c’è il traffico che è una bestia che poco apprezza l’indifeso ciclista. Ad ogni modo è una buona opzione se si conoscono le strade secondarie e si è propensi a vivere una vita in queste due condizioni: completamente sudati marci o sudati marci e fradici.
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Motorini: valgono gran parte delle considerazioni elencate per la bicicletta ed il rapporto tra automobili e motorini è 60/40%. Si tratta di un’ottima alternativa se si trascurano le piogge torrenziali ed il fatto che spesso ci si ritrova a guidare su autostrade (anche in pieno centro) al fianco di auto truccate che sfrecciano a 150Km/h. Automobili: per quanto riguarda il traffico Kuala Lumpur è forse messa meglio di altre città asiatiche (vedi Bangkok oppure Tokyo) ma può certamente fare la sua bella figura data l’altissima urbanizzazione e la pessima segnaletica che vanno a braccetto con un piano stradale fatto a caso. Guidare in città spesso significa imbarcarsi in una relazione morbosa con un pezzo di acciaio che, per quanto possa essere sexy o costoso, è pur sempre una prigione su quattro ruote. Le proprie gambe: certo, perché no? È pur sempre una alternativa. Io cerco di camminare il più possibile, ma anche in questo caso, non tutto è così semplice. Attraversare la strada è un gioco di equilibri con i motorini impazziti ed i marciapiedi che vengono inghiottiti a turno dall’asfalto o dalla vegetazione. Bisogna un po’ improvvisare, stando attenti ad i cavi che tengono in piedi i pali della luce, al sistema di drenaggio che corre lungo la strada, alle buche disseminate un po’ ovunque, alle radici delle piante che 57
sradicano mattonelle come fossero burro e a mille piccoli ostacoli di diversa forma e materiale disseminati a caso per rendere la camminata più eccitante. Treni: funzionano e sono il mezzo più sicuro che vi potete aspettare di usare. Le tariffe sono eque e ci sono ben quattro diverse linee di treni che si muovono su e giù, dentro e fuori il nucleo centrale della città. C’è anche una futuristica monorotaia che mi ricorda tanto un film della nouvelle vague. Quindi mi sbilancio nel dire: fidatevi dei treni! Ma non troppo. Ogni linea di treni è scollegata dalle altre. In sostanza ogni linea di treni è affidata ad una diversa compagnia quindi se devi cambiare linea in una specifica fermata devi prima uscire dalla linea A ed poi entrare nella linea B, che è un paradosso: un trasporto pubblico scollegato che serve a tenere collegata la città. Taxi: rappresentano una continua fonte di ispirazione. In generale i tassisti non conoscono le strade ed essendo sprovvisti di navigatore hanno la fortissima tendenza - spesso auto-indotta - a perdersi. A me ricordano Totò quando, arrivato in piazza Duomo a Milano chiede ad un carabiniere: “Ma per andare dove dobbiamo andare da dove dobbiamo andare?”.
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tutto quel che ci lasciamo alle spalle Con la foto-camera impostata sul bianco e nero mi muovo tra le bancarelle di un mercato delle pulci in una degli innumerevoli e tristi centri commerciali di Kuala Lumpur. Mi piace pensare che è qui che finiscono tutti gli oggetti che ci lasciamo alle spalle, raccolti in maniera caotica e superficiale: così un sassofono fa bella mostra di sé di fianco ad un estintore ed un abaco Cinese sopravvive a braccetto di una risma di cartoline ingiallite. Gli oggetti non si dissolvono nel nulla quando decidiamo di disfarcene, in un modo o nell’altro tutti contribuiamo a creare un mondo parallelo fatto di cose che non desideriamo più ma che continuano ad avere una vita dopo di noi, passano di mano in mano e da oggetti inutili, obsoleti, consumati, cercano di rifarsi una vita. 59
In una teca, di fianco ad un amplificatore che avrà almeno la mia età c’è una Olivetti Lettera 32 in ottime condizioni ma devo resistere ed impormi di non comprare un’altra macchina da scrivere o uno strumento musicale che non so suonare. Per qualche strano motivo mi affascina vedere e fotografare antichità, oggetti che si portano addosso i segni del tempo, sorprenderli vecchi ed abbandonati, solitari e silenziosi, con quest’aria malinconica e il profumo dei giorni di gloria. Forse questi oggetti hanno ancora qualche cosa da dire. Chissà come saranno i mercati delle pulci del futuro (semmai ce ne saranno ancora), li vedo popolati di una 60
infinita accozzaglia di giocattoli elettronici che hanno poco o nulla di affascinante, non ci saranno libri consumati dalla lettura o orologi analogici, ma centinaia di computer accatastati e tristi che non hanno alcuna ragion d’essere: oggetti nati con la data di scadenza, progettati per essere sostituiti e già con la polvere addosso.
Trovo affascinanti anche i telefoni a ghiera, mi fanno venire in mente la piccola storia del primo telefono del genere progettato da Henry Dreyfuss per la Western Electric nella metà degli anni Quaranta, si chiamava Model 500. Passarono la bellezza di 5 anni prima che la WE si decidesse a fare un aggiornamento del telefono: l’introduzione di 5 nuovi colori! Che 61
bellezza! Scommetto che a quel tempo la gente sapeva che cos’era un telefono, o un frigorifero o un’automobile: aveva il tempo di usare ed apprezzare gli oggetti, ne riconosceva il valore. Mi fa sorridere il pensiero che perdiamo giorni o settimane per scegliere cose che useremo per qualche mese e ci illudiamo di “aver fatto la scelta giusta”. Quante delle cose che possiedo in questo momento sarebbero degne di essere esposte in un mercato di antichità come questo? O di raccontare una storia? Sono tornato a casa dopo aver collezionato una serie di fotografie in bianco e nero mi è venuta un’idea per uno dei corsi di design che insegno in cui gli studenti devono progettare una sedia: la prima lezione si svolgerà proprio nel mercato pieno di oggetti che ci siamo lasciati alle spalle, voglio che sentano tutto il peso delle cose, che capiscano quanto è importante fare le scelte giuste e trasmettere una storia attraverso un oggetto.
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una nuova ragazza Ci siamo incontrati ad Hiroshima in un negozio in centro, dalla pelle bruna e dalle giuste proporzioni, lei si chiamava R8 e nonostante qualche problema di comunicazione iniziale sono riuscito a conquistarla. Questo succedeva più di tre anni fa e da allora ci siamo separati solo per qualche mese a causa di un problema alle lenti/occhi che ha costretto la mia R8 a viaggiare per l’Europa in cerca della giusta cura. Devo ammettere che al suo ritorno non è più stata la stessa. Nonostante ciò ha sempre dato il massimo e resistito stoicamente ad un rapporto burrascoso e vissuto sempre in prima linea, sempre sulla strada, sempre in viaggio. Lei è stata la mia compagna per tre anni, è stata la mia memoria, il mio sguardo sul mondo. Ci sono stati momenti duri e drammatici e più di una volta ho creduto di averla persa ma da buona giapponese lei ha sempre resistito e dimostrato una tenacia superiore alla mia frenesia. È stato dopo 63
l’ultimo durissimo viaggio nella giungla cambogiana che ho capito che il nostro rapporto è ormai giunto al capolinea. Prendere questa decisione non è semplice perché lei mi ha fatto capire che ci si può affezionare anche ad un pezzo di metallo con un display se in mezzo ci sono centinaia di chilometri, migliaia di scatti pieni di realtà e momenti che appartengono solo a me e che non tornerebbero se non grazie a quelle immagini. Ma come si fa a sceglierne un’altra? Mi guardo attorno in cerca di risposte muovendomi in questa giungla fatta di bellissime ragazze dai nomi esotici e corpi scintillanti. Ma come puoi scegliere la tua prossima fidanzata? Sapendo che vuoi una relazione stabile e con pochi problemi e che all’inizio ci saranno dei fraintendimenti, che dovrai capirne i segreti ed i limiti e che c'è sempre il rischio che le cose non funzionino. Non si tratta di soldi ma di un’esigenza precisa. Si tratta di stilare una lista di cose che vuoi nella tua compagna - un mirino ottico, messa a fuoco manuale, lenti intercambiabili - e se ho imparato tutte queste cose lo devo proprio alla R8 ed i suoi difetti. Forse ciò significa che si impara molto di più dai difetti che dai pregi? Non saprei, ma se non altro si impara a capire che cosa non vogliamo che è sempre un buon inizio. 64
Adesso però sarà meglio fermarsi, sto facendo una gran confusione tra donne e foto-camere. Di questo passo finirò col chiedere alla prossima ragazza con cui esco se ha la messa a fuoco manuale.
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spaghetti o noodles? Durante una lezione di Disegno a mano libera raccontavo ai miei studenti dei miei trascorsi universitari e di quanto abbia sempre avuto poca pazienza per i modelli in scala. Non avevo mai tempo o soldi a sufficienza da ottenere dei buoni risultati, al punto che una volta ho pensato di usare degli spaghetti per simulare balaustre e corrimani per costruire il modello di un progetto a cui lavoravo. Parlando di spaghetti uno degli studenti ha fatto una domanda alla quale non avevo una risposta precisa: “Chi è venuto prima: il noodle o lo spaghetto?” Evidentemente si trattava di un trabocchetto. La maggioranza dei miei studenti è asiatica, di conseguenza in un attimo mi sono ritrovato circondato da cori che intonavano “Noodles! Noodles!”. Spinto dalla curiosità e dalla sfida lanciata alla mia italianità ho interrotto la lezione e ho cercato di ricostruire le origini di uno delle invenzioni culinarie più popolari 67
del mondo. Come potete immaginare non mi ci è voluto molto per trovare una risposta: lo spaghetto ha perso miseramente. Il 12 Ottobre 2005 il National Geographic riporta il ritrovamento in Cina del noodle più vecchio del mondo che risale a circa 4000 anni fa. Ad aggravare la posizione dello spaghetto è la sospetta introduzione a Venezia alla fine del XIII secolo da parte di Marco Polo appena rientrato dall’ultima spedizione in Oriente. E a poco serve notare che nella Sicilia araba nel XII secolo, durante un’accurata analisi del territorio a cura di tal Abu Abdullah Mohammed al Edrisi - per gli amici Idrisi - è stata riportata la presenza di “un impasto trasformato in lunghi fili” in una piccola cittadina chiamata Trabia. Alla fine della fiera ho dovuto capitolare davanti alle obiezioni dei miei studenti, dichiarando ufficialmente che il noodle è venuto prima dello spaghetto, ma mosso da orgoglio nazionale ho voluto sottolineare che noi Italiani con quell’impasto magico ne abbiamo letteralmente fatte di cotte e di crude! Gli abbiamo dato forme inimmaginabili ed inventato accoppiamenti perfetti come il sugo o il pesto, ne abbiamo persino fatto una star cinematografica!
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A volte mi domando dov'è finita quella gioia, quel gusto, quel senso della realtà oggi. Forse è il caso di rinfrescarci tutti un po' la memoria e tornare alla poesia e la genuina bellezza di Alberto Sordi e Totò mentre duettano con un piatto di pasta. Loro si che avevano capito tutto (a prescindere dai noodles).
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jazz, vino rosso e torta di mele Quando si tratta di musica dal vivo la Malesia non è esattamente il posto migliore al mondo dato che la maggioranza degli artisti solitamente preferisce esibirsi nella vicina Singapore con la sua ampia scena culturale ed un pubblico disposto a pagare di più. Dopo qualche mese ho tristemente realizzato che l’unica maniera per soddisfare la mia sete di musica dal vivo era darsi al jazz e a dieci minuti da casa mia c’è un jazz-club come si deve. In realtà si tratta di un ristorante di medio livello con una forte vocazione musicale. Gli interni sono curati, c’è un forno a legna, una cantina ed un palco decente con un’ampia tenda nera che abbraccia l’intero locale. Da quando l’ho scoperto ci vado un paio di volte al mese perché la musica va capita e l’unica maniera per farlo è stare vicino agli strumenti.
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Ad essere sinceri non sono mai stato un entusiasta della musica jazz e non ho mai avuto la pazienza di imparare a suonare uno strumento ma col tempo ho sviluppato un’idea secondo la quale la musica jazz esiste solo dal vivo ed è innanzitutto pura forma. La mia idea è che gli strumenti musicali, soprattutto quelli classici, hanno le forme più sinuose ed equilibrate che riesco ad immaginare, in un certo senso gli strumenti musicali sono la risposta umana alle forme esistenti in natura e se ci fosse una gara di design tra la natura e l’uomo, lei presenterebbe una magnolia, l’uomo un sassofono. Potrei passare ore ad osservare ed ascoltare un contrabbasso: mi ricorda terribilmente un uomo ed una donna che danzano sinuosi per scacciare assieme la malinconia. Seduto a pochi passi dal pianoforte, con un bicchiere di vino rosso ed una torta di mele, le cose sembrano avere più senso ed un peso fatto di tasti in bianco e nero, un bianco e nero che suonato nella maniera giusta genera un infinito ventaglio di colori. Il jazz nella maggior parte dei casi manca di parole e così facendo ti lascia un po’ di spazio, ti invita a metterci qualcosa di tuo, senti di far parte di un’armonia e la musica, quando è reale e senza filtri di alcun genere, ti parla dritta al cuore, ti sembra così lucida ed umana che puoi toccarla. 72
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digiuno e levatacce Ogni religione ha i suoi riti, momenti in cui ogni fedele è chiamato a fare i conti con se stesso e con la natura della propria fede. Per i Musulmani questo momento si verifica il nono mese del calendario Islamico che generalmente coincide con il mese di agosto, il mese del Ramadan. Va ricordato che i Musulmani seguono il calendario lunare e non solare (che è più corto di 11-12 giorni), e che la durata del mese di digiuno varia dai 29 ai 30 giorni. La Malesia è una nazione a maggioranza Musulmana così ho sfruttato questa occasione per osservare e farmi spiegare dai miei amici Musulmani cosa accade in questo periodo. Un Musulmano credente durante tutto il mese del Ramadan è chiamato a digiunare dall’alba al tramonto in segno di penitenza e seguire le cinque preghiere giornaliere (il ché significa svegliarsi prima dell’alba) e 73
solo dopo l’ultima delle preghiere (attorno alle 19.30) è possibile cenare e quindi rompere il digiuno. La città stessa altera le sue abitudini. Può infatti capitare di assistere a scene bizzarre di persone sedute a tavola nei ristoranti con il cibo sotto il naso in attesa delle 19.30 per poter finalmente mangiare. Ma a parte il digiuno dal cibo, i fedeli devono anche astenersi da alcolici, fumo e attività sessuali ad eccezione delle donne in gravidanza e naturalmente chi soffre di qualche malattia. Un intero mese quindi che si conclude con l’arrivo della luna nuova che segna l’inizio di una grande festa chiamata Hari Raya (che generalmente cade attorno al 30/31 agosto) in cui al mattino ci si riunisce nelle moschee per le preghiere e subito dopo si festeggia con i propri familiari. Con la luna nuova, un mese di digiuno alle spalle e lo spirito temprato dallo sforzo ci si può sedere a tavola con i propri cari e tornare a fare una vita normale. A proposito di digiuno ho letto un’interessante riflessione sul digiuno e dato che siamo in tema la riporto: «Il digiuno cura», disse, «ma è necessario stabilire bene quanto deve durare, quanta acqua va bevuta e con che 74
cosa; ad esempio con miele o limone. Mai con succhi di frutta. Il digiuno costringe il corpo a consumare tutto quel che non è necessario, crescite, cose in piÚ, cose maligne, riserve invecchiate, e mai cose utili. Il digiuno non toglie energia al corpo, anzi, gli fa risparmiare quella che altrimenti dovrebbe usare per digerire il cibo.* * Tratto da Ultimo giro di giostra di Tiziano Terzani.
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la prima fotografia Il ricordo della mia prima foto-camera è legato vividamente alla Tate Modern di Londra, o per essere più precisi, ai suoi bagni al piano terra: sono andato a pisciare e, forse preso dalla gioia di essere in un luogo così interessante, l’ho dimenticata sul distributore di carta igienica. Per cinque fatali minuti ho smesso di pensare e quando sono tornato ad i miei sensi e realizzato che qualcosa mancava era troppo tardi. Scattare foto per me ha a che fare con tante altre cose, è quasi una necessità fisica e col tempo mi rendo conto che quando sono in viaggio vengo totalmente assorbito nell’atto di osservare, valutare, aspettare e rincorrere il momento, il posto, lo sguardo, la prospettiva o la composizione giusta. Come dicevo la fotografia è un richiamo per molte altre ispirazioni. Prendi le lenti di una foto-camera, per esempio. Lo zoom ti insegna che quando non riesci a mettere a fuoco un dettaglio devi muoverti, devi allargare il tuo 77
punto di vista, devi fare un passo indietro e ricominciare: devi guardare alle cose nel loro insieme per soppesarne l’importanza, in un certo senso è come una danza. Poi c’è la metafora legata al punto di vista che è una di quelle cose che più mi affascina della fotografia, il suo peso, il diritto di esercitarlo, di registrarlo, di condividerlo. La maggior parte delle foto-camere che ho usato in passato erano silenziose e si facevano notare poco, così in tutte le situazioni in cui non era possibile scattare una foto era facile passare inosservati mentre con movimenti da contorsionista cercavo di inquadrare il soggetto e centravo immancabilmente il soffitto (nota mentale: ci sarebbe da mettere assieme una collezione chiamata soffitti). Adesso che “la nuova ragazza” è arrivata, con tutta la sua fisicità e rumorosità le cose stanno cambiando ed il mio punto di vista si sta evolvendo. Uno dei fattori chiave che mi ha fatto decidere di comprare una reflex è proprio quel rumore causato dallo specchio che si toglie di mezzo per permettere alla luce di colpire il sensore: dopo attenta riflessione sono giunto alla conclusione che non posso morire senza sapere che cosa si prova. Quel rumore è musica per le mie orecchie, mi ricorda che nonostante tutto la fotografia è un’arte tangibile e scattare una foto è una 78
presa di posizione nei confronti del mondo che ti circonda, e che presa di posizione! A Shanghai un anziano signore intento a rilassarsi su una sedia sdraio posizionata nel bel mezzo della strada ha notato che stavo scattando una foto e non capendone il motivo ha cominciato ad urlarmi contro (credo saremmo venuti alle mani se non fosse stato per l’intervento di una donna di passaggio); a Calcutta, che ho camminato in lungo e in largo per sei giorni, per quasi tutto il tempo la gente continuava a fissarmi con un’espressione incredula che suggeriva “ma che diavolo ci trovi di interessante qui?”; ad Hong Kong mentre scattavo la foto di una coppia che, cercando un po’ di romanticismo in mezzo alla folla, mangiava McDonald accompagnato da vino Italiano mi sono ritrovato a bere in loro compagnia; a Phnom Penh ho rimediato un invito a pranzo mentre scattavo la foto di un anziano signore intento a scaccolarsi seduto sulla riva del fiume Mekong; ad Angkor Wat ci ho quasi rimesso la fotocamera a causa della mia ingordigia (vedi capitolo Indiana Jones). Ricordo l’Irlanda a 13 o 14 anni, quello dev’essere stato il luogo in cui ho scattato la mia prima fotografia. Un giorno ci hanno portati a vedere le Cliffs of Moher - 120 metri di scogliere a strapiombo sull’oceano - ed una volta arrivati, in autobus, ricordo 79
di aver immediatamente abbandonato il resto del gruppo per correre verso il bordo e scattare una foto. Più mi avvicinavo e più sentivo il vento venirmi addosso, così per coprire gli ultimi metri ho deciso di sdraiarmi e, a tentoni, sono arrivato laddove la roccia finisce. Che straordinaria e paurosa bellezza mi si è aperta davanti, la vista era mozzafiato e con grande cautela ho tirato fuori la macchina fotografica (con pellicola), ho allungato il braccio puntando verso il basso ed ho scattato la mia prima vera fotografia. Chissà dove sono finite le foto di quel viaggio in Irlanda, eppure ricordo vividamente cosa ho dovuto passare subito dopo quella bravata. Stranamente scattare foto dal bordo di una scogliera di 120 metri era considerato illegale, pericoloso e assolutamente vietato: Irlandesi!
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tassisti atto primo Sono giunto alla conclusione che non ho scelta. Rifiutandomi di comperare un'automobile e contribuire allo scempio quotidiano che ha trasformato questa città in un circo continuo fatto di prime e seconde marce, semafori nel deserto, clacson stonati, dubbia segnaletica e catrame nei polmoni, devo necessariamente avere a che fare con loro: i tassisti. Ma chi è il tassista? E soprattutto, chi è il tassista in Malesia? Di loro ne avevo già sentito parlare, per carità in maniera orribile. Si dice che sono i peggiori tassisti al mondo, si dice che fanno di tutto per fregarti, si dice che sono pericolosi e che non usano il tassametro, si dice che con i turisti poi... Li vedi in giro, dappertutto, generalmente rossi e bianchi, a gruppi, a flotte, si muovono come formiche tra le altre auto, sono i globuli rossi nelle arterie 81
cittadine, sono i custodi dei segreti, dei peccati, delle gioie e dei dolori della gente comune e non, delle mamme coi bambini, gli uomini d'affari, gli stranieri single con le buste della spesa. Loro stanno in ogni dove e confabulano, cospirano, dormono e poi via, che qualcuno aspetta sul ciglio della strada, in ritardo per qualcosa che avrebbero dovuto fare. Loro stanno in ogni dove eppure...eppure quando ti esponi, allunghi il braccio, il collo e le dita in cerca di un tassista, ecco che è occupato, o svogliato, o non sa di cosa stai parlando oppure, semplicemente, non ha voglia di fermarsi perché la tua è la faccia sbagliata. Sono giunto alla conclusione che, volente o nolente, ad un tassista dovrò affidare i miei spostamenti, il bisogno di muovermi, la necessità di andare ed esplorare, le mie spese ed i traslochi, i ritorni a casa troppo tardi o troppo presto, i ritardi ed anche gli anticipi, che, miracolosamente, a volte succedono pure.
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bendati Ti svegli riverso in un letto completamente bianco. Non riconosci l’arredamento, non sai dove sei. Sei uno straniero tra stranieri. Un pezzo di pane bagnato. Ci sono ponti da costruire per stabilire un contatto. Parti di noi, della nostra cultura, un’ombra familiare. Bendati, viviamo bendati tutta la vita. Poi succede che il viaggio ci prende, ed è come se qualcuno cercasse di strapparci via le bende. La luce filtra e fa male agli occhi. Una luce diversa, proveniente da un mondo fuori da noi. Sai di farne parte ma non sai di cosa si tratta. Piano torni a vedere ma quello che vedi è diverso. Sconosciuto, strano, incomprensibile, sorprendente, affascinante. Bendati, viviamo bendati tutta la vita. Poi succede che il viaggio ci prende, ed è come se qualcuno cercasse di strapparci via le bende. 83
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la voce di singapore La seconda settimana nel Sud-Est asiatico sono stato spedito a Singapore per fare una sorta di training - un viaggio di cinque ore in autobus - e di quei giorni non dimentico la stanza d’albergo senza finestre generosamente pagata dal mio college. “Vuoi una finestra?” - mi hanno chiesto alla reception - “allora paga un’extra”. Il primo giorno in città pioveva a dirotto perché a detta di molti eravamo nel pieno della stagione delle piogge* e la mia idea era quella di camminare dalla National Library - dove mi sono trattenuto più a lungo per via del caffè squisito e la fresca brezza - verso la baia. La pioggia non voleva saperne di smettere così, stanco di aspettare, ho raccolto il mio ombrello senza il manico e mi sono avviato verso il cuore della città. Per arrivare a Marina Bay e per evitare il più possibile la pioggia, sono involontariamente finito nelle succursali sotterranee dello shopping, strade dove non 85
è giorno o notte e tutto quel che conta è che ad un certo punto tiri fuori la carta di credito. Resisto poco in quei cunicoli e, non senza problemi, riesco ad individuarne l’uscita: meglio la pioggia di quel labirinto asettico.
Marina Bay, famosa ai più per via del Gran Premio notturno di Formula 1, propone uno scenario affascinante. È come un vastissimo teatro a cielo 86
aperto il cui centro è rappresentato dal simbolo di Singapore (chiamato Merlion), un incrocio tra un pesce ed un leone che sputa acqua nella baia, un piccolo totem d’avorio contornato da grattacieli ed hotel, ponti ed un silenzio surreale amplificato dalla pioggia e dall’assenza di persone. Percorro tutto il perimetro della baia accompagnato da quel che resta del mio ombrello e mi siedo a guardare i battelli con pochi turisti a bordo che piano si muovono sull’acqua resa ancora più rarefatta dalle gocce di pioggia. Singapore per motivi storici, la posizione strategica e lo spazio limitatissimo che copre, rappresenta un interessante esperimento, un’idea sul futuro delle città, eppure la quiete tra i grattacieli non riesce a restituirmi granché. È difficile da spiegare ma, come ogni altra città anche Singapore ha una sua voce, una voce che bisbiglia un messaggio a chi la cammina. Singapore sembra sussurrare che ogni imperfezione deve essere eliminata in favore di un ricco, protetto e sterile stile di vita. Come in una sala chirurgica, tutto qui pare essere anonimo ed artificiale, al punto che continuavo a guardarmi attorno domandandomi: ma dove sono? Potrei essere in qualsiasi parte del globo e non farebbe alcuna differenza. * La stagione delle piogge io non sono mai riuscito a capirla, comincia a Marzo? a Novembre? non saprei 87
quello che so è che a prescindere dal periodo dell’anno c’è sempre qualcuno che puntualmente, mentre impazza l’ennesimo acquazzone tropicale, sospira: la stagione delle piogge è in anticipo quest’anno!
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la valigia Portarsi dentro tutto, essere il proprio bagaglio, la propria casa, il proprio rifugio, la propria libreria. Raccogliere dentro di noi l’energia necessaria per cascare dentro un giorno qualsiasi con gli occhi bene aperti e muoverci veloci, imparando da ogni cosa, osservando ed ascoltando i passi della gente, le parole volatili della folla senza mai dimenticarsi di cercarla: cercare la fortuna dentro la nebbia, cercare un pizzico di bellezza tra le pieghe della notte, cercare un quarto d’ora di felicità in una settimana o un sospiro di sollievo presto al mattino. Trattenere un’inestimabile ricchezza sotto la pelle, sfamare la sete di poter vedere con i propri occhi, amare la vita per quello che deve ancora restituirci, per la sua maniera di ferirci e di lasciarci in attesa per cosÏ tanto tempo. Sentire la vita in ogni passo fatto a vuoto prima di fare quello giusto, prima di entrare in un sentiero che ci appartiene, prima di stringere la mano di qualcuno che abbiamo sempre conosciuto, prima di restare in silenzio davanti al desiderio, prima di poter 89
godere di un momento senza aspettarsi null’altro, bruciando quello che c’è da bruciare nella più totale consapevolezza, la consapevolezza di essere, almeno per una volta, davvero dove vogliamo essere, con la persona giusta, con le parole giuste e incredibilmente in pace con noi stessi. La vita è in quello che riusciamo a sentire nel petto, non importa la causa di quel sentire o la durata, ciò che conta è esserne capaci, conservare uno spazio da riempire con qualcosa di autentico, che abbia un valore, qualcosa che raccogli per la strada da passante ma che ti resta dentro per tutto il tragitto. Il mondo visto da qui è uno spazio davvero piccolo se paragonato alle distanze che dobbiamo coprire con tutte le nostre aspettative, i nostri errori, i desideri, le promesse malfatte, le scuse, le bugie e le ore spese a camminare, solo a camminare, per ricordare a noi stessi di non essere altro che delle valigie in viaggio.
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quella notte in india Un fiume costellato di persone e colori vividi che si muovono in ogni direzione. Donne, uomini e bambini stretti in una lenta ondata, un pellegrinaggio fatto di brevi passi, umana bellezza, sacrificio e preghiera. Qualcuno aveva accennato alla roboante situazione che avrei trovato una volta arrivato alle Batu Caves, così ho infilato nello zaino viveri e foto-camera ed assieme ad un paio di amiche ci siamo uniti al fiume. Thaipusam rappresenta per le persone di religione Indù un momento di grande importanza: è il nuovo anno che inizia, il culmine di un periodo di penitenza e ringraziamento agli dei e le Batu Caves sono il luogo sacro più importante al di fuori dal suolo Indiano situato quindici chilometri a nord di Kuala Lumpur. Per arrivarci sono servite la metropolitana, un bus sgangherato ed una camminata di venti minuti tra 91
autostrade e sopraelevate finchĂŠ di colpo non ci si imbatte in un monte roccioso di quaranta metri che ospita al suo interno questo piccolo tempio in onore del dio Murunga.
La notte ha il pregio di regalarti un’atmosfera dentro cui puoi immergerti con tutte le scarpe e nuotando in quella notte ho incontrato qualcosa di maestoso, intimidatorio, ma di cui senti di poter far parte: ho incontrato una folla fatta di migliaia di persone che si muovono al suono dalla propria fede.
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Il fiume di gente ci ha inghiottiti senza troppi preamboli e nel giro di pochi metri ci ha traghettato in un mondo altro, un mondo in cui non sono mai stato, un paese che si chiama India. Ed una volta che sei parte del flusso non c’è molto tra cui scegliere a parte scorrere lentamente verso il tempio che come una presenza irresistibile attira tutti tra le sue braccia rocciose. Il tragitto si fa persino epico quando si arriva al cospetto dei duecento-settantadue scalini scavati nella roccia, con un’enorme statua dorata che fa da guardiano e custode della notte. La risalita è parte di un rito condiviso con decine e decine di persone e a metà scalinata ho sentito il bisogno di voltarmi ed è stato allora che ho potuto vedere questo maestoso fi u m e m u o v e r s i v e r s o d i m e , r i p r o d u r s i incessantemente e puntare verso l’interno della roccia. La salita si risolve in una grotta nuda e umida che brulica di scimmie e scarpe in cerca di proprietari. È una gran confusione di preparativi, riti e teatrini: i mangiatori di fuoco, uomini dalla pelle colorata, urla, svenimenti improvvisi tra fiori e vivande. Poco o nulla mi è dato di capire, ma sono a mio agio nel ruolo dell’intruso, assuefatto dalla moltitudine e dai sorrisi compiaciuti. 93
Thaipusam commemora un episodio mitologico in cui Parvati dona a Muruga, suo marito, una lancia affinchĂŠ lui possa sconfiggere il demone del male Soorapadman. I devoti si preparano alla celebrazione di questa cerimonia attraverso una specifica pulizia corporea, il digiuno e l'astinenza. Davanti ai miei occhi si alternano atti di devozione bizzarri ed al limite del masochismo, piercing sulla pelle, sulla lingua o sulle guance spesso auto-inflitti con lame affilate, uncini e aghi.
Le prime luci dell’alba ci trovano stremati dalla calura tropicale: è giunto il momento di andare. 94
Di quella notte mi porto dentro gli occhi delle gente. Quelli bruni delle donne, quelli invasati di uomini con decine di uncini nella schiena e quelli sinceri e grandissimi dei bambini tatuati. Un fiume di occhi in una notte in cui il cielo era ufficialmente quello Malese ma la terra su cui camminavo era Indiana.
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definire la distanza Nel tentativo di misurare la distanza i conti non tornano, che la distanza si può misurare in tanti modi. La puoi misurare in nuvole che si dissolvono nella prospettiva, in luci notturne che si fanno sempre più sottili. La puoi misurare in pagine che devi ancora leggere o in caffè per farcela. La distanza è nella quantità di telefonate - quelle fatte e quelle dimenticate. La distanza è nel peso delle assenze, è un dolore umido e solitario. La distanza è imparare ad aspettare, è un numero imprecisato di risvegli, sono tutti i film in cui c'è una strada da percorrere. Ah ecco, la distanza è la pioggia torrenziale. 97
La distanza sono tutti i treni, le stazioni, le barche ed i biglietti prima dell’arrivo, sono le persone in fila davanti a te. La distanza siamo noi quando ci poniamo dei limiti perché troppo immersi nel nostro presente. La distanza c’è sempre - di qualsiasi cosa sia fatta - è uno spazio da colmare, e colmare è una parola bellissima: mi ricorda che la distanza è un bicchiere da riempire, goccia dopo goccia.
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un’alba chiamata sibu Certe cose devi farle da solo. In certi momenti bisogna abbracciare una solitudine volontaria. La cosa viene amplificata poi se sei su un’isola come è successo a me. Le festività nazionali in Malesia sono molte, tante quanti i colori della sua pelle, ed è proprio grazie ad una di loro che sono fuggito assieme a degli amici sull’isola di Sibu, costa sudorientale Malesiana, ed una mattina mi sono svegliato per trovare un silenzio che non sentivo da tanto tempo. Ho raccolto i vestiti dal pavimento e sono uscito dalla stanza per andare incontro alla mia prima alba asiatica, un rito che mi porto dietro da molti anni e che ha a che fare con il contatto con la natura, il ciclo delle cose e la bellezza: ho sempre pensato che non vi è nascita più bella se non dal mare, da una linea sottile che taglia in due la nostra vista, il nostro sonno, la nostra prospettiva sul mondo. 99
Una frescura inaspettata attendeva fuori dalla porta, un umido sottile ricopriva le palme ed in un paio di minuti ero in spiaggia circondato da quello che restava della notte. Un breve spicchio di luna mi dava il benvenuto ad uno spettacolo di cui non ci curiamo mai abbastanza: dura poco, è gratis e accade ogni dannata mattina. Poche cose ti lavano via di dosso il senso frenetico della vita, l’ansia con il quale ci gettiamo in mezzo alle cose, la paura di restare indietro o di cadere dalla giostra come sa fare l’alba. Credo di aver aperto gli occhi solo quando mi sono seduto sulla sabbia umida, passando dal sonno gelido ad aria condizionata alle carezze sonore del Mar Cinese. A quell’ora il tempo pare muoversi più lentamente. Lo spettacolo comincia con dei riflessi sulle nuvole, pian piano i primi colori tinteggiano la volta celeste di un rosa soffice e di un turchese oscuro e come un treno che pur essendo lontano puoi già percepire nella vibrazione, comincio a sentire la presenza del sole, animale bizzarro, sempre uguale a se stesso, occhio che ci osserva da una distanza abissale stravolgendo il corso delle cose, toccando la nostra pelle fino a darci un colore, fino ad accendere una foto in bianco e nero. 100
Improvvisamente una riga di colore intenso compare proprio lì dove il cielo ed il mare, ancora in bianco e nero, si toccano. Ecco i primi contrasti, le nuvole si accendono di forme in cui puoi davvero vederci qualsiasi cosa: mi pare di riconoscere un cane sulla destra, mentre più in alto vedo un tappeto volante, tutto si muove e si trasforma lassù.
Liberatosi dalle lunghe braccia del mare il sole fa il suo ingresso nello spazio infinito del cielo e torna a casa, una casa che condividiamo, una casa che senza di lui racconta una storia totalmente diversa. Una palla infuocata schizza fuori dall’acqua ricolmo di bellezza e 101
rivincita, traccia una linea di luce che in tutta fretta raggiunge il fondo dei miei occhi dopo tutte quelle ore passate sotto la superficie. Quella linea punta dritto verso di me come una mano tesa che mi invita ad essere non solo spettatore ma anche complice. Ho visto l’alba in molti posti diversi, con diversi stati d’animo ed in diversi momenti della mia vita. Ci sei tu minuscolo ed insignificante e c’è il più grande degli spettacoli: questa è una di quelle cose che aiuta. Aiuta a non prendersi troppo sul serio, a ridimensionare la propria vita, a riconoscersi parte di un ciclo inarrestabile. Alba è una parola che puoi usare solo nella forma singolare, forse perché l’alba è una sola mentre è il nostro punto di vista ad evolversi nel tempo. Alba è il sole che ogni mattina, bagnato e senza fiato, ritrova la stessa forza e la stessa voglia di colorarci la pelle: la mia, la vostra, di qualsiasi colore sia.
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il viaggiatore solitario “Penso sia molto salutare starsene da soli. Devi imparare a star da solo e a non essere definito da un’altra persona.” Oscar Wilde Vivere per alcuni giorni sulle rive di un lago in Birmania, lontano dal mondo e confinato in un recinto di palafitte senza alcuna connessione con l’esterno mi ha trattenuto in uno stato di isolamento. Ma la mia non è mai stata una solitudine reale perché non vi è alcuna reale solitudine nell’andare. La solitudine - l’idea negativa della solitudine - è qualcosa che si prova quando ci si ferma e si smette di correre per qualcosa, quando la nostra è una vita senza alcun contorno. Andare per strada da solo per me non è mai stato un peso, perché così facendo ho finito per imparare cose di me che non avrei mai scoperto altrimenti. 103
Ho cominciato ad apprezzare tutte quelle piccole opportunità che fioriscono quando si corre via dal proprio piccolo mondo per immergersi in un mondo più grande senza nessuno al proprio fianco, sprovvisti di un osservatore esterno pronto a ricordarci chi o cosa siamo nella vita di tutti i giorni.
Il viaggiatore solitario appare in un qualsiasi luogo per la prima volta ed ha l’opportunità di diventare chiunque egli voglia perché gli occhi che lo circondano sono occhi per il quale egli è uno sconosciuto. Il mondo è pieno di persone che osservano e che aspettano, di dettagli ai quali bisogna prestare attenzione, di voci sottili in strade serene e di riflessi 104
nell’acqua ed è quando si viaggia in compagnia di se stessi che prestare attenzione diventa più facile e che il peso del proprio vivere, la routine, quella ruota in cui dobbiamo tuffarci giorno dopo giorno, di colpo, è qualcosa che possiamo ignorare. Eppure per stare sulla strada da soli vi è comunque bisogno di alcuni compagni fidati ed ognuno si sceglie i propri. Io dopo parecchi chilometri ho cominciato a riconoscerli ed a portarmeli sempre dietro: innanzitutto un buon libro, che lui parla solo quando deve parlare; poi qualcosa su cui si possa scrivere, che viaggiare da soli ti fa pensare parecchio e quei pensieri se tenuti nella testa finiscono per marcire; infine c’è la musica, che va scelta con straordinaria cura e dedizione. Non ho bisogno di altro. La musica, un quaderno ed un buon libro stanno dentro uno zaino assieme a poche altre cose ed all’immancabile foto-camera: lo strumento della memoria. Poi ci sei tu ed il resto del viaggio che quando si è da soli è sempre sul punto di accadere, di cambiare, sul punto di essere. È viaggiando da soli che in maniera quasi miracolosa si ritrova spazio quando si credeva di non averne, respiro quando abbiamo corso troppo a lungo, e strade nuove in ogni direzione volgiamo lo sguardo. 105
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il bagno all’aperto Soffocato dal chiassoso ritmo cittadino, non appena ne ho avuto l'opportunità sono saltato su un aereo diretto a Bali, isola dell'Indonesia centrale. Bali è sinonimo di spiagge immacolate, luoghi meditativi, vita alternativa ed anche un turismo sfrenato dal quale io volevo stare il più lontano possibile. La risposta l'ho trovata in Ubud, una piccola comunità al centro dell'isola a cui si arriva dopo un’ora di viaggio dall’aeroporto principale dell’isola a bordo di mini-van che strombazzano nelle strette strade locali. Ubud è il centro culturale della regione ed infatti una volta arrivati in quell’area è tutta una successione di artisti ed artigiani intenti a intagliare, dipingere e scolpire.
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La mia Ubud-personale l'ho trovata sul pavimento di una tipica casa Balinese su due livelli di proprietà di una coppia di ragazzi italiani che mi hanno ospitato per qualche giorno. Una casa il cui fulcro era costituito dal meraviglioso bagno all'aperto, circondata dalle risaie a terrazza, palme e una fresca brezza notturna. Nonostante Bali offra una vasta scelta di attrattive, una volta riconosciutomi nella casa dei miei amici ho deciso che non sarei andato da nessuna parte: avevo tutto il necessario a portata di mano e tutto ciò che volevo fare era passare le mie giornate a parlare con gli 108
artisti, guardare la gente locale raccogliere il riso e godermi il tramonto. Bali è unica per via della sua religione InduistaBuddista che si differenzia dal resto dell'Indonesia, che è al 90% musulmana, e che si traduce in una moltitudine di templi e piccole tradizioni assolutamente centrali nella vita di un Balinese.
Ăˆ una religione fortemente animista e di conseguenza mi capitava spesso di vedere queste piccole offerte fatte per propiziarsi gli spiriti chiamati Banten che popolano tutta l’isola. Soprattutto agli ingressi delle 109
case capitava di vedere un piccolo contenitore fatto spesso con foglie di bambÚ contenente ogni genere di cosa: cibo, soldi, piccoli oggetti fatti a mano e persino sigarette: l’idea di uno spirito-fumatore l’ho trovata brillante. Amavo visitare i templi e ammirarne affascinato le sculture ma dopo poco il richiamo irresistibile delle risaie veniva a trovarmi, cosÏ mi avviavo a passo lento tra quei panorami mozzafiato ed i coltivatori piegati ed immersi fino al ginocchio per raccogliere i chicchi di riso. Le risaie di Bali sono state un toccasana per il mio spirito cittadino. Una vita semplice e senza materasso in mezzo all'agricoltura ed ai riflessi del sole sull'acqua, ammaliato da un ritmo che si sviluppa un chicco alla volta mi hanno riportato vicino al sapore delle cose gustate con lentezza ed in piena coscienza di se.
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un addio corale Hanoi mi ha detto “arrivederciâ€? in maniera corale mentre alle sei del mattino andavo in aeroporto con il sole che pian piano cresceva dall’altro lato del lago e ogni piazza, marciapiede, vicolo si popolava di persone di ogni etĂ con il sonno ancora attorno agli occhi.
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Vedere una ragazza fare jogging alle sei del mattino prima di andare a lavorare non è una cosa così eclatante, ma vedere una città intera riversarsi per strada ed occupare letteralmente ogni spazio per fare attività fisica al sorgere del sole è qualcosa di vibrante ed unico, ma soprattutto racconta la storia di un paese che per molti motivi, vicini e lontani nel tempo, ha un fascino particolare.
Hanoi vive per strada ed allora la prima cosa che ho fatto è stato noleggiare uno scooter a quattro marce nella città vecchia: non sei stato ad Hanoi se non hai 112
guidato nel traffico, se non hai cercato di attraversare un incrocio dove ognuno sembra avere una propria corsia preferenziale. Certo è un po’ da matti ma è solo quando ci stai in mezzo che puoi riconoscere una sorta di legge del caos. Hanoi è la canicola che ti avvolge, le case aperte con i bambini seduti per terra a guardare la TV, è la gente in fila in attesa di poter vedere Ho Chi Min imbalsamato, è nelle costruzioni strette e lunghe che così costa meno, è nel ponte rosso sul lago con la tartaruga centenaria ammalata d’inquinamento. Hanoi è nei suoi quartieri a tema: elmetti, carpenteria, animali domestici, fiori funerari, bambù...Hanoi è il treno che passa a mezzo metro dai panni stesi ad asciugare interrompendo la normale vita per qualche secondo. Hanoi è il ponte sul Red River, sospeso sull’acqua e nel tempo, arrugginito e decadente, è il tango notturno in una piazza qualsiasi mentre gli altoparlanti comunisti diffondono la musica tra passanti, gente che dorme nei prati e curiosi come il sottoscritto che partecipano a lezioni improvvisate di balli di gruppo. Hanoi è la capitale di uno stato comunista in cui lo sport nazionale è suonare il clacson, dove McDonald, Facebook ed i cinesi non sono i benvenuti, dove si vive una vita semplice all’ombra della bandiera rossa con 113
una sola stella, dove il gesto con le dita che indica la vittoria ha un senso piÚ che concreto, dove il cibo è semplicemente delizioso, il frigorifero è un lusso e le galline camminano sui tetti.
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partire, forse arrivare Alcune sono dolorose e si portano dietro un senso di perdita, altre liberatorie e di fatto l’unica scelta possibile. Qualche volta sono improvvise mentre ad altre ci si arriva aspettando. Partire significa aprirsi verso qualcos’altro, prendere una decisione ed abbracciare un rischio. La partenza è forse il momento in cui l’aereo si allinea sulla pista ed il pilota ci ricorda che stiamo per decollare passando da una terribile staticità alla più brutale delle accelerazioni. O forse è il momento in cui decidiamo che c’è da andare altrove avviando così un conto alla rovescia verso l’inevitabile. Forse la partenza si materializza quando la valigia è sul pavimento, con la biancheria intima infilata in ogni dove ed il libro che stiamo leggendo pronto a seguirci dovunque. O forse è proprio la valigia, che in un certo 115
senso parte prima di noi e fa un tragitto tutto suo per poi ricomparire magicamente ammaccata e riversa sul lato sbagliato. C’è poi lo sguardo. Lo sguardo di chi parte e si volta indietro e lo sguardo di chi resta e ci osserva scomparire dietro i controlli di sicurezza o una porta che si chiude violentemente restituendo un suono preciso alla nostra partenza. La partenza ha a che fare col trattenere il fiato mentre ci si lascia qualcosa alle spalle, magari la vita facile in cui abbiamo sempre vissuto o un inferno che brucia ancora la pelle. La partenza succede e si consuma in maniera quasi inconsapevole, immediatamente assorbita dal fragore dell’essere sulla strada, in movimento verso il suo alterego che è l’arrivo. Ma curiosamente partire non significa sempre arrivare. A volte si parte verso un altrove avvolto nel mistero, un mistero familiare a tutti e del quale, in maniera allegorica, nessuno può raccontare i panorami.
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camminando calcutta Non appena sono sceso dall’aereo ho abbracciato con gioia il simbolo di Calcutta: l’ Ambassador. Il taxi giallo, maestoso e indistruttibile, che come una macchina del tempo in alcuni momenti mi ha trasportato in un’altra epoca, come se il tempo si fosse fermato a sessant’anni fa. Ma staticità non è certo la parola giusta quando si parla di Calcutta. Lei è una città che non dà tregua, ti spinge a muoverti continuamente, piena in modo inverosimile: nei marciapiedi, nell’aria, negli odori, nel cibo, nell’acqua, nei fiumi e sui ponti. E la scelta è una sola: allargare le braccia alla quantità. Calcutta è un circo a cielo aperto dove nulla di quello che vedi è falso ed il tema principale è la fiera dell’umanità, il cerchio della vita che esprime in modo vivido e a volte terribile tutti i livelli della dignità umana e che ci piaccia o meno bisogna confrontarsi con questo, bisogna rispondere a quella sottile 117
domanda riflessa negli occhi dei passanti: “E tu? Come reagisci a tutto questo?”. Mi piace pensare che non ci sono posti che non vale la pena visitare, ed in quest’ottica ho accettato le diversità e le immagini fortissime che Calcutta mi ha presentato mentre la camminavo per ore ed ore sotto il sole, con i piedi anneriti dalla polvere, con la mia pelle bianca che richiamava l’attenzione e la mia fotocamera che scattava senza sosta.
Quando torno da un viaggio spesso mi chiedono, “Cos’hai visto di bello?”, come se al mondo vi fosse 118
solo la bellezza o come se l’unica buona ragione per viaggiare sia vedere cose belle. La mia risposta è che Calcutta ha una bellezza non comune, qualcosa che potrebbe sfuggire ad occhi distratti. Non è il posto dove andare se si sta cercando un po’ di pace o se ci si aspetta di fare shopping e visitare musei. Mentre camminavo tra spazzatura, mendicanti e odori nauseabondi ho pian piano cominciato ad accettare le cose così com’erano, senza giudicarle o disprezzarle, e nella mia testa ho riconosciuto l’altro lato della medaglia. Se al mondo esistono città come Singapore, pulite, ordinate fino alla nausea, immobili nella loro perfezione, allora Calcutta rappresenta il suo opposto: queste due realtà ristabiliscono insieme un equilibrio a mio modo di vedere necessario. Sarebbe troppo facile dire che mi si spezzava il cuore davanti alla povertà, alla vista di persone che vivono di niente, ma la mia reazione è stata di accettazione: guardando queste persone negli occhi non ho trovato disperazione, al contrario nel bene e nel male loro erano coscienti della loro condizione e ne portavano il peso con grande dignità: in qualche modo quel cerchio vitale, irrefrenabile, rumoroso e intenso, da qualche parte si chiudeva e rigenerava in una maniera che, dal di fuori, da osservatore, da passante, non mi è dato di capire. 119
Calcutta mi ha insegnato che ci sono posti che ti spingono alla riflessione e a fare un viaggio nel viaggio: un viaggio dentro te stesso, dentro la tua vita, dentro la tua storia. Alcuni luoghi ti sfidano a soppesare quello che troppo spesso diamo per scontato, ad apprezzare il dono della dignità , dell’educazione e del rispetto. Calcutta mi ha ricordato, molto piÚ di altri luoghi, di che colore è la mia pelle e di quante cose racconta senza il bisogno di parole a chi mi passa di fianco. Mi ha mostrato il mondo come una coperta troppo corta per coprirci tutti. 120
Sono tornato a Kuala Lumpur con la netta sensazione di essere stato lontano. I giorni successivi al mio arrivo ho sentito addosso la stanchezza dei chilometri percorsi e la necessità di elaborare questa esperienza, di riportare un po’ di silenzio nella mia mente affollata da una miriade di interrogativi raccolti lungo le strade di Calcutta mentre parlavo con un paio di studenti universitari che mi chiedevano come fare ad andarsene da lì o mentre camminavo con tre bambini aggrappati alle gambe. Persino comprare una bibita per strada ti fa capire qualcosa: “Non capisco...quanto costa?” (ad un venditore di bibite) “Costa 27 rupie” (una signora dietro di me) “Grazie signora, ecco 30...ma cosa sta dicendo adesso?” “Dice che se vuoi tenere la bottiglia (di vetro) devi pagare altre 10 rupie” “La bottiglia? No, non la voglio...” “Allora devi restituirla” “Restituirla? Ma allora devo bere tutto adesso!” “Eh già, qui funziona così”
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Nel bel mezzo del traffico assordante tracanno un’aranciata mentre il venditore, un uomo sui 60 anni, mi fissa con aria preoccupata e la signora si allontana ridendo sotto i baffi. Finisco l’aranciata e la ripongo in una piccola cassetta di plastica, sorrido al venditore e penso tra me e me: “Meno male che non era una bottiglia di whiskey”.
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sei un bicchiere d’acqua Fuori: spazi, uomini e donne mai incontrati prima, contenitori di storie e verità di cui ignoriamo l'esistenza. Storie che non verranno a bussare alla tua porta o compariranno magicamente su di uno schermo. L'unica maniera per capirle davvero è uscire di casa e mettersi in cammino, lasciandosi alle spalle tutto quel che ci rappresenta o definisce. Sbagliata è quell’idea secondo la quale allontanarsi dal posto in cui si è nati significa rinunciare a delle parti di se perché in questa maniera andare viene vissuto come una perdita. Questo è un pensiero pericoloso. È un po’ come affermare che noi siamo un quartiere, una strada, una mentalità e cultura precisa e che questo ci definisce per il resto della vita. Se fosse così facile che senso avrebbe aprire gli occhi e guardarci attorno? Immagina di appartenere ad un posto ben più grande - l’unico posto che abbiamo l’opportunità di esplorare 123
- sospeso in un vuoto di cui sappiamo davvero poco, e che non solo sei parte di esso, ma ne sei profondamente legato, fatto della stessa materia e con un destino in comune. È certo, almeno per la maggior parte di noi, che vi è una località, un ponte, un mattone che possiamo definire casa, ma quel posto non è altro che un punto di partenza - una mappa con una scritta “tu sei qui” - è il posto in cui sei nato e che conosci a memoria. Ma sapere dove si è nati genera in ogni individuo una domanda fondamentale: resto o vado via? Molti treni, aerei, coincidenze mancate, telefonate notturne, letti, pavimenti, cucine senza tovaglioli, salite, mappe disengate e indicazioni dopo mi hanno dato modo di pensarci. Sono giunto alla conclusione che restare o partire ha molto a che fare con la pioggia e con un bicchiere d'acqua. Restare significa avere il bicchiere pieno d'acqua, sicuro sotto un tetto mentre partire significa doversi liberare di un po' di quell'acqua perché è più facile muoversi ed esporsi alla casualità del tempo. Alcuni giorni pioverà e potrai godere di acqua nuova e fresca, altri giorni saranno così caldi che rimpiangerai di non avere più un tetto sopra la testa.
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Tu, la persona che ti porti dietro come una valigia, sei il bicchiere ed il gioco sta tutto nel saper gestire l'acqua: non c'è una risposta giusta o sbagliata a quella domanda. Ci sono semplicemente persone a cui piace la pioggia ed altre a cui non piace. E questo fa tutta la differenza del mondo.Â
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24 ore da monaco buddista Mossa da grande compassione la monaca buddista ha interrotto la sua meditazione ed è andata a prendere una sedia di plastica - “Prova con questa” mi ha detto accennando un sorriso. Imbarazzato ho provato a scusarmi dicendole che non posso provare a controllare la mia mente se devo combattere con il mio corpo, lei naturalmente ha capito che ero in difficoltà dati i miei continui e rumorosi cambi di posizione nei primi venti minuti di meditazione guidata. L’esercizio che ho miseramente fallito era in verità piuttosto semplice, bisognava contare da uno a dieci inspirando ed espirando: dentro e fuori - uno dentro e fuori - due - dentro e fuori - tre... Cercare di calmare la mia mente è stato un lucido incubo, è stato come provare ad intrappolare le nuvole o catturare un animale selvaggio senza forma o colore. 127
La meditazione guidata è stata solo una delle attività sperimentate durante la mia giornata da monaco Buddista in un tempio non lontano dal centro di Seoul, Corea del Sud. Assieme ai miei compagni di viaggio, dopo un breve tour del tempio ed una introduzione al Buddismo, abbiamo camminato e meditato per un paio di ore nei boschi vestiti di rosso porpora come fossimo dei novizi. Successivamente abbiamo consumato cibo vegetariano offerto al tempio da tutta la comunità e condiviso con i più poveri che possono liberamente venire quassù e mettere qualcosa nello stomaco. Dopo aver mangiato a turno ognuno di noi ha contribuito a lavare i piatti e quando è arrivato il mio momento mi sono ritrovato in un’ampia cucina affiancato ad un monaco che purtroppo non parlava inglese. La comunicazione si svolgeva quindi in questa maniera: io insaponavo i piatti e lui li sciacquava. Quando ho finito mi sono inchinato in segno di saluto e lui sorridendo ha puntato il dito verso una pila di piatti alle mie spalle. Pronto mi sono tirato su le maniche e mi sono rimesso a lavorare pensando a Karate Kid ed al suo mettere e togliere la cera. La cena è stata servita alle 16.30 e subito dopo un’altra breve camminata nei boschi abbiamo raggiunto la 128
monaca in una stanza vuota pronti per la nostra prima sessione di meditazione seguita dalla preghiera con tutti i monaci al completo nella sala principale del tempio. Ben istruiti abbiamo cercato di recitare le preghiere con tanto di prostrazione ed alle 20 tutti a letto perché alle quattro la campana ci avrebbe svegliati per la preghiera mattutina (con prostrazioni) seguita da meditazione e dalla meritata colazione (che somigliava tremendamente al pranzo ed alla cena precedenti). Inutile dire che la mia meditazione su sedia di plastica (credo una prima mondiale) è stata un altro completo disastro. Un’ora passata a lottare con una quantità abnorme di pensieri inutili - Quanto sarà grande questa stanza? Che materiali hanno usato? L'ultima volta che mi sono svegliato alle quattro? Mi sono perso l'alba? Ma come diavolo fa a non muoversi di un millimetro?!?!? Invece di fare l’esercizio del giorno: domanda e risposta: (inspirare) Io chi sono? (espirare) Non so. Credetemi: affrontare una levataccia seguita da prostrazioni, escursione e quindi meditazione senza nemmeno una goccia di caffè nelle mie vene non è stato semplice. Ma il bello doveva ancora arrivare.
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Per chiudere in bellezza sono arrivate le famigerate 108 prostrazioni, una pratica di cui riporto un’accurata descrizione e che va ripetuta ogni volta che il maestro recita cose del tipo “Mi prostro per aver usato senza riguardo l’unica Terra che ho a disposizione” e così via: “...la prostrazione inizia in piedi con le mani in posizione hapchang [...] si inizia lasciandosi cadere dolcemente in ginocchio sul tappeto da meditazione, quindi si poggiano le mani sul tappeto davanti a sé, con le palme giù, e si poggia il piede sinistro sopra al destro. Nel contempo si girano le palme verso l'alto e ci si piega in avanti fino ad appoggiare la fronte sul tappeto, abbassando i glutei in modo che il corpo sia veramente a terra". * Sia chiaro che il tutto accadeva alle sei del mattino sprovvisti di caffè o colazione e che la singola prostrazione si risolve nel giro di 5 secondi. Ero in totale trance agonistica almeno a partire dalla 30a prostrazione. Dopo aver compreso con assoluta certezza che il Buddismo è una questione egualmente mentale e fisica ci siamo ritrovati tutti in una stanza di modeste dimensioni a mangiare squisiti dolci di riso e bere tè a tu per tu con la monaca, a parlare delle nostre vite. Per un’ora siamo andati avanti a chiacchierare e quando la 130
mia amica le ha chiesto come fare a capire gli altri lei è scoppiata in una risata e le ha detto “Capire gli altri? Piuttosto prova a capire te stessa, capire gli altri è quasi impossibile!”. Immancabilmente, persino con la monaca, siamo finiti a parlare di relazioni ed ho trovato assolutamente buona e giusta una cosa da lei suggerita: “La maniera migliore per imparare una lingua è trovarsi una fidanzata che la parla!”.
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Quando siamo tornati alle nostre vite ed ai nostri vestiti, infreddoliti dal clima fuori dal tempio, ho realizzato quante cose avevamo già fatto ed erano solo le nove del mattino. Mi sono sentito a pezzi fisicamente e totalmente inadatto ad una vita da monaco ma ho promesso a me stesso di starmi più vicino, di provare a controllare quell’animale selvaggio che vive in me e di usare di più il pavimento nella vita di tutti i giorni. * Tratto da L’arte dell’Inchino di Andi Young.
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l’indispensabile Per me viaggiare è sempre sinonimo di viaggiare leggeri, di conseguenza ogni singolo oggetto che dobbiamo trasportare deve rientrare in una ristretta lista il cui nome è “l’indispensabile”. Quindi la domanda nasce spontanea: Qual è l'oggetto più utile, quello che svolge il maggior numero di funzioni, da avere in valigia? La risposta è facile: una sciarpa! E sono pronto a provarlo stilando una lista di tutte le maniere, lecite ed illecite, in cui è possibile usare una sciarpa. 1. Mantenere caldo il collo in stanze munite di aria condizionata per evitare raffreddori o dolori muscolari (come ad esempio in un dannato aereo); 2. Un cuscino; 3. Avvolta attorno alla mano attutisce un pugno dato a qualcuno o si può rompere un vetro in caso di necessità o pulire una superficie; 4. Legato attorno ad un arto contuso; 5. Fermare una emorragia; 133
6. Coprire il volto o i capelli; 7. Coprire la bocca in caso di situazioni fumose o se si vuol rapinare una banca; 8. Avvolta attorno ad un oggetto può nascondere e proteggere o snellire (in caso di sciarpa nera); 9. Se avvolta attorno al petto può ospitare oggetti; 10. Una fionda; 11. Una estensione del braccio; 12. Legare due oggetti; 13. Una gonna (per lei e per lui?); 14. Se grande abbastanza può risultare in una comoda toga; 15. Coprire uno spiffero; 16. Giocare a “tira la corda”; 17. Una tovaglia; 18. Una borsa; 19. Un asciugamano, anche per la spiaggia; 20. Avvolta attorno ad un oggetto rotondeggiante può essere usato come un pallone; 21. Costume da bagno per lui e per lei; 22. Un mantello da supereroe; 23. Una spugna; 24. Una bandiera; 25. In caso di emergenza può essere utile per attirare attenzione; 26. Non lo consiglio a nessuno, ma si può provare a sventolarlo davanti ad un toro; 27. Legato attorno alla testa per imitare Rambo (fatto); 134
28. Se unito alla frase “ecco, ti sto regalando l'oggetto più utile al mondo” può risultare in un regalo straordinario; 29. Appendere qualcosa; 30. Legarlo attorno alle caviglie di qualcuno che dorme e poi aspettare che si svegli; 31. Pannolino; 32. Fissato al muro come decorazione; 33. Una tenda; 34. Una coperta; 35. Il più grande fazzoletto per il naso del mondo; 36. Giocare a “prendi-bandiera”; 37. Una cravatta; 38. Una corda per fuggire dalla finestra; 39. Piegato molte volte può essere usata come spaziatore o cuscino; 40. Un paracadute per piccole altezze*; 41. Facilitare, per così dire, giochi sessuali; Invito chiunque legga a contribuire alla lista ad informarmi di quali altre funzioni una sciarpa può svolgere. Il mio intento è di arrivare a 100 diversi modi di utilizzare una sciarpa. * Il numero 40 dimostra che stavo esaurendo le mie alternative.
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indiana jones un corno! (tra me e me) "Piano, vacci piano, siamo vicini ormai, devi solo tirare dritto ed è fatta" slip, splash! "Porca p*******! @#F***C!"
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Quando c'è da imprecare con gusto lo facciamo tutti nella nostra madrelingua anche se ad essere onesti ho imprecato anche in inglese. Si è trattato solo di un paio di secondi immersi in quell’acqua torbida che mi piace chiamare acqua Nescaf è. Quando sono riemerso ed ho ristabilito il controllo della situazione ho sentito ridacchiare qualcuno non molto lontano da me: "Stai bene amico? Ahahhahah, l'hai mancata non è vero? Ahahaha". Un ragazzo dall'accento americano ha assistito alla scena e se la ride di gusto, ma io non posso pensare ad altro che alla mia foto-camera gocciolante. L’americano va avanti - "Scusa ma devo proprio farti una foto, non posso resistere" - scatta e scompare. In quel momento avrei voluto chiedergli di mandarmi la foto che registra la mia espressione tra l'incazzato e l'incredulo, ma me lo perdo e c’è poco da scambiarsi biglietti da visita data la mia posizione. Bene, cerchiamo di contestualizzare. Succede a tutti prima o poi di vivere questo genere di momenti in cui una voce dentro di noi si distingue dal rumore circostante per chiederci “Ma come hai fatto a metterti in questa situazione?”. Personalmente ho sentito quella voce parecchie volte. Il mio soggiorno nei dintorni di Siem Reap in Cambogia è andato piuttosto bene considerando che il 138
periodo coincide con la stagione delle piogge e che una settimana prima del mio arrivo hanno dovuto recuperare con l'elicottero 200 turisti bloccati ad Angkor a causa delle inondazioni. Tutto sommato quel che ho dovuto fare è stato guadare un'acqua color Nescaf è per raggiungere un tempio immerso nella giungla, in mutande e senza la più pallida idea di ciò che mi succedeva attorno.
Proprio a causa delle inondazioni dei giorni precedenti al mio arrivo l’accesso al tempio era scomparso così si è dovuto decidere se valeva la pena di immergersi in quella brodaglia o meno. Il partito dei si ha vinto 139
all’unanimità. Mi sono attardato per spogliarmi ed ho perso il resto dei miei amici immediatamente. La camminata andava a meraviglia quindi mi sono messo a scattare un po' di foto in una situazione, per così dire, all'Indiana Jones. Dopo una trentina di metri ho raggiunto la passerella sommersa antistante il tempio e sono salito con disinvoltura. “Adesso l'unica cosa che può andare storta è mancare la passerella!” ed io la manco quasi subito, non riesco a vedere nulla ed il mio piede destro è fuori di cinque centimetri dal bordo e va giù, e sfortunatamente io a quel piede ci sono attaccato e lo seguo con tutto il resto. In quell’esatto momento io ho sentito di sapere inequivocabilmente che sarebbe successo. La fotocamera è completamente fradicia. È finita e penso a tutto quello che abbiamo passato insieme, ai chilometri di scatti che abbiamo fatto. Penso al fatto che lei è stata la mia memoria e la ringrazio mentre copro gli ultimi metri prima dell'arrivo. Alla prima occhiata i miei amici capiscono subito cos’è accaduto e scoppiano in una risata che va avanti per il resto della giornata: non vedono la mia disperazione, devo fare qualcosa, devo provare a salvarla! Così mi tolgo la maglietta e scompongo la foto-camera nel tentativo di far asciugare tutti i vari pezzi al sole 140
mentre altri turisti raggiungono il tempio con alterne fortune e fissano l'uomo in mutande e ridacchiano.
Oramai imbarbarito come fossi un uomo delle caverne, prima di fare il percorso a ritroso mi addentro nella giungla alla ricerca di un bastone per assicurarmi una certa stabilità . La cosa effettivamente aiuta. Un’ora piena d'ansia e preoccupazione ha preceduto il momento fatidico: la riaccensione. Tornerà alla vita restituendomi le mie memorie? Premo il pulsante e dei suoni mai sentiti prima accompagnano un lieve movimento delle lenti che si stiracchiano e, 141
inaspettatamente, aprono. Il display si accende, foto-camera funziona! Funziona!!
la
Cose che ho imparato da questa esperienza: 1. Non sai mai quando finirai in mutande (quindi è meglio indossarne sempre di buone); 2. Se c'è dell'acqua coinvolta metti da parte qualsiasi giocattolo elettronico e smettila di fare il fotoreporter; 3. Questo è un classico caso in cui non è la meta ad essere importante quanto il tragitto in sé.
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tassisti atto secondo Ci sono molti luoghi a Kuala Lumpur che possono essere definiti solo dall’espressione nel bel mezzo del nulla e negli ultimi mesi ci sono finito parecchie volte. Una sera, ad esempio, mi sono immancabilmente ritrovato in uno di quei taxi fatti a posta per riportarti a casa. E per arrivarci c’è da attraversare la città da parte a parte, quella sera guidato da un Indiano-Malese di mezza età. Come fanno in molti lui mi chiama Carlos mentre scambiamo qualche battuta lungo il tragitto. Mi osserva attraverso lo specchio retrovisore e si informa sulle mie generalità. Anch’io cerco di coglierne il viso. Poi abbassa il volume della radio e condivide con me la sua amarezza. “Caro Carlos, è una vita difficile qui, è davvero difficile...questa città è troppo cara e diventa sempre più invivibile. Ci sono troppe disuguaglianze da 143
sopportare. E pensare che una volta era così diverso. Guidare il taxi non è certo quello che mi piace fare, tanto tempo fa io ero un ingegnere sai? Adesso invece...adesso vorrei tanto andarmene”. “Andare? Andare dove?” gli chiedo cercando di fare conversazione. “Via! Lontano da qui, ecco dove. Magari potrei andare in Italia! Tu vieni qui ed io vado in Italia, così siamo pari!” Mi sembra un ragionamento sensato, una sorta di bilancio culturale. Sorrido mentre percorriamo una sopraelevata e per tirarlo un po’ su di morale gli dico che sono andato via dall’Italia per motivi simili ai suoi e questo sembra quasi ferirlo. “Che cosa vuoi dire? Ma questo non è possibile! L’Italia è un paese meraviglioso, tutti vogliono andare lì almeno una volta!”. “Certo, è meravigliosa, ma la bellezza a volte non è sufficiente se devi conviverci. È un po’ come con le donne”. L’auto è ferma e guardando fisso di fronte a se annuisce stringendo il volante mentre entrambi aspettiamo che il semaforo diventi rosso. Non credo di averlo convinto con le mie spiegazioni. Riceve una telefonata e comincia una lunga conversazione in 144
Indiano-Inglese-Bahasa (la lingua locale) ed io ne approfitto per avvicinarmi al finestrino e guardare la città più da vicino. Il tassametro emette un bip ogni dieci centesimi e la notte è calda come non mai. Mi sento addosso il peso della settimana ed ho la testa piena di pensieri inutili, così mi aggrappo a quello che Ramesh mi ha suggerito. Come si fa a scappare dall’Italia? Io non ne sono certo scappato, come potrei farlo? Come si fa a scappare da se stessi? Dalla propria cultura, da quell’atteggiamento respirato per una vita intera? Certo, puoi allontanartene fisicamente, ma quello è un sapore che ti resterà sempre appiccicato addosso come un tatuaggio. Come molti altri sarei potuto restare su quella strada, continuare a seguire quella direzione, ma quando ho alzato la testa ed ho visto la nebbia di fronte a me ho capito che dovevo darmi un’altra possibilità e mettermi nelle mie mani. Ho tirato la catena e non è stato affatto semplice, non lo è mai, ma per adesso sembra esser stata la scelta giusta. Come Ramesh anch’io non sapevo dove andare eppure a forza di allungare il collo e bussare alle porte da qualche parte sono finito sempre con addosso la paura di restare a piedi nel bel mezzo del nulla. 145
“Accosta Ramesh, siamo arrivati, le vedi quelle buste di immondizia? Ecco, proprio lì”. Ho augurato buona fortuna a Ramesh che si è voltato e mi ha sorriso mentre recuperava i soldi. Gli ho detto che il suo paese non è poi così male come dice, io lo trovo interessante. Il passeggero scende dal taxi che facendo inversione ad U si allontana inghiottito dal buio. Resta un vuoto fatto di luci basse e silenzio. Il passeggero si chiude alle spalle il cancello e fa ritorno alla sua vita, il tassista è ormai un ricordo lontano. Il tassista sta forse pensando davvero all’Italia, a come mettere insieme i soldi per trasferirsi. Tutto quel che ha adesso è un volante tra le mani e la voglia di cambiare.
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della cittÀ Gli piaceva fermarsi dove capitava, persino in un posto di cui non avresti potuto scrivere due righe. Non era lo scenario ad interessarlo quanto il vento che passava di là . Si sedeva e la osservava attentamente, ne guardava il respiro, il rumore delle scarpe dei passanti, la maniera in cui si dimenava e sbraitava. Ogni città - pensava - ha il suo battito, il suo andare e venire, e per osservarlo devi fermarti ed ascoltare, ci vuole tempo ed un pizzico di fortuna, ma se riesci a star fermo abbastanza magari qualcosa succede e per un attimo puoi vederne il volto. In particolar modo lo attiravano i mercati, ed un mercato è soprattutto una faccenda di mani e per vedere la gente, il cittadino, devi andare laddove i mercati accadono, con la carne appesa, i pesci mezzi morti, gli uccelli nelle gabbie, le composizioni di frutta a forma di piramide, il passo lento degli anziani, l'oro del mattino e il brulicare di sacchetti di plastica, di 147
mani che prendono, tirano, contano, grattano, raccolgono e dispongono. E come sul palmo di una mano aperta, per vedere il futuro di una città , prima ancora di metterci i piedi dentro, lui si perdeva in un concerto di appunti, di linee, mappe, incroci, nomi impronunziabili, liste ed itinerari. Contava i passi e appuntava tutto, compresi i numeri di telefono. La città la camminava in lungo e in largo nella sua testa.
Sapeva benissimo che quella era una perdita di tempo perchĂŠ, puntualmente, una volta sulla strada, una volta che la camminata cominciava per davvero, tutto cambiava e le mappe andavano a farsi benedire. 148
Eppure quella sensazione, quell'essersi fatto un'idea sbagliata, in qualche maniera lo gratificava, prendeva corpo ad ogni passo, ad ogni nome, ad ogni via, ad ogni palazzo ed ogni panorama: “La realtà” - diceva “è più saporita della mia immaginazione”. Riuscire a capirne la forma e le dimensioni poi era una questione complicata perché puoi metterti a studiare una mappa per ore ed ore, passarla al setaccio, misurare il tragitto a partire dalle stazioni, ma è solo quando ci sei nel mezzo - tu visto dall’alto - che ne capisci la grandezza. A cominciare dal primo passo fatto una volta arrivato, la città comincia ad essere parte del tuo cammino, perché di tutte le strade del mondo tu ne hai camminato solo una che si chiama Calcutta o Melbourne o Tokyo e quella strada, nel bene o nel male, l'hai descritta a modo tuo e con i tuoi passi. A forza di atterrarci le città l'avevano cominciato ad affascinare. La loro polvere, le attese tra gli sconosciuti, il rumore dei tram o dei traghetti, il nero dei muri metropolitani, i gabbiani, l'aria puzzolente, le pubblicità dietro i barboni, i portici, la maniera in cui una donna può lasciare una scia nonostante tutto, i volti assenti e le porte che si chiudono, il traffico a tutte le ore, il sole che non si sa mai dove è andato a finire, la notte con i suoi vortici e i tassisti. 149
Gli piaceva pensare che la città, quando è gravida, può essere il luogo caldo dove le cose accadono, dove gli incontri si fanno interessanti e dove un giorno o l'altro avrebbe potuto trovare una porta, una scalinata, un tetto sotto il quale poter chiudere gli occhi, finalmente salvo.
Dalla città si fugge ed alla città si torna, è un alveare dove tutti dipendono da tutti anche se fanno una fatica immane a rendersene conto. Nel frattempo lui se ne stava seduto, dove capitava, ad osservare tutte quelle solitudini passare.
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questo farÀ male Da questa panchina vedo lontano l'Habour Bridge ma lo raggiungerò più tardi. Per adesso mi voglio godere questa vista sul mare ed ascoltare la città. Bisogna trovare i posti giusti dove fermarsi ad osservarne il ritmo in attesa che le cose accadano. Magari un suono, un volto o un gesto, le auto che tornano, anche adesso, in questo lunedì soleggiato a Sydney, ora di pranzo. In città ci sono arrivato a notte fonda come un evaso e dopo la notte che ho passato questa vista è una dolce carezza australiana. Alle mie spalle un gruppo di ragazzi giocano a calcio in un piccolo parco di Darling Harbour e da qui, a ben guardare, sembra che ci sia più spazio a disposizione, che il cielo sia un po' più grande per via dei riflessi sull'acqua. Nonostante la fame cominci a farsi sentire non riesco a resistere al desiderio di correre dietro ad una palla, così 151
raccolgo le mie cose e chiedo ai ragazzi se hanno bisogno di un ex-calciatore, tra di loro c'è anche una ragazza che mi sorride e poi chiede "Da dove vieni straniero?", "Sono italiano e sono arrivato la scorsa notte da Melbourne". Un altro dei ragazzi interviene incuriosito "E la prima cosa che fai è metterti a giocare a calcio?". A quello non avevo proprio pensato.
Mi libero di due dei tre strati di vestiti che ho addosso dato che è appena cominciato l'inverno qui in Australia e mi unisco a loro. Per mezz'ora c’è solo un correre calciare e provare a respirare, ma nonostante non giochi a calcio da una vita faccio quel che posso e mi sento bene. La ragazza è bravissima e quando mi dicono che devono tornare a lavoro quasi mi dispiace. 152
Ci diamo appuntamento per il giorno seguente ed io resto sorpreso dalla naturalezza e spensieratezza con la quale vanno via verso il loro ufficio ad aria condizionata.
Per un paio di minuti resto seduto e senza scarpe sull'erba a recuperare il fiato che non avevo e a constatare che ancora una volta gli australiani mi dimostravano di essere persone che si godono la vita e questo, molto più di altre cose che si sentono in giro, fa dell'Australia un posto unico. “Ehi tu!?” un gruppo di ragazzi poco più in là ha appena cominciato a giocare a rugby e mi invitano ad unirmi a loro. La pancia brontola e sono già stato 153
messo a dura prova dalla partitella. Rugby poi...ed io cosa ne so del rugby? Sarebbe una pessima idea! Con ampi gesti altri ragazzi mi invitano a darmi una mossa.
"Questo farĂ male!" ho sussurrato prima di rimettermi le scarpe e unirmi a loro.
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l’arte di fare domande Ma un rinoceronte come farà l’amore? Di cosa profuma un campo di girasoli? Che cosa si prova a camminare scalzi in una moschea? Quanto luccica la Tour Eiffel? Dove è nato il genio di Salvador Dalì? Quanti passi posso fare sotto il sole dei tropici prima di sentirmi esausto? Che forma ha un vulcano? come vivono in Myanmar? E il deserto, di notte, quanto spazio produce? Sulla piana di Lhasa, in Tibet, si respira davvero quel senso di spiritualità di cui tutti parlano? Come sarà muoversi a dorso di un cavallo in Mongolia? Come ci si arriva? E questo Bhutan misterioso, quel tempio buddista aggrappato sulle rocce che cosa racchiude? Quanto è grande il continente che ha dato i natali all’uomo ed al caffè: l’Africa? Forse la curiosità non è altro che l’Arte di farsi delle Domande.
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cicatrice musicale Il 25 luglio sono volato a Taipei (Taiwan) mosso da ragioni profonde. In un certo senso avevo un appuntamento con qualcuno: dovevo incontrare una parte di me che non vedevo da molto tempo. Avevo diciannove anni quando per la prima volta ho assistito ad un concerto dei Radiohead assieme a mia sorella, in un luogo unico come l'Arena di Verona. Quella notte, a parte l'emozione indescrivibile del concerto in sÊ, mi ha lasciato un ricordo tangibile per il resto della mia vita: una cicatrice sul mio braccio sinistro. Nel tentativo di procacciarmi il posto migliore possibile sulle gradinate assieme a migliaia di altre persone, mi sono tagliato passando vicino ad un filo di ferro scoperto. Quando il concerto è iniziato stavo sanguinando, ma naturalmente a chi importava piÚ? Musica e sangue: non riesco nemmeno a descrivere come mi sono sentito quella sera. Ero al posto giusto 157
al momento giusto e forse ho intuito qualcosa che mi avrebbe tenuto compagnia a lungo. Per un attimo ho creduto di sapere il perché apprezziamo o meno una certa musica. Deve avere a che fare con il fatto che dentro ognuno di noi esiste una frequenza, una vibrazione precisa. Ogni tanto capita di ascoltare una band e di colpo qualcuno là fuori ci è misteriosamente vicino. A volte ascolti una canzone e pensi "Amo queste note, è come se fossero state scritte per me!". Ho capito che non vai ad un concerto per via di questo o quell'artista. Tu vuoi esserci per te stesso. Provare la sensazione della tua frequenza che risuona in uno stadio o un teatro, moltiplicata ad una scala così ampia da sentirti parte di qualcosa ben più grande di te. Sono passati undici anni da quella notte. Allora ero una ragazzo con un futuro fatto di confusione, ma avevo pochi dubbi in quanto a gusto musicale. Negli ultimi undici anni un uragano si è abbattuto su di me, spingendomi e tirandomi in ogni possibile direzione, cambiando e formando ogni mia opinione, ma se quella passione è ancora intatta, quella gioia di saltare e chiudere gli occhi assieme a migliaia di sconosciuti mano nella mano con la musica, forse è il caso di riconoscere il valore di tutto questo. No, non parlo del valore (innegabile) dei Radiohead. Quello di cui parlo è il valore di una vita con una colonna sonora che nonostante tutti gli stravolgimenti, gli errori ed il 158
sangue, è riuscita a darmi ancora qualcosa da raggiungere, qualcosa che devi inseguire, persino in una notte caldissima dall'altra parte del mondo.
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cinque uomini su una barca Cinque uomini su una barca che vola lontano dalle rocce, la polvere, la spiaggia bruna e l’odore di zolfo. Attraverso i miei occhiali da sole da cinque euro non riesco a smettere di fissare il cratere facendo attenzione a non sbattere da qualche parte con tutto questo rimbalzare. I cinque uomini sono assorti in un silenzio riempito solo dal rumore della barca che si infrange violentemente contro le onde mentre attraversiamo lo stretto tra le isole indonesiane di Java e Sumatra per tornare sulla terraferma. Il capitano non si risparmia e ferma i motori solo quando siamo letteralmente sospesi a mezz'aria tra il cielo ed il mare. Non ricordo il suo nome, il capitano parla poco ma fuma che è una bellezza. Ba-ri, la nostra guida, non ha mai pensato che indossare una maschera 161
per proteggersi dalle esalazioni di zolfo mentre fa su e giÚ per il vulcano Krakatoa sarebbe una buona idea. Il terzo uomo è una ragazzo sui venticinque: sorride, dorme ed ogni tanto il capitano lo manda sul naso della barca per gettare l'ancora. Alla conta manchiamo io ed il mio amico americano: una zavorra necessaria. Cinque uomini su una barca da pesca di sette metri, spinta da un doppio motore Yamaha Enduro 40: un teatrino messo in scena per via della tragica e affascinante storia di un vulcano dalla pessima fama.
C'era una volta un'allegra banda composta da tre vulcani: immaginate una grossa montagna con tre punte. Uno di loro, con evidenti manie di grandezza, un bel giorno decise di darsi delle arie con un rutto di 162
proporzioni bibliche. Correva l'anno 1883 quando lo fece e fu così rumoroso che se ne accorsero anche in Australia a 20000 km. Il suo eruttare tra le altre cose causò anche uno tsunami che uccise più di 35000 persone e quando la cenere si era finalmente posata, poco o nulla era rimasto della banda dei vulcani: nel suo impeto il vulcano sbruffone ha polverizzato se stesso ed il suo vicino, mentre del terzo è rimasta una perfetta sezione visibile ancora oggi. Ma quella che sembrava una storia finita malissimo in realtà era solo il primo atto.
Infatti, d'improvviso, nel 1925, il vulcano Krakatoa fino ad allora dormiente sotto la superficie è riemerso dall'acqua sputando fiamme e fumo e pian piano, anno 163
dopo anno, è cresciuto esattamente dov ’era originariamente e in men che non si dica ci ritroviamo al 2012 con un'isola alta 400 metri che continua a crescere. Il vulcano-isola è ancora attivo e con il resto della ciurma ci siamo accampati ai suoi piedi per una notte che si è rivelata, almeno per me, lunga e povera di sonno ma ne è valsa la pena per potersi svegliare alle cinque del mattino e vedere l’alba. Scalare il vulcano affondando nella sabbia e sollevando polvere ad ogni minimo movimento è stato un’altra delle prove vulcaniche. Alla fine della scalata siamo stati accolti da un pungente odore di zolfo che al mattino, ho notato, è un po’ meno intenso. Il panorama che non può essere descritto a parole: lassù pareva quasi di ergersi sulle spalle di un gigante. Un potente, silenzioso e pericoloso gigante che aspetta di abbracciare il suo destino circondato dal mare e dai resti della sua furia e se sono qui a scrivere questa storia vuol dire che fortunatamente quella mattina il suo destino non era nei paraggi *. * Dieci giorni esatti dopo la nostra visita al vulcano ho ricevuto un messaggio dalla mia guida che mi invitava a tornare: Krakatoa era tornato ad illuminare la notte con zampilli di fuoco. 164
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tassisti atto terzo Ci sono sere in cui vuoi solo tornare a casa e per farlo devi affidarti a loro, alle mani sapienti, scaltre e spesso irritanti dei tassisti e questo accade generalmente dalle due di notte in poi. Ero da qualche parte, proprio non ricordo perché e quando, ma ricordo che in quel periodo vivevo in un condominio a nord del centro cittadino ospite di un caro amico filippino e dovevo in qualche modo tornarci. Ho alzato il braccio ed ho subito notato qualcosa di sospetto: 1) il taxi si è fermato subito; 2) il lato passeggero era occupato da qualcuno. Ma il taxi si è fermato - ho pensato - sarà solo un parente o un amico! Chissenefrega! Così sono salito, ero abbastanza lucido da poter usare la mia solita tattica a prova di tassista ed in maniera molto diretta ho subito richiesto di avviare il tassametro e mentre infilavo la testa dentro ho riconosciuto una donna che mi fissava 165
sorridente e, a suo modo di vedere, provocatoriamente. Il tassista mi ha rassicurato si trattava di un’amica ed io ho stabilito il prezzo. Le contrattazioni possono prendere pieghe diverse ed io sapevo cosa dire così sono saltato su e mi sono ritrovato in un taxi con una prostituta. La corsa era breve e lei/loro lo sapevano. Parlavano velocemente e mi hanno chiesto di un locale in centro frequentato da occidentali e prostitute - lo conoscevo, anche se non ci sono mai stato - così ho spiegato che quei posti non fanno per me, ma non l’ho affatto convinta. Voleva sapere se la trovavo attraente. Andiamo - le ho detto un po’ scocciato - voglio solo andare a casa. A quel punto il tassista capendo che si trattava di un cliente difficile ha preso in mano la situazione con una mossa brillante: musica da discoteca per infiammare i miei bollenti spiriti. Prostitute e musica da discoteca ad alto volume in un taxi nel cuore della notte: che quadretto! Vorrei scattare una foto! Ho provato a protestare, ma lei continuava ammiccante a chiedere informazioni e a fare apprezzamenti, “Hmm, davvero? Italiano? E ti piacciono le ragazze malesi?” - certo che mi piacciono, soprattutto se non devo pagarle! E via dicendo lungo tutto il tragitto: 166
“Cosa fai più tardi?” “Dormo.” “Cosa fai domani?” “Lavoro.” “Vienimi a trovare qualche volta...” “Certo, ti cerco sulle pagine gialle.” La situazione, devo ammetterlo, mi ha molto divertito, se non fosse stata per quella stramaledetta musica da discoteca. Arrivato a destinazione ho pagato e sono sceso dalla macchina con un gran mal di testa e ridendo sotto i baffi. Lei non era affatto contenta, le cose non sono andate come da programma, ma a casa io ci ero comunque arrivato, ad un prezzo ragionevole ed in compagnia di servizi extra non richiesti. Ci vuole del tempo per capire delle cose, ma quella notte ho avuto la conferma che un taxi è come una scatola di cioccolatini: non sai davvero mai quello che ci troverai dentro.
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la donna che sapeva Ho letto da qualche parte che la mattina di Hong Kong andrebbe vista a bordo del tram a due piani che ancora oggi sferraglia avanti e indietro sulla parte insulare della città. È dal 1904 che questi meravigliosi tram si muovono carichi di legno e metallo rivettato da Est ad Ovest ed è difficile immaginarsi la città senza di loro. Così ho forzato i miei amici ad alzarsi alle 6 nonostante i postumi di una sbornia: volevo vedere gli occhi ancora assonnati della città, volevo vederla uscire dalla notte e per farlo c'era da saltare il caffè ed attraversare il braccio di mare con la metropolitana. Una volta emersi tra le strade deserte della parte insulare della città i miei amici hanno giustamente chiesto spiegazioni: “E adesso?”. Un sorriso sardonico sul mio volto e lo sguardo fisso verso quell'oggetto rumoroso che si avvicinava era la risposta: “Adesso saliamo su quel tram e ci rimaniamo finché non si ferma, voglio vederne la fine”. 169
Saliti a bordo della carrozza con le ruote siamo rimasti sul tram fino al capolinea ed una volta arrivati abbiamo appreso compiaciuti che quella che avevamo di fronte era la vera Hong Kong, povera di turisti ed inglese, un luogo di cui non ricordo il nome dove un mercato era in pieno svolgimento. Dopo aver consumato le famose crostatine alle uova di Hong Kong è bastato uno sguardo per decidere di risalire sul tram ed esplorare anche l'altra estremitĂ . Stavolta però sono corso immediatamente al piano superiore per assicurarmi un posto in ultima fila e poter guardare alla cittĂ da una prospettiva diversa, una prospettiva che mi ricordava la ripresa lenta e rigida di un film.Â
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Percorrendo a ritroso la linea del tram, con le strade che poco a poco cominciavano ad animarsi, le luci a spegnersi ed i rumori farsi piÚ definiti, ho notato che a breve distanza un altro tram dal colore verde acceso ci seguiva. Ad una seconda occhiata ho notato una donna seduta in prima fila al piano superiore: lei era il mio alter-ego e danzavamo assieme ai nostri tram. In un certo senso era come se stessi filmando lei che, a sua volta, deve avermi notato con la mia foto-camera puntata. Avvicinandosi ed allontanandosi ad ogni fermata, sono rimasto colpito dal suo sguardo, uno sguardo intenso di chi sapeva perfettamente cosa stava accadendo e senza un cenno o un sorriso, quasi senza un'espressione, ha deciso di restare lÏ dov'era, complice di un momento in cui due sconosciuti, nello spazio di qualche fermata, hanno rivestito ruoli opposti della scena di un film.
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le viscere di conrad Non potevo terminare il mio soggiorno malese senza andare a vedere cosa succede nel Borneo, la giungla delle giungle, un luogo vasto e misterioso, farcito dalla piĂš elevata diversitĂ del mondo.
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Quando ho scelto il Parco Nazionale di Mulu come la mia prima (ed unica) spedizione nel Borneo non sospettavo che avrei incontrato qualcos’altro oltre alla rigogliosa vitalità della giungla tropicale. Mulu è un’area molto particolare per via delle moltissime grotte che nel corso dei millenni si sono formate a successione del graduale ritiro delle acque. Grotte di dimensioni indescrivibili nelle quali è possibile esplorare quelle che mi piace chiamare “le viscere della giungla”, il lato B di un mondo normalmente pieno di luce e persino le profondità di cui parlava Conrad nei suoi libri (che peraltro è davvero venuto da queste parti). Sono forse queste le tenebre di cui parlava? L’assoluta assenza di luce in ogni sua forma, la paura agghiacciante che si prova a non riuscire a vedere la propria mano muoversi a pochi centimetri dai tuoi occhi che sai spalancati? Munito di elmetto e scarpe adatte all’ambiente umido e cavernoso, mentre esploravamo una delle grotte la guida ha suggerito di spegnere tutte le torce e di non proferire parola per cinque minuti. Ed è in quel momento che ho visto le tenebre. Le tenebre sono la sensazione che i tuoi occhi non hanno più uno scopo perché non vi è nulla che tu possa vedere. Il contrasto tra l’inospitale chiassosa e intensa giungla tropicale ed il silenzio di una grotta popolata da serpenti e pipistrelli, stalattiti e stalagmiti è fortissimo. Nella 174
giungla hai miliardi di occhi che scrutano mentre nelle sue viscere gli occhi non servono a nulla. Per tutto il tempo trascorso nel parco nazionale ho sentito una grande tensione attorno a me, la tensione di un luogo che esplode di vita e che allo stesso tempo è inumano nel senso più primitivo del termine. Da piccolo essere bipede quale sono ho avvertito costantemente di essere fuori luogo, alla mercé di una presenza più alta, più forte ed imprevedibile di qualsiasi essere umano. Densa, viscida ed ovunque, la giungla ti fa sentire accerchiato e senza via di scampo.
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Mulu è il più grande complesso di grotte sul pianeta, ed ospita anche la seconda più grande grotta al mondo che ho inutilmente cercato di fotografare, chiamata Deer Cave. Una cattedrale di roccia così grande che un piccolo aereo può volarci dentro per un centinaio di metri. Il soffitto della grotta è letteralmente ricoperto da milioni di pipistrelli in attesa di uscire per cena, uno spettacolo che si ripete giornalmente attorno alle sette di sera con milioni di pipistrelli che escono dalla grotta dipingendo una nuvola cangiante nel cielo al tramonto. Il Borneo è un luogo mistico ed autentico che offre queste ed altre straordinarie creazioni naturali ed è, a mio modo di vedere, molti in alto nella lista delle attrattive più sorprendenti non solo della Malesia ma dell’intero Sud-Est asiatico.
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lo straniero Io l'ho capito subito di essere a mio agio nel ruolo sempre cangiante dello straniero: colui che viene da un posto mistico e quasi sempre lontano dai propri piedi che si chiama altrove; colui che sembra sempre di passaggio, di corsa, fuori posto e con le radici a vista. Lo straniero è come un fiore in un vaso, lo puoi portare in giro, mettere al sole, nascondere e annaffiare. L'essere straniero, se fosse un mestiere, sarebbe un mestiere pieno di alibi. Da straniero è più facile accettare di non essere capiti, di essere l'altro, di non avere che una valigia, di essere sempre lontano da qualcosa, di dover tornare a casa, di essere assenti, di dover ricominciare, di non parlare la lingua, di non avere amici, di scoprire di essere se stessi, di camminare soli anche quando non c'è vento. Quando si vive nel proprio contesto/paese è un po' più difficile riconoscersi in un ruolo mentre, da straniero, 177
ci viene garantita almeno una posizione, un punto di vista, perché una particina la danno a tutti, non resti fuori, emarginato, perso nelle periferie e con le scarpe sporche perché da un momento all'altro puoi alzarti e dire: “Fermi tutti! Io sono lo straniero!”. Ma non è certo un ruolo tutto rose e fiori. Innanzitutto perché generalmente sei una minoranza, una minoranza che a volte è persino unicità. Sei solo, uno, singolo, con una identità che decide per te, un accento che non lascia spazio a dubbi ma apre un mondo di fraintendimenti, che dal di fuori possiamo forse apparire questa o quella cosa ma quando apriamo bocca è finita: ci hanno scoperti. Ogni straniero poi si porta addosso una maledizione: la maledizione degli stereotipi. Così quando meno ce lo aspettiamo comincia la fiera delle idiozie, dei razzismi, dei gesti, dei modi di dire, dei "voi avete perso questa o quella finale", o del "ma è vero che le ragazze…" e via su su fino all'essere identificati con il proprio stereotipo che è come un fantasma di voi stessi che nemmeno avete mai potuto invitare a cena, eppure lui accompagna, disturba, si infila tra i discorsi come un languido tormento. A volte poi succede che quel fantasma aiuti ad aprire qualche porta, ad essere sì il diverso, ma in maniera positiva. Quel fantasma è la rappresentazione di un filo che corre indietro nel 178
tempo fino a toccare le nostre radici ed ha a che fare con un’annosa questione: l'appartenenza. I passi che qualcuno ha fatto prima di noi, l'essere nati in un posto riconoscibile, di avere una tradizione, una questione di discendenza e di poesia. Ci vuole arte per imparare ad essere lo straniero, nel capire e sopravvivere con il minimo sindacale delle informazioni, nel vivere col peso della distanza ed il profumo dell'assenza. Ci vuole arte ad essere la propria isola in mezzo ad un mare da decifrare. Ci vuole arte a cercare dei punti di riferimento pur essendo perduti, perchÊ lo straniero è e sempre sarà un fiore in un vaso, un vaso scomodo e fragile che nonostante tutto e tutti deve divenire casa per le nostre radici, porto a cui tornare, campanello a cui suonare.
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impronta Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond è uno dei miei libri preferiti. Nella prima parte del libro egli descrive come l'uomo ha pian piano conquistato il globo e come i primi ominidi dalla madre terra Africa si sono diffusi come un virus per tutto il mondo. Il suo resoconto spiega come circa un milione di anni fa si siano diretti verso il Sud-Est asiatico come potete apprezzare in questa illustrazione.
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Questo mi ha fatto pensare che tecnicamente l'evoluzione dell'uomo non è altro che una lunga camminata e che, indiscutibilmente, il bisogno dell'uomo di esplorare il mondo è innato. Certo, mi ha anche ricordato il mio amore per le mappe. A questo punto mi sono legittimamente domandato: Quanto è vasta l'area che ho camminato negli ultimi ventiquattro mesi? Quanto è grande l’orma che ho lasciato durante i miei viaggi? In un certo senso ho seguito la scia dei primi umanoidi? C’è una qualche relazione con il fatto che anch'io mi sono diretto verso il Sud-Est asiatico? Naturalmente molte di queste domande non hanno alcun senso, ma mi danno la possibilità di giocare con numeri e mappe. Dopo che i chilometri hanno detto la loro ho provato a mettere nero su bianco quella che è stata la mia impronta. Nell’illustrazione noterete il rettangolo rosso che rappresenta l'area che ho coperto durante i miei viaggi, un'area che, usando CalcuttaTokyo e Seoul-Melbourne come assi, si estende per 44000 km quadrati.
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Potrebbe sembrare un'area vastissima, ma c'è sempre una lente diversa attraverso la quale guardare. Sono 183
parecchi chilometri, è vero, ma se mi fermo a pensare quel che vedo in questa mappa è più o meno questo:
C’è un’enorme area nera che rappresenta, mari inclusi, tutti i posti in cui non sono mai stato e quando guardo questa mappa non posso far altro che pensare a quanto lunga e vasta è la strada che devo ancora percorrere. Ancora una volta, un milione di anni dopo, un ominide si mette sulla strada per esplorare il mondo in cui vive. L’unica differenza è forse che quell’ominide porta le scarpe, parla attraverso uno smartphone e si preoccupa di una quantità spropositata di cose che, francamente, non interessano a nessuno.
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verso il prossimo porto E’ buio pesto ed è giunto il momento di andare. Le acque sono calme e non vi è alcuna ragione per correre. Per ventiquattro mesi ho vissuto in questo porto. Andando e tornando come una molla. Una barca e degli occhi assetati è tutto ciò che possedevo. E mai abbiamo perso l’occasione di andare e vedere. Ed abbiamo visto. Giungle profonde e rigogliose, templi masticati dalla natura, vulcani solitari in mezzo al mare, occhi carichi di dignità, serpenti fatti di persone, la fiera dell’umanità, di culture, di mani e religioni multiforme. Ricco è stato il tragitto, pura l’esperienza, ma il vento ha cambiato direzione e bisogna andare. 185
É tempo di navigare verso il prossimo porto. É buio pesto ma il sole sorgerà presto dal mare, e potrò nuovamente vedere la linea dell’orizzonte. Est o Ovest? Per quanto dovrò navigare? Mi perderò prima di riuscire ad approdare? Come le onde le domande vanno e vengono senza sosta. Non ho risposte da condividere, ma mi basta chiudere gli occhi per sentire la brezza nell’aria, e per adesso questo mi basta. Leggerezza è il nome della mia barca, perché tutto si è lasciata alle spalle, ed è fatta solo di memorie ed esperienze vissute, niente di più, niente di meno. A volte bisogna allontanarsi da tutto, al punto da non riuscire a vedere terra, solo allora il pensiero troverà pace per capire, se Est o Ovest dovrai navigare.
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