La vita perduta di Annie - Steve Luxenberg

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Steve Luxenberg La vita perduta di Annie traduzione di mariangela caso e pia ferrara

Casini Editore


Titolo originale dell’opera: Annie’s Ghost: A Journey Into A Family Secret Copyright © 2009 Steve Luxenberg Originally published by Hyperion, 114 Fifth Avenue, New York NY 10011 © 2011 Valter Casini Edizioni www.casinieditore.com ISBN: 978-88-7905-205-4


A mamma e a Annie, è troppo tardi perché siano liberate; a “i 5000” che ancora possono esserlo; e a Mary Jo, che è figlia unica



PROLOGO

Primavera 1995

Il segreto venne a galla, senza alcun preavviso o invito, in un tranquillo pomeriggio di aprile del 1995. I segreti, ho scoperto poi, hanno un modo tutto loro di liberarsi dei loro custodi. Non ricordo cosa stessi facendo quando ne ho sentito parlare la prima volta. Se avessi pensato più da giornalista che da figlio, mi sarebbe potuto venire in mente di prendere qualche appunto, come mi capita spesso quando una cosa mi colpisce perché è interessante o degna di nota. Ora come ora, sono fermo a dei ricordi sbiaditi e a quello che in seguito ho raccontato a mia moglie, ai miei amici, ai miei colleghi in redazione — e a quello che loro rammentano dei miei racconti. Proprio come i segreti hanno i loro metodi per liberarsi, i ricordi spesso sanno come sbiadire. Ci sfuggono o non sono abbastanza vividi o ingannano la memoria con eventi diversi da quelli che sono accaduti. Eppure, proprio come una famiglia abita in una casa, i ricordi vivono nelle nostre storie, le fanno respirare, le rendono vive. E così impariamo a convivere con la consapevolezza che ciò che ricordiamo non è che la versione imperfetta di ciò che è vero. Questo è quello che so per certo: in quel pomeriggio della primavera del 1995, ho risposto al telefono e ho sentito mia sorella


La vita perduta di Annie

Sashie dire più o meno così: — Non ci crederai mai. Sapevi che la mamma aveva una sorella? Ovviamente no. Mia madre era figlia unica. Persino ora, mi pare di sentire la sua voce dolce pronunciare queste parole: «Sono figlia unica». Lo raccontava quasi a chiunque incontrasse, a volte pochi minuti dopo le presentazioni. Considerava quel suo status di figlia unica come una sorta di diritto speciale acquisito alla nascita, come se appartenesse a una società segreta i cui membri possedevano una conoscenza esoterica che andava oltre la comprensione degli estranei. Lo disse anche a mia moglie Mary Jo durante il loro primo incontro. Era il 1976, quattro anni prima che io e Mary Jo ci sposassimo. Loro due, fidanzata e madre, condividevano una stanza in un motel mentre io mi riprendevo da un’appendicectomia d’urgenza che aveva bruscamente interrotto un fine settimana in campeggio (rabbrividisco ancora al ricordo, e non mi sto riferendo solo all’operazione). Non appena mia madre era venuta a sapere delle mie condizioni, si era catapultata all’aeroporto di Detroit e aveva intrapreso il suo viaggio verso le praterie del West Virginia. Durante le serate che trascorsero insieme in motel, mia madre sottolineò l’insolita empatia che la legava a Mary Jo, sua compagna nel club dei figli unici. — Capisco cosa si prova — la rassicurò la mamma. — So cosa vuol dire crescere senza fratelli e sorelle. Non mi era mai venuto in mente che il numero di volte in cui la mamma infilava le parole “figlia unica” in ogni conversazione fosse quantomeno sospetto. Lo accettavo come un dato di fatto, una parte di lei, proprio come sapevo che si chiamava Beth, che era nata a Detroit nel 1917, che non aveva un secondo nome, che aveva odiato il lavoro in un negozio di scarpe cui si era dedicata dopo il diploma, che avrebbe sposato un ragazzo di nome Joe se solo lui fosse stato ebreo, che era invidiata dalle amiche per la sua relazione selvaggia e romantica con il sosia di Clark Gable,


Prologo – Primavera 1995

mio padre, che era gentile e generosa e che nell’allevarci ci aveva spronato, più di ogni altra cosa, a dire sempre la verità. Una sorella? — E questa dove l’hai sentita? — chiesi a Sashie. Io e Sash siamo piuttosto uniti, anche se lei ha 12 anni più di me. Quando imparai a parlare, non riuscivo a pronunciare il suo nome, Marsha. Dalla mia lingua inesperta usciva qualcosa che suonava come “Sashie”. Quella pronuncia storpiata è rimasta. Lei è Sashie, o Sash, persino per suo marito e alcuni suoi amici. Come direbbe Sash, la mamma non attraversava un buon momento, nella primavera del 1995. La sua salute, e le sue condizioni mentali, erano spesso l’argomento principale delle telefonate a distanza tra i suoi figli (la nostra famiglia, come molte altre, è complicata. I miei genitori, Beth e Julius — lui preferiva Jack, per via del suono americaneggiante — si sono sposati nel 1942 e hanno avuto tre figli. Io sono quello di mezzo; Mike ha sette anni più di me, Jeff tre di meno. Sash e sua sorella maggiore, Evie, sono nate dal primo matrimonio di mio padre, durato sette anni. Le ragazze hanno vissuto insieme ai miei genitori per gran parte della loro infanzia, in particolare Sash, che ritiene di aver avuto due famiglie e due madri — e il doppio delle preoccupazioni quando, invecchiando, entrambe le madri hanno iniziato ad avere problemi di salute. Evie si trasferì poco prima della mia nascita, quindi non l’ho mai conosciuta bene come Sash, la mia “sorellona”; Sash si è sposata e ha lasciato la nostra casa quando io avevo circa otto anni, ma il nostro rapporto è rimasto stretto e mi ha aiutato a gestire il difficile passaggio dall’infanzia all’età adulta). Mia madre lavorava ancora, a 78 anni; continuava ad alzarsi presto ogni mattina per guidare verso una delle tante uscite autostradali di Detroit e svolgere il suo lavoro di contabile in una piccola impresa che vendeva lapidi, un lavoro che svolgeva da più di 30 anni. Ma il suo enfisema, lo scotto dei due pacchetti


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di sigarette al giorno che fumava da quando era adolescente, era peggiorato. Così come il suo udito; armeggiava continuamente con l’apparecchio acustico, frustrata perché non riusciva più a comprendere i veloci borbottii che punteggiano le conversazioni quotidiane, ma anche ansiosa di evitare i fischi acuti lanciati dal minuscolo apparecchio ogni volta che catturava un forte rumore improvviso, come le grida di felicità dei nipotini. A seguito delle frequenti visite della mamma al pronto soccorso per problemi respiratori, i dottori giunsero alla conclusione che soffrisse di attacchi d’ansia1. Si riproponeva il problema dell’uovo e della gallina: il respiro affannato la rendeva ansiosa, e la sua ansia accresceva la sensazione di non riuscire a respirare. A febbraio era stata dimessa dall’ospedale con una serie di prescrizioni e il timore di essersi lasciata alle spalle i giorni in cui aveva goduto di buona salute. Lo Xanax all’inizio l’aveva resa meno nervosa, ma nel giro di poche settimane lei aveva iniziato a incolpare il farmaco della sua insonnia e del suo nervosismo. — Mi fa venir voglia di uscire dalla mia pelle — diceva. Come se non bastasse, aveva obbedito all’ordine dei medici di smettere di fumare. Diceva che le sigarette erano le sue “migliori amiche” nei periodi di grande stress, e quel periodo era stressante di certo, per lei e per noi. Le stavano succedendo così tante cose — l’astinenza da nicotina, la reazione allo Xanax, il respiro affannoso, le notti insonni — che sembrava impossibile tornare all’equilibrio che un tempo aveva scandito le nostre vite. Tentennavamo di continuo: un giorno pensavamo che le cose avrebbero funzionato, se solo avesse dato una possibilità al farmaco; quello dopo pensavamo che, no, era una follia, il farmaco era il problema, e forse avremmo dovuto convincere i dottori a prescriverle qualche altra pillola magica. Il mio resoconto in tempo reale del ricovero di mia madre si basa sui ricordi di altri come sui miei. In seguito, per il libro, ho ottenuto il permesse legale di vedere le sue cartelle cliniche. 1


Prologo – Primavera 1995

Si sentiva così male da non voler neppure guidare. Era un cattivo segnale. Henry Ford in persona avrebbe sorriso sentendola parlare della gioia della guida con mio padre nei giorni in cui si corteggiavano, la sensazione di volare su una strada sgombra, con i capelli al vento, sentendo che potevi conquistare il mondo finché eri al volante. Neppure la morte improvvisa di mio padre nel 1980, che l’aveva abbattuta come nient’altro nella vita, era riuscita a fermarla. La sua Chevrolet Beretta non era solo una macchina: simboleggiava la sua indipendenza, la sua vitalità, la sua giovinezza e la sua libertà. Ma, ormai da parecchi mesi, la mamma aveva lasciato la macchina in garage, contando invece su una collaboratrice del Jewish Family Service, un’assistente sociale di nome Rozanne Sedler, per farsi accompagnare ai vari appuntamenti con i medici. Rozanne, che era giunta a conoscere la mamma abbastanza bene durante i loro giri in auto e gli incontri in associazione, l’aveva spinta a vedere uno psichiatra. La mamma, che aveva sempre disprezzato gli psichiatri e la psichiatria, aveva acconsentito. Altro segnale che non attraversava un buon momento. Quando avevo sentito la voce di Sash a telefono, avevo immaginato che la mamma fosse stata ricoverata di nuovo. Ma una sorella? Guardando indietro, è impressionante che io riesca a sintetizzare in così poche frasi ciò che avevamo appena scoperto del segreto della mamma: la mamma aveva menzionato, nel corso di una visita medica, una sorella disabile. Aveva detto di non sapere cosa fosse accaduto a questa sorella minore — la ragazzina era stata portata in un istituto quando aveva solo due anni e la mamma ne aveva quattro. Rozanne era rimasta confusa sentendo queste parole; la mamma l’aveva più volte informata, nel tempo che avevano trascorso insieme, di essere figlia unica. Quindi Rozanne aveva telefonato a Sash per venire a capo della contraddizione.


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E questo era tutto. Così poche informazioni, così tante domande. Internata? Per quale motivo? La sorella della mamma era gravemente disabile? Malata di mente? Un veloce calcolo: se la mamma aveva quattro anni, allora sua sorella era stata allontanata nel 1921. Che genere di istituti esistevano in Michigan in quel periodo? Non avevo alcun indizio. Era possibile che sua sorella — mia zia — fosse ancora viva? Come si chiamava? Avremmo potuto trovarla? La mamma avrebbe voluto che la rintracciassimo? Io e Sash discutemmo a lungo sul da farsi. La parola più ricorrente nelle nostre conversazioni, per come riesco a rammentarle ora, era “forse”. Forse non era così strano che la mamma non ne avesse mai fatto parola. Forse la mamma dichiarava di essere figlia unica perché non aveva mai conosciuto sua sorella. Forse non spettava a noi farle domande in proposito. Forse avremmo dovuto lasciare che fosse lei a parlarcene. Quindi decidemmo di non farle domande. Dopo tutto, pensammo, la mamma aveva scelto di nascondere l’esistenza di sua sorella per tutti quegli anni. Non l’aveva mai detto a nessuno di noi prima e, persino allora, non l’aveva detto a noi direttamente. Non eravamo neppure sicuri che lei sapesse che ne eravamo venuti al corrente. Anzi, eravamo quasi sicuri che lo ignorasse. Rozanne aveva sollevato l’argomento solo perché era rimasta perplessa dall’incongruenza. Non poteva sapere che la sua semplice domanda si sarebbe abbattuta su di noi come una bomba. Oltretutto, non era il periodo migliore per mettere alla prova la salute mentale della mamma. Il suo livello di ansia era salito al punto da sfiorare l’inabilità. Il suo psichiatra, Toby Hazan, aveva concluso che era la depressione, e non l’ansia, la radice dei suoi problemi. Voleva toglierle lo Xanax e trattarla con un antidepressivo che, in casi rari, poteva condurre all’arresto respiratorio. L’enfisema della mamma aumentava il rischio. Il dottor Hazan non si sentiva sicuro ad autorizzare la somministrazione


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a casa dei medicinali; aveva consigliato di farla ricoverare nel reparto psichiatrico per una terapia della durata di un paio di settimane, il che avrebbe permesso di monitorare con attenzione ogni possibile effetto collaterale. Naturalmente, la mamma si era opposta. Ogni volta che le telefonavo, cosa che io e i miei fratelli facevamo quasi ogni giorno, la preoccupazione per la sua salute aveva il sopravvento sulla curiosità per la sorella a noi sconosciuta. Non era giusto chiederglielo in quel momento, mentre era così vulnerabile. Meglio aspettare, pensavo, che lei ritorni a essere la donna forte, autosufficiente, che abbiamo sempre conosciuto. Inoltre, era all’oscuro del destino di sua sorella quanto noi. Sembrava inutile porle domande. Lei si sarebbe sentita tradita se avessimo rivelato che sapevamo; e a che pro poi? Quella domanda era ancora sospesa nell’aria quando Sash si recò in visita dalla mamma, parecchie settimane dopo. Il suo resoconto non fu positivo. — Ho trascorso la notte peggiore della mia vita — mi raccontò Sash durante una telefonata di buon mattino. La mamma era rimasta seduta sul suo lato del letto per gran parte della notte, gemendo e lamentandosi, disse Sash, eppure non sembrava che stesse male fisicamente. Non mangiava a sufficienza ed era troppo nervosa per dedicarsi alle pulizie, quindi l’appartamento non era lindo come al solito. — Vuoi che venga lì, non è vero? — dissi. — Sì. Sash non si faceva problemi a parlare chiaro; quello, per la maggior parte della sua vita, era stato il suo modus operandi. Col tempo ho imparato a relazionarmi col suo stile senza fronzoli, e persino ad apprezzarlo. Se non altro, rende più facile prendere decisioni che altrimenti verrebbero rimandate, cosa che non sarebbe utile a nessuno. Verso sera, ero seduto nell’appartamento di mia madre.


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Quella notte fu una replica della precedente. Lamenti, gemiti, niente sonno né per la mamma né per noi. Il pomeriggio seguente, nel corso di un appuntamento preso in tutta fretta nello studio del dottor Hazan, la mamma acconsentì con riluttanza a farsi ricoverare nel reparto di psichiatria geriatrica dell’ospedale di Botsford per poter interrompere la terapia a base di Xanax e iniziare con l’antidepressivo. Sembrava l’opzione migliore, e avevamo bisogno di fare qualcosa. Portammo la mamma lì il giorno successivo attorno alle 5 del pomeriggio, non appena ci fu un letto disponibile, e ce la lasciammo per la notte. Alle 7.30 del mattino il telefono squillò. — Steven — disse, con il panico che risuonava nella sua voce, — devi venire a prendermi per portarmi a casa. Non posso stare qui, Steven. Tu non capisci. Non è il posto giusto per me. Ho commesso un errore venendo qui. Cercai di prendere del tempo per pensare, non volevo dire qualcosa di cui mi sarei pentito. Dentro di me, in realtà, comprendevo perfettamente la sua reazione. Avevo visto gli altri pazienti del reparto; erano tutti affetti da Alzheimer o da altre forme di demenza. “Spaventoso” non era una parola abbastanza forte per descrivere quello che stava affrontando. — Mamma, arriviamo subito — le dissi. — Ne parleremo dopo. — Tu non capisci — disse. — Mi hanno portato via le matite. Non posso neppure fare un cruciverba. — Non era una buona cosa. Portare a termine i suoi cruciverba quotidiani, diceva spesso, era il suo modo per provare a se stessa che aveva ancora tutte le rotelle a posto. — Arriviamo subito, mamma. Se la notte precedente era stata la peggiore della vita di Sash, allora quel venerdì fu il giorno peggiore della mia. Sulla strada per l’ospedale, Sash volle avvisarmi che la mamma le avrebbe tentate tutte, pregandoci di farla tornare a casa. Sash era già arrivata alla conclusione che la mamma doveva restare lì, ma io non


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ne ero altrettanto sicuro. — Se tu decidi di riportarla a casa — disse Sash, con i suoi soliti modi diretti, — io non ti appoggerò. — A quel punto, la pressione era tutta su di me. La mamma non perse tempo a esporre le sue ragioni. Fu inarrestabile. Riesco ancora a ricordare che sedevo nervosamente su una sedia, nella luminosa e spaziosa sala di ritrovo del reparto, con la mamma che mi si accasciava sulle spalle, mi blandiva, mi lusingava, piangeva, mi parlava dolcemente. — Non posso restare qui — implorava. — Steven, per favore, per favore. Farò tutto quello che dici, se solo mi porti a casa. — I nostri ruoli si erano invertiti: lei era la bambina, ricorreva a ogni trucco o manipolazione per arrivare al suo scopo. Io ero l’adulto, resistevo, osservavo, la confortavo mentre cercavo di capire quale fosse la cosa giusta — o almeno la migliore — da fare. Ci volle tutta la mia forza per non cedere. Cercai di non piangere, e non ci riuscii. Se un sismografo potesse misurare i tremiti della voce umana, sono sicuro che nella mia avrebbe registrato un terremoto di lieve entità sulla scala Richter. Nel modo più gentile possibile, le dissi che non potevamo andare a casa, che lei davvero non era in grado di prendersi cura di se stessa, che l’ospedale era l’alternativa migliore. Non sapevo che altro dire, e non avevo idea che il suo terrore potesse non derivare unicamente dai pazienti affetti da demenza che vedeva intorno a lei. — Non posso restare qui — ripeteva, come un mantra. — Per favore, non lasciatemi qui da sola. — Sono due settimane, mamma, tutto qui — dissi. — Sarai a casa nel giro di due settimane. Verremo a trovarti ogni giorno. Non sarai sola. Mi guardai a lungo intorno e quello che vidi depresse anche me: pazienti che non riuscivano a nutrirsi autonomamente, pazienti che borbottavano cose incomprensibili, pazienti che mostravano ogni forma di demenza senile che potessi immaginare. La mamma era la persona più in salute lì, di gran lunga, e mi


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fece rabbrividire il pensiero che io me ne sarei andato e lei sarebbe rimasta. L’immagine di mia madre circondata da pazienti affetti da demenza, che cercava di farsi dare una matita per i suoi dannati cruciverba, occupò la mia testa. Mi rintanai in una stanza adiacente per fare un paio di telefonate ad altre strutture, sperando di trovare qualcosa di meglio. Ne trovai una con una clientela più giovane, soprattutto adolescenti che avevano tentato o minacciato il suicidio. Che dilemma: suicidio o vecchiaia. L’imbarazzo della scelta. Non appena feci ritorno nella sala di ritrovo, la mamma riprese la sua campagna. — Per favore Steven, per favore. Non posso stare qui. — Andò avanti per quelle che sembrarono ore. Poi nel pomeriggio, noi tre — io, la mamma e Sash — incontrammo il dottor Hazan in un ultimo tentativo di calmarla. Gli appunti presi dal dottore nel corso dell’incontro sono parte della cartella clinica della mamma. Se avesse lasciato l’ospedale, le chiese Hazan, cosa avrebbe fatto? — Non ho alcun progetto, voglio solo andarmene — disse la mamma con rabbia. — Non penso che sia il posto giusto per me. Non è casa mia. La casa, le ricordò Hazan senza troppi giri di parole, era diventata un inferno: notti insonni, gemiti, lamenti. — La ragione mi dice che dovrei restare qui — concesse la mamma. — Razionalmente so che dovrei rimanere qui. — Poi, disperata, si rivolse a me. — Per favore, non riesco proprio a sopportarlo. Non riusciva a sopportarlo neppure Sash. Lasciò la stanza. Guardai la mamma. Non fu una vista piacevole. Le lacrime nei suoi occhi grandi ed espressivi erano ingigantite dagli occhiali. Il suo volto, così raggiante quando sorrideva, si afflosciava sotto la pressione della lunga giornata e la stanchezza per le tante notti insonni. La sua camicetta ricadeva troppo larga sulle spalle


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ossute. Con i suoi 155 centimetri scarsi negli ultimi due anni aveva perso quasi 11 chilogrammi, pesandone ora meno di 45. Il mio cuore era con lei, ma la testa mi diceva che portarla a casa sarebbe stato uno sbaglio. — Mamma, penso che dovresti restare per qualche altro giorno. Come ha detto il dottor Hazan, la legge gli permette di trattenerti qui per tre giorni. Se dopo te ne vorrai andare, potrai farti dimettere anche se lui sarà contrario. Avevo smesso di parteggiare per lei. Suo figlio, carne della sua carne e sangue del suo sangue, era passato al nemico. A corto di risorse, si arrese, almeno per quel momento. Tuttavia, nei suoi occhi restava uno sguardo di puro terrore — un terrore che non avrei compreso se non molto tempo dopo, quando venni a sapere la verità su sua sorella — ed è quella l’immagine che mi portai dietro quando io e Sash lasciammo l’ospedale e andammo via nella fresca aria notturna di maggio. Due settimane dopo, grazie ai buoni risultati della nuova cura, la mamma tornò a casa. Mio fratello maggiore Mike arrivò in aereo da Seattle per aiutarla per un paio di giorni. Un mese dopo, lei riferì al dottor Hazan che si sentiva «meravigliosamente». Aveva superato il trauma. Come noi. Mentre era stata malata, non ci era mai sembrato il momento giusto per chiederle di sua sorella. Ora che se la cavava meglio, io e Sash pensammo che avrebbe rivelato spontaneamente il segreto. Ma non lo fece. Quindi lo accantonammo. È una cosa difficile da capire adesso, eppure non le chiedemmo nulla; dato che non sapeva cosa fosse accaduto a sua sorella, immagino che anche per noi la cosa non avesse poi tanto senso. La mamma tornò a lavoro, si rimise al volante, tornò alla vita indipendente che sembrava aver perso per sempre. Ci rallegrammo, anche se cercavamo di convincerla a trasferirsi più vicino a uno di noi. Poi, la catastrofe: il pomeriggio precedente il ma-


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trimonio di uno dei suoi nipoti, nel settembre del 1998, mentre fumava una sigaretta davanti all’entrata di un hotel di Seattle in cui non si poteva fumare, venne sbattuta a terra da una porta scorrevole automatica, si ruppe il bacino e fu costretta ad affrontare mesi di dura riabilitazione. Esausta, non si riprese mai fino in fondo. MorĂŹ nell’agosto del 1999, col suo segreto intatto, per quel che ne sapeva lei. Fino a sei mesi dopo, quando venne a galla ancora una volta, imprevisto, senza invito, quasi dimenticato. Questa volta, però, il segreto aveva un nome.






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Il segreto venne a galla, senza alcun preavviso o invito, in un tranquillo pomeriggio di aprile del 1995. I segreti, ho scoperto poi, hanno un modo tutto loro di liberarsi dei loro custodi.

Beth Luxenberg era figlia unica. O almeno, questo è quello che tutti credevano. Sei mesi dopo la sua morte il segreto venne alla luce. Quel segreto aveva un nome: Annie.

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