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Ciao Dario


Le Siciliane - CASABLANCA N.46/ settembre - ottobre 2016/ SOMMARIO

A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare? Pippo Fava 5 – NO Luca Casarini 8 –Non vi piace trattativa? Il Baratto Lorenzo Baldo 12 – Softex benvenuti all’inferno Silvana Dinka Di Girolamo 16 –Mediterraneo: Frontiera Liquida? Fulvio Vassallo Paleologo 18 – Graziella Proto Cettina e il giudice pregiudicato 24 – Gianmarco Catalano Disobbediamo! Augusta e la battaglia per restituire Punta Izzo ai cittadini 27 - Benvenuti a Riace Giusy Milazzo 30 - Una bella pagina di vita quotidiana Sara Jacopetta 31 - State bone e fate figli Graziella Priulla 34- Contro la violenza di genere partiamo dalla Calabria Franca Fortunato 37– Alessio di Florio – Roberto Mancini, poliziotto e comunista 40– Eleonora Corace – India:il Monsone è il primo NO Global 43–Il dissenso manganellato – Claudia Urzì 45-Mettete dei fiori nei vostri cannoni - Anna Bonforte 47-Tiziana è morta suicida ma sono tanti i suoi assassini – Amalia Zampaglione 48- Antonella Cocchiara era una Donna Straordinaria – Graziella Proto 49 - Letture di Frontiera “Suicidate Attilio Manca” di Lorenzo Baldo – Angela di Mauro Come la ‘ndrangheta è diventata classe dirigente – Nicola Gratteri e Antonio Nicaso 52 – Eventi dalle città di Frontiera: Il Capitano Mario Ciancarella radiato con la firma falsa del Presidente Pertini (Conferenza Stampa) – Ass. Antimafie Rita Atria 54 Lettere dalle città di Frontiera – Santina Sconza ANPI 55 – Premio Parmaliana

…un grazie particolare a Mauro Biani Direttore Graziella Proto – protograziella@gmail.com - Redazione tecnica: Vincenza Scuderi - Nadia Furnari – Simona Secci –Edizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Lillo Venezia

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Editoriale

I Lavoratori Vincono! a Catania Barattiamo Mimmo Mignano, Marco Cusano, Roberto Fabbricatore, Massimo Napolitano e Antonio Montella hanno vinto. I cinque operai della Fiat di Pomigliano d’Arco licenziati nel 2014 finalmente possono ritornare al loro posto di lavoro. In fabbrica. Sono stati reintegrati. Lo ha stabilito la Corte di Appello di Napoli. Una sentenza clamorosa. Non sappiamo cosa pensa o cosa farà Marchionne – non ci fidiamo, non ci siamo mai fidati – ma hanno vinto e tanto basta per il momento. Sono stati due anni duri. Intensi. Con conflitti, presidi, manifestazioni di solidarietà e di lotta, processi. Due anni lunghissimi per le famiglie che forse si sarebbero potuti evitare se il tribunale di Nola per due volte non avesse dato ragione a Marchionne… la persona offesa! Ma offeso dde che? È risaputo che durante le manifestazioni di protesta la satira la fa da padrone. Costruire un fantoccio con la faccia di Marchionne e impiccarlo al palo davanti al reparto non mi pare una tragedia. Mi sembra invece tragico ciò che Marchionne fa sulla pelle di tutti gli operai. E lì non scatta nessuna querela, esposto o denuncia.

godiamo la vittoria, mi sembra una bella boccata di ossigeno. Un significato di questa vicenda potrebbe essere che uniti si vince. Un altro ci ricorda che il diritto a manifestare è un diritto sancito dalla costituzione. La nostra costituzione. Quella dei padri costituenti. Quella dei partigiani. Quella antifascista. Quella democratica. Quella che difenderemo col referendum. NON ERA LA MIA FESTA DELL’UNITÀ A Catania l’11 settembre abbiamo avuto la conclusione della festa nazionale dell’unità. C’è stata una manifestazione contro. Il corteo si apriva con lo striscione “CACCIAMO RENZI” che accoglieva tantissimi insegnanti, e dopo c’erano, dietro il loro

striscione, gli attivisti No Muos. Tra i due spezzoni di corteo, non era difficile vederlo, un considerevole gruppo di poliziotti in abiti civili e in divisa. Lo stesso alle spalle del corteo. La parte più consistente aspettava all’arrivo. Armati come non mai. È finita come sappiamo ed è stato un finale che ha oscurato tutto ciò che di positivo c’era alle spalle. Per esempio il numero di partecipanti. Non c’erano le masse oceaniche, qualcuno parla di settecento, altri di mille, ma a Catania, una città soporifera da tutti i punti di vista, dove le diatribe, i conflitti, le dispute, anche sulle virgole, regolano i rapporti fra le varie associazioni e a volte anche dentro le stesse, scendere in piazza col tempo che non prometteva nulla di buono è stato notevole. E non era solo il tempo che non prometteva nulla di buono. Da più parti avevano fatto sapere che le varie forze dell’ordine, Digos, polizia, erano pronte a tutto. In numero e in armamenti. Manco lo sbarco in Normandia ha visto tanto! Una militarizzazione e un clima di allerta straordinaria e sproporzionata che durava già da due settimane. Ma a tutti quei relatori, massimi esponenti del governo e del piddì nazionale, cosa

Per il momento ci

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Editoriale avrebbero potuto fare oltre che fischiarli? A parte quei 20 soggetti vestiti di nero che hanno occupato la testa del corteo negli ultimi 50 metri, erano tutti inermi cittadini, per lo più insegnanti, pensionati, cardiopatici e bambini. La carica con i manganelli! ASSURDO. «Ero presente e con me mia figlia», scrive subito su fb Monica Foti. «Dissento da quello che oggi ho visto sia dalla una che altra parte. Però mi rivolgo alla polizia la quale non può continuare ad infierire su due giovani per terra prendendoli a manganellate e non possono dirmi “Ma lei avvocato non si vergogna a stare con loro?”. Di cosa mi dovrei vergognare? Di nulla io intervengo perché non posso girare gli occhi e far finta di non vedere. Una pagina brutta». «Siete davvero convinti che fosse necessario? Siete davvero convinti che chi fa politica si debba barricare tra scorte, schieramenti e perquisizioni?», si chiede Graziella Priulla su fb, «… negli anni di piombo vivevo a Torino, e gambizzavano, e sparavano per strada quasi ogni giorno. Se ne facevano, di feste di partito; ma non è mai venuto in mente a un leader di sinistra di barattare la democrazia con la sicurezza».

È stata una vergogna per la polizia

Cassazione ha annullato con rinvio a un altro gup di Catania la sentenza di “non luogo a procedere” emessa il 21 dicembre scorso per Ciancio. Non è un problema di manette o non manette…

– che è anche addestrata a circoscrivere, delimitare, isolare il gruppetto, gli scriteriati. Una vergogna per Bianco e Renzi verso i quali la protesta era ed è più forte e più sentita. È stata una conclusione “strategica”? È tutta colpa di quei venti ceffi vestiti di nero che nulla avevano a che fare col corteo? Oppure hanno veramente paura? Pertini non avrebbe avuto paura. Ingrao non avrebbe avuto paura. Intanto a Catania: A Catania, i conti fanno acqua da tutte le parti, il comune dovrà fare altri debiti e alla chetichella stanno cercando di vendere alcuni immobili che fanno parte nel bene e nel male del patrimonio pubblico. La Quinta sezione della

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« …questa realtà, a prescindere dal rinvio a giudizio», dichiara Claudio Fava durante una intervista «mette in stato d’accusa tutta la città: tutti coloro che hanno saputo e hanno taciuto, gente che ha ritenuto in questi anni di considerare la continuità, l’affinità con Ciancio – inteso come editore ma anche come imprenditore – vedendolo come una risorsa preziosa a prescindere da tutto quello che nel frattempo era accaduto e stava accadendo, fino all’ultima vergognosa telefonata tra Ciancio ed Enzo Bianco, candidato sindaco, in cui c’è davvero il segno della subalternità politica e culturale di una generazione politica catanese nei confronti di questo uomo e di ciò che questo uomo rappresenta, al di là del fatto che poi venga o meno condannato o assolto».


O me o l’apocalisse. Le spara proprio grosse

NO Luca Casarini La democrazia non è una norma, o un’architettura metodologica. E’ un istituto nel senso dell’istituzione. E’ lo spazio dove gli esclusi confliggono, e dunque negoziano, con gli inclusi. Siamo contro la riduzione degli spazi democratici. Il nostro No al referendum di dicembre è convinto. Meditato. Politico. Determinato. Analitico. Contro. Contro l’oligarchia. Cambiare 47 articoli in un colpo solo non è esattamente fare delle modifiche alla vecchia carta costituzionale. Corrisponde, simbolicamente, a più di un restyling. Nel dibattito pubblico sul referendum del prossimo 4 dicembre, emerge spesso la parola “democrazia”. Da una parte quelli del No, (tra i quali ci sono anche io), che leggono la “riforma” costituzionale proposta dal Governo, come il segnale di un autoritarismo imperante che anche qui da noi ormai si pone il problema di “formalizzare” nella Carta fondamentale della Repubblica, ciò che materialmente è già accaduto nella società, e cioè che siamo tutti sottoposti a sistemi nei quali è la maggioranza delle persone ad essere esclusa da ogni decisione, e dunque da ogni possibilità di concorrervi. Dall’altra i filogovernativi, quelli del SI, che definiscono come pura propaganda estremista questa preoccupazione. Il premier, in Parlamento e soprattutto in televisione, l’ha ribadito più volte: dire che questa riforma rappresenta una stretta alla democrazia, è pura demagogia. La

“democrazia” deve essere “decidente” per potersi definire tale, dunque sono proprio le lungaggini, la burocratica palude, a impedire che essa si sostanzi. Ora vorrei, cercando di andare il più possibile alla sostanza, concentrarmi su questo aspetto, quello sulla democrazia, in rapporto a ciò che si può ben definire come un passaggio storico e politico, comunque vada. 1 . La tendenza a forme sociali, costituzionali e di governo dunque, “escludenti”, è un fenomeno che caratterizza e non da oggi, tutte le dinamiche democratico rappresentative occidentali. Per il resto del mondo il discorso è complesso e a volte portato ancor più all’estremo, si intrecciano piani storici, dalle teocrazie alle dittature, non mi ci addentro, ma di sicuro la tendenza viene comunque confermata. Da cosa deriva? Innanzitutto dalla forma che il capitalismo contemporaneo ha assunto, sia in termini di Casablanca 5

produzione del valore e del profitto, sia in quelli geopolitici che definiscono al suo interno, lo scontro per il comando, o il governo, sul mercato globale, unico campo certo e ineluttabile di questa epoca. La concentrazione del potere in mano a pochi, oligarchia, si può evincere dalla concentrazione della ricchezza socialmente prodotta, e accumulata nelle mani di poche decine di persone. 67 persone in questo nostro mondo posseggono l’equivalente di altre tre miliardi e mezzo. Risulta dunque evidente che l’oligarchia è prima materiale che formale. Anche a Costituzioni immutate, vige l’oligarchia, perché essa è non solo “il governo dei ricchi sui poveri” come dicevano giustamente gli antichi saggi, ma è anche l’espressione diretta del sistema economico al quale siamo sottoposti. Un sistema che ad esempio, spinto dalle lotte in occidente per liberarsi dal lavoro, oggi ne ha ridotto enormemente la sua necessità materiale, il lavoro


O me o l’apocalisse. Le spara proprio grosse necessario, mettendo invece in “catena di produzione” intensiva, l’intera vita degli esseri umani, dal loro intelletto, alle loro emozioni, trasformandoli in produttori/consumatori obbligati. Il trasferimento del lavoro materiale necessario al sud e all’est del pianeta, dove il numero dei salariati è lievitato, ha corrisposto alla precarizzazione generalizzata e crescente di tutti quelli che lo erano prima in occidente, e le loro mansioni corrispondono a forme di vita, di relazione. Sono “mansioni” di un lavoro non più misurabile in tempo, svolte in reti produttive connesse digitalmente e totalmente immateriali. In fabbriche senza cancelli e cartellini da timbrare, chiamate città, dove uno vive, cresce i propri figli, sogna, si dispera, muore, si organizza per campare. “LIBERAZIONE DAL LAVORO” E “LIBERAZIONE DEL LAVORO” Tutto quello che questo nuovo operaio compie, il sistema lo trasforma in valore, in profitto. Un sistema del genere, che ha sussunto il sano sentimento operaio della “liberazione dal lavoro”, vera potenza a disposizione allora di tutto il movimento che attraversato il 900 per conquistare la “liberazione del lavoro”, e che così facendo ha messo al lavoro l’intera esistenza, può ospitare la “democrazia”? Molto si è scritto e detto in questi decenni sulla separazione tra capitalismo contemporaneo e forme democratico rappresentative storicamente determinate dopo la

seconda guerra mondiale, che invece ne avevano sempre accompagnato lo sviluppo. Non aggiungo niente. Solo che -

checché ne dicano i difensori del SI -l’oligarchia, è già materialmente incarnata in ogni processo politico ed economico che non metta in discussione la realtà. D'altronde le Costituzioni a questo servono: non solo a formalizzare la costituzione materiale, ma a tentare anche di leggerne le crepe che permettano alla “democrazia” di mettere in discussione la tendenza del governo dei ricchi sui poveri. La democrazia dunque altro non è che una messa in discussione permanente della diseguaglianza generale nella quale sempre, in un sistema competitivo e stratificato in termini di “classe”, si rischia di finire. La democrazia non è una norma, o un’architettura metodologica. È un istituto nel senso dell’istituzione, che come diceva Deleuze è l’opposto della legge. È lo spazio Casablanca 6

dove gli esclusi confliggono, e dunque negoziano, con gli inclusi. Ma è il conflitto, non l’istituzione, che trasforma le cose. Se esso non è previsto, o non è riconosciuto come possibile protagonista del con-vivere sociale, si afferma di fatto l’oligarchia. Gli esclusi stanno fuori dalle decisioni. La rappresentazione di questa esclusione sta nel creare sempre più norme, leggi, imposizioni, e sempre meno istituzioni partecipate. La più evidente di queste rappresentazioni è la fine del ruolo dei parlamenti e l’avvento dei governi forti, degli esecutivi “stabili”, dell’immaginare che le decisioni che riguardano la vita di milioni di persone, possano essere prese con la stessa velocità di uno scambio in borsa. 2. Cambiare 47 articoli in un colpo solo non è esattamente fare delle modifiche alla vecchia carta costituzionale. Corrisponde, simbolicamente, a più di un restyling. E’ vero che ci sono state modifiche in questi anni anche di un solo articolo, ad esempio il “pareggio di bilancio” inserito per ottemperare ai diktat della Troika, molto pesanti. Ma di certo un governo che a colpi di maggioranza, presenta una modifica così massiccia, ha deciso di operare una forzatura precisa. Un governo, non un parlamento. Quando un governo impone un cambio di costituzione, e parlo di cambio per il numero delle modifiche oltre che la sostanza (basti pensare all’articolo 70), è sempre un affare serio. Se si approva, si approva la costituzione di quel governo. Calamandrei in tempi antichi avvertiva della pericolosità rappresentata, anche simbolicamente, da un’ingerenza


O me o l’apocalisse. Le spara proprio grosse del governo sui cambi costituzionali. Qui più che ingerenza vi è un’occupazione del campo. Ed è una volontà politica precisa. L’ITALICUM, UN CARICO DA NOVANTA Se il tema fosse stato solo il superamento del bicameralismo paritario, per me cosa sensata e giusta, sarebbe bastato proporre l’eliminazione del Senato. Ma insieme al pasticcio che ci fa passare dal bicameralismo paritario a quello confusionario di improbabili nominati, vi è la legge elettorale, l’Italicum, sempre pensato e proposto in tandem con la “riforma” della costituzione. Il combinato disposto produce un unico messaggio: accentrare. Ridurre lo spazio per minoranze, creare governi che non hanno bisogno di negoziare, perché con un’abnorme premio di maggioranza, hanno il parlamento fatto per tre quarti da loro seguaci. Ora questa è la sostanza, e la forma scelta, quella del plebiscito trattandosi di proposte governative e addirittura personalizzate nella figura stessa del premier, aggiunge un carico da novanta sull’intera operazione. Un governo guidato da uno che è uscito dal cilindro di un Presidente della Repubblica e non da una qualche investitura elettorale, con un parlamento eletto con una legge elettorale definita incostituzionale, impone un’operazione del genere e la trasforma anche in un plebiscito su

sé stesso. O me o l’apocalisse. La caratteristica plebiscitaria sul premier credo sia il primo aspetto da considerare, nonostante gli esperti di comunicazione abbiano consigliato il governo di non personalizzare. Invece bisogna proprio farlo. Il NO è anche in primis un NO al gioco d’azzardo di un personaggio al cui cospetto il maestro, cioè Berlusconi, risulta persino meno amante del potere personale. Concludo ritornando sul primo punto. Il fronte del NO è in brutta, bruttissima compagnia. A volte,

guardando chi c’è dentro, ti viene voglia di lasciar perdere e di dire che comunque Renzi sarà certo meglio di un’accozzaglia di fascisti, liberisti travestiti da liberali come lupi da agnelli, etc. Ma il rischio vero è rappresentato da quelli di sinistra. Da un lato un certo conservatorismo nostalgico che appunto rende la parola “democrazia” una specie di soprammobile della nonna, un Casablanca 7

orpello vintage che non si sa come utilizzare. A me tutte le cose tipo “la costituzione più bella del mondo” mi provocano l’orticaria, visto che con la costituzione più bella del mondo è successo di tutto in questi 70 anni, e molte cose non sono propriamente edificanti. Anche il discorso che “bisogna attuarla”, molto più sensato, tradisce l’idea che ciò che è formalizzato una volta, valga di per sé, ma dimenticando che una costituzione non è un contratto di condominio, e che il bisogna attuarla non riguarda dei giudici più o meno illuminati, ma una dinamica sociale nel suo complesso, e una soggettività politica consapevole che tutto nasce e si ridetermina solo e solamente dallo scontro, dai rapporti di forza fra due parti, dall’intendere l’azione come progetto e il progetto come azione. In questo senso il recupero in termini ontologici del concetto di “utopia” andrebbe fatto. Bisogna coltivare utopie in questo mondo, pena il fatto che il realismo si trasformi in compatibilità. E per finire come si può essere per il NO e allo stesso tempo credere che il Job Act vada bene, per il NO e pensare che la “buona scuola” sia giusta, per il NO e rivendicarsi il pareggio di bilancio in costituzione? Per il NO ed essere per la Tav, le grandi opere, per il NO e non insistere in parlamento perché venga introdotto anche in Italia, il reato di tortura? Ricordiamocene quando sentiamo D’Alema.


Uno stato che non vuole processare se stesso

Non vi piace “Trattativa”? Il Baratto Lorenzo baldo Le sentenze di primo grado e di appello al processo Tagliavia (strage dei Georgofili) attestano nero su bianco che la trattativa c'è stata. Tanta gente ci ha capito e continua a capirci sempre meno anche perché, in un Paese come il nostro, il processo sulla trattativa viene annientato quotidianamente attraverso lo stravolgimento delle notizie e soprattutto con la censura vera e propria su ciò che lo riguarda. Ecco allora che, salvo rarissime eccezioni, le udienze scorrono via senza che i grandi media ne diano contezza. A volte le si evitano. Le disertano. Inoltre, sulla incongruenza di alcuni dettagli, incontri e relative date, in un Paese “civile” i media, le cosiddette grandi testate, avrebbero realizzato approfondimenti, incalzato il diretto interessato a spiegare le ragioni di quella sua menzogna… In Italia quasi nulla… tranne la buona volontà di qualche singolo… «Io debbo dare una buona notizia, Riina Salvatore è stato catturato dai Carabinieri questa mattina a Palermo… A lui sono riconducibili tutta una serie di gravissimi e reiterati episodi di criminalità nell’Isola, nell’intera Nazione e anche fuori del territorio dello Stato. Fenomeni che hanno aggredito nei gangli vitali la popolazione, il cittadino comune, qualsivoglia attività produttiva, con attacchi ripetuti contro le istituzioni statali… A lui sono riconducibili tutta una serie di gravissimi e reiterati episodi di criminalità nell’Isola, nell’intera

Nazione e anche fuori del territorio dello Stato. Fenomeni

che hanno aggredito nei gangli vitali la popolazione, il cittadino comune, qualsivoglia attività produttiva, con attacchi ripetuti contro le istituzioni statali… in un piano anche, chiamiamolo in termini militari, strategico, che addirittura potrebbe avere dell’inaudito e dell’assurdo, di mettere in discussione le autorità istituzionali. Quasi a barattare, a istituire una trattativa per la liquidazione di un’intera epoca di assassinii, di lutti, di stragi in tutti i settori della vita civile nazionale». Mentre il gen. di Brigata Giorgio Cancellieri racconta al mondo intero che in quella giornata del 15 gennaio 1993 il capo

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Uno stato che non vuole processare se stesso di Cosa Nostra è finito in manette, sottolinea che la personalità di Toto Riina «è nota», «Fa parte, direi, della letteratura della mafia», decine di telecamere riprendono, ma, i termini come «barattare» e «trattativa che pesano come pietre, in quella affollatissima conferenza stampa cadono nel vuoto Tra le massime autorità presenti quel giorno c'è anche Mario Mori, ex capo del ROS, oggi coimputato al processo sulla trattativa Stato-mafia. Ed è proprio in questo processo tanto bistrattato da un Paese che non vuole la verità, che le parole del gen. Cancellieri tornano prepotentemente a ricordare che in quel momento pezzi delle istituzioni sapevano di patti e trattative tra la mafia e lo Stato. «Non mi dilungo sul termine usato che indica uno scambio – afferma con forza il pm Nino Di Matteo rivolgendosi alla Corte ed espletando la richiesta di acquisizione del documento sonoro – Riteniamo comunque importante questo intervento anche alla luce delle dichiarazioni spontanee rese dal generale Mori in cui asserisce che nessuno ha mai prospettato una volontà di trattativa e di scambio. Qui si parla di “baratto” volto alla “liquidazione di una intera epoca di assassinii”». Il p.m. chiede quindi che l'audio di quella conferenza stampa venga acquisito e ascoltato in una delle prossime udienze. E sono esattamente quelle parole a scuotere Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell'associazione tra i familiari di via dei Georgofili, e soprattutto madre di una ragazza rimasta invalida dopo la strage del 27 maggio 1993 nella quale morì l'intera famiglia Nencioni composta da quattro persone con

due bambine di 9 anni e 50 giorni, e il fidanzato ventiduenne della figlia della signora Chelli, Dario Capolicchio. «Abbiamo pianto – grida Giovanna Chelli mentre manda i suoi comunicati alle agenzie dopo aver sentito le dichiarazioni del gen. Cancellieri – in nome e per conto di Caterina, Nadia, Dario, Fabrizio e Angela e di tutti i feriti di via dei Georgofili, invalidati in modo grave». LA STRAGE DEI GEORGOFILI Giovanna non si dà pace per quelle «espressioni forti come: “baratti” per istituire “trattative”, che hanno determinato la morte di cittadini inermi. Abbiamo bisogno di giustizia, perché quelle stragi del '93 potevano essere fermate, abbiamo bisogno di giustizia oltre le parole sterili che ci sono state propinate in questi anni, il nostro grido pare non scalfire minimamente da ormai 23 anni, ma forse una speranza l’abbiamo.

Vogliamo fortemente credere che con l’aiuto di magistrati coraggiosi come è stato Gabriele Chelazzi e oggi Antonino Di Matteo “ci sarà un Giudice a Palermo”. E noi saremo lì per capire cosa è stato fatto, da uomini che stanno all’interno dei gangli dello Stato ai nostri figli, in nome di “baratti per istituire trattative” con Salvatore Riina. Bastava volerlo – conclude amaramente la Chelli – e i nostri figli sarebbero ancora vivi, ma Casablanca 9

forse quei morti come già ebbe a dire il pentito Gaspare Spatuzza a qualcuno servivano. E quindi giornalisti e istituzioni non “hanno fatto caso” al passaggio della conferenza stampa del Gen.le Cancellieri il quale, possiamo dire oggi, fu davvero “profeta in Patria”». Ma di quale “Patria” stiamo parlando? Quella per la quale sono morti i troppi martiri di questo disgraziato Paese? O quella che se ne frega del grido di Giovanna Chelli e si ostina a parlare di “presunta trattativa” quando ci sono le sentenze di primo grado e di appello al processo Tagliavia (strage dei Georgofili) che attestano nero su bianco che la trattativa c'è stata? Secondo la Corte di Assise di Firenze presieduta da Nicola Pisano (sentenza depositata a marzo 2012) lo Stato avviò una trattativa con Cosa Nostra, una trattativa che «indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des per interrompere la strategia stragista di Cosa Nostra». «L'iniziativa –scrivevano i giudici – fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia». Nella sentenza si leggeva infatti che “l'obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno d'intesa con Cosa Nostra per far cessare la sequenza delle stragi”. Secondo i magistrati fiorentini, «è verosimile che tutti gli apparati, ufficiali e segreti, dello Stato temessero sommamente altri devastanti attentati dopo quello di Capaci, nella consapevolezza che in quel momento non si sarebbe saputo come prevenirli... si brancolava


Uno stato che non vuole processare se stesso abbastanza nel buio, soprattutto sul piano dell'intelligence ». La trattativa, iniziata dopo Capaci, si sarebbe ben presto interrotta con l'attentato di via D'Amelio “forse per una sorta di ritirata di chi la conduceva (certamente il colonnello Mori, forse i livelli superiori degli apparati istituzionali) di fronte al persistere del programma stragista, laddove la trattativa avrebbe richiesto quantomeno un armistizio. Proprio per queste ragioni, l'uccisione di Borsellino resta nelle motivazioni e nella tempistica una variante anomala”. Dello stesso tenore la motivazione della sentenza d'Appello, depositata lo scorso 20 maggio (Corte presieduta dal giudice Luciana Cicerchia).

di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale [cap. De Donno e successivamente Mori e Ciancimino], arenatasi dopo l’attentato di via D’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura dell’obbiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione». In quella sentenza i giudici dedicavano ugualmente ampio spazio all'episodio descritto dal pentito Gaspare Spatuzza relativo

Paese nelle mani». «Giuseppe Graviano mi dice – racconta Spatuzza -– che l'attentato contro i carabinieri [programmato allo Stadio Olimpico di Roma il 22 gennaio '94, poi fallito, n.d.r.] si deve fare perché con questo gli dobbiamo dare il colpo di grazia». « Spatuzza – scrivono i giudici – spiegava poi cosa fosse il “colpo di grazia” rilevando che non si trattava di trattativa ma “siamo sempre lì”, cioè “c'è una cosa in piedi e ne avremo dei benefici” », ribadendo poi il pentito di aver appreso che « ci sono questi due nomi che mi sono stati riferiti di

al noto incontro al bar Doney a Roma (gennaio '94) con Giuseppe Graviano, quando il boss di Brancaccio fece i nomi di Berlusconi e Dell’Utri dicendo che «grazie a loro c’eravamo messi il

Berlusconi e Dell'Utri; quindi a questo punto sono loro gli interlocutori » oltre al fatto che Graviano gli disse che « l'attentato doveva servire a “dare una mossa” e chi doveva capire avrebbe

SPATUZZA E GRAVIANO: DUE AMICI AL BAR « Complessa e non definitiva », si legge nelle motivazioni, è la conclusione « alla quale si può pervenire nei limiti del presente processo» sull'individuazione « dei termini e dello stato raggiunto dalla c.d. trattativa, la cui esistenza, comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi, è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista – il ricatto – spiegano i giudici – non avrebbe difatti senso alcuno se non fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obbiettivi verso la presunta controparte». Ovvero, precisano, «la pressione e le retrostanti pretese» dovevano essere «chiaramente comprese dagli interlocutori». «Si può dunque considerare provato – si legge ancora -– che dopo la prima fase della c.d. trattativa, avviata dopo la strage

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Uno stato che non vuole processare se stesso capito». Una scelta, quella di colpire l'Arma dei Carabinieri, sostengono i giudici, che “avrebbe dovuto essere eloquente per i destinatari del messaggio, visto che proprio alcuni suoi rappresentanti si erano infruttuosamente esposti sul fronte delle iniziali trattative, avviate da De Donno e Mori”. In una delle ultime udienze ha deposto Fernanda Contri, ex segretario generale della Presidenza del Consiglio quando il Premier era Giuliano Amato (’92/’93). La Contri conferma alla Corte di Assise i due incontri avuti con Mario Mori il 22 luglio ’92, a tre giorni dalla strage di via D’Amelio, e il 28 dicembre ’92, subito dopo l’arresto dell'ex numero tre del Sisde Bruno Contrada. Quando l'ex segretario generale della Presidenza del Consiglio ribadisce che in uno di quegli appuntamenti Mori gli aveva confidato che «stava avendo degli incontri» con l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, è lo stesso pm Francesco Del Bene ad aiutarla in uno sforzo di memoria: il 22 dicembre Vito Ciancimino era stato arrestato da alcuni giorni e non poteva quindi avere avuto degli incontri privati con Mori. Quindi l'unica volta nella quale la Contri aveva potuto raccogliere le confidenze dell'ex capo del Ros era durante l'incontro del 22 luglio '92. E questo sta a significare che le visite di Mori all'ex sindaco di Palermo erano antecedenti a quella data, così come per altro sancito dalle sentenze fiorentine. Una ulteriore dimostrazione plastica che proprio in merito agli incontri tra Ciancimino e Mori quest'ultimo ha sempre mentito affermando di averlo incontrato per la prima volta il 5 agosto.

RICHIESTE A SUON DI BOMBE In un Paese “civile” su un “dettaglio” come questo i media avrebbero realizzato approfondimenti di sorta, incalzando il diretto interessato a spiegare le ragioni di quella sua menzogna. Ad un'altra recente udienza del processo, il teste Saverio Masi (caposcorta del p.m. Di Matteo) racconta di come sarebbe stato ostacolato da alcuni suoi superiori dell'Arma nelle sue indagini che avrebbero potuto portare alla cattura di Provenzano e Messina Denaro negli anni che vanno dal 2001 al 2008. C'è qualche sussulto da parte dei media? Macché. Solo silenzio. All'aula bunker dell'Ucciardone è quindi la volta della deposizione dello storico avvocato dei pentiti, Luigi Li Gotti, nonché ex senatore Idv. Anche le sue dichiarazioni aprono uno squarcio sul biennio stragista '92/'93. Li Gotti racconta che il vero mandante della “pugnalata” alle spalle che fece dimettere Claudio Martelli da Ministro della Giustizia a seguito dello scandalo (ben organizzato da Gelli) del “conto Protezione” non fu Craxi, bensì Andreotti. Che nel luglio del '92 mandò il suo fedelissimo avvocato Odoardo Ascari dal giovane collega Li Gotti per chiedergli di riprendere in mano le carte dell’inchiesta già archiviata sul “conto Protezione”, specificatamente in merito al ruolo dell'allora Ministro della Giustizia, per vedere se si poteva riuscire a riaprire il fascicolo. Certo è che le dimissioni di Martelli del 10 febbraio '93 spianarono la strada al giurista Giovanni Conso, colui che nel mese di novembre del '93, con tutta l'autorità di Guardasigilli, Casablanca 11

rifiutò di prorogare 334 provvedimenti di 41-bis ad altrettanti mafiosi. A tutti gli effetti questo gesto appare come una delle risposte dello Stato alle richieste – fatte a suon di bombe – di Cosa Nostra. Ma alla stragrande maggioranza dei media italiani non interessa. Vale la pena allora sovrapporre le parole di Cancellieri, con le quali abbiamo iniziato questo ragionamento, a quelle di Mori – risalenti al 2 dicembre del 2014 – tratte dalla sua intervista rilasciata alla trasmissione Ballarò. In quella occasione l'ex capo del Ros aveva specificato alla giornalista che più che «trattare» era una questione di «barattare». Qualche giorno dopo, il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, nella sua requisitoria al processo in abbreviato contro l'ex ministro democristiano Calogero Mannino, le aveva così stigmatizzate. «L'altro giorno Mori – aveva rimarcato Teresi – intervistato ad una nota trasmissione tv, dopo essere stato convocato al Copasir, anziché andare in quella sede, ed evocando i fatti per la prima volta, usa una parola che è a dir poco scandalosa nella sua immoralità. Dice [Mori, n.d.r.] che è stato sostanzialmente un ‘”baratto” (uno scambio di cose) “abbiamo dato un regime carcerario meno pesante”… si, e loro hanno dato i morti… Questo è un cinismo che fa paura. È questa la logica di quei commentatori che parlano di una trattativa “per evitare le stragi”. No! Tutto questo ha indotto le stragi. Da quel “baratto” abbiamo avuto i morti!». E sono proprio quei morti a ricordarci che il grido dei sopravvissuti non può essere ignorato. A meno che non si voglia diventare complici.


Campi profughi di Salonicco

Softex Benvenuti all’inferno Silvana Dinka Di Girolamo Una visita al campo profughi nella zona di Salonicco nel caldo afoso dell’estate greca. Le emozioni sono fortissime anche se pensavi di essere preparato all’impatto. Tutto è surreale. Può succedere ciò? Il campo di Softex che assieme ad altri dovrebbe accogliere i profughi sgomberati da Idomeni, è situato in vecchi stabilimenti industriali (ma ci sono anche vecchi hangar riempiti di tende militari) trasformati in fretta e furia in campi. Senza acqua corrente, senza docce. Le tende attaccate una a fianco all’altra, materassi per terra. In un campo tutti hanno bisogno di tutto. Shampoo, detersivo per la biancheria, abiti, ma anche medicine, assistenza. Però circola droga pesante. Un mistero! Poi ci sono le emergenze vere. Come quella del bimbo di appena dieci giorni. Aveva la febbre, non si muoveva, pesava solo due chilogrammi e nella tenda sotto il sole cocente di agosto faceva un caldo asfissiante. Quando sono arrivata, sapevo già che sarebbe stata dura. Mi sentivo in qualche modo preparata a quello che avrei visto, ma non al senso di indignazione e impotenza che avrebbe penetrato le sinapsi fino a raggiungere il mio nucleo più puro e indifeso. Perché l’esperienza non puoi immaginarla prima, per quanto ci provi esiste sempre quella piccola variante che fa prendere al tuo pensiero una strada imprevista. Stavo lì, osservando, assorbendo. Non distribuivo perché occupata a documentare il tutto con foto e video. Vedevo le reazioni, soprattutto quelle dei bambini. Alcuni erano più insistenti e cercavano di arraffare più matite colorate possibile.

A un tratto ho visto come una mappa tracciata da qualche parte dentro la mia testa in un punto imprecisato tra il centro del mio cervello e dietro agli occhi. Era un disegno criminale. Il disegno criminale era lì e io potevo vederlo. Un immenso disegno crudele e irreversibile. Una macchina disumana ma… organizzata, dove tutto si conclude nel modo voluto. Collaudato e prestabilito, con una precisione da far accapponare la pelle, perché comprendi subito quanto sia perfetto. Li bombardi, li costringi a diventare profughi, con la scusa dei confini li blocchi da qualche parte dove li alieni, li confondi e li Casablanca 12

indebolisci. Li umili. Deleghi associazioni varie alla raccolta delle donazioni delle quali solo una infinitesima parte arriva a destinazione, il resto, sappiamo, serve per far arricchire altri. Poi gli prendi i figli che gli restano in vita arruolandoli in una “guerra santa contro l’infedele” con l'illusione di un riscatto ma anche con la successiva vendetta che si ripercuoterà sul resto del mondo, innescando un altro meccanismo perfetto e collaudato: la paura! La conseguenza? Una ipermilitarizzazione di buona parte del mondo in nome e con la scusa della protezione. La rabbia ha invaso l’anima, il cervello e mi ha ingorgato gli occhi.


Campi profughi di Salonicco Non hanno le catene, mi ripeto, ma sono incatenati a una logica di profitto internazionale che non gli dà scampo. Sono stati derubati di tutti i loro averi, a volte dai soldati. Le donne stuprate, i bambini pure. Anche nei campi le donne e i bambini corrono questi pericoli e di notte non osano muoversi dalla loro tenda, nemmeno per un bisogno impellente, perché i bagni sono fuori. Potrebbero comprare un documento e mettersi su un treno verso la propria meta. Ma per fare ciò, servirebbero altri soldi, denari che non hanno perché il viaggio gli è costato tanto. Troppo. Immaginare le condizioni disagevoli di un rifugiato nonostante ciò che ci propinano non è difficile. Manca tutto. Sapone, acqua, cibo, medicine, assistenza sanitaria. Ci sono giovani malati di cuore o con gravi sofferenze renali che hanno bisogno di urgente intervento chirurgico che né il governo greco, né tantomeno le ONG forniscono. Queste persone sono fuggite dalle macerie delle proprie case bombardate e si sono messe in viaggio per poter procedere nella loro esistenza. Invece sono bloccate in questo limbo dove nulla accade. Non vengono registrati, non si sa se e quando li sposteranno e soprattutto per dove. È una umanità chiusa in una bolla burocratica, viscosa, travestita da buonismo e attaccata dalle fazioni più intolleranti dell’umanità, sapientemente manovrata e sfruttata a sua volta da coloro che

controllano tutto. C’È ANCORA SPERANZA Per comprendere la realtà dei rifugiati, basta andare nei campi da liberi cittadini. Eludere le istituzioni ed entrare di nascosto. Se ci sapete fare, saranno gli stessi profughi ad aiutarvi a entrare e se il caso anche a proteggervi dai militari, nascondendovi nelle loro tende. Cercate sempre chi in qualche modo gestisce le informazioni sulla situazione generale. Quasi sempre ci sono dei rifugiati che aiutano gli altri rifugiati. Vedrete con i vostri occhi.

In un campo tutti hanno bisogno. Ci sono necessità base, richieste che fanno tutti, come shampoo, detersivo per la biancheria, abiti. Poi ci sono le emergenze vere. Come quella del bimbo di appena dieci giorni. Aveva la febbre, non si muoveva, pesava solo due chili e nella tenda sotto il sole cocente di agosto faceva un caldo asfissiante. Con altri compagni ci siamo presentati al (diciamo) pronto soccorso del campo, dove finalmente il bambino è stato visitato. Si trattava di denutrizione. Gli ospiti del campo di Softex stavano attuando lo sciopero della Casablanca 13

fame da diversi giorni, per protestare contro la qualità e la quantità del cibo che gli viene portato. Ogni giorno rimandavano indietro il camion con quelle orribili vaschette.In alternativa, il cibo avrebbero dovuto procurarselo da soli, ma non avevano soldi. Senza contare che la città si trova (come sempre) a diversi chilometri di distanza dai campi. In alcuni casi anche un centinaio. Quindi la madre, che lo allatta, da giorni non beveva e non mangiava. Oltre agli stenti del viaggio. Prima di partire per rifornirli di cibo e acqua abbiamo fatto una raccolta di denaro e gliel’abbiamo lasciata. Riguardo al bambino, per fortuna ho avuto modo di avere notizie al mio ritorno in Italia ed ho saputo che il bimbo aveva già guadagnato peso. Un piccolo miracolo? Frutto di due ore del proprio tempo speso bene, nel posto e nel momento giusto. Organizzare una protesta nei campi di accoglienza era stato ed è molto complicato. Spesso non hanno nemmeno i mezzi per scrivere uno striscione. Per i rifugiati di Softex ricevere un rotolo di carta per pacchi e delle bombolette spray è stata una grossa conquista. Tuttavia, un giorno, vinti dalla disperazione perché nessuno ascoltava la loro protesta, si sono stesi sull’asfalto insieme ai bambini bloccando la strada che nei due sensi è attraversata da decine e decine di camion. Sono stati picchiati dalle “forze


Campi profughi di Salonicco dell’ordine” ovviamente, le stesse che quando succedono violenze dentro al campo si voltano dall’altra parte. A volte un enorme aiuto può arrivare da un telefono cellulare. Abbiamo visto tutti in giro queste foto dei rifugiati con un cellulare in mano. Non è che bighellonano beatamente godendosi la pacchia! Il fatto è che molto spesso le famiglie sono disperse. Capita che moglie e marito si dividano, portando ciascuno con sé parte dei figli. Non sempre si riesce a passare il confine contemporaneamente. In questi casi un cellulare significa potere avere notizie e indicazioni per potersi ricongiungere, per sapere che si è ancora vivi... Che c’è ancora speranza. RIVOLUZIONIAMO L’ORGANIZZAZIONE

con libri e vocabolari, perché si organizzasse un minimo di istruzione all’interno del campo, ma se riesco a tornare cercherò di comprare fornelli elettrici da distribuire nelle tende. Penso che potersi preparare il cibo è il primo passo verso l’autogestione. nel sapore, nel contenuto. Nei campi ci sono parecchi bambini, circa il 40%. Le loro esigenze nutrizionali sono ben diverse da quelle degli adulti. Inoltre alcuni di questi bambini non sono mai andati a scuola, oppure hanno interrotto da oltre un anno per ovvi motivi. I ragazzi più grandi non stanno imparando nessun mestiere. Quale sarà il futuro di questa generazione una volta arrivata a destinazione? Con i compagni ci siamo prodigati

Perché dentro i campi i profughi non possono organizzarsi in modo autonomo? Possedere dei fornelli per prepararsi il cibo da soli, avere uno spaccio allestito sul luogo per loro, invece di ricevere tutti i giorni, a pranzo e a cena, quelle immangiabili schifezze in vaschetta, sempre uguali nel colore, Casablanca 14

La cucina è casa! Sia a Salonicco che ad Atene ci sono diversi squat autogestiti. Vecchie palazzine disabitate, alberghi falliti. Gruppi di rifugiati si sono organizzati occupando e autogestendosi, alcuni di loro hanno addirittura un lavoro. Questi luoghi autogestiti fungono anche da casa per i tantissimi minori non accompagnati e da supporto per donne sole. Questi squat sono appoggiati dai compagni dei centri sociali che sono molto attivi e solidali, ma il governo Tsipras li sta sgomberando uno ad uno, non sono di buon esempio per gli altri e probabilmente alcune lobby premono sentendosi minacciate nei loro sporchi interessi. A Salonicco durante lo sgombero di uno squat che avremmo


Campi profughi di Salonicco

dovuto visitare, alcuni compagni e rifugiati sono stati arrestati e processati. Per la prima udienza tutti noi siamo andati in tribunale e abbiamo attaccato uno striscione di solidarietà all’esterno dell’edificio. *** Il viaggio di ritorno mi sembrò interminabile. Durante le lunghissime ore in nave mi martellava la testa. Non facevo che chiedermi: come continuo? Come collego questa settimana alla mia vita abituale? Io non voglio ridimensionare, adattare e nemmeno segregare come ricordo questa esperienza. Voglio che sia la mia vita, ripulita dalle inevitabili incrostazioni culturali, convenzionali, familiari. Perché c’è di più dell’alzarsi la mattina, lavarsi i denti, andare al lavoro, fare la spesa, pulire casa, andare al pub con gli amici. Quel di più è la differenza tra il vivere e farsi vivere. Tutti i giorni, ovunque sei,

quel di più si può condividere con chi non ha abbastanza. Il ritorno a casa è solo fisico. La tua mente, la tua essenza rimangono oltre quella barricata, insieme a loro. È come il Mal d’Africa... Quando vai nei campi profughi, percepisci quelle verità, quei bisogni essenziali dell’essere

umano, la dignità calpestata. Ne resti colpita. Ci pensi ogni giorno, e vorresti tornare. I profughi non sono altro che persone come noi che avevano un lavoro, una bella casa, l’auto e le vacanze programmate. Ma a un certo punto una guerra che non comprendono e di cui siamo in parte responsabili, gli ha tolto tutto e sono dovuti andare via per salvarsi la vita. Anche da casa si può fare molto sfruttando i social, facendo rete. Si continua a raccogliere denunce, a inviare aiuti, di ogni tipo, mantenendo i contatti tra chi va, chi torna, chi ha deciso di rimanere sul posto e i rifugiati stessi. Si dà ampia divulgazione dei loro video, resoconti di disagi, angherie, soprusi oltre i disservizi, da parte di moltissime strutture coperte dal marchio ONG & Co che non porgono i servizi strapagati.

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Contro la guerra. Per la Pace con i Migranti

Mediterraneo: Frontiera Liquida? Fulvio Vassallo Paleologo Per quanto riguarda i migranti, ormai è chiaro a tutti che l’Unione Europea ha scaricato sui paesi più esposti, come la Grecia e l’Italia, sia gli oneri di ricerca e soccorso in mare, che le successive attività di accoglienza. Frattanto, i diritti fondamentali della persona migrante sono sempre più a rischio, dal diritto alla vita a non subire trattamenti inumani o degradanti. Per controllarne la mobilità, per impedire che possa acquistare soggettività e protagonismo, si sono costruite nuove barriere. Forse qualcuno vorrebbe trasformare il Mediterraneo in confine liquido. Probabilmente anche l’auspicio che un domani si possa costruirci sopra anche un muro. E perché no anche il filo spinato? Nei processi migratori al tempo della globalizzazione il Mediterraneo ha assunto una ruolo di cerniera e al tempo stesso di frontiera, tra sud e nord del mondo, e in qualche misura anche tra alcuni Stati del vicino o del lontano Oriente (Turchia, Siria, Giordania, Libano, Iraq, Palestina, Afghanistan, Pakistan, India, Sri Lanka, Cina, Bangladesh ) e i paesi definiti “occidentali”. Questa centralità del Mediterraneo non è certo una novità storica, ma si ripropone oggi con caratteri peculiari se si considera l’aumento delle aree di conflitto, le ricorrenti crisi economiche su entrambe le sponde, e l’aumento dei migranti, che alcuni vorrebbero definire e

distinguere immediatamente come “migranti economici” e “richiedenti asilo” o “rifugiati”. Mentre si va sfaldando una identità unitaria dell’Europa, travolta da nazionalismi e populismi, frutto di scelte politiche ed economiche senza sbocco, ma che crescono proprio sulla “paura dell’invasione”, le migrazioni di diverso segno e provenienza sono aumentate. Questo indipendentemente dalle politiche di contrasto e di esternalizzazione dei controlli di frontiera che i singoli Stati, e poi l’Unione Europea, hanno rilanciato a cadenze periodiche, segnate da un rapido aumento delle stragi e da un numero impressionante di morti e Casablanca 16

di dispersi nelle acque del Mediterraneo. L’Unione Europea, sempre più in difficoltà di fronte alle crisi cicliche della globalizzazione, ha ritenuto di trovare una via di salvezza voltando le spalle al Mediterraneo – è anche questo il senso del risultato del recente referendum inglese sulla Brexit – ed ha scaricato sui paesi più esposti, come la Grecia e l’Italia, sia gli oneri di ricerca e soccorso in mare, che le successive attività di accoglienza. Il pervicace mantenimento del Regolamento Dublino III ha comportato una distribuzione disumana dei richiedenti asilo, le procedure di Relocation, dai paesi


Contro la guerra. Per la Pace con i Migranti più esposti verso i paesi del Centro e del Nord Europa, tanto decantate come le “soluzioni di solidarietà” sono sostanzialmente fallite, gli standard di accoglienza sono crollati a livelli inferiori rispetto al rispetto minimo della dignità umana e, da ultimo, il sostanziale ripristino dei controlli di frontiera interni hanno rimesso in discussione l’effettiva applicazione del Regolamento Schengen n. 562 del 2006. Mentre le identità nazionali all’interno dell’Unione Europea si riaffermavano con connotazioni sempre più forti, si è costituita una nuova “popolazione” di migranti, non riducibile al tradizionale concetto di “meticciato”, che impone una nuova valutazione del rapporto tra le sfide globali e la domanda di mobilità che accomuna, tanto i nuovi arrivati che le componenti più deboli della popolazione autoctona. Il FALSO UMANITARISMO Per questa nuova popolazione di migranti, per ridurne o contrastarne le domande sociali, per controllarne la mobilità, per impedire che possa acquistare soggettività e protagonismo, si sono costruite nuove barriere, che partono dalla esternalizzazione dei controlli di frontiera, al centro del HYPERLINK ( http://dirittiefrontiere.blogspot.it/2 016/05/il-sudan-partner-delprocesso-di.html) Processo di Khartoum, per arrivare alla limitazione della libertà di circolazione all’interno dello spazio Schengen. Obiettivo che al di là della strumentalizzazione del blocco imposto a Calais, è stato un tema centrale della campagna elettorale in Inghilterra, culminata con il voto popolare a favore della

Brexit che, per inciso, mirava a colpire non solo l’immigrazione extraeuropea quanto, soprattutto per il futuro, l’ingresso e la stabilizzazione di lavoratori comunitari a cui andavano garantiti gli stessi elementi di welfare di cui usufruiscono i britannici. Su modelli di collaborazione con paesi governati da regimi autoritari, e corrotti, se non vere e proprie dittature, e su questa difesa delle frontiere nazionali, ben visibile anche in Italia al Brennero e a Ventimiglia, l’Europa, e al suo interno l’Unione Europea, si sta avviando verso il

suo suicidio politico ed economico. Il tentativo di trasformare il Mediterraneo in una “frontiera” liquida, oggi per bloccare i migranti, domani per difendere l’identità “europea” e per respingere la sfida del terrorismo internazionale, denota una pochezza culturale e una tale assenza di prospettiva storica da fare temere il peggio per la superficialità delle classi dirigenti europee. Come se fosse davvero possibile costruire un muro sulle acque. Di fronte ad un orientamento politico e culturale che appare ormai maggioritario occorre smascherare il falso umanitarismo che alcuni governi ostentano per differenziarsi da quelli che più apertamente si oppongono alla mobilità dei migranti, sia europei che in arrivo dai paesi esterni all’Unione Europea. Nei fatti poi, sul piano Casablanca 17

della politica estera e delle prassi di polizia, le differenze tra i diversi stati si attenuano e i diritti fondamentali della persona migrante sono sempre più a rischio, dal diritto alla vita e a non subire trattamenti inumani o degradanti, fino al diritto di accedere a un territorio nazionale per chiedere asilo o altra forma di protezione, o al diritto di difendere la propria libertà attraverso una difesa effettiva ed una possibilità di ricorso giurisdizionale. E proprio da questi diritti fondamentali, ai quali vanno aggiunti il diritto alla salute, il diritto all’istruzione ed al lavoro, il diritto alla coesione familiare e al rispetto della vita privata, che occorre ripartire per restituire identità al popolo dei migranti nel mondo globalizzato, un mondo che spinge verso la condizione di migrante un numero sempre più elevato di persone. All’Europa dei muri e dei campi di confinamento, come alle tante barriere che circondano chi la frontiera se la porta addosso, marchio o numero segnato su un polso, occorre opporre un’Europa di cittadini e di istituzioni locali che si interpongono e ricostruiscono nuovi legami sociali, nella difesa dei diritti fondamentali delle persone migranti, e dell’intera popolazione di un territorio. Con il passare del tempo sarà questa l’unica forma possibile di integrazione e di convivenza pacifica. Soltanto questa Europa potrà resistere alla sfida globale ed al declino al quale la condannano rapporti di forza, militare, politica ed economica, ormai incentrati più sui due grandi oceani che sul Mediterraneo.


Cettina e il Giudice pregiudicato

Cettina e il Giudice pregiudicato Graziella Proto Cettina moglie del compianto professore Adolfo Parmaliana immediatamente querela. Non può permettere quelle affermazioni infamanti, vili, spregevoli su suo marito, contenute in un esposto anonimo. L’ex procuratore generale di Messina Franco Cassata oggi è stato ritenuto colpevole e condannato per aver confezionato il dossier. L’arrogante giudice, oggi pregiudicato, aveva sottovalutato la donna che non ha esitato a mettersi contro lo strapotere della provincia di Messina. “La magistratura barcellonese e messinese – lascia scritto in una lettera testamento, bellissima e straziante, suo marito – vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati”. Al colmo dell’esasperazione, il 2 ottobre del 2008 Adolfo Parmaliana si lancia in un burrone e muore... Cettina è una mia amica. Non ci conosciamo da tanti anni, ma abbastanza per essere diventate amiche. Le cose che conosco di lei non sono molte, ma abbastanza per farmi l’idea della donna nella sua veste di madre, moglie, amica, combattente. Sì, perché Cettina è una combattente. Una di quelle che non si mette in mostra. Una di quelle che le cose preferisce farle anziché raccontarle. Una di quelle che lavorano senza lamentarsi e senza esibizioni. Cettina è una militante. Una militante di sinistra. Una compagna. E tanto basta a rendermela cara. La prima volta che ho visto Cettina mi colpì la sua delicatezza e la sua emotività che potrebbe sembrare fragilità, una fragilità

apparente, perché in realtà è un granito. Eravamo in una di quelle occasioni ufficiali dove si danno dei premi, ci si scambia tanti complimenti, lei, vedova del compianto Adolfo Parmaliana portava la sua testimonianza. Alta, bruna, occhi scuri, sorriso dolce e ammaliante, entra nella tua vita in punta di piedi. Se prende la parola in pubblico la voce le si spezza, si emoziona facilmente soprattutto se parla di suo marito. Una emozione che invano tenta di nascondere ma che la inonda… e ti viene voglia di proteggerla. In effetti è lei che protegge gli altri. Protegge i suoi figli che adolescenti si sono ritrovati senza il loro papà, protegge sé stessa dal rischio di abbandonarsi, protegge le persone che ama con la sua solita riservatezza e Casablanca 18

determinazione. Sempre elegante, non vistosa, il vezzo del rossetto rosso, è una presenza delicata, quasi inosservata, ma quando non te lo aspetti ti giri e la vedi là, in fondo, che ti sorride. Una riservatezza che anche se lei non sottolinea ha connotato il suo stare a fianco del marito. Un marito che lei adorava e di cui condivideva ogni azione, ogni pensiero… anzi ne era stimolo. «Io provengo da una famiglia di democristiani, al liceo studiando la filosofia mi innamorai di alcuni ideali… quando ho conosciuto Adolfo che camminava con l’Unità sotto il braccio impazzii. Mi sono formata con lui. Insieme abbiamo fatto tante battaglie. Io lo sostenevo. Ne ero orgogliosa». Quando si sono conosciuti –


Cettina e il Giudice pregiudicato studenti universitari a Messina – facevano delle passeggiate che finivano alla CGIL, racconta divertita. Lui, Adolfo Parmaliana, la adorava. La colmava di premure. La teneva in alta considerazione… tranne un argomento… quando lei vedendolo disperato o amareggiato gli diceva “lascia stare, abbandona tutto…”. Adolfo Parmaliana non lasciò stare, non abbandonò la sua battaglia politica, morale, sociale, ma lei non è da meno. In sordina, come sa fare lei sommessamente, porta avanti le idee del marito e la battaglia contro le insidie di coloro che non solo lo hanno ostacolato, ma remano da anni, dopo la sua morte, per infangarne la memoria e il nome. Fino a far condannare per diffamazione – lei farmacista del paese, donna dolce e a volte docile, accomodante – il potente procuratore generale di Messina Franco Cassata. La condanna definitiva risale a qualche mese fa. “Sono felicissima per questa sentenza, è stato confermato che ha diffamato mio marito e non mi interessa di niente altro” ha dichiarato con semplicità alla giornalista che la inseguiva col microfono aperto.

Adolfo Parmaliana, docente di Chimica industriale all’università di Messina, era direttore del Master di II livello in “Tecnologie

Energetiche Ecocompatibili”, presiedeva la “Montalbano Clean Energy S.c.a.r.l.”, coordinava il “Catalysis Group” presso il Dipartimento di Chimica Industriale di Messina. Scienziato riconosciuto a livello internazionale perché uno dei massimi esperti internazionali nella ricerca delle nuove fonti di energia rinnovabile è stato anche consulente per l’ambiente di Valter Veltroni quando questi era sindaco di Roma. Nonostante tutto ciò aveva scelto di rimanere nel suo paese, dove è stato anche candidato a sindaco alle amministrative del 2002. SCIENZIATO E POLITICO dolfo Parmaliana forse ad alcuni non stava simpatico. A Terme Vigliatore faceva politica, simpatizzava per Berlinguer, era sempre in prima linea nella lotta alla mafia. Denunciò le gravi responsabilità di politici e magistrati nel rallentare le indagini sulla mafia e la fitta rete di corruzione e infiltrazioni mafiose nei palazzi di giustizia messinesi. Nel frattempo, vigilava sulla trasparenza degli atti e delle attività pubbliche. Osservava. Controllava. Indicava e denunciava i luoghi in cui la politica si faceva affare e clientela. Non escludendo in questo nemmeno il suo partito quando necessario. A tal proposito scriverà a Piero Fassino allora segretario nazionale del partito: «Sono stato oggetto di intimidazioni e minacce da parte di taluni membri della direzione in riferimento a un articolo che riferisce della compartecipazione Casablanca 19

di alcuni iscritti e dirigenti del nostro partito nella vicenda riguardante la realizzazione della zona artigianale di Terme Vigliatore…». Nel 2005 con i suoi esposti contribuì allo scioglimento per infiltrazioni mafiose del Consiglio comunale del suo paese. Leggeva cinque quotidiani al giorno, non andava a letto se non finiva di leggere i suoi giornali. Aveva sempre cose da spiegare, raccontare, spesso parlava di cose non digerite, fatti o frasi che non lo convincevano. Un repertorio lucidissimo da condividere con altri che la pensavano come lui. Figlio di un operaio e dell’ostetrica del paese, si iscrive al PCI a diciotto anni, e da subito fa capire che non fa parte del gregge. Gli piaceva pensare. Utilizzare la sua testa. Fedele agli ideali per i quali aveva aderito e sposato il partito comunista, accettò di malavoglia la trasformazione del partito, anche se per un lungo periodo è stato segretario della sezione dei DS di Terme Vigliatore, dove ha anche ricoperto incarichi istituzionali. Consigliere comunale e assessore ai lavori pubblici. Un assessore intransigente. Ma lui era così, onesto e coraggioso. Accorto. Terme Vigliatore è un piccolissimo centro della ‘provincia babba’ – Messina. Settemila abitanti in tutto. Penserai, allora sarà un paesetto di anime semplici, dalle nostre parti si dice di gentuzza. E potrebbe essere, invece, in questa borgata di periferia, spesso si riscontrano situazioni di decadenza morale della società e snodi fondamentali fra i vari poteri. Per quanto riguarda il settore giustizia, Terme Vigliatore dipende dal tribunale della vicinissima Barcellona Pozzo di Gotto. Un grosso centro di quarantamila abitanti. Famosa per la latitanza di Nitto Santapaola e Bernardo


Cettina e il Giudice pregiudicato Provenzano, il che vuol dire una buona presenza di criminalità organizzata. Una antica fama di massoneria, un circolo esclusivo, Corda Fratres (il cui animatore principale è il procuratore generale Cassata), all’interno del quale un gruppo di persone che contano – parlamentari locali e nazionali, magistrati e personaggi quantomeno inquietanti e discussi – curano i rapporti sociali e amicali. Interessi e carriere. In questa terra, un magistrato potente come Cassata poteva suggerire ed ottenere dai colleghi di insabbiare i rapporti dei Carabinieri sulle collusioni fra mafiosi e politici di Terme Vigliatore, un comune avvelenato dove suo figlio, l’avvocato Nello, riceveva senza imbarazzo incarichi o consulenze. Al tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto invano Adolfo Parmaliana ha inviato decine e decine di esposti che denunciavano il legame profondo che intercorre fra politica-mafia-affari. Silenzio. Poi silenzio. Ancora silenzio. Alla fine la tegola in testa. La stessa procura di Barcellona P. di G. a cui si era rivolto per anni, alla ricerca di una speranza di giustizia, lo rinvia a giudizio per diffamazione, una denuncia fatta da Domenico Munafò ex vicesindaco e in quel momento presidente del consiglio comunale di Terme Vigliatore. IL PALLINO DELLA LEGALITÀ Parrebbe una storia kafkiana. Invece succede in Sicilia, che è terra di Pirandello, ed anche di Verga, Sciascia e Fava che di storie ne hanno raccontate tante e quindi non ci si può stupire molto. Indignarsi tanto. Tuttavia, il problema è capire perché e come queste cose succedono. Comprendere come comportarsi in

queste situazioni per mantenere la calma, la razionalità… Come trovare il coraggio di continuare a vivere e lottare. Mantenere la speranza, quella speranza che altri vorrebbero toglierti. In questo caso il tribunale. “Invece di indagare sui destinatari delle sue denunce, hanno cercato di colpirlo con il rinvio a giudizio”. Dirà il fratello Biagio durante una intervista. Politico fine, arguto e battagliero, ama il lusso, le comodità, i viaggi con la sua Cettina, la donna della sua vita. «Adolfo – racconta Cettina – amava le cose belle, diceva sempre che la cosa più vecchia che ci doveva essere nella nostra casa era lui… Sicuramente era una persona speciale, non comune... la cosa che faceva distinguere Adolfo da tutti era l’estremo rispetto che aveva per gli altri». La famiglia Parmaliana era una specie di oasi, coccolata e protetta da Adolfo che era un marito e un padre affettuoso e tenerissimo. Non c’era occasione che dimenticasse, un compleanno, un esame. Anche una semplice trasferta di lavoro per lui diventava occasione per pensare agli altri, non solo alla moglie e ai figli. Per ogni avvenimento, anche il più banale, scriveva un biglietto (tutti conservati, racconta Cettina). «In tutti i bigliettini che ci lasciava o anche nelle lettere, la firma – aggiunge la moglie – era sempre a caratteri microscopici perché sosteneva che rispetto a noi lui era troppo piccolo, una cosa che faceva anche con altre persone amate… Adolfo – dice ancora Cettina – trasmetteva sempre a tutti noi e a chi lo conosceva positività e rispetto…». “Tu sei la migliore. Sorridi alla vita e la vita ti sorriderà”. Sta scritto su un adesivo che ancora Casablanca 20

oggi campeggia sullo sportello del frigorifero. Gilda quella mattina avrebbe dovuto sostenere un esame e lui, papà carino e premuroso si alzò di buon mattino per far trovare alla figlia quell’augurio quando insieme, come ogni mattina, avrebbero fatto colazione. «Il sabato, quando papà non lavorava – racconta Gilda Parmaliana – andavamo a fare colazione al bar poi a fare shopping a Barcellona, mio papà amava farsi consigliare da me per il suo abbigliamento… Spesso la domenica pranzavamo fuori, a Taormina, e una volta trovammo una cagnolina abbandonata che mio padre mi permise di adottare, la mia Lilly…». Ricordi dolci e amari che hanno aiutato i ragazzi in questi lunghi otto anni difficili. A casa, con i figli spesso parlava in inglese perché diceva che oltre la lingua di Dante dovevano conoscere bene la lingua del futuro e ricordava loro che “La vita va vissuta in avanti ma... capita all’indietro”. «Adolfo – ancora Cettina che racconta – era un comunista che leggeva la Bibbia. Credeva in un essere superiore ma ancora più


Cettina e il Giudice pregiudicato credeva nella giustizia e nel rispetto del prossimo e questo per lui era essere cristiani. Si riteneva un bravo cristiano». Un compagno comunista che non andava a messa, tuttavia tutti i sabato sera al telefono col parroco del paese discuteva sulla parola del vangelo della domenica successiva. Una gran bella persona il nostro

parlamentari attraverso politici di fiducia! Aveva da ridire se dentro gli uffici pubblici passeggiavano persone losche, se il sindaco o l’assessore dava concessioni o appalti o consulenze ad amici… Un rompiballe cosmico! Parlare di idealità in una terra malata. Una terra che ha perduto la bussola della tensione ideale, dei valori.

CETTINA E LO SCRITTORE Non basta che si è suicidato. Non basta che non disturberà più i loro intrighi. Bisognava andare oltre. In fondo ne avevano paura. Quasi a ridosso del primo anniversario della morte in più occasioni è venuto fuori che uno

TANTO PER DARE UN’IDEA GIUSTIZIA Dall’Interpellanza urgente (ex articolo 138-bis del regolamento): I sottoscritti Antonio Di Pietro, Massimo Donadi… «… il boss incontrastato della mafia barcellonese Giuseppe Gullotti, al momento in cui si rese responsabile, quale mandante (come, riconosciuto con sentenza passata in giudicato), dell'omicidio del giornalista Beppe Alfano, avvenuto a Barcellona Pozzo di Gotto l'8 gennaio 1993, era socio e frequentatore del circolo culturale Corda fratres, del quale il dottor Cassata, già presidente, era per sua stessa ammissione il principale animatore; dello stesso circolo Corda fratres, insieme a numerosi esponenti della massoneria barcellonese, era socio il noto Rosario Cattafi, già indagato dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta nell'indagine sui mandanti occulti delle stragi di Capaci e via D'Amelio e, soprattutto, destinatario nel 2000 della misura di prevenzione antimafia della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, irrogatagli dal Tribunale di Messina, con provvedimento definitivo, per i suoi accertati legami con boss del calibro di Benedetto Santapaola, Pietro Rampulla, Angelo Epaminonda, Giuseppe Gullotti ed altri ancora; durante la latitanza di Giuseppe Gullotti, sottrattosi ad una misura cautelare emessa nel procedimento relativo all'omicidio Alfano, il dottor Cassata nel settembre 1994 era stato avvistato da due carabinieri mentre conversava in strada con Venera Rugolo, figlia del vecchio boss barcellonese Francesco Rugolo e soprattutto moglie di Giuseppe Gullotti. Nei giorni successivi il dottor Cassata, presso il proprio ufficio, aveva esercitato pressioni nei confronti di uno dei due carabinieri, che avevano redatto al riguardo apposita relazione di servizio, perché la relazione di servizio venisse soppressa, lamentandosi del comportamento dei militari. Innanzi al Consiglio superiore della magistratura il dottor Cassata ammise l'incontro con la moglie di Gullotti, adducendone l'occasionalità e giustificando di essersi fermato con la donna per fare una carezza al neonato, figlio del boss Gullotti e della signora, che si trovava nella carrozzina. Senonché, dall'audizione dei due militari che avevano redatto la relazione di servizio, sentiti sia dal Consiglio superiore della magistratura sia dall'Autorità giudiziaria, era emerso che il dottor Cassata e la moglie di Gullotti colloquiavano da soli e che non era presente alcuna carrozzina né, tanto meno, alcun infante; nel 1974 il dottor Cassata era stato protagonista di un viaggio in auto a Milano in compagnia del boss Giuseppe Chiofalo. Tale circostanza, allora segnalata al Consiglio superiore della magistratura da un esposto del senatore barcellonese Carmelo Santalco, è stata confermata dallo stesso Chiofalo nel corso della deposizione da lui resa il 20 febbraio 2004 innanzi al Tribunale di Catania, prima sezione penale, nel processo a carico, fra gli altri, di alcuni magistrati messinesi (i dottori Giovanni Lembo e Marcello Mondello) e del boss messinese Luigi Sparacio; il dottor Antonio Franco Cassata gestisce a Barcellona Pozzo di Gotto un museo etno-antropologico che riceve considerevoli finanziamenti dalla Regione siciliana e da enti locali, quali il Comune di Barcellona Pozzo di Gotto e la Provincia regionale di Messina, che operano nel territorio del proprio ufficio giudiziario;il dottor Cassata nel 1998 aveva esercitato pressioni nei confronti di un magistrato allora in servizio al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, il dottor Daniele Cappuccio, affinché questi rinviasse la trattazione dell'udienza preliminare di un processo a carico, fra gli altri, del consigliere comunale Giuseppe Cannata, al fine di consentire l'elezione di Cannata a vicepresidente del consiglio comunale di Barcellona Pozzo di Gotto prima dell'eventuale rinvio a giudizio dello stesso per gravi reati.

Adolfo. E però… quella sua “fissazione” della legalità, della trasparenza… sempre pronto con la carta bollata… Intasava gli uffici della procura! Invadeva il Parlamento con le sue interrogazioni

Delle regole. Quella sua perseveranza nel denunciare agli organi competenti! Quegli organi competenti che lo volevano morto. Che non si sono fermati innanzi al fatto che lui era morto. Non basta!

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scrittore, Alfio Caruso – uno importante, uno conosciuto, uno autorevole – ha deciso di scrivere la storia del professore suicida. Fermiamoci un attimo: ha preferito togliersi la vita perché non ha retto


Cettina e il Giudice pregiudicato più al fatto che la magistratura locale lo ostacolava, lo boicottava, lottava contro di lui in tutti i modi. Lui, troppo integro, troppo onesto, troppo coraggioso per molti, con le sue numerose e continue denunce, appariva troppo superbo, borioso e arrogante per altri. Quegli altri che decidevano il bello e il cattivo tempo. Quelli che decidevano chi doveva comandare e come. Chi non doveva andare in carcere nonostante tutto. Un rapporto dei carabinieri – Operazione Tsunami – che non andava avanti e aveva dei risvolti molto inquietanti, perché raccontava di un intreccio fra magistrati, politici e affaristi e del conseguente groviglio di affari, interessi e incarichi istituzionali... Cose che Adolfo aveva detto e denunciato in tutte le lingue. Un libro avrebbe dovuto raccontare tutto ciò, sarebbe stato devastante. «Dopo la sua morte – racconta Cettina – per tanti mesi sembravo in coma. Una sera stavo sdraiata sul divano e guardavo distrattamente una trasmissione televisiva, c’era un signore distinto a cui fecero una domanda sulla mafia… questi ad un certo punto pronunciò Parmaliana… un pugno allo stomaco: Prima di parlare del mio ultimo libro – disse pressappoco – vorrei dire di un fatto accaduto recentemente in Sicilia sottolineando che non c’è solo la mafia che uccide, che spara, ce n’è una molto più sottile che lascia da soli coloro che denunciano, che fanno notare… È stato un uragano di pensieri… devo sapere chi è questo uomo che parla di Adolfo in modo così disinteressato, senza che nessuno glielo abbia chiesto e senza fare pressioni o storture come tanti altri giornalisti che cercavano “la notizia”. Tento di telefonare alla trasmissione ma invano… dovevo rintracciarlo a tutti i costi, era l’unico pensiero che mi aveva fatto

uscire dal coma… cosa fare, a chi chiedere un recapito per raggiungerlo. Mi viene in mente mia nipote Simona, viceconsole, forse lei ha gli strumenti giusti, in quel momento si trova a Chicago, Simona ti prego aiutami ho bisogno di trovare un recapito, Simona trova una mail, nel frattempo la trasmissione è finita. Simona amore mio ti prego scrivigli tu, io non ci riesco e così si fa. “Sono la nipote del professore Parmaliana, mia zia le vorrebbe parlare” e subito riceviamo risposta “dica a sua zia che questo è il mio numero privato, mi chiami quando vuole”». Bisognava fare qualcosa per mantenere vivo Adolfo, l’idea di un libro che parlasse di lui e delle cose che aveva fatto poteva essere una strada. «All’inizio non tutti erano d’accordo, non conoscevamo lo scrittore se non per fama. Mi si dava della matta, non riuscivano a capire come io l’avessi rintracciato…». Cettina aveva così aiutato lo scrittore nella parte documentale. Il pensiero di quel libro che dava speranza a Cettina – oggi più che mai si ha modo di sospettare – aveva tolto il sonno al procuratore generale di Messina Franco Cassata.

Figura -Franco cassata Raccontare la storia del professore Casablanca 22

avrebbe significato analizzare le motivazioni del suicidio, sarebbe venuta fuori la critica aspra sulle sordità della magistratura barcellonese, l’indolenza, la pigrizia, i legami e gli interessi di certa magistratura. Sarebbe venuto fuori che Adolfo Parmaliana per avere giustizia di fronte al silenzio di Olindo Canali magistrato di Barcellona aveva chiesto alla procura generale di Messina diretta da Franco Cassata di avocare l’indagine che scaturiva dalle sue denunce. Sarebbe ritornata a galla l’operazione Tsunami. «Da quel libro – dichiarò Biagio Parmaliana fratello del professore – sarebbe venuto fuori tutto il marcio del suo operato. Il pensiero di essere scoperto induce il Cassata ad essere sempre più pesante nel suo tentativo di delegittimazione del personaggio che con lui ricordiamolo si era permesso di non abbassare la testa. Lo aveva contestato ed anche denunciato». GLI ESPOSTI ANONIMI NELLA VETRINETTA Per non fare uscire il libro Cassata le ha provate tutte. Comprese le pressioni sull’autore col quale tenta di mettersi in contatto utilizzando a tal fine tutte le persone possibili che lo conoscevano e facendogli sapere che aveva interessanti documenti da fargli avere, importanti per la ricostruzione del personaggio e dei fatti. Qualche giorno prima dell’uscita ufficiale del libro, il 19 novembre 2009, il rettore dell’Università di Torino amico di Adolfo Parmaliana decide di fare la prima presentazione alla presenza dell’autore, nell’aula magna dell’ateneo, fatto per il quale l’allora procuratore Cassata ebbe a dolersi. Lagnarsi. Rammaricarsi.


Cettina e il Giudice pregiudicato Direttamente col rettore. Durante il processo, documentate e non, sono venute fuori minacce, consigli, interventi sui giornalisti... L’iter ricostruttivo dei fatti, ci racconta di un alto magistrato, Cassata, che per ragioni di rancore e risentimento nutriti nei confronti del defunto Adolfo Parmaliana, non si ferma nemmeno dinanzi alla sua morte. Un accanimento incredibile. Un astio che lo porta – si legge negli atti – con coscienza e volontà a offendere l’onore e la reputazione del professore morto perché deve distruggerlo sul piano morale, etico, politico, professionale. Come? Col metodo principe. Il migliore. Gli esposti anonimi! Basta inviarli a persone precise. Quelle che potrebbero utilizzare quelle informazioni. Di più, lo si invia allo scrittore che sta ultimando il libro sul professore suicida per evitare che lo stesso ne esca fuori a testa alta. Qualora l’autore gli avesse creduto! “A quanti odiano le falsità” il titolo (fra la poesia e la psichiatria) dell’esposto anonimo. Una lunga sequenza di falsità e offese, finalizzate a denigrare l’onorabilità e il decoro personale e professionale di Adolfo Parmaliana: “… il suo essere maniacale e sospettoso era diventata paranoia; trattava i suoi simili con disprezzo; era famelico di denaro e di incarichi; era scientificamente zero, capace solo di copia-incolla …”. Accuse pesanti. Crudeli e atroci. Affermazioni infamanti che sono state sconfessate una per una e

punto per punto. Uno scritto che non è solo diffamatorio e vile, secondo i giudici “costituisce un chiaro segno di disprezzo…” nei confronti della reputazione della persona verso la quale è stato scritto. L’anonimo testo una volta confezionato il 24 settembre 2009, qualche giorno prima dell’anniversario della morte di Adolfo, si fa recapitare al sindaco di Terme Vigliatore – Cipriano Bartolo, allo scrittore Alfio Caruso, al senatore Beppe Lumia e alla Procura Generale di Messina. Appena lo scopre Cettina non ci pensa un attimo, fa partire la denuncia contro ignoti, ma come dire orientando gli inquirenti verso la procura generale di Messina colui che lei e tutti gli altri familiari ritengono responsabile di

una simile azione. Tutta la famiglia si costituisce parte civile. Il 17 novembre 2010 il sostituto Federico Perrone Capano del tribunale di Reggio Calabria e il capitano Leandro Piccoli svolgevano attività istruttoria dentro l’ufficio di Cassata (che gentilmente per rendere più comoda la trasferta, forse, o per essere carino con loro, forse, aveva concesso ai colleghi reggini l’uso dei suoi uffici). Avevano quasi finito le audizioni programmate quando lo sguardo del Dr. Perrone Capano cadde all’interno di un armadietto a vetri, chiuso a chiave, sito nell’ufficio dell’imputato, con in bella mostra, due carpette. Una contenente il dossier anonimo che Cassata si era mandato in ufficio e un’altra sempre della Procura generale con la scritta «copie esposto Parmaliana da spedire», con le ultime due parole proprio sottolineate. Bingo! Il resto è cronaca. Il rinvio a giudizio. Le resistenze. I falsi testimoni. Il processo. Amico degli amici Cassata grazie alla sua lunga attività e al suo ruolo è circondato da una pletora di amici e simpatizzanti, fatto quest’ultimo che ha creato non pochi problemi nello svolgimento del processo. Basti pensare che all’inizio qualche magistrato si è astenuto perché amico, un altro per “profondo turbamento”. Un turbamento poi rientrato. Alla fine il giudice coraggioso che lo condanna.

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Disobbediamo!

Disobbediamo! Augusta e la battaglia per restituire Punta Izzo ai cittadini Gianmarco Catalano

La Marina Militare sarebbe al lavoro per riattivare il poligono di tiro nella zona di Punta Izzo? Un "bagno disobbediente" inaugura un percorso socio-culturale all'insegna dei valori di pace, solidarietà e rispetto dell'ambiente. È nato il Coordinamento per la smilitarizzazione e la tutela di Punta Izzo e chiede lo smantellamento dell'ex poligono di tiro di Punta Izzo, che si trova in una zona di Augusta di incontaminata bellezza, per crearvi un parco naturale e culturale per tutti. Non sarà facile. Capitaneria e militari non la pensano allo stesso modo, inoltre, il mito della “marina orgoglio e gioiello degli augustani” è ancora vivo e così ben radicato in città da rappresentare un serio ostacolo alla crescita di soggettività critiche nei confronti dei presunti benefici di un’asfissiante occupazione militare del territorio. Trasgredire i divieti d'accesso, scansare i controlli e varcare le recinzioni che privano le comunità del rapporto naturale con una parte vitale del loro territorio. Ci sono luoghi di mare, in Sicilia, dove fare un bagno costa rischi e fatica, ma può assumere anche un grande significato politico. È il caso della scogliera di Punta Izzo, ad Augusta, che da più di un secolo è sottratta alla popolazione civile, soggetta a servitù militare e in parte adibita a poligono di tiro per le esercitazioni a fuoco della marina e delle forze di polizia. Qui, la mattina del 7 agosto scorso, una ventina di cittadini ha invaso la zona off limits e raggiunto il mare, dopo una lunga marcia sotto il sole, eludendo cancelli, filo spinato e il blocco

improvvisato da Digos e carabinieri. Un’azione simbolica e “disobbediente” che intendeva lanciare un chiaro messaggio: Punta Izzo va smilitarizzata e riconosciuta come bene comune fruibile dai cittadini. Due ore prima, ad aprire la giornata, c'era stato un presidio nella vicina spiaggetta del Granatello: un momento d'informazione sulla proposta di trasformare Punta Izzo in riserva naturale, ma anche un'occasione di confronto pubblico in merito alla generale mancanza di accessi a mare e di spazi verdi e sociali sofferta dalla cittadinanza di Augusta. La giornata del 7 agosto è stata la prima iniziativa di un percorso di lotta che muove adesso verso la Casablanca 24

nascita di un comitato popolare intento a definire obbiettivi, indirizzi e strategie d'intervento. Ad accendere i riflettori su Punta Izzo, circa tre mesi fa, era stata la notizia (diffusa da I Siciliani giovani e MeridioNews) della probabile intenzione della marina militare di rimettere a nuovo il poligono di tiro che occupa una fetta del promontorio costiero. I due servizi giornalistici documentavano, inoltre, la presenza di bossoli di vario tipo e calibro abbandonati tra gli scogli di Punta Izzo, compresi parecchi lacrimogeni al gas cs. Gli stessi, per intenderci, utilizzati in Val Susa per reprimere i No Tav e considerati armi chimiche bandite dai conflitti bellici. Più tardi si


Disobbediamo! scoprirà che quei lacrimogeni erano stati sparati a Punta Izzo dal reparto celere della polizia durante un'esercitazione avvenuta nei primi mesi di quest'anno. Un fatto che dimostra come l’area costiera venga ancora utilizzata per l’addestramento con armi da fuoco, all’insaputa della cittadinanza e delle autorità civili, nonostante l’apparente dismissione della struttura in cemento (visibilmente vetusta) che almeno fino a trent’anni fa ospitava le sessioni di tiro. Appresa la notizia, un gruppo di associazioni ambientaliste diramava un comunicato stampa contro «lo svolgimento di qualsiasi esercitazione militare nell'area in questione» in virtù del «pesante impatto ambientale» e dei «rischi per la sicurezza» creati da questo genere di attività, oltre che per le ricadute negative «sul piano socioculturale». Il comunicato si concludeva annunciando l'avvio di «una campagna per la smilitarizzazione, la bonifica e l'istituzione di una riserva naturale e culturale a Punta Izzo». Qualche giorno dopo la presa di

posizione delle associazioni, arrivava la smentita del comando di MARISICILIA: «non esiste al

momento nessun progetto per la riattivazione di un poligono di tiro», era la dichiarazione dei vertici militari riportata dal quotidiano Augustaonline. Un ottimo assist per le associazioni che replicavano sottolineando come tale smentita dava la «conferma che non ci sono ragioni o piani di carattere militare che giustifichino la permanenza sulla zona di una servitù militare». ASSEMBLEE MILITARIZZATE Nel frattempo, la marina, forse infastidita dall'anomala attenzione pubblica e mediatica, inaspriva la sorveglianza su Punta Izzo, istituendo la ronda di un automezzo con a bordo due militari in mimetica. Da allora i bagnanti che accedono all'area attraverso i varchi adiacenti le villette del promontorio - prima in massima parte tollerati - vengono sistematicamente cacciati. Mentre le barche da diporto che stazionano nei pressi della riva sono spesso allontanate dalla Capitaneria. Si arriva così a fine luglio, quando le associazioni formalizzano la

nascita del Coordinamento per la smilitarizzazione e la tutela di Casablanca 25

Punta Izzo. Sarà quest'ultimo, con il supporto del Coordinamento dei comitati No Muos, a farsi promotore del presidio del 7 agosto che ha visto la partecipazione anche di decine di attivisti antimilitaristi accorsi da Catania, Ragusa, Niscemi e Caltagirone. «Il primo passo – scriverà il Coordinamento – di una battaglia capace di aprire un importante percorso sociale e culturale nel territorio di Augusta, all'insegna dei valori di pace, solidarietà e rispetto dell'ambiente». All’indomani della manifestazione conclusa col bagno disobbediente, la reazione di militari e polizia è consistita (e consiste tuttora) nel militarizzare le assemblee del Coordinamento, cioè gli incontri convocati in luogo pubblico tramite social network e aperti alla partecipazione di tutti i cittadini interessati. Polizia, Digos, carabinieri, vigili urbani e persino militari in mimetica, da oramai un mese, con puntualità accolgono in spiaggia attivisti e cittadini solidali e rimangono appostati a pochi metri, vigilando per l’intera durata della riunione. Una misura ridicola e provocatoria – nonché, di fatto, repressiva - che compromette il libero esercizio del diritto di riunione, finendo per spaventare e dissuadere molti cittadini dal prendere parte alle assemblee o anche solo dall’avvicinarsi ad ascoltare. D’altronde, chi avrebbe piacere a ritrovarsi e discutere all’aperto, mentre si è circondati dalle pattuglie dei militari e filmati dagli ispettori della digos? Ad ogni modo, bisogna ammetterlo: la battaglia appena cominciata difficilmente riscuoterà un immediato consenso tra gli augustani. Il motivo è molto semplice: si tratta di rivendicare un pezzo di costa “nelle mani della marina”. E la paura di tanti è che


Disobbediamo! mobilitarsi per la sua smilitarizzazione equivalga a “mettersi contro la marina” e di conseguenza crearsi delle pesanti inimicizie nell’ambiente militare. Una paura che non riguarda soltanto chi con la marina intrattiene rapporti di lavoro, ma che più in generale è da ricondurre alla cultura filo-militarista storicamente dominante ad

questo percorso è stata un’assemblea in piazza indetta dal Coordinamento, lo scorso 16 settembre, che ha visto la partecipazione di una settantina di cittadini. A stimolare il dibattito pubblico, c’erano attivisti locali e No Muos, giornalisti, insegnanti, studiosi e legali esperti di tematiche ambientali. Anche l’amministrazione comunale è

necessaria a sostenere e far vincere quest'istanza collettiva la danno i cittadini e la spinta popolare che, insieme e senza delegare all'esterno, riusciremo a esprimere dal territorio», sottolineano gli attivisti. Con l’obbiettivo di «ritrovare Punta Izzo e ricucire un legame di senso con la terra che abitiamo – concludono riconoscendo lo spirito profondo

Augusta. Il mito della “marina orgoglio e gioiello degli augustani” è ancora vivo e così ben radicato in città da rappresentare un serio ostacolo alla crescita di soggettività critiche nei confronti dei presunti benefici di un’asfissiante occupazione militare del territorio. Consapevole di queste difficoltà e malgrado il clima da sorvegliati speciali, il gruppo “disobbediente” – formato per lo più da giovani che si affacciano per la prima volta all’attivismo politico - prosegue la sua attività con determinazione; mentre è già al vaglio l’ipotesi di creare un comitato stabile, ad adesione individuale, per fare il salto di qualità. L’ultima tappa di

intervenuta, per bocca del suo assessore all’Ambiente Danilo Pulvirenti, esprimendo la sua disponibilità a sostenere questa battaglia. Se questo avverrà, e come il sostegno annunciato a parole si tradurrà in azioni amministrative, è ancora presto per dirlo. Di certo c’è che gli attivisti del Coordinamento stanno già studiando le prossime mosse. Gli iter amministrativi per liberare Punta Izzo dall’occupazione militare, certamente esistono e dovranno essere percorsi. Ma è chiaro che questo, da solo, non basterà. Perché «la forza

di un percorso comune».

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Riace: la città dell’accoglienza

Benvenuti a Riace Giusi Milazzo Riace è un piccolo comune di 1800 abitanti. Una volta famoso solo per i Bronzi, oggi per il suo sindaco Mimmo Lucano e tutto ciò che ruota attorno al suo operato. Riacefilmfestival, è un'occasione culturale di alto spessore, anzi enorme, perché lo si realizza nella Locride, una zona con altissima presenza della ‘ndrangheta, ma è anche un'opportunità per presentare progetti, parlare di aiuti concreti al Terzo mondo. Parlare di migrazioni. Riace oggi offre uno spettacolo umano meraviglioso. Il colore della pelle, la cultura, le origini, le credenze e soprattutto le sovrastrutture sociali e politiche li vorrebbero separati, invece loro, migranti e riacesi, hanno deciso di stare insie me. Che stare insieme è bello. Attorno al calcetto sulla piazza principale si affollano ragazze e ragazzi che vengono dall’Africa, dalla Siria, dalla Calabria e tante altre etnie, con naturalezza e spontaneità giocano, flirtano, chiacchierano. Si sorridono, si abbracciano. E il paese si è ripopolato. Benvenuti a Riace. Salendo dal mare Riace ci accoglie con un cartello che la definisce “Città dell’accoglienza”. Una terra argillosa e rigogliosa di ulivi circonda il piccolo borgo medievale, tra il grigio delle piccole e vecchie case spicca il moderno anfiteatro dipinto con i colori della pace. In giro per le stradine, nella piazza, nelle scalinate che si percorrono per arrivare alla mediateca, il luogo in cui si svolge il Riacefilmfestival, io, Anna e Mirella restiamo colpite non solo dalla cura che promana da quei luoghi, fiori, pulizia, bellezz e

colori, ma ancor di più dall’armonia e dall’allegrezza che pare esserci tra gli abitanti. Sono donne e uomini dell’Africa, della Calabria, della Siria, che passeggiano, chiacchierano, lavorano nelle botteghe artigianali tra argilla, rame, nastri e perline di vetro. Attorno al calcetto, sulla piazza principale, si affollano ragazze e ragazzi di tante etnie, con naturalezza e spontaneità giocano, flirtano, chiacchierano. Guardiamo incantate l’agio con cui si muovono, si sorridono, si abbracciano, al di là di ogni Casablanca 27

differenza di cultura e religione. Il primo giorno, all’arrivo, siamo state accolte da Chiara Sasso, l’anima del Festival e la coordinatrice della rete dei Comuni Solidali, che abbiamo conosciuto a Lampedusa, grazie ad Alfonso Di Stefano e Teresa Modafferi della rete Antirazzista catanese e dei Cobas scuola di Catania. Chiara è una donna che con determinazione e passione ha condiviso e sostenuto per anni le scelte di Domenico Lucano, il sindaco che dal '99, ancor prima di essere eletto per la prima volta, ha cominciato a mettere in pratica,


Riace: la città dell’accoglienza

con l’associazione Città Futura, un’idea di accoglienza che restituisse a questo termine il suo significato più profondo. L’occasione fu lo sbarco sulle coste ioniche della Locride di 100 donne e uomini curdi in fuga dalle persecuzioni della Turchia e dallo sterminio con i gas messo in atto da Saddam. Un sindaco anomalo, diverso dai tanti che conosciamo. Lo guardiamo con simpatia mentre si aggira quasi schivo, ma mai rude tra ospiti, registi, artisti, giornalisti, ricercatori, migranti e i suoi abitanti che affollano la sera la sala dei dibattiti. Si vede che lo seguono e che condividono quello che fa. Non tutti naturalmente. Hanno sparato alla vetrata della vecchia casa recuperata come taverna e intitolata a Donna Rosa, una straccivendola che aveva avuto il merito di tenere in vita il mercato del paese e dove ogni sera siamo state invitate a cenare gustando piatti tipici calabresi ed eritrei. La 'ndrangheta non sembra aver gradito il progetto e l’idea che dalla rassegnazione e dallo sconforto sia possibile uscire. Si, perché il progetto di Mimmo

Lucano è un progetto per i migranti, ma anche per la sua terra martoriata dallo spopolamento e dall’abbandono. La scelta poi di creare una rete tra i sindaci dell’accoglienza oltre Riace, Caulonia, Badolato, Stignano, rompe l’isolamento e rischia di creare una vera rivoluzione. È per questo che la criminalità organizzata spara e incendia. Ma si va avanti e Riace, che rischiava di essere un comune fantasma si è ripopolato, non ha chiuso la scuola, ha nuove botteghe per vecchi mestieri. STORIE DI RESISTENZA E DIGNITÀ È una storia di piccoli passi, una storia di relazioni, di passioni e d’impegno. Donne e uomini in un intreccio fecondo hanno ridato senso e valore all’ospitalità e all’accoglienza, aprendo le vecchie case che sono tornate a essere animate ricostruite strappate all’incuria e all’abbandono da mani solidali ed esperte. Incontriamo il Sindaco già la prima sera, ci distribuisce la carta moneta ’coniata’ a Riace utilizzabile per scambiare merci Casablanca 28

prodotti e servizi. In paese è adoperata in sostituzione dei soldi veri per evitare che le lunghe attese dei fondi per i rifugiati e per i richiedenti asilo blocchino la vita del piccolo borgo e rendano complessa la vita sia per gli abitanti che per i migranti. Ma a Riace le sperimentazioni di un altro modo di amministrare un comune non si fermano qui. Come illustra il sindaco, nel corso di un dibattito sull’acqua organizzato nell’ambito del Festival, si sta tentando di rendere il comune autonomo per l’approvvigionamento idrico, scavando dei pozzi autonomi e rifiutando il modello di gestione inefficace e dispendioso della Società privata a cui la Regione ha affidato il servizio. L’associazione Città Vicine, quest’anno, è stata invitata a partecipare all’ottava edizione del Riacefilmfestival con la mostra itinerante mail art “Lampedusa porta della vita” esposta per la prima volta a Lampedusa nel 2013, realizzata grazie al contributo di artisti di varie città d’Italia e curata da Anna Di Salvo e Katia Ricci delle Città Vicine e


Riace: la città dell’accoglienza da Rossella Sferlazzo dell’associazione Color Revolution.

narrazioni. Alcune donne migranti ci avvicinano e si raccontano. Le avevamo viste nelle botteghe artigiane impegnate nella realizzazione di pregiati manufatti, poi il pomeriggio del secondo giorno nell’anfiteatro ad assistere con i figli e con i compagni al recital intenso e commovente di Mohamed Ba, il griot senegalese, attore, cantore e poeta. Raccontano

visione di due film straordinari arricchisce l’emozionante soggiorno degli ospiti e degli abitanti. La mostra molto ammirata e Un paese in Calabria’ bellissimo e apprezzata, allestita nei locali della poetico film realizzato da due Mediateca, esprime la positività e registe italo-francesi Shu Aiello e la complessità dell’accoglienza dei Catherine Catella, girato durante i migranti a Lampedusa. Dopo loro lunghi periodi trascorsi a essere stata esposta in varie città Riace nel corso di tre anni; un film approda a Riace e qui sembra aver in cui si coglie l’essenza trovato la sua collocazione dell’esperienza realizzata a Riace, attraverso gli occhi e le emozioni di chi quella RIACEinFESTIVAL, è una manifestazione nata sull’onda della politica di esperienza l’ha vissuta e accoglienza e reinsediamento dei rifugiati e richiedenti asilo politico che condivisa. l’amministrazione comunale del paese dei Bronzi sta attuando da anni. Il Magna Grecia - Europa Concorso Cinematografico vuole dare spazio a produzioni indipendenti legate Impari realizzato da Anita ai temi delle migrazioni, della multiculturalità, del rapporto tra paesi ricchi e Lamanna e Erwan paesi poveri con una particolare attenzione a opere ambientate o riguardanti il Kerzanet. Sono storie di bacino del Mediterraneo, luogo privilegiato di intreccio e confronto tra culture, resistenza e di dignità — lingue, religioni. Il festival vuole essere una iniziativa concreta che, attraverso ha scritto qualcuno. Ritratti l’universale linguaggio del cinema e delle arti, promuova lo scambio e la quotidiani di donne conoscenza reciproca affinché si contrastino forme di chiusura e razzismo, calabresi, in cui le storie di richiamando l’attenzione sul percorso innovativo che l’amministrazione emigrazione si intrecciano comunale di Riace ha avviato coniugando l’accoglienza dei migranti con il con il radicamento ad una rilancio del proprio territorio e dando l’immagine di una Calabria inedita, terra antica e colta, ma diversa da quella delle cronache nere. anche con la capacità di La Direzione Artistica è curata da Vincenzo Caricari (Asimmetrici Film) e ribellarsi alla cieca Chiara Sasso (Rete dei Comuni solidali), in collaborazione con Maurizio Del violenza degli uomini di Bufalo (Festival del Cinema dei Diritti Umani - Napoli). casa. Ricorda tanto la potenza delle madri mediterranee raffigurate nelle statuine fittili del museo di Locri. Il viaggio in questa terra ci ha proprio affascinate, ritornando a Catania ci ripromettiamo che l’anno prossimo torneremo, sempre per le vacanze politiche delle Città Vicine. Intanto, il proposito di riparlare nel corso dell’inverno a Catania di quello che è stato fatto a Riace perché siamo convinte che sia uno dei modi possibili per far sì che perfetta, quasi un continuum tra della loro scelta di stabilirsi a le migrazioni possano trasformarsi l’intensa esperienza di Lampedusa Riace, dove possono vivere con in occasioni di arricchimento e questa emozionante storia di serenità e dignità e crescere i figli culturale e benessere anche per le costruzione di un nuovo modo di in un ambiente a misura di donna. nostre comunità. condividere vite, culture e All’interno del Riacefilmfestival la Casablanca 29


Solidarietà fra terremotati e migranti

Una bella pagina di Vita quotidiana Sara Jacopetta Ad agosto scorso, un terremoto ha devastato un pezzo del Centro Italia. Interi paesi rasi al suolo. Amatrice, Accumoli e Arquata i centri più colpiti. Centinaia fra morti e feriti. Si scava fra le macerie. L'Italia piange ancora una volta. Anche tanti immigrati da subito si mettono all’opera, impegnati fisicamente nella macchina dei soccorsi. I migranti del Progetto Sprar di Gioiosa Ionica decidono di devolvere parte del pocket a favore delle vittime del terremoto. Azioni che fanno riflettere. O dovrebbero far riflettere. Le 3.36 del 24 agosto 2016 hanno segnato inesorabilmente una tragica fine d’estate. Poco meno di un mese all’inizio del nuovo anno scolastico, per tutti i bambini e i giovani che probabilmente avevano già scelto chi sarebbe stato il loro compagno di banco. Qualcuno rientrava dalle ferie estive, qualcun altro sarebbe dovuto ancora partire. La partenza presa, però, è stata di solo andata. Senza ritorno. I media ci hanno raccontato di questa immane tragedia e la terra è tremata sotto ognuno di noi: hanno tremato le nostre paure, risvegliandosi; ha tremato quel campanello pronto a ricordare che non siamo padroni di nulla. Forte come quelle scosse feroci è stata la risposta dell’Italia nel mobilitarsi per fornire sostegno di ogni tipo: economico, umanitario, materiale. Anche i migranti del Progetto Sprar di Gioiosa Ionica, piccola cittadina n provincia di Reggio Calabria,

gestito dall’Associazione ReCoSol, hanno assistito alle immagini trasmesse in tv. Immagini che hanno rievocato in loro altre immagini: la disperazione sui volti delle persone e le case distrutte non sono scenari nuovi per loro. Pertanto, è nata l’idea da parte di un ragazzo ghanese, che chiameremo Mohammed, di poter fare qualcosa per la popolazione colpita dal sisma. Si è perciò pensato di devolvere parte del pocket money, che spetta mensilmente ad ogni beneficiario, alle vittime del sisma. La quota raggiunta (di € 1.000) è stata devoluta all’ARCI. Un gesto piccolissimo, la classica goccia nel mare che non fa rumore, ma che aiuta a riempirlo quel mare, a donare un apporto, seppur impercettibile. Il dovere morale di Mohammed di mettere in atto un’azione concreta è simbolo di integrazione e di sentirsi parte del Paese in cui i mi-

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granti vengono accolti. Li chiamano ospiti, ma nonostante ciò, non tutti li fanno sentire come a casa. A prescindere dai vari razzismi, molti dei migranti continuano a mantenere un atteggiamento educato e composto, accompagnato in molti casi dalla voglia di sentirsi parte di un luogo e di donare qualcosa a quel luogo, come dimostratosi in seguito al terribile terremoto. Fortunatamente, l’altra parte dei media ci ha raccontato di come i migranti si siano messi all’opera in seguito al sisma, impegnati fisicamente nella macchina dei soccorsi. Azioni che fanno riflettere in tanti, esclusi coloro i quali, sistematicamente, troveranno un che di disapprovazione anche di fronte a nobili gesti come questo.


State bone e fate figli…: Sì. La Libertà delle donne fa paura

State bone e fate figli Graziella Priulla Nonostante le apparenze, nelle nostre case sopravvivono ancora residui di patriarcato e forti contraddizioni. La mamma non si tocca. Di mamma ce n’è una sola. La mamma è sempre la mamma. Una madre lo sa! Un’indagine di Terre des Hommes del 2015 rivela che quasi la metà della popolazione italiana di età compresa tra i 14 e i 19 anni crede che il ruolo principale delle donne sia quello di madri; la percentuale sale al 51% se prendiamo in considerazione solo i ragazzi. I neomaternalismi esaltano le supermamme multitasking, equilibriste dalle vite funamboliche, e fan sì che le donne si sentano colpevoli di tutto. Di lavorare. Di non lavorare. Di fare bambini. Di non farne. Di farne solo uno. L’importante è accollare alle madri la responsabilità per tutto ciò che di male accade alla famiglia e ai figli. Se tutti loro sono i meriti, saranno tutte loro anche le colpe. Nel frattempo una risacca incessante riconsegna il femminile al materno. Non è un caso che la questione riproduttiva si ponga ancor oggi come cesura e come ossessione, elemento nodale e problema trasversale, a delineare tutte le timidezze e le contraddizioni irrisolte con cui l’etica, la politica e il diritto affrontano i corpi sessuati. Il campo cruciale della riproduzione è organizzato cognitivamente e supportato emozionalmente da un’imponente produzione di materiali simbolici,

narrazioni mitiche, strutture dell’immaginario, a dimostrare quanto poco i sistemi sociali si fidino della naturalità presunta della specie, della ‘spontaneità’ del bisogno ‘primario’ di riprodursi e riprodurre. Nel lontano 1949 Simone de Beauvoir si ostinava a spiegare che nessun destino biologico vincola una donna a un ruolo di madre dalle caratteristiche che il pensiero occidentale gli ha ascritto: aprendo così la strada alla possibilità per le Casablanca 31

donne non solo (modo antico) di sottrarsi alla maternità, ma di ridarle (modo nuovo) un significato svincolato dalle costrizioni patriarcali. Una strada non facile, che sottrae a molte rassicurazioni. Anche nel dibattito femminista è il tema più cruciale e più rischioso, quello che più divide (in Italia il materno come principio primario e come specificità femminile irriducibile ha assunto forma teorica nelle posizioni di Luisa


State bone e fate figli…: Sì. La Libertà delle donne fa paura Muraro e della Libreria delle donne di Milano). Sebbene la maternità sembri oggi molto cambiata, abbiamo il diritto di domandarci se questo mutamento sia stato qualcosa di più di una semplice modernizzazione. Fino a che punto continua ad essere un discorso prescrittivo? Ancor oggi da molte parti si ritiene che il matrimonio sia “il sogno di tutte le donne” e che esse dovrebbero avere come priorità quella di sposarsi: a pensarlo è un uomo su due. Assieme al matrimonio, un uomo su tre è convinto che per le donne la maternità sia l’unica occasione per realizzarsi completamente. Secondo sette intervistati su dieci, per una ricerca di Intervita 2015, le donne dovrebbero fare sacrifici per la famiglia. Un’indagine di Terre des Hommes dello stesso anno rivela che quasi la metà della popolazione italiana di età compresa tra i 14 e i 19 anni crede che il ruolo principale delle donne sia quello di madri; la percentuale sale al 51% se prendiamo in considerazione solo i ragazzi. Beddamatresantissima, la mamma non si tocca. Di mamma ce n’è una sola. La mamma è sempre la mamma. Una madre lo sa (i proverbi sono caustici con tutti eccetto che con le madri). Del papà si parla pochissimo, come nelle fiabe in cui egli ha il solo compito di infliggere alle figlie una matrigna. Non esiste nessun’altra figura sociale che goda di questo stesso grado di accettazione e divieto di critica. I pubblicitari, gli esperti di marketing, i canzonettisti lo sanno bene: tirare in ballo la Mamma è una mossa facile e vincente. Viva la mamma. Cuore di mamma. Solo per te la mia canzone vola,. Son tutte belle le

mamme del mondo… Chi asciugava i pianti miei? Mamma buona era lei DOVERE, DOLORE, PAZIENZA Non persona, ma prototipo idealizzato. Un mito fondante nella cultura popolare, un culto dalla fortissima carica simbolica, una retorica celebrativa che trasforma una scelta in vocazione, l’amore materno in Amore Assoluto. La maggior parte di noi è cresciuta imparando che essere una brava ragazza significava anteporre i sentimenti degli altri ai nostri. «Siamo nate per soffrire» diceva mia madre, educata nella precettistica della rassegnazione: e recitava il proverbio «prima il dovere poi il piacere». Ma il piacere — lusso malvisto, eccezione pericolosa — non veniva mai. Non sapeva di perpetuare l’archetipo della mater dolorosa, presente ben prima di Maria (nella simbologia Madonna dei sette dolori, Vergine Addolorata, Madonna piangente), fin da Niobe e da Demetra. La sofferenza si confà alle donne. Dovere, dolore, pazienza sono le parole chiave («l’olocausto di sé», diceva nel 1973 Carla Lonzi). Il sacrificio di una madre non appare come l’esito di una scelta e di una responsabilità di un soggetto, ma come una reazione pre-morale che attiene alla sfera delle relazioni naturali e dei sentimenti istintivi. Perché nella maternità adoriamo il sacrificio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? scriveva Sibilla Aleramo nel 1905. La risposta è antica quanto la maledizione di Eva: Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare Casablanca 32

nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia. Paolo di Tarso Fa il bambino con tutte le tue forze, se ci lasci la vita muori pure, bene per te dal momento che muori compiendo un’opera nobile […]. Anche se stanche e alla fine devono morire, non fa nulla, lasciale affrontare la morte, esse sono qui proprio per questo. Martin Lutero Deve amare e partorire, è questo il suo sacro dovere. Fin dalla culla la donna è madre, pazza di maternità. Jean Michelet La maternità non conosce limiti e ragionamenti. La madre è sublime perché è tutta istinto. L’istinto materno è divinamente animale. Victor Hugo Le donne esistono esclusivamente per la propagazione della specie. Arthur Schopenhauer Tutto nella donna è un enigma, ma tutto nella donna ha una soluzione: questa si chiama gravidanza. Friedrich Nietzsche La maternità è la funzione caratteristica delle femmine e delle donne […] organicamente la donna è madre più che amante dell’uomo […] l’amore femminile non è in fondo che un aspetto secondario della maternità […] gli organi del sesso femminile sono non tanto genitali quanto maternali. Cesare Lombroso Le vere donne sono quelle che sanno di rinuncia, di pietà, di abnegazione, confermavano in pieno ‘900 le conferenze rivolte alle madri di Azione cattolica. Un’ideologia tenace. Il femminile


State bone e fate figli…: Sì. La Libertà delle donne fa paura materno è un sentimento avido di sacrifizii: Non dice mai le sue ragioni, anche sapendo d’averle. Si rassegna a parere d’essere dalla parte del torto, come a proprio destino, e ad abito della sua vita. I dolori che riceve, li imputa a suoi peccati. Così Nicolò Tommaseo, precettore delle mamme cattoliche. STATE BONE E FATE FIGLI Il vecchio argomento dell’invidia maschile nei confronti della capacità riproduttiva femminile è adottato dagli stessi uomini per motivare la loro supposta maggiore creatività nei campi delle scienze, del sapere e delle arti, mentre la creatività femminile si saturerebbe nel compito di mettere al mondo e curare bambini e bambine. I neomaternalismi esaltano le supermamme multitasking, equilibriste dalle vite funamboliche, e fan sì che le donne si sentano colpevoli di tutto. Di lavorare. Di non lavorare. Di fare bambini. Di non farne. Di farne solo uno. Anche da qui nasce quel fenomeno che la letteratura nordamericana definisce mother blame: accollare alle madri la responsabilità per tutto ciò che di male accade alla famiglia e ai figli. Se tutti loro sono i meriti, saranno tutte loro anche le colpe. Il Giornale.it il 7 agosto 2013 titola: Alzi la mano chi invidia una donna che non può aver figli. Credo che nessuno possa alzarla. Perché donna è sinonimo di maternità.

Nel febbraio 2016 Facebook lancia la campagna virale della sfida tra supermamme, e molte la raccolgono entusiaste: guardatemi, guardate i miei bambini così perfetti, così felici. Sono io la migliore, la più appagata, la più realizzata. A dispetto di anni di lotte è in atto una risacca che trascina all’indietro, non brutale colpo di coda ma progressivo intorpidimento che riconsegna il femminile al materno rassicurante, pacifico. La buona madre è nella mistica edificante il pellicano che sacrifica le sue piume, colei che tutto dà e nulla chiede (mia madre era una santa, mia madre era un angelo), che si concentra unicamente sui bisogni degli altri, da cui attende non solo il completamento ma il senso della propria vita; colei che non solo è stata addestrata, ma avrebbe nel dna la naturale disposizione a sacrificarsi, issata sullo scomodo piedistallo di quel potere minimo, quel contrappeso all’insignificanza che è il credersi indispensabili. L’unico concesso e praticato per secoli, come rilevava John Stuart Mill ne L’asservimento delle donne. La strettoia che vede le donne “esaltate immaginativamente” e lasciate nella “insignificanza storica” fu descritta poi mirabilmente dalla lucida consapevolezza di Virginia Woolf. Se non hai figli ancor oggi il mondo mediterraneo si stupisce

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(come mai?) segnala una mancanza, un difetto (mi dispiace!), esige spiegazioni (che cosa aspetti?): in questo tempo in cui la maternità non è più destino e non si affida più al caso, ma alla scelta e al desiderio, vige ancora la tremenda metafora del ramo secco, o della donna a metà. Esser costrette a giustificare le proprie scelte riproduttive è ancora uno dei nodi irrisolti della “condizione” femminile, a dimostrazione del fatto che è proprio risacca che trascina all’indietro, non brutale colpo di coda ma progressivo intorpidimento che riconsegna il femminile al materno rassicurante, pacifico. Non restiamo a bocca aperta quando un uomo dice che non vuole essere padre. C’è il rischio che la maternità torni ad essere l’unica fonte di potere e di riconoscimento sociale, con la nostra stessa complicità: ogni infrazione vera o presunta a doveri così tassativi essendo destinata a scatenare non solo stigmi sociali ma feroci sensi di colpa con annesse frustrazioni (il senso di colpa è utilissimo agli addomesticatori di coscienze). Il femminile prende senso ed esistenza solo nella dedizione? Si può essere madri (e compagne) senza annullarsi nel dono d’amore? Negli interni delle nostre case si vivono forti contraddizioni, sopravvivono residui di quel potere patriarcale che nella sfera pubblica sembrerebbe in declino. Non si esce facilmente da millenni in cui le donne sono state educate in funzione dell’altro.


Contro la violenza di Genere, partiamo dalla Calabria

Contro la violenza di Genere partiamo dalla

Calabria Franca Fortunato A Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, sette brutti ceffi fra cui un minorenne, per due anni hanno violentato una ragazzina di tredici anni. Per due anni si sono divertiti con angherie e violenze. Imposto il silenzio minacciando di diffondere immagini intime registrate. Come è potuto accadere? Prima il principe azzurro, l’amore… Un grande amore che la presterà agli altri amici. Altri sette personaggi. Per due anni la bambina è stata costretta a soddisfare le voglie dei sette ragazzi, anche contemporaneamente. Tutto filmato e fotografato. Oltre Giovanni Iamonte figlio del boss del paese e capo del gruppo, tra gli arrestati anche il figlio di un maresciallo e il fratello di un poliziotto. Un ventaglio di opzioni. E questa la dice lunga sulla violenza di genere. Giovanni Iamonte (30 anni), Daniele Benedetto (21), Pasquale Principato (22), Michele Nucera (22), Davide Schimizzi (22), Lorenzo Tripodi (21), Antonio Verduci (22), Domenico Mario Pitasi (24), G. G. al momento dei fatti minorenne, sono questi i nomi degli uomini che a Melito Porto Salvo, provincia di Reggio Calabria, per due anni hanno stuprato una ragazzina di tredici anni. Una vicenda che ripropone quella di Anna Maria Scarfò, la ragazza di San Martino di Taurianova che ha avuto il coraggio di denunciare i suoi violentatori e mandarli in galera. Tutto ha inizio, come per

Anna Maria, con un ragazzo di cui lei si fidava e che considerava il suo fidanzato. È lui – come per Anna Maria – che porta prima uno e poi gli altri suoi amici del

branco, che a turno e insieme la violenteranno dalla fine del 2013 agli inizi del 2015. L’andavano a prendere all’uscita da scuola e la Casablanca 34

portavano al cimitero vecchio, oppure al belvedere o sotto il ponte della Fiumarella. Più spesso in una casa sulla montagna a Pentidattilo, dove la stupravano, tenendola ferma per i polsi e poi – come ha raccontato alla psicologa – la obbligavano a rifare il letto: «C’era una coperta rosa»; «E non avevo più stima di me stessa. Certe volte li lasciavo fare. Se mi opponevo, dicevano che ero incapace. Mi veniva da piangere». A casa non mangiava più. Spesso mancava da scuola. Mentre frequentava un istituto di Reggio Calabria ha scritto un tema sui suoi genitori. La brutta copia l’ha lasciata a casa e la madre l’ha letta. È stata la ragazzina a spiegare alla psicologa


Contro la violenza di Genere, partiamo dalla Calabria cosa ci fosse scritto: I «miei genitori si stavano separando. E nonostante io non abbia detto niente per proteggere anche loro, ero un po’ arrabbiata perché comunque non si sono mai accorti …». Dalla lettura di quel tema ha inizio per la madre e il padre la presa di coscienza del dramma della figlia. Scelgono di tacere. Dirà il padre: «Tante volte avrei voluto andarmene da questa situazione. Non mi piace usare la parola schifo, perché a Melito ci sono cresciuto. Ma se potessi, se non avessi il lavoro, prenderei mia figlia e la porterei lontano. Abbiamo cercato solo di difenderci». Difendersi? E da chi? Dalla violenza della famiglia Iamonte, il cui figlio Giovanni capeggia la gruppo? Sicuramente un cognome che incute paura, e spiega l’omertà di quanti nel paese sapevano ma non hanno parlato, né durante gli anni delle violenze né dopo l’arresto. Anche per Anna Maria probabilmente è stato così, prima della denuncia. Tra i suoi violentatori vi erano anche dei mafiosi. Quando poi ha trovato il coraggio di denunciare i suoi aguzzini, il paese intero, e prima di tutto le donne degli accusati (madri, mogli, sorelle, figlie), si scagliarono non contro i violentatori ma contro di lei per averli denunciati. La processarono, la insultarono pubblicamente, la isolarono e la minacciarono per costringerla a lasciare il paese insieme ai suoi genitori. DICIAMOLO “SE L’È CERCATA” Organizzarono anche un comitato e una manifestazione in difesa della comunità “criminalizzata” dai mass media. E come se non bastasse, per salvare i loro uomini, tentarono di screditarla con accuse che in questi giorni abbiamo

riascoltato nei confronti della ragazza di Melito e le prime ad accusarla sono state ancora una volta alcune donne, trasformando la vittima in carnefice e viceversa. “Se l’è cercata, è una che non sa stare al suo posto”, “Per come si vestono certe ragazze se la vanno a cercare”, “Sapevo che era una ragazza movimentata”, “Siamo dalla parte delle famiglie dei ragazzi, lei li ha provocati”. Gli arrestati hanno negato tutto, come a uno di loro aveva consigliato di fare il fratello intercettato, che di mestiere fa il poliziotto: «Quando ti chiamano, tu vai e dici: non ricordo nulla! Non devi dire niente! Nooooo. Davide, non fare lo “stortu”. Non devi parlare. Dici: guardate, la verità, non mi ricordo. E come fai a non ricordare? Devi dire: sono stato con tante ragazze, non mi ricordo». Quanta complicità maschile ci può essere anche dietro a una divisa! Quanta omertà mafiosa ci può essere anche dietro a una divisa! Un altro stupratore arrestato, Antonio Verduci, è figlio di un maresciallo dell’esercito. Che a Melito, Comune sciolto più volte per mafia, regni la paura e l’omertà lo sanno bene le ragazze e i ragazzi del presidio di Libera della Valle del Tuccio “Nino Marino”, fondato da una giovane donna, Rosaria Anghelone. «Davanti a quello schifo – ha raccontato in un’intervista a Nando della Chiesa sul “Fatto Quotidiano” (17.09.2016) – ho sentito addosso, da donna, tutto il dolore della ragazza: da calabrese, invece, tutta la rabbia. Sì rabbia, perché quelle strade le ho percorse per cinque anni di liceo, quei volti per me sono voci e storie conosciute, quel Melito silenzioso è lo stesso che cerchiamo di combattere anche attraverso i campi estivi. Una cosa indecente. Un comportamento omertoso e mafioso sia durante gli anni delle Casablanca 35

violenze che dopo. Lo strapotere degli Iamonte legittimato dal silenzio di un intero paese. Era impossibile voltarsi dall’altra parte». Consapevole che quanto accaduto alla ragazzina «non era un fatto privato ma un grande fatto pubblico da denunciare a testa alta davanti a tutti». Rosaria ha pensato di reagire, di non stare ferma. Ha proposto e organizzato insieme a Libera regionale, in segno di vicinanza alla ragazza stuprata, una fiaccolata silenziosa per le vie del paese, che si è svolta il 9 settembre. La stampa della fiaccolata ha messo in evidenza la poca partecipazione della comunità di Melito e Rosaria si è infuriata, perché si era spesa molto per la riuscita di quella iniziativa, da lei fortemente voluta. «Melito è davvero un territorio difficile. Per ora un obiettivo può considerarsi raggiunto: dalle mezze frasi pronunciate a voce bassa nelle case private siamo passati a parlarne pubblicamente e a creare dibattito sulla vicenda. È un piccolo primo passo, certo». LA SPERANZA «Ma lei pensa che fosse facile mobilitare qui quasi 500 persone – continua Rosaria nella sua intervista con Dalla Chiesa – e il numero è quello vero perché so bene quante fiaccole avevamo portato? Qui, dico, in un posto circondato da comuni commissariati per mafia?». Tra la folla che ha attraversato in silenzio le vie di Melito, donne e uomini, famiglie con bambini, c’era anche il padre della ragazzina stuprata. «Per Melito è davvero una cosa straordinaria. Addirittura lungo il tragitto della fiaccolata c’erano esercizi commerciali con le serrande abbassate a metà, la luce spenta e i proprietari fuori! O vecchiette che dalle case scendevano in strada per dare il loro sostegno anche solo con un


Contro la violenza di Genere, partiamo dalla Calabria saluto. Quasi 30 sindaci della provincia, i sindacati di zona, i dirigenti scolastici e le tante associazioni che avevano aderito». Abbiamo parlato al paese, dice Rosaria. Ha fatto bene Rosaria ad infuriarsi e a rilasciare quell’intervista perché lei e le altre ragazze e ragazzi con cui ha preparato la fiaccolata sono la “migliore gioventù” della Calabria coraggiosa e non silente. Il 21 ottobre a Melito ci sarà una grande manifestazione indetta dal presidente e dalla Giunta regionale per «rompere ogni omertà e fare emergere la Melito e la Calabria migliore». Ma la Melito migliore – come si evince dal racconto di Rosaria – e la Calabria migliore sono già emerse con quanti hanno partecipato alla fiaccolata, con la presa di parola dei centri antiviolenza calabresi, con l’indignazione di tante donne e uomini. Non si faccia l’errore, però, di assimilare la lotta alla violenza maschile verso le donne alla lotta contro la ’ndrangheta, perché così non è. Pensare e fare pensare che in Calabria la violenza maschile sulle donne sia legata, prima che all’essere uomini, alla ’ndrangheta sarebbe un modo per circoscrivere la questione alla Calabria e alla presenza mafiosa. Ma tutte e tutti sappiamo che così non è. Tutti gli stupratori impongono il silenzio alle loro vittime con minacce e intimazioni, come ha fatto il branco con la ragazzina di Melito e così pure con Anna Maria Scarfò. Non si faccia l’errore di pensare che l’unico motivo del silenzio sia l’omertà e la mafiosità del paese. Perché così non è, in esso c’è molta complicità femminile con quella cultura dello stupro – come dimostrano le accuse alla ragazzina – che molti uomini condividono con consapevolezza, come il fratello

poliziotto di Davide Schimizzi. La questione della violenza maschile, dello stupro, dell’uccisione delle donne è una questione più complicata e riguarda gli uomini a qualunque latitudine essi vivano. «Purtoppo – scrive Stefano Ciccone dell’associazione nazionale Maschile Plurale, una rete di uomini che da tanti anni in tutta Italia si batte contro la violenza maschile e contro la cultura in cui questa violenza nasce – la violenza degli uomini contro le donne ha radici profonde dentro di noi, nell’idea di amore come possesso, nell’incapacità di accettare e riconoscere la libertà e l’autonomia della nostra compagna, nel mescolare protezione e controllo, sostegno e affermazione del proprio potere». LA “QUESTIONE” DEGLI UOMINI «Per questo – continua – nessuno può sentirsi estraneo a questa chiamata in causa, la violenza chiede innanzitutto a ognuno di noi di riflettere sulle nostre complicità, sulle nostre pigrizie e sulle nostre ipocrisie. Oltre ad incoraggiare le donne a denunciare dobbiamo vedere quanti, in famiglia, al lavoro, tra amici, voltano la testa dall’altra parte lasciando sole le donne». L’indignazione che in Calabria molti uomini hanno espresso, e non era scontato che lo facessero, o si trasforma in occasione per aprire un dibattito sulle radici della violenza e sulla cultura da cui essa nasce, oppure ben presto si spegnerà, per poi riaccendersi alla prossima violenza. Per il 24 novembre trenta uomini dell’associazione Maschile Plurale hanno proposto con un appello una manifestazione nazionale a Roma di soli uomini ed hanno invitato gli altri uomini a organizzare incontri, dibattiti, riflessioni in tutte le città per prendere la parola in prima Casablanca 36

persona. «La violenza degli uomini verso le donne – si legge nell’appello – ormai ne siamo consapevoli, nasce nella nostra normalità. Mette in discussione la nostra cultura, le nostre aspettative, le nostre frustrazioni, il nostro modo di stare al mondo e nelle relazioni. Condannare la violenza senza riconoscere la cultura che la produce e la giustifica, è un gesto vuoto». Sono sempre di più le città italiane in cui uomini organizzano dibattiti e discussioni, mettendo al centro se stessi, chiedendo ad altri uomini di prendere la parola e di impegnarsi contro la violenza. Non si tratta né di processare se stessi, né tantomeno di ergersi a difensori delle donne dagli altri uomini, riproponendo l’idea delle donne vittime, deboli, bisognose di protezione maschile. «Quante volte – scrive Ciccone – questa idea ha autorizzato un uomo ad affermare il proprio controllo e il proprio dominio?». La stessa idea che quest’estate a Nicotera ha spinto Demetrio Putorti a gambizzare la sorella Marisa perché non si lasciava “controllare”, “dominare”. Gli uomini di Calabria facciano, dunque, un passo avanti, vadano oltre l’indignazione del momento, la solidarietà, le manifestazioni, gli appelli alle donne a denunciare. Uomini come quelli di Maschile Plurale sarebbero disposti ad aiutarli se solo prendessero l’iniziativa di organizzare dibattiti, confronti, riflessioni tra uomini per prendere la parola in prima persona e non in quanto istituzioni e cominciassero, così, ad aprire una strada nuova per sé e i loro figli, perché noi donne siamo stanche di tanta violenza. .


Roberto Mancini poliziotto e comunista

“I Compagni del 32” Alessio Di Florio Roberto Mancini non è solo il calciatore. In alcuni ambienti lontano dal calcio c’è un altro Roberto Mancini conosciutissimo da molti, era un poliziotto particolare. È stato il primo poliziotto ad indagare sugli sversamenti illegali nella “Terra dei Fuochi”, sui traffici criminali della camorra prima ancora che l’intero paese sapesse e capisse cosa stava succedendo in Campania. Forse aveva scoperto qualcosa che non si poteva dire, qualcosa che dava noia a troppe persone ed è stato lasciato solo. Il suo importantissimo lavoro sul traffico di rifiuti tossici nella Terra dei Fuochi lo portò per lungo tempo a contatto con i rifiuti radioattivi e tossici. Mentre svolgeva indagini sullo sversamento di materiale illegale in Campania, il poliziotto si ammalò di tumore – il linfoma non Hodgkin – e ne morì dopo dodici anni. Roberto Mancini. Un nome conosciutissimo in tutto lo Stivale, e pronunciato milioni di volte nelle case italiane. Un grande calciatore, un grande allenatore di calcio. Eppure c’è un altro Roberto Mancini che dovremmo conoscere, e a cui l’Italia intera dovrebbe tributare un grande moto di gratitudine perpetuo. Nei mesi scorsi per qualche giorno la sua storia ci ha fatto commuovere grazie alla fiction di Beppe Fiorello. Ma, come sempre accade, la commozione dura un attimo e poi vola via. E il nostro Roberto è tornato, ingiustamente,

nell’oblio. Nato a Perugia nel 1961, Roberto Mancini è morto il 30 aprile 2014 a dodici anni dalla diagnosi di linfoma non Hodgkin contratto per la ripetuta vicinanza con i rifiuti

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tossici e radioattivi della “Terra dei Fuochi”. Infatti, quando ancora si era ancora ben lontani dal comprendere quel che stava accadendo in Campania, è stato il primo poliziotto ad indagare sugli sversamenti illegali nella “Terra dei Fuochi”, sui traffici criminali della camorra, su quello che anni dopo sarebbe stato definito “biocidio”. Nei mesi scorsi una appassionata e intensa biografia di Roberto Mancini è stata pubblicata dalla casa editrice Chiarelettere, il libro Io, morto per dovere


Roberto Mancini poliziotto e comunista scritto dai giornalisti Nello Trocchia e Luca Ferrari insieme con la vedova Monika Dobrowolska. Ripercorrerne tutte le tappe della vita, immedesimando il lettore nelle sue svolte – quando ci si trova davanti ad una persona straordinaria come Roberto Mancini – non è assolutamente facile. Ma Io, morto per dovere, e la stessa fiction di Fiorello, dimostrano che è possibile. Negli anni del Liceo Ginnasio Augusto di Roma Roberto frequenta un collettivo di sinistra che troverà uno sbocco politico vicino a Democrazia Proletaria, scende in piazza insieme ai compagni e partecipa al fermento studentesco di quegli anni. Dopo la maturità sceglie di diventare poliziotto ma, come scrisse lui stesso, rimase sempre dalla stessa parte. Il poliziotto con Il Manifesto sotto il braccio, ligio al dovere ma insofferente al potere, ai soprusi, sempre schierato con i più deboli e con una capacità straordinaria di dialogare e convivere con gli ultimi e gli emarginati. Insofferente dietro una scrivania e che aveva una pistola solo perché obbligato (tant’è vero che pare non la usò mai), di fronte ad un’occupazione abitativa a rischio sfratto cercava la mediazione per trovare la miglior soluzione per chi era nel bisogno. Dopo diversi anni in Toscana e Umbria, Roberto Mancini giunse alla Criminalpol di Roma. Era la metà degli anni Ottanta, gli anni in cui si cominciò ad indagare sui boss presenti nella Capitale e ad

arrestarli. Iniziò in quei mesi il viaggio che lo porterà ad indagare sulle ecomafie, sui crimini ambientali della camorra e sulle complicità politiche ed economiche. SEMPRE DALLA PARTE DEI PIÙ DEBOLI Il 12 agosto 1989, con il contributo decisivo di Roberto Mancini, furono arrestati diversi boss, fra i quali Enzuccio designato come capozona di Afragola in contrapposizione con Raffaele Cutolo. Enzuccio e la sua famiglia riciclavano denaro sporco in appalti pubblici e investivano in Sardegna, Campania e basso Lazio. Un altro grande successo della squadra di Roberto si diede nell’ottobre di quattro anni dopo, quando con l’operazione “Tridente” fu stroncato il traffico di cocaina dal Sudamerica degli eredi di Frank Coppola. Da un successo all’altro sta per maturare il salto definitivo verso “l’inchiesta” della sua vita. Nel 1994 a firma di Roberto Mancini ecco l’inchiesta sulla Banca Industriale del Lazio a Cassino, un’inchiesta per “riciclaggio di denaro e

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associazione di stampo mafioso”. Tra i finanziatori della banca c’era anche Cipriano Chianese, che sarà poi al centro della principale inchiesta di Roberto. Carmine Schiavone ai magistrati dichiarerà che “nel 1994 l’avvocato Cipriano Chianese era impegnato nell’attività di apertura di una banca a Cassino dove sarebbero stati reinvestiti i proventi illeciti del traffico di rifiuti”. L’inchiesta negli anni successivi finì nel nulla in quanto gli indagati, dopo che la Direzione Distrettuale Antimafia derubricò il reato, furono tutti assolti. Nelle audizioni alla Commissione Parlamentare presieduta da Scalia sul ciclo dei rifiuti Schiavone riferì di camion che partivano dalla Ciociaria diretti in Toscana, Germania e Nord Italia da cui ripartivano per il Sud Italia carici di rifiuti tossici e nocivi. Il 23 ottobre 1997 l’allora Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia De Ficchy, audito dalla stessa commissione, evidenziò che, secondo alcune indagini, certi gruppi criminali avevano un controllo del territorio nelle zone di Cassino e Frosinone. A Patrica, in provincia di Frosinone, l’anno prima era stato segnalato un interramento di bidoni e di sversamento notturno da parte di camion provenienti dalla Gran Bretagna e dalla Croazia. Altre indagini interesseranno un altro sito, a Ceprano, dove sarebbero stati smaltiti decine di fusti tossici, e altri comuni.


Roberto Mancini poliziotto e comunista Dieci anni dopo la Digos di Frosinone e il Corpo Forestale dello Stato bloccano nelle cave di Coreno Ausonio – nel Cassinate ed ai confini con le province di Latina e Caserta – l’arrivo di undici tir carichi di rifiuti e provenienti dalla Campania. LE SUPERINCHIESTE DI ROBERTO Secondo le informative di Roberto negli anni 1988 e 1989 la camorra entrò nel business dei rifiuti, consolidatosi dopo la ratifica del “patto di Villaricca” tra camorristi (tra cui Bidognetti, il braccio destro di “Sandokan Schiavone”), massoni (tra cui emissari di Licio Gelli) e imprenditori (tra cui secondo alcune ricostruzioni giornalistiche e le dichiarazioni di pentiti, come Nunzio Perrella, proprio coloro che furono poi protagonisti delle informative di Roberto) riunitisi presso il ristorante “La Lanterna”. Dopo due anni di indagini, Roberto Mancini consegnò nel 1996 alla direzione distrettuale antimafia di Napoli una dettagliatissima informativa sullo smaltimento criminale di rifiuti nella “Terra dei Fuochi” manovrato dal clan dei Casalesi. Un’informativa che rimase inascoltata per anni fino all’intervento del pubblico ministero Alessandro Milita, che porterà avanti le indagini di Roberto fino a giungere al processo Resit, dal nome della discarica di Giugliano al centro del processo. Un processo che ha visto la sentenza di primo grado

emessa solo lo scorso 15 luglio. Cipriano Chianese, considerato negli anni inventore e “re” delle ecomafie, è stato condannato a vent’anni, Gaetano Cerci (che secondo alcuni pentiti avrebbe avuto anche legami con la P2 di Licio Gelli) a sedici anni, l’ex subcommissario per l’emergenza rifiuti nel periodo 2000-2004 Giulio Facchi a cinque anni e sei mesi. In uno stralcio di questo processo tre anni fa il boss Francesco Bidognetti è stato condannato a vent’anni per inquinamento delle acque e disastro ambientale aggravato. Roberto Mancini, non ha potuto assistere alle condanne (per quanto in primo grado) seguite alle indagini per le quali ha dato la vita. Letteralmente fino all’ultimo. Perché, come già accennato, era tanto insofferente alla burocrazia,

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alle scrivanie, alla cieca obbedienza quanto ligio al dovere, all’impegno contro soprusi ed ingiustizie. Un poliziotto comunista a suo agio più sulla strada, anche tra i barboni, che nei palazzi. Ad un amico che, poco prima della morte, gli chiese perché ancora continuasse a pensare alle indagini di una vita rispose “Te stai ad amalgamà? Non è finito un cazzo”. Il giorno dopo il funerale la moglie Monika e il fratello Fabrizio al cimitero trovarono, sorpresi, una corona di fiori firmata “I compagni del 32”. Il 32 è il numero civico di una strada di Roma. Ma non una strada qualsiasi, è il civico di via dei Volsci, è lo stabile sede oggi di un centro sociale occupato e che negli anni Settanta è stata la storica sede di Autonomia Operaia.


India: il Monsone è il primo NO GLOBAL

India: il Monsone è il primo NO GLOBAL Eleonora Corace Arrivati a New Delhi o in qualsiasi altro posto dove il monsone impera, la prima cosa che ti assale è l’odore: il monsone amplifica, esaspera l’aria, che ti sbatte contro e ti prende a schiaffi. E gli odori ti inseguono, ti colpiscono, ti assalgono, ti prendono a morsi e tornano alla carica quando cerchi di respingerli. Ti stringono la gola, ti intontiscono, ti inebriano. Dici “India” e pensi alle immagini di povertà estrema, stile Città della gioia, stile odioso pietismo alla Madre Teresa di Calcutta, poi arrivi e… Nell’epoca della globalizzazione e del conseguente villaggio globale, il monsone è lì per ricordarti che no, non si può rappresentare tutto, e soprattutto non si può fotografare tutto. Nell’epoca delle immagini, della narrazione del reale, c’è sempre un resto di realtà irrappresentabile che è l’aria e l’odore. Quell’odore che le nostre democrazie asettiche cercano accuratamente di eliminare o eventualmente uniformare. Odori di corpi. Quei corpi dimenticati, elasticizzati, disinfettati in Occidente, qui esposti in tutta la loro biologia oscena. Odore di miseria, quella degli scarti del progresso, quella dei resti necessari del capitalismo. Odore di spezie, pungente, magnifico, esotico, che racconta. Odore di fiori che sbocciano ovunque, fermentati dall’esuberanza di una natura abbondante, eccessiva, e che

marciscono nei templi, gettati come offerte insieme agli oli profumati. Odori di strada, di terra umida, benzina, fogna. Odore di cibo, street food, cibo fritto goloso, un po’ meno il modo in cui viene preparato. Questo odore, l’insieme di questi odori che dipingono l’Oriente, sbeffeggia ogni rappresentazione occidentale armata di macchina da presa, fotocamera o smartphone. Infrange la pretesa di conoscere già tutto, che tutto il mondo è già a casa tua… A Delhi le strade feriscono. Fanno male. Tutta la città sembra un drago ruggente e incattivito. Non è ospitale Delhi, non è una città, ma una megalopoli piagata dalle disuguaglianze sociali e dai grandi squilibri urbani. Alle 7:00 del mattino, alla stazione centrale, dormono tutti: dormono i derelitti a terra, ricoperti da nugoli Casablanca 40

di mosche (e sono tanti, troppi); dormono i conducenti dei risciò, sui sedili dei loro minuscoli mezzi, non possiedono altro. Un abbandono e un degrado informe, nella zona stazione e nella città vecchia, che coinvolge case, uomini e bestie. Tutto insieme, amalgamato, sporco, caotico. Merci nei carretti, piaghe esposte, donne velate, mendicanti, bambini, fango. Corpi esposti, vinti, eccentrici. Umiliati. Corpi e miseria oltre ogni controllo, immaginazione. Il territorio urbano è infranto. A pezzi, come la società, almeno dal punto di vista dei vecchi rapporti e delle vecchie solidarietà. Le strade sono invisibili, la guerra di casta o di classe sembra riprodursi sulla carreggiata in una lotta senza quartiere dove non c’è pietà per il più debole: il pedone (privato quasi sempre del marciapiede), che sia una donna con i bambini, un


India: il Monsone è il primo NO GLOBAL vecchio o un turista. Le strade raccontano di antagonismo, violenza, rabbia e fame. Di povertà trasformata dal progresso in miseria. Queste sono Jaipur e Delhi, i colpi dei clacson vibrano dentro e frantumano i nervi, l’aria è densa di smog. Fuori dal centro urbano, passando con il pullman o in treno, si vedono grandi città satellite, vere cattedrali nel deserto. Forse è lì che stanno i ricchi, o sicuramente quelli che se la passano meglio, che non vedrai mai per strada. Oasi sopravvissute al disfacimento e alla guerra urbana, oltre i parchi, Connaught Place a Delhi e il centro della città rosa a Jaipur. Nella prima si incontra la gente, una tipologia tranquilla, persone che parlano con gli stranieri, vivaci, educati, “europei”. A Jaipur le coppiette e gli studenti vanno al McDonald’s e al cinema. Nel vecchio bazar della città rosa il tempo è un po’ sospeso e i ritmi più rilassati. Mercanzie di tutti i tipi, spezie e scimmie-ladre che rubano il cibo di strada delle bancarelle.

Il Rajashtan (l’India magica e dei Maharaja), oltre i riflettori turistici su forti e monumenti meravigliosi, è una terra lasciata a sonnecchiare ai margini della modernità. Il Deserto del Thar più che sabbioso è roccioso, pieno di cespugli dall’aria tagliente, resi un po’ più vivi dalla stagione monsonica che

mitiga il clima e allaga intere pianure. Attraversando la regione con i pullman pubblici o con i treni di seconda e terza classe (dove solo i viaggiatori si avventurano, raramente i turisti) si vedono villaggi polverosi dove spiccano i turbanti colorati degli uomini e le donne camminano con il velo del sari sopra il viso per difendersi dalla polvere. Mucchi di capanne nel nulla, con bambine che pascolano ispide capre. Qua e là qualche carcassa d’animale, le ossa bianche contro la sabbia, ricorda gli scenari dei film western di Sergio Leone o qualche illustrazione di Tex. Il protagonista indiscusso del deserto, però, è il dromedario, con la sua costituzione asciutta e terrea, che lo fa sembrare un fossile di sé stesso. Tuttora utilizzato per il trasporto di persone e merci anche in ambito urbano, è impiegato soprattutto nei safari, nelle zone del nord-ovest del paese, là dove il deserto di roccia si sgretola a tratti in affascinanti dune di sabbia ocra. Attorno al loro possesso ruota un’economia millenaria, incrementata dai proventi del turismo, che ha il suo culmine nelle fiere di Jaisalmer e Pushkar, dove venditori e acquirenti siedono per giorni e giorni a bere chai (tè servito sempre con latte) e contrattare. Vita più difficile è quella delle guide dei safari, che non sono i diretti possessori dei cammelli, ma che sono sfruttati dai proprietari. Soprattutto i ragazzini. Nel Rajasthan come nella maggior parte dell’India le scuole sono poche e spesso quelle pubbliche inesistenti. Il lavoro minorile è inoltre legittimato da una legge dello Stato che lo accetta se fatto Casablanca 41

“per aiutare economicamente la famiglia” (fonte Indiatoday). Il risultato è che girando per il paese si viene circondati da minori che lavorano: nelle cucine, oppure come camerieri, cammellieri, venditori di cianfrusaglie e di giornali. Caso a parte è quello delle donne. Camminando per le strade delle regioni nord-occidentali del paese, comprese molte parti della capitale New Delhi, più che avere l’impressione di una società sessista si arriva a pensare che quella indiana sia una società esclusivamente maschile: non si incontrano donne, o se le si incontra, sono solo nei mercati o accompagnate da membri della famiglia. Non si vedono donne lavorare, ci spiegano che è molto difficile per una donna accedere al mondo del lavoro in generale e che, comunque, prima di provare deve avere il consenso di entrambi i genitori. Questo ovviamente si riferisce alla classe medio-bassa, la classe intellettuale e ricca, vive con standard assolutamente occidentali, sia per quanto riguarda il lavoro che l’istruzione. Entrando nella nuovissima e funzionale metropolitana di New Delhi, cartelli enormi informano che “è un posto fatto su misura per le donne”… infatti, la prima carrozza di ogni metropolitana è esclusivamente riservata al sesso femminile ed un uomo che venisse scoperto a infrangere la separazione di genere guadagnerebbe una multa di 250 rupie. Il lago di Pushkar è sacro. È uno dei posti più sacri dell’induismo. Leggenda vuole che sia stato creato da un fiore di loto caduto direttamente dalle mani di Brhama. Infatti è piccolo, raccolto, circolare. Qui sono state gettate una parte delle ceneri di Ghandi e di Neru, qui vengono i fedeli indù a fare pellegrinaggio, mentre sotto


India: il Monsone è il primo NO GLOBAL la collina su cui sorge il paese, a solo mezz’ora di autobus, assolutamente dimenticata dai circuiti turistici, la città di Ajmer, considerata uno dei posti più sacri dell’Islam. Pushkar è piccola, le stradine tortuose e sporche, sia per il fango sia per le mucche, che qua abbondano persino di più che in altri centri urbani del paese, lungo le strade negozietti di souvenir di ogni tipo, ristorantini, centri yoga e agenzie di viaggi, che sanno molto di parco giochi per occidentali; in mezzo a tutto questo, passano, scalzi, spesso poveri, file su file di pellegrine e pellegrini diretti al lago. Sui ghat, i gradoni sacri sull’acqua, tra i piccioni e le mucche, la gente si spoglia e si fa il bagno; dove capita gli uomini, spesso a petto nudo se non completamente; più in disparte le donne, a gruppi numerosi, sempre con un sari indosso: solo qualcuna, audacemente, sfila la tunica per

avvolgersi in un lenzuolo prima di immergersi nelle acque sacre. Pochi sacerdoti e poche preghiere. Tutta la grandezza e la forza mistica del rito risiede nel bagno in sé, nell’atto semplice, quotidiano, per così dire “materiale” di bagnarsi, di entrare in contatto con l’acqua. Le mucche, vengono giudicate sacre perché mitologicamente una mucca fece bere il proprio latte al dio Shiva. Ad essere trattata con tutti i riguardi del sacro, però, non è un’astratta e generica idea di mucca, ma il corpo di ogni singolo bovino. L’intero corpo, la carne, il sangue, gli umori. Varanasi la meta di pellegrinaggio più intenso e devoto. Qui “madre” Gange accoglie i suoi figli da tempi immemorabili, l’induismo è, Casablanca 42

infatti, la religione più antica del mondo. Accoglie i vivi, i malati e, soprattutto, i morti. Almeno 100 corpi al giorno vengono bruciati sui ghat crematori della città. I morti vengono avvolti in stoffe preziose e colorate, come grosse caramelle pronte per un ricevimento di gala, sono trasportati in barelle fino alle acque misericordiose della Madre. Questo avviene in vicoli tortuosi e stretti, spesso in pietra rossa, antichi, umidi, traboccanti di gente e odori. Tutti gli odori che il monsone raccoglie e sparge nelle strade dell’India, più uno, particolare, quando soffia il vento delle pire verso la città… Varanasi è povera, elegante a modo suo, d’una eleganza di stracci, di profumi troppo forti, di mendicanti, di supplici. Fervente e mesta ad un tempo. Nella stagione del monsone, spesso la grande Madre esonda, travolgendo i gradoni, dilagando nelle viuzze decrepite, allagando i bazar sbilenchi, costringendo le cerimonie funebri su piccole barche arrangiate. E nella piena impetuosa del fiume marrone, inquinato, spiccano come ricami, mucchietti di cenere accompagnati da corone di fiori... *foto di Antonio Mazzeo


La Buona Scuola dice NO

Il dissenso manganellato Claudia Urzì

Io sono un’insegnante. Un’insegnante della Scuola Pubblica Statale, la scuola della Costituzione. E faccio anche parte del Coordinamento Nazionale dell’USB PI Scuola. Un mese fa, noi insegnanti siamo scesi in piazza contro le deportazioni previste dalla Buona Scuola, che prevede una mobilità che ha causato un vero e proprio esodo forzato dal sud al nord. Ancora una volta, un sud terra d’emigrazione e sempre più svuotato. Un dramma quasi esclusivamente al femminile: colleghe che insegnano da più di vent’ anni nelle scuole pubbliche di questa Repubblica, costrette a lasciare i propri figli, la propria terra, a causa di un vergognoso accordo sulla mobilità, previsto dalla legge n. 107/2015, meglio conosciuta come “Buona Scuola”, e siglato dai sindacati concertativi Cgil, Cisl, Uil e Snals. Catania, dal 28 agosto all’ 11 settembre, è stata sede della Festa

Nazionale del PD all’interno di Villa Bellini, il giardino comunale della città che, nei suddetti giorni, sarebbe stata scippata letteralmente ai suoi cittadini. Catania viene blindata. Dopo la tragica esperienza di Genova nel 2001, una “zona rossa” invalicabile viene istituita anche a Catania: vengono interdette le due entrate laterali di Villa Bellini, mentre rimane “aperta al pubblico”, ma presidiata e blindata, soltanto l’entrata principale da via Etnea. Il PD e il suo governo vanno contestati. Solo la prima sera riusciamo ad entrare ma, riunitici poi all’interno della Villa con un piccolo gruppo di insegnanti e qualche rappresentante dei senza casa, veniamo fermati dalla Digos di Catania che ci impedisce di accedere al piazzale con gli stand e il palco fino alla chiusura del dibattito, che aveva visto come protagonisti il sindaco di Catania, Enzo Bianco, il presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, e Barbara Serracchiani, presidente della Regione Friuli Venezia Giulia. Entriamo quindi sui titoli di coda e prendiamo posto in platea, decidendo di restare fino al dibattito previsto un’ora dopo e che avrebbe visto sul palco il Casablanca 43

Ministro Graziano Del Rio. Del Rio “L’ ITALIA CHE DICE NO”, “#renzistaisereno”. “L’ Italia riparte dal sud è uno dei vostri vuoti slogan” — grido dal mio posto — “ma da quale sud dovrebbe ripartire, se lo state svuotando e ancora una volta il sud è terra d’emigrazione?!”. L’ intervento di Del Rio per una decina di minuti è interrotto e la nostra contestazione viene filmata

dai media nazionali e locali presenti, fa il giro del web e si guadagna il titolo di molte testate giornalistiche: “Gli insegnanti a Catania contestano Del Rio”. Piccola soddisfazione se questa è la strada per far conoscere le problematiche.


La Buona Scuola dice NO Il PD contestato a Catania. La notizia c’è. E da lì un crescendo. Il 1^ settembre contestiamo la ministra Giannini, che non si presenta, il sottosegretario Faraone e la senatrice Puglisi. Contestazione fuori la Villa, insieme agli studenti, e dentro con i nostri cartelli. I titoli dei giornali sono sulle contestazioni a Catania, su una città blindata con controlli all’entrata di Villa Bellini con il metal detector anche ai bambini, sui ministri in fuga in tutta Italia. “Siamo gli insegnanti dei vostri figli”! Le contestazioni non accennano a diminuire. Insieme ai NO MUOS, sotto una pioggia battente, contestiamo la ministra Pinotti e la guerra. RENZI “IN TENUTA ANTISOMMOSSA” L’11 settembre arriva Renzi. Grazie alle contestazioni dei giorni precedenti e alla piattaforma virtuale “Cacciamo via Renzi e la sua cricca” in piazza siamo mille! Insegnanti, studenti, sindacati di base della scuola, USB e Cobas, partiti e realtà di sinistra, i cinquestelle… Con le nostre bandiere, i nostri striscioni, i nostri slogan, le nostre voci, la nostra rabbia percorriam via Umberto diretti verso via Etnea e Villa Bellini. Con il megafono cerchiamo di fargli arrivare tutta la nostra rabbia e l’indignazione contro un governo sordo e criminale, capace di ignorare gli scioperi della scuola che hanno visto adesioni al 90%. In un paese normale il governo si sarebbe dimesso il giorno successivo. Ma in Italia invece

l’arrogante governo Renzi pone la fiducia sul D.D.L., osteggiato e contestato ovunque, che diventa così la legge n. 107/2015, la tanto odiata “Buona Scuola”. Una legge che ha introdotto la chiamata diretta da parte del preside, in

barba a graduatorie pluriennali, garanzia di trasparenza e alimentando il clientelismo, male endemico della nostra Sicilia e del nostro paese, tutto intero. Un preside/sceriffo acquisisce così un potere enorme a spese degli organi collegiali che vanno perdendo il proprio ruolo di rappresentanza. Ha introdotto il bonus di valutazione che decreta insegnanti di serie A e di serie B e divide ulteriormente la categoria e l’alternanza scuola/lavoro per gli studenti delle scuole superiori, vero e proprio sfruttamento del lavoro minorile che istituzionalizza il precariato nella scuola. Renzi ha vigliaccamente (ma si dirà misure di sicurezza) anticipato il suo intervento così da scappare dalla città indisturbato. “Renzi, mi senti? Catania non ti vuole!” Siamo in piazza a gridare con forza e determinazione il nostro NO! NO alla guerra! NO al Jobs Act! NO alla Buona Scuola! NO alla riforma autoritaria della Costituzione! NO alla fortezza Europa! NO al MUOS! Per la cronaca, il corteo nei pressi Casablanca 44

di via Etnea viene caricato dalla polizia in tenuta antisommossa. Il dissenso viene manganellato. C’è una questione politica generale che riguarda la regressione visibile delle condizioni di vita, la limitazione degli spazi di democrazia, lo smembramento definitivo del patto costituzionale sacrificato sull’altare della governabilità europea e alla logica perversa dei suoi trattati. Ma c’è qualcosa di più che come lavoratrici e lavoratori della scuola oggi ci dobbiamo dire con molta chiarezza. Come insegnanti abbiamo un dovere che non può essere celato dietro la “professionalità” o le “competenze” di cui saremmo portatori. Quel dovere si chiama consapevolezza. Cominciamo a riprendere consapevolmente la funzione emancipatrice che la scuola ha avuto in una fase della storia repubblicana, lavorando insieme ai nostri studenti per creare strumenti di coscienza e spinta al cambiamento, coinvolgendoli in una riflessione sulla istituzionalizzazione del precariato nella scuola con l’alternanza scuola/lavoro. Come Unione Sindacale di Base saremo in piazza il 21 ottobre per lo Sciopero Generale per il Lavoro, lo Stato Sociale e il NO al Referendum e il 22 ottobre per la Manifestazione Nazionale a Roma contro Renzi e il suo governo. Verso il Referendum del 4 dicembre per un grande NO sociale. Renzi stai sereno


…Non fa figo cantare bella ciao…

Mettete dei fiori nei vostri cannoni Anna Bonforte Pazienza, mi attirerò le sicure contumelie per ingenuità o per non essere abbastanza “compagna”, ma mi sono stancata di non capire le cose o almeno di non riuscire a capire perché debba starmene zitta a coprire chi rovina l’ennesimo risultato politico indiscusso: i numeri di un corteo, il dissenso pacifico. Chi è stato? C’è chi dice forse infiltrato della Digos. Chi dice, forse, compagno che sbaglia, non importa. Venti stronzi incappucciati che, negli ultimi 50 metri (prima del civico 8 di via Umberto a Catania) all’improvviso, prendono la testa del corteo non si possono difendere! Sicuramente! Ma, negare all’ANPI un risibile, pericolosissimo, bancetto di propaganda per il No alla riforma Costituzionale davanti a Villa Bellini ( sede incongrua della festa del Pd nazionale), e poi, contemporaneamente, autorizzare un corteo di manifestanti, il dissenso “organizzato” al PD da Piazza Iolanda all’angolo di Savia, nei pressi di Villa Bellini, predisponendo forze sufficienti allo sbarco in Normandia ( anto da non far svolgere la partita del Catania…) ho il sospetto che non sia

razionale, legittimo, accettabile. Quei pacifici manifestanti (noi), quei sinceri democratici che difendono la Costituzione (noi), perché non reagiamo? Perché non li allontaniamo dalla testa del corteo? Perché non gli togliamo il cappuccio, il casco, perché non proviamo a riprenderci la testa del corteo che a viso scoperto aveva fino a quel momento condotto tutta la manifestazione? Ma perché noi “innocui” dei Comitati No Discarica e dell’ANPI, almeno un quarto d’ora prima che avvenga qualunque carica/bomba carta/fumogeno et scompigli enumerando, veniamo gentilmente invitati dalla Digos a spostarci, perchè ci saranno degli scontri? La Digos ha, forse, la palla di vetro in dotazione? O cosa altro? Se, invece, “agenti infiltrati”, come ha detto qualcuno, non ci

sono e sono tutti attivisti di primo e di ultimo pelo, che ritengono che farsi “una passeggiata per mettere fiori nei loro cannoni” sia politicamente deludente e inefficace e che la lotta e il dissenso paghi solo se parte la disobbedienza alla “zona rossa prescritta”, allora, a questi compagni che sbagliano, dico che sbagliano due volte: - se vogliono violare una zona rossa, basta non fare alcuna comunicazione alla Digos, non farsi autorizzare. Da singolo cittadino vai dove vuoi e, se ci riesci, ci vai in massa, a volto scoperto a manifestare il dissenso senza farti intrappolare in un circuito bloccato da tutte le vie di fuga laterali. Manifesti e basta. Se ti caricano o ti manganellano dovrebbero poi spiegare perché ti hanno manganellato o arrestato. Anche se: spiegheranno mai i poliziotti perché a Catania hanno usato in maniera abnorme la forza su un cittadino inerme che manifesta pacificamente? ADDIO BELLA CIAO Il secondo errore del compagno che sbaglia è che mi strumentalizza. Non pensa al buon risultato politico, non gli interessa, pensa solo alla rivendicazione, più o

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…Non fa figo cantare bella ciao… meno delirante, dell’ennesimo scontro da enumerare tra reduci… Poi magari lo stesso tizio non vota, si astiene da tanti anni, non si presenta alle elezioni perché non crede alla democrazia rappresentativa, e deve fare girare le ovaie, forte, ma forte, a me su quanto è di sinistra, è compagno, è unitario, mentre io sarei la borghese di merda? Se la Digos s’infiltra nei cortei di protesta non ho alcun potere, sono inerme, posso solo, un giorno, provare a cambiare la legislazione e far crescere un’altra cultura della sicurezza e della fiducia nelle istituzioni. Ma senza giustizia per Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Stefano Cucchi, Luciano Isidro Diaz, Michele Ferrulli, Carlo Giuliani, Stefano Gugliotta, Franco Mastrogiovanni, Riccardo Rasman, Paolo Scaroni, Giuseppe Uva… c’è poco da far crescere. Se i compagni sbagliano e mi usano come carne da macello, come numero, come massa, come lercia borghese riempipista, posso tranquillamente gridare che io sono “orgogliosa” di andare a volto scoperto a: - fermare i camion di rifiuti grondanti percolato fuori legge che conferiscono nella più grande discarica illegale del Sud Europa, tra Motta e Misterbianco, e che se bloccassi la stradale statale 121 lo farei a mio rischio e pericolo; - manifestare contro una politica, quella del PD, che non paga di essere completamente inefficiente e sbagliata, mi toglie pure la libertà di passeggiare per Villa Bellini per 13 lunghi giorni “militarizzando” la zona aperta al pubblico, (nonostante le concessioni del suolo pubblico siano solo sul 3% del parco), ad uso e consumo “privato” di un partito; - urlare apertamente il mio dissenso e il mio disprezzo e se

necessario di pagare il prezzo della mia disobbedienza per una

trasmetterla alle loro giovani classi di alunni perché non è

manifestazione non autorizzata, senza dovermi incappucciare (e quindi senza sparire dalla circolazione l’indomani) e cantando in faccia a loro senza timore la mia Bella Ciao. Ma, appunto, ormai non fa più figo cantare Bella Ciao. L’hanno dimenticata quelli del PD, l’hanno dimenticata i compagni e le compagne che “rompono” la zona rossa. Non la cantano i poliziotti in assetto di guerra e tra poco sarà proibito agli insegnati

“politicamente corretta”. È solo l’inno dei partigiani e delle partigiane per la Costituzione, quella che c’è e aspetta solo di essere attuata. Ma, porca miseria, perché l’informazione “nazionale” ha oscurato i dissensi pacifici e numericamente più rappresentativi per raccontare solo gli ultimi 10 metri e 15 minuti di follia organizzata

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Tiziana è morta suicida ma…

Tiziana è morta suicida ma sono tanti i suoi assassini Amalia Zampaglione (dalla rete) Tempo mesto e greve per l’ennesima morte di una donna vittima di una cultura cattiva, di una società che sputa sentenze, che fomenta pregiudizio e semina maldicenze che hanno lingue forcute, che insidiano le vite, e per la violenza che condanna alla morte. Tiziana era una giovane donna. È morta suicida, ma sono tanti i suoi assassini.

È stata messa alla gogna mediatica, esposta al ludibrio di tutti. Io non voglio e non posso arrendermi alla conclusione che la sua morte, così come quella di molte altre, sia imputabile ad una società malata. Sarebbe un’analisi spicciola, una sintesi riduttiva per non immergersi nella melma di un tessuto sociale dalla fitta trama di

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violenze; un tessuto sociale che copre il colpevole, come si fa quando il tessuto è logoro e si risolve mettendoci sopra una pezza. Quella pezza è il silenzio omertoso e complice! Ed allora accade che chi subisce violenza se la vada a cercare, che chi è vittima di violenze reiterate nel tempo non sia da proteggere e che tutto doveva esser taciuto per non “infangare” la dignità di una comunità, che sia lecito reagire all’abbandono dando fuoco alla donna, moglie e madre o che lo stupro sia strumento di guerra e migliaia di stupri, nei periodi e nei territori dei conflitti, siano semplici danni collaterali. Giova alla coscienza comune addossare le colpe alla società tutta, per non sentire gravare sulle spalle di alcuni un tal fardello! Ma la società è fatta di singoli individui e sui singoli individui bisogna intervenire. Sono essenziali: - una nuova e diversa cultura che sia capace di penetrare nel tessuto sociale e di distendere la trama per “rimuovere il lercio che logora”; - un piano straordinario realmente efficace contro la violenza (ad oggi quello del governo non lo è); - la diffusione di una cultura non sessista; - la realizzazione di un piano educativo e didattico che preveda l’educazione alla relazione e all’affettività; - la prevenzione degli stereotipi di genere ed ancora non basta…


Antonella Cocchiara… era una Donna straordinaria

Maria Antonella Cocchiara è morta Graziella Proto Era una donna straordinaria. Ed è l’unico vocabolo che riesco ad utilizzare senza sentirmi esagerata. Ecco straordinaria è il vocabolo che più le si addice. Dolce, colta, studiosa, appassionata cultrice delle pari opportunità, promotrice delle altre donne, quelle che stimava, elegante intellettuale. Sempre disponibile. Sempre pronta ad ascoltarti. Ha combattuto! Ha combattuto con tutte le sue forze. Ha combattuto come forse non avremmo immaginato. Senza lamentarsi, convinta che prima o poi ce l’avrebbe fatta. O forse questa era la mia convinzione. Ci eravamo sentiti a fine agosto in occasione del Premio Parmaliana, la sua presenza mi avrebbe fatto piacere, stava male, “ avrei avuto enorme piacere a esserci anche per poter gioire con te - mi su fb … Spero che le cose possano migliorare” ho avvertito che ce l’avrebbe fatta.

… scrisse poi

Ti ho sentita speranzosa, molto. E io ho pensato che saresti ritornata come sempre appassionata, studiosa, in stancabile organizzatrice, una donna che sapeva promuovere le altre… come sanno fare poche… Le pari opportunità il tuo chiodo fisso! E quanto hai fatto! Quante donne ti saranno grate a vita. Ora sento solamente il dolore che questa notizia mi ha scatenato, superfluo soffermarsi con frasi fatte e luoghi comuni Ciao garbata, dolce, forte e mite amica mia.

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Letture di Frontiera … “Suicidate Attilio Manca”

“Suicidate Attilio Manca” di LorenzoBaldo Angela Di Mauro Un ringraziamento speciale va a Lorenzo Baldo autore del libro “Suicidate Attilio Manca” per il lavoro certosino condotto sulla vicenda di Attilio, la storia di un omicidio che viene fatto passare come suicidio. Lorenzo, con maestria, fa una attenta analisi di documenti, testimonianze, sentenze e perizie riportando in vita “Attilio” uomo, figlio, fratello, collega di lavoro. Una persona garbata, salda nelle decisioni ma disposta al dialogo, pronta a difendere le sue idee senza venire mai a compromessi. La presenza di Attilio è palpitante, si sente il suo respiro, si vede il suo sorriso. Il libro contiene riflessioni di Attilio sull’amore, l’anima, l’odio e la morte e ritengo personalmente che Attilio fosse consapevole del suo ruolo sulla terra. Egli ci ha lasciato il suo testamento da consegnare all’umanità. Come riporta Baldo nel libro “ci sono Esseri nati per seminare amore e altri Esseri nati per raccogliere i frutti di quell’amore”. “L’odio e la morte non possono sconfiggere l’amore. Pensate che una persona di questo calibro potesse pensare al suicidio come vogliono farci credere? Il coraggio di Lorenzo Baldo ha messo in luce i tanti dati anomali rimasti privi di risposta unitamente ai depistaggi giudiziari, come se la Magistratura non volesse risolvere il caso. Per tutti noi, approfondire i dati

sulla morte di Attilio Manca è un dovere civile oltre che la necessità di conoscere a fondo le deviazioni del nostro Paese, laddove Mafia e Stato sono stati la stessa cosa.

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DAL 26 MAGGIO IN LIBRERIA Imprimatur editore imprimatureditore.it/index.php/2016/05/18/suicidateattilio-manca


Letture di Frontiera … “Suicidate Attilio Manca”

Grazie Lorenzo Ringrazio Lorenzo Baldo per aver scritto il libro Suicidate Attilio Manca e per la sensibilità e la delicatezza con cui ha trattato la storia. Sono molto grata a Lorenzo per aver messo in luce, oltre la vicenda giudiziaria, il carattere, la cultura, il senso dell’amicizia e l’amore verso la famiglia possedute da Attilio. In questi anni, io e la mia famiglia abbiamo lottato per avere verità e giustizia, ma alle nostre richieste è stato eretto un muro di gomma. Noi siamo andati avanti sempre con coraggio e dignità, nonostante tutto. Attilio è stato ucciso l’11 febbraio 2004; è stato trovato riverso sul letto della sua casa di Viterbo in una pozza di sangue, il setto nasale deviato e con addosso una sola magliettina arrotolata sulle spalle. Siamo stati ingannati sin dall'inizio perché ci hanno detto che nostro figlio era morto per aneurisma e non dovevamo vederlo perché aveva il volto sfigurato dal telecomando su cui era caduto (in seguito dalle foto della scientifica abbiamo visto che il telecomando era sotto l’avambraccio). Abbiamo capito subito che si trattava di omicidio, ma abbiamo impiegato un anno per comprendere che si trattava di un omicidio di mafia

e che dietro la sua morte c’era Bernardo Provenzano. Attilio è stato il primo in Italia ad operare il tumore alla prostata per via laparoscopica, lo steso tipo di intervento subito da Provenzano. Il primo a parlare di un urologo che aveva visitato Provenzano nel suo rifugio è stato Pastoia in una intercettazione ambientale, in seguito ci sono state le dichiarazioni di Setola rese al PM Di Matteo Setola aveva appreso tutto da Gullotti con cui era stato in carcere ed aveva parlato di omicidio legato alla latitanza di Provenzano. Purtroppo alcuni giorni dopo la diffusione della notizia, Setola ha ritrattato per paura (è stato minacciato?). In seguito ci sono state le dichiarazioni di Lo Verso al processo Borsellino quater, dove ha detto di tenere custodita una statuetta di una Madonna con un Bambino in braccio che gli regalò Provenzano ad agosto 2003 e che potrebbe essere utile per far luce sulla morte di Attilio Manca. A queste dichiarazioni sono seguite quelle di Carmelo D’Amico, che sono a dir poco esplosive. Lui parla di omicidio fatto con

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l'aiuto dei servizi segreti e per la prima volta viene fatto il nome ufficialmente di Rosari Pio Cattafi quale mandante. Infine è di pochi giorni fa la notizia del pentito Lo Giudice che parla anche lui dell’omicidio di Attilio, indicando come mandante Rosario Pio Cattafi e dice che ad ucciderlo è stato Aiello (“faccia da mostro”). A questo punto noi speriamo che la procura di Roma guidata dal dottor Pignatone e Prestipino a cui è stata affidata l’indagine, avviino finalmente un processo per omicidio. La verità ormai la conosciamo tutti, ci vuole solo la volontà da parte delle istituzioni perché venga cristallizzata. Angelina Manca (Mamma di Attilio)


Letture di Frontiera: come la ‘ndrangheta è diventata classe dirigente

Come la ‘ndrangheta è diventata classe dirigente di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso Nel 1908, un tragico terremoto divora Messina e Reggio Calabria. Si stanziano quasi centonovanta milioni di lire per la ricostruzione, ma la presenza nella gestione dei fondi anche di boss e picciotti – molti dei quali tornati dall'America per l'occasione – causerà danni gravissimi, sottraendo risorse preziose, trasformando le due città in enormi baraccopoli e dando vita a un malcostume ormai diventato abituale. Lo stesso scenario che si ripeterà, atrocemente, cent'anni dopo, nel 2009, con il terremoto dell'Aquila. Mentre la gente moriva, in Abruzzo c'era chi già pensava ai guadagni. E ancora, nel 2012, nell'Emilia che crolla la mafia arriva prima dei soccorsi. In Piemonte, la 'ndrangheta era riuscita a infiltrarsi nei lavori per la realizzazione del villaggio olimpico di Torino 2006 e in quelli per la costruzione della Tav nella tratta Torino-Chivasso. La corruzione, l'infiltrazione criminale, i legami con i poteri forti – occulti, come le logge segrete, e non, come la politica sul territorio e a tutti i livelli, fino ai più alti – sono oggi parte di una strategia di reciproca legittimazione messa in opera da decenni da tutte le mafie e in particolare dalla 'ndrangheta. Già nel 1869, le elezioni amministrative di Reggio Calabria erano state annullate per le evidentissime collusioni 'ndranghetiste. Il primo caso di una serie di episodi che nei decenni hanno segnato l'intera penisola, arrivando fino a Bardonecchia, in Piemonte, nel 1995, e a Sedriano, in Lombardia, nel 2013. Lo scambio di favori fra criminalità e certa parte della politica è continuo e costante, il ricatto reciproco un peso enorme sulla cosa pubblica, con ripercussioni su tutti i settori, dalle opere pubbliche alla sanità, dal gioco di Stato allo sport. Anche lo sport. Il calcio è popolare e ha bisogno di investimenti. E le mafie, da tempo, si sono accorte delle sue potenzialità, non mancando di sfruttarle, come dimostrano le recenti inchieste giudiziarie. In questo vermicaio c'è di tutto: oltre al riciclaggio di denaro, ci sono partite truccate, scommesse clandestine, presidenti prestanome, e ultrà che gestiscono attività illecite. Il vero problema è che né i ricorrenti disastri ambientali, né il consumo dissennato del territorio, né il degrado di opere e servizi sembrano più scalfire l'opinione pubblica. In Italia l'incompiutezza è diventata risorsa, strategia di arricchimento per cricche e clan, mangime senza scadenza per padrini e padroni. C'è un'assuefazione che sconcerta. Quello che è di tutti non appartiene a nessuno. Che importa se la corruzione avvelena l'economia, provocando gravi disuguaglianze sociali o se la mafia ammorba l'esistenza di tanta gente, con la complicità di alcuni degli uomini chiamati a combatterla? E perché nessun governo ha mai inserito fra i propri obiettivi primari la lotta alla corruzione e alla criminalità economica? Questo di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso è un libro di denuncia forte, coraggioso, che racconta una verità amara. Senza sconti per nessuno.

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…Ustica …a chi è servita la falsa radiazione di Ciancarella?

Il Capitano Mario Ciancarella radiato con la firma falsa di Pertini. Adesso bisogna riscrivere la storia Mario Ciancarella al momento della strage di Ustica era Capitano Pilota dell’A.M. nonché leader del Movimento Democratico dei militari (che nasceva dalla contaminazione delle forze armate con la cultura sociale e democratica). Convocato e ricevuto, nel 1979, al Quirinale dal Presidente Pertini, insieme a Sandro Marcucci e Lino Totaro, Mario Ciancarella era divenuto referente delle rivelazioni da tutta Italia delle vere o false ignobiltà che si compivano nel mondo militare. In questo contesto, anche il maresciallo Mario Alberto Dettori, radarista a Poggio Ballone la notte di Ustica, decise di fidarsi di lui e di confidargli: "Capitano siamo stati noi..." "Capitano dopo questa puttanata del mig libico"... Mario Alberto Dettori verrà trovato impiccato nel 1987. Sbrigativamente chiuderanno la questione dicendo che si era trattato di un suicidio. Per questo suo ruolo di esponente di punta il Capitano Ciancarella divenne talmente scomodo da indurre "qualcuno molto in alto" a falsificare, nell'ottobre 1983, la firma del Presidente Pertini nel Decreto Presidenziale di radiazione. Un vero e proprio colpo di Stato. La copia del decreto di radiazione gli verrà consegnata, su sua richiesta, solo 9 anni più tardi e dopo la morte di Pertini. L'Associazione Antimafie Rita Atria, con orgoglio, da 22 anni (da quando è stata fondata), lotta accanto a Mario Ciancarella senza mai retrocedere di un solo passo. Nonostante tutto e tanti, troppi "consigli". Oggi, il Tribunale Civile di Firenze ha confermato i dubbi del Capitano Ciancarella (e anche i nostri): la firma del Presidente Pertini che compare sul quel decreto e' un volgare falso. Tanto e' stato accertato sulla base di due perizie - una di parte ed una disposta dal Magistrato - che hanno potuto rilevare come il falso sia tanto evidente quanto eseguito con assoluta approssimazione. L'Associazione Antimafie 'Rita Atria" - di cui Ciancarella è socio fondatore - e lo stesso Mario Ciancarella convocano per il giorno 22 Ottobre 2016 una conferenza stampa alle ore 10,30 a Lucca, in Viale Regina Margherita 113 presso la Libreria LuccaLibri Il Caffe' Letterario, per documentare quanto è accaduto, interrogarsi sui motivi che hanno potuto suggerire un simile scempio del diritto e prospettare le conseguenze politiche e giudiziarie del recente pronunciamento del Tribunale di Firenze. Di certo possiamo anticipare che in molti dovranno rileggere la Storia del Capitano Mario Ciancarella perché quella radiazione non solo ha distrutto la vita di un uomo onesto e di una famiglia perbene, ma è stata funzionale alla politica e non solo. Casablanca 52


…Ustica …a chi è servita la falsa radiazione di Ciancarella? Si comunica inoltre che l'avvocato dell'Associazione e della famiglia Lorenzini ha interrogato il Capitano Ciancarella depositando la trascrizione presso la Procura di Massa dove, su nostro esposto, nel 2012 è stata riaperta una indagine per fare luce sulla morte dell'ex Tenente Colonnello dell’AM Alessandro Marcucci avvenuta il 2 febbraio 1992 mentre era al comando di un Piper in missione di avvistamento incendi per la Regione Toscana. Nel 1992 l'inchiesta aveva concluso che si era trattato di un "Incidente". Noi non siamo d'accordo. La famiglia Dettori, informata sui fatti, ha dichiarato che farà pervenire tutte le sue considerazioni e i commenti il giorno della conferenza stampa. Associazione Antimafie “Rita Atria” Il materiale della conferenza stampa verrà pubblicato, dopo la conferenza stampa, all’indirizzo: http://www.ritaatria.it/RadiazioneCiancarella.aspx

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Lettere dalle città di frontiera

Lettera Aperta alla Dott.ssa Maria Teresa Meli Lettera aperta alla dottoressa Maria Teresa Meli dalla Presidente ANPI Provinciale Catania Santina Sconza. La Presidente Santina Sconza scrive sui fatti raccontati dalla giornalista Meli durante la trasmissione di la 7 " La Gabbia" di Luigi Parogone andata in onda ieri sera sugli scontri accaduti a Catania durante festa dell'Unità.

la

Dottoressa Meli mi sembra che lei ieri sera in trasmissione non sia stata obbiettiva e le spiego i motivi: 1) Innanzitutto i manifestanti non erano 4 gatti ma circa mille persone studenti, precari, professori etc che manifestavano pacificamente; 2) Anpi, Coordinamento per la democrazia e altre associazioni erano davanti alla villa Bellini a protestare pacificamente e a volantinare per il No al referendum contro le modifiche costituzionali del Senato; 3) Lei stessa ammette che c'era un schieramento delle forze dell'ordine esagerato, io direi imponente, forze dell'ordine mai viste prima a Catania, poichè i rapporti fra noi associazione ANPI e DIGOS sono state sempre di reciproco rispetto. Mi è dispiaciuto che lei attacca il giornalista che ha fatto il servizio considerandolo un giovincello alle prime esperienze. Che dire? Quando sono accaduti gli scontri lei non era al corteo, ma guarda caso, si trovava accanto a me e sa perfettamente che c'era un cordone di poliziotti che non faceva passare nessuno Lei è arrivata dopo che gli scontri erano finiti, se scontri si possono definire, e lei è stata accolta con un grido:" oh guarda chi c'è, la giornalista, al servizio di Renzi" per non dire altro. Lei ha chiesto a noi che cosa era accaduto, erano altri i giornalisti che si trovavano all'interno degli scontri e che hanno filmato tutto, lei aveva semplicemente un telefonino, e riportava al suo giornale, ciò che riferivamo noi, e se debbo dirla tutta, lei mi sembrava molto arrabbiata per non aver potuto ascoltare il suo amato Renzi La sua supponenza nel giudicare l'operato del servizio del giovane giornalista, non mi piace, anche perché essendo io in piazza dalle 16 ho visto il lavoro immane fatto dagli operatori di la7. Sa se invece, d'invitare lei,, alla trasmissione, si fosse trasmesso il video preparato dal giornalista, gli spettatori avrebbero avuto una visione completa dei fatti accaduti a Catania. Cordiali saluti Santina Sconza Presidente ANPI Provinciale Catania

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Premio Parmaliana: il bilancio

Premio Parmaliana: il bilancio Di Santina Latella Presidente Associazione Antimafie Rita Atria A distanza di pochi giorni, dopo essermi data il tempo per riflettere e valutarne l’esito, considerata l'importanza, è giusto che da presidente mi esprima ufficialmente sulla manifestazione legata al “Premio Adolfo Parmaliana” visto che, quest’anno, per la prima volta, è stato organizzato dalla mia Associazione, dopo le precedenti edizioni volute da Gioacchino Messina, allora presidente del Circolo Arci Senza Confini. Premio Adolfo Parmaliana Organizzare questo Premio è stato per noi un onore e una grande responsabilità, perché il professor Adolfo Parmaliana è stato un uomo che, come lui stesso ha detto lucidamente di sé nel suo testamento morale, con coraggio e determinazione ha denunciato il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti corrotti dello Stato e deviati, non consentendo a nessuno di loro di offendere la sua dignità di uomo, di padre, di marito, di servitore dello Stato e di docente universitario, non scendendo mai a compromessi pur nella più abietta solitudine in cui lo avevano relegato. E proprio perché la solitudine, l’isolamento e la delegittimazione sono alcune delle armi più comunemente usate da chi vuole ridurre al silenzio chi non volta il capo di fronte alle ingiustizie e alle illegalità, abbiamo voluto parlare di libera informazione, dell’informazione indipendente e di coloro che cercano di portare avanti il “giornalismo etico” così come lo aveva concepito Giuseppe Fava, un giornalismo fatto di verità, che non fa sconti né favori a nessuno, nonostante i prezzi da pagare e i rischi siano altissimi. Le relatrici erano praticamente tutte donne e non per dare un tocco di femminilità alla serata, ma per dare voce a chi, oltre a quanto appena descritto e nonostante il periodo storico avrebbe dovuto abbondantemente vederle superate, è sottoposta ancora oggi a quelle discriminazioni di genere che tengono lontane le donne da posizioni di prestigio e ai beceri giudizi, derivanti da strascichi culturali di stampo patriarcale e maschilista, tendenti a denigrare e screditare serietà, competenza e passione civile e che rendono ancora più difficile la scelta di intraprendere un cammino già impervio per sua stessa natura. Unica presenza maschile quella di Goffredo D’antona, avvocato penalista, professione dove riversa tutta la sua passione per l'impegno nel sociale, che ci ha illustrato come le querele e le citazioni per danni infondate nei confronti di giornalisti “scomodi” possano inserirsi, con giusto titolo, tra gli atti compiuti a scopo intimidatorio e di come tale fenomeno sia in forte espansione. Dalle preziose parole di Graziella Proto, Palmira Mancuso e Grazia Bucca che hanno raccontato le loro storie di denunce, di determinazione, di passione civile, di esperienze vissute a vivo, di realtà vicine e lontane, abbiamo potuto constatare che un giornalismo serio e libero può esistere, e che ancora vi può essere la speranza che qualcosa possa cambiare, considerato che c’è ancora chi non si arrende al “quieto vivere”, al servilismo, alla connivenza, cose che, specialmente nel campo dell’informazione, in Italia, hanno assunto ormai una dimensione che in molti casi supera i limiti della decenza. Al convegno avrebbe dovuto intervenire anche Alessia Candito, che suo malgrado e con nostro dispiacere non è potuta essere con noi a causa di un malessere di stagione. Coordinatrice del convegno, un'altra donna d'eccezione, Nadia Furnari, attuale vicepresidente e elemento portante oltre che punto di riferimento per gli appartenenti all'Associazione e non solo, che con la sua capacità dialettica ha saputo unire tutte queste Casablanca 55


Premio Parmaliana: il bilancio testimonianze, queste voci apparentemente diverse, in un unico canto corale, così da far emergere che le battaglie e le azioni fatte in nome dei medesimi ideali uniscono sempre anche le realtà apparentemente lontane. La parte che mi ha emozionato di più è stata sicuramente la cerimonia dei premi, eccezionalmente due, scolpiti su pietra dall'artista Salvatore Valenti, e consegnati dai figli Gilda e Basilio di Adolfo Parmaliana ed in presenza anche della moglie Cettina Merlino e del fratello Biagio. Tale emozione particolare è sicuramente derivata dalle persone scelte per ricevere questo insigne premio, ossia Graziella Proto e Mario Ciancarella, e dalla convinzione che, con molta franchezza, credo che non avremmo potuto fare una scelta migliore: pochi in Italia possono vantare come loro due una vita sacrificata sull'ara della verità e della giustizia, pochi possono dirsi, senza paura di essere smentiti, di essere una donna libera, un uomo libero. Le motivazioni, pubblicate in calce, spiegano in minima parte il valore intrinseco di queste due persone, eccezionali nella loro disarmante naturalezza e semplicità, intrisi di quell'umiltà che appartiene solo ai grandi, a chi non ha bisogno di dimostrare nulla. All'interno della manifestazione altre due perle hanno arricchito una collana già preziosa. La mostra fotografica “Bakur - Immagini di un popolo resistente” della giornalista e fotorepoter Grazia Bucca che ha documentato con coraggio, denunciandola con le sue immagini crude, con il suo sguardo filtrato solo dall'obiettivo della sua macchina fotografica, la condizione disumana in cui è costretta a vivere la popolazione curda perseguitata dal governo turco, rompendo il silenzio imposto con la connivenza dei potenti del mondo e di gran parte dell'informazione. Le sue toccanti fotografie hanno definito idealmente lo spazio dell'Atrio del Carmine, dando anche allo spazio fisico che circondava gli spettatori un significato fortemente legato alle tematiche trattate, incorniciandolo simbolicamente con la bellezza dei suoi scatti carichi di verità scomode. E dulcis in fundo lo spettacolo “Il sangue limpido del mare” di e con l'artista Stefania Mulè, regista ed interprete che insieme a Paolo Scatragli, chitarrista e autore del testo da cui l'opera è stata tratta, hanno donato la loro arte, con grande generosità e sensibilità. Anche in questa delicata opera si è parlato in maniera garbata di diritti negati e di riscatto e lo si è fatto stupendo ed emozionando gli spettatori presenti attraverso immagini, proiezioni, suoni, colori musiche e naturalmente con la magnifica voce dell'artista che è riuscita a raccontarci, come fosse una fiaba, il difficilissimo percorso di una donna attraverso la scoperta di sé e la sua battaglia contro le discriminazioni di razza, di genere, di sesso. Questo evento, nella sua complessità, deve la sua riuscita al lavoro di tutti coloro che hanno dato il loro apporto prezioso, piccolo o grande che sia stato, gratuitamente e con passione, a loro va tutta la mia gratitudine. L'ultimo pensiero, però, voglio dedicarlo a Simona Scibilia, nostra compagna, sorella, amica che pur non essendo più con noi per una crudeltà del destino, ci fa sentire sempre la sua presenza e il suo incoraggiamento, anche se non possiamo sentire più la sua voce, il calore dei suoi abbracci, il suono coinvolgente della sua risata né vedere la bellezza del suo sorriso disarmante.

Motivazione per Graziella Proto Dare un premio per l'attività giornalistica a Graziella Proto è quasi un atto scontato: lei è Graziella Proto, la giornalista che ha avuto come mentore Pippo Fava, che ha preso sulle sue spalle il peso del giornale I Siciliani, perché sentiva il dovere di portare avanti il giornale per il quale il suo amico e maestro era stato crivellato dal piombo mafioso, pur sapendo che questo avrebbe cambiato del tutto la sua vita anche professionale, la sua carriera di biologa e di ricercatrice oncologica, pur sapendo di dover farsi carico di un fardello di debiti e solitudini assordanti. Potrei citare una moltitudine di esperienze del suo curriculum come la sua collaborazione con Enzo Biagi, quando si occupò dell’inchiesta sulle rivelazioni fatte dal pentito Calderone sui quattro ragazzini uccisi dal clan dei Santapaola; o del suo lungo cammino politico, oltre che giornalistico, con Sandro Curzi e Liberazione; del suo lavoro con Avvenimenti, della creazione di Casablanca prima nella versione a stampa e poi online. Ma Graziella Proto è una grande giornalista perché è una magnifica persona, una grandissima donna. Si può essere degli ottimi giornalisti ma per essere una giornalista come lei ci vuole ben altro che la capacità di scrivere un buon articolo o una buona inchiesta. Casablanca 56


Premio Parmaliana: il bilancio Ed è per questo che questo premio che quest’anno, per la prima volta, viene organizzato dalla mia Associazione, è un riconoscimento che per noi va oltre i suoi risultati professionali, è un riconoscimento a lei nella sua interezza. La descrissi una volta con 6 aggettivi: dissi di lei che è una donna magnifica, indomita, mai scontata, partigiana e resistente, irriverente, oggi aggiungerei ironica ed autoironica, e nonostante tutte le vicissitudini che ha attraversato per avere scelto di essere libera e di assumere il vincolo morale di perseguire verità e giustizia, leggera, della leggerezza di cui parla Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, quasi a dimostrare che la pesantezza del mondo può essere sconfitta solo dal suo contrario. Graziella la si percepisce ancor prima di conoscerla, quando la si conosce la sua incontenibile energia arriva come un'onda ancor prima della sua voce, è un'energia fatta di coraggio, coscienza, etica, morale, senso della giustizia, forza interiore. Quando decide di intraprendere una battaglia è implacabile come la lava del Vulcano che l'ha vista crescere, irrefrenabile. Ma in fondo per decidere a chi assegnare questo Premio Adolfo Parmaliana per la libertà di stampa e di espressione e per motivare la scelta della decisione ci sarebbe bastato semplicemente pensare a chi poteva essere all'altezza delle parole con cui Pippo Fava, in un editoriale del Giornale del Sud, nel 1981 spiegava cosa intendeva per giornalismo: Io ho un concetto etico di giornalismo. Un giornalismo fatto di verità, impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, sollecita la costante attuazione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo si fa carico di vite umane. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori che avrebbe potuto evitare, le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze, che non è stato capace di combattere. Ecco: Graziella questa capacità ce l'ha innata.

Motivazione per Mario Ciancarella Perché... "È impossibile pentirsi". La motivazione dle premio risiede nella storia di Mario Ciancarella e la riassume lui nella prefazione di un libro scritto e da aggiornare. Perché è una storia che in molti avrebbero voluto seppellire e relegare ai margini. Una storia che R-Esiste e che riserverà ancora tante sorprese. Una Storia di un Partigiano dei nostri tempi. "Questa è la storia di un perdente. Una storia iniziata sui banchi e sui piazzali della Accademia Aeronautica e approdata sui banchi degli imputati in procedimenti militari - penali e disciplinari - che si sono conclusi con l'infamante provvedimento della rimozione dal grado e della conseguente espulsione dalle Forze Armate. Ma è una storia non ancora conclusa, anche se molti ed in molti modi avrebbero voluto scrivere la parola 'Fine'". [...] "Certo potremmo chiederci "che senso abbia" bruciare così la vita propria e quella dei propri cari, ed avere la amara sensazione che si tratti soltanto di gocce inutili in un grande ed arido deserto. Potrebbe sembrarci lontano ed insignificante quello che scrissero con tanta serena dignità e forza - senza nascondere nè le paure, nè la amarezza, umanissime - i tanti condannati a morte della Resistenza, di ogni ceto sociale e di ogni livello culturale. Ma può essere utile pensare che, se ogni goccia compie con fedeltà il suo percorso, è indubbio che le gocce finiranno per incontrarsi e diverranno sorgente e poi ruscello e poi fiume ed infine mare. Tutto questo non è poesia ma la Legge fondamentale della Vita, immutabile. Dove essa viene tradita tutto diviene arido ed infecondo. Questa semplice certezza è stata la pelle ed il sangue di ciascuno di noi. La sofferenza e la consapevolezza di "aver perso" non possono mutare il giudizio finale: 'E' impossibile pentirsi'" .

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Letture‌ di Frontiera

Casablanca n. 46


http://www.lesiciliane.org/casablanca/pdf/CB33Inserto.pdf

Le Siciliane.org – Casablanca n. 46


Le Siciliane.org – Casablanca n. 46


“A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare?” Pippo Fava

Le Siciliane.org – Casablanca n. 46


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