La DEA dei robot (Tito Gaudio) _ Incipit

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COLLANA KARMA Autobiografie

Non dicere ille secrita abboce


© Cartman Edizioni 2015 Cartman Edizioni c.so M. d’Azeglio, 102 – 10126 Torino (Italia) tel./fax +39.0118905849 www.cartmanedizioni.it redazione@cartmanedizioni.it ISBN 13: 9788889671573 Realizzazione grafica di copertina: Manuela Santoro Editing: Chiara Caprettini In copertina: Ave Appiano, Vortice, 2015 (dettaglio) Finito di stampare nel mese di dicembre 2015


Tito Gaudio

LA DEA DEI ROBOT Un apprendista elettronico nella Torino degli anni Sessanta

CARTMAN



A Franco Sartorio, Giorgio Minucciani, Luigi Lazzaroni, pionieri italiani della meccatronica.



L’autista scalò rapidamente la marcia, sollevò il piede dall’acceleratore e lo appoggiò sul freno. Pochi metri ancora e il pullman si sarebbe arrestato accanto alla palina della fermata. Appena la porta automatica si aprì, il giovanotto saltò fuori come un ranocchio. L’atterraggio non fu per nulla indolore. Il peso della valigia che portava con sé e il suolo sconnesso gli fecero perdere l’equilibrio. Rischiò di cadere. Le ossa del tarso destro accusarono il colpo. Calcagno e astragalo protestarono a lungo. Raccolse le forze, si tirò su e raggiunse il fabbricato distante dieci passi più in là. Posò a terra il bagaglio e buttò l’occhio sul numero civico per accertarsi che fosse quello giusto. Sì, era lì che lo aspettavano: strada di Lanzo 126 a Torino. Le luci all’interno della palazzina erano accese. Fece per entrare ma, come afferrò la maniglia, si rese subito conto che il portoncino era chiuso. Le lancette del suo Lanco 11 De Luxe, l’orologio da polso che gli aveva regalato nonna Teresa, segnavano le dieci e trenta precise. Il quadrante non aveva il datario ma tanto quel giorno lui non l’avrebbe mai dimenticato: lunedì 13 settembre 1965, San Giovanni Crisostomo. Il sole, già alto, faceva capolino tra le nuvole che minacciavano pioggia. Tirava qualche timido alito di vento. L’uomo scrutò palmo a palmo la parete attorno al telaio della porticina alla ricerca del citofono: nulla. Solo la buca delle lettere sulla sinistra e una crepa nel muro che 7


scendeva fino a terra dove si era insediata una popolosa colonia di formiche. Fece un passo indietro e osservò meglio. Fu il rombo di un calabrone di passaggio a guidarlo verso un pulsante nascosto in una coppetta d’ottone murata ad altezza gnomo. Lo azionò con una certa cautela. Il tintinnio di una campanella elettrica si udì distintamente in lontananza. Qualcuno, prima o poi, sarebbe venuto ad aprire. Gli occhi stanchi dal sonno si posarono su una targa fissata con quattro chiodi a testa bombata sulla facciata rivestita di mattoni. Uno strano simbolo campeggiava al centro dell’insegna: un disco con all’interno due grosse virgole contrapposte. Ma è il segno cinese dello Yin e dello Yang! Il Tao è il Principio Supremo dell’Universo. Lo Yin e lo Yang sono le due energie fondamentali della natura. Lo Yang è il maschile, l’attivo, il positivo, il caldo, il luminoso... Lo Yin il contrario: il femminile, il passivo, il negativo, il freddo, il lato oscuro… Cosa ci faceva lì il simbolo dell’Uovo del mondo? Cosa c’entrava quel posto con la tradizione cinese? Come se non bastasse, nel simbolo orientale era stata apposta una sequenza di tre caratteri che richiamava alla mente una generica divinità greca o romana: dea. Ma dea di che? Della fortuna, dell’amore, della bellezza? I caratteri erano incisi in lettere maiuscole, in corsivo e aggraziate, stile rinascimentale. La E era al centro del cerchio ma spostata verso il basso. Le due lettere estreme, 8


invece, erano poste fuori dal contorno del disco, a sinistra e a destra, in asse tra loro ma più in alto rispetto alla E. Una consonante esplosiva dentale sonora, la D, che precedeva due vocali aperte e larghe. Come mai la seconda lettera, la E, non era in riga con le altre due? Perché l’uso di quel carattere tipografico Garamond in corsivo? E soprattutto: cosa c’entrava quel richiamo a una divinità femminile che i Greci e i Romani adoravano venti secoli prima? “E dài, smettila di fantasticare” – disse il giovane tra sé e sé. “Lo sai bene che è il logo di un’impresa, dell’azienda che ti ha convocato per questa mattina. DEA sta semplicemente per Digital Electronic Automation. E ora piantala lì per favore!” Il fabbricato, è vero, non aveva nulla che richiamasse un luogo di culto o meditazione. Stretta e lunga, divisa su due piani, la palazzina aveva tutt’altro che un’aria misteriosa. Accanto, sulla sinistra, oltre un cancello di ferro a due battenti, c’era un piccolo cortile con una bassa costruzione in cemento armato sul retro. Uomini in tuta blu entravano e uscivano di continuo con in mano matasse di cavi grigi e cassette di attrezzi che poi sistemavano quasi furtivamente nella cabina di un furgone parcheggiato lì davanti. Doveva trattarsi di una fabbrica d’impianti elettrici o qualcosa di simile. Accanto sulla destra, invece, si ergeva un austero palazzo di tre piani probabilmente a uso abitazione. Il fronte della costruzione, che si estendeva per una dozzina di metri, era rifinito con mattoncini rettangolari 9


color ocra. La parte bassa della facciata era interrotta a destra dal portoncino, dove si trovava lui, e al centro da un grande portone nel quale era stata ricavata un’altra porta di servizio. Entrambi i serramenti erano rinforzati in basso da inferriate e ingentiliti in alto da piccole vetrate. Gli infissi erano di ferro e di alluminio, tutti verniciati di colore blu elettrico. I vetri erano opachi affinché non si potesse scorgere nulla di ciò che c’era e succedeva all’interno. Il portoncino costituiva l’abituale ingresso pedonale della palazzina. Il grande portone centrale di certo serviva per il carico e lo scarico dei materiali ingombranti o per consentire l’accesso agli automezzi. Il giovanotto rivolse lo sguardo verso destra, da dove era arrivato con l’autobus poco prima. A quell’ora non c’era anima viva in giro. Operai e impiegati erano già al lavoro da un pezzo, le scuole avrebbero riaperto il primo ottobre e molti negozi restavano chiusi il lunedì mattina. Poche le auto che passavano, dirette o provenienti dalla vicina città di Venaria Reale. Strada di Lanzo, del resto, era una via di periferia estrema. Asfaltata solo in parte e senza marciapiede, si capiva subito che d’estate doveva essere un tappeto di polvere e d’inverno una mezza palude. Ma non sarebbe rimasta così per molto. Tra sparute case d’altri tempi, piccole fabbriche e qualche bottega, infatti, stavano sorgendo qua e là enormi palazzoni pronti a ospitare migliaia di famiglie. Un vasto cantiere edile in costruzione. Presto sarebbero spuntati asili nido e scuole pubbliche, banche e assicurazioni avrebbero aperto le loro filiali, i negozi si sarebbero moltiplicati e il traffico sarebbe notevolmente aumentato. 10


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