Mi piace ricordare un’espressione di William Blake, il grande “visionario” preromantico, quanto ebbe ad affermare che “solo le cose mentali sono reali”. In tali visioni, la poesia rappresenta un tumulto reale dell’anima, un contrasto dirompente, spesso inconciliabile, alla ricerca di una dimensione umana priva di compromessi relazionali centrati sull’avere, nell’impossibilità dell’essere. Consegno al lettore queste sudate carte nella speranza di incontrare nuovi compagni di viaggio desiderosi di continuare a credere che l’avventura umana va vissuta in tutte le sue pieghe più recondite, per scoprirne compiutamente tutto il Suo valore anche quando la sofferenza dell’anima tende a risucchiarci nel vortice dell’incredulità e dell’oblio. M.M.
I.
Mediterraneo di sogno Ah Mediterraneo di sogno, freddo scettro di grigio sul cuore, profumo di pioggia su un pianoforte nero, di mani e gomitoli, sciarpe perdute e strade lucide in pietra lavica. Ah Mediterraneo di sogno, fiaba di vetro e finestre corrose, sole in disuso, ombre di date calde e mani di donna sulla mia vergogna lasciata di vento sulla sabbia bagnata.
II.
Arrivederci Traluce in un’aria di seta, nel pulviscolo che sperde tutte le orbite, il lento desinare del tuo sorriso che mi dice arrivederci. Sapore non ho che di questo mio essere sveglio, intriso per un attimo d’azzurro, che faccio piano per non disturbare i tuoi occhi che sanno così tanto di pace, così tanto di inesistenze morbide, che sento potrei risolvere adesso
la forza che non trovo per guardarti e dirti anch’io: “Arrivederci”.
III.
E qui il mio pianto E’ qui il mio pianto, è un’unghia che invecchia in diluiti sorrisi. E’ qui che assaporo nuovi vagiti, rarefatte idee che sanno di lidi lontani. E’ qui che lascio la mia firma e attenuo la mia corsa sul foglio, dove bruciano ancora applausi dentro antichi cassetti, dove passa il polline e s’agitano ancora mani di fine mestiere. E’ qui che m’aggiungo al tuo cuore e t’apro il mio pentagramma nel vento di cento ventagli, libero, sazio d’esser felice.
IV.
L’attimo giusto L’attimo giusto di quei sogni estremi recitati sulla pelle parola per parola, quando cambia il vento su noi cagionevoli ballerini di sabbia e sulle nostre inezie siderali che di tanto in tanto a tentoni s’appartengono. E tu vorresti scendere, per fermarti, per non svegliarti, e lasciare una data, una data lunghisima, sospesa e sottovoce, nella pioggia che fuori sale
perché già è passato il tempo e devi restituirlo il tuo silenzio, guardare oltre, maledettamente, come quella nuvola di calore che non l’hai neppure udita ma è passata sopra la città, semplicemente, strisciando, d’un immenso addio.
V.
Non saprò Non saprò, lì, dove ci doleva come una fitta a strapiombo, dove finirono le maschere mediocri che ci lasciammo dietro nei chilometri dei nostri giorni. Ah, il passo che prendeva forza. È sì, ridevamo, ridevamo, come una freccia dritta nell’ignoto, con le vene che ci fischiavano di gioia. Nient’altro saprò di questo ciclo ad uscire, delle invocate stazioni a mezz’aria che respiravamo zitti dal fondo delle maree. Ed a sangue si dipana ora il flauto dissepolto della foschia, il suo varco che m’albeggia dentro e scolpisce tracce inestinguibili, che rompe, spacca, e…. torna luce. Nient’altro saprò, ché la vita si scava e ti scava, e che tu spiri dalla terra, come terra, nuda onda di polvere, granello libero nel grembo del cielo.
VI.
Quel vento fuori dalla mia finestra
Quel vento fuori dalla mia finestra che diede disegni oltre le mie labbra rotte e singhiozzò sull’erba pronta all’amore. Quel vento lasciava un ricordo antico di navi in legno selvaggio in onde morbide. Quel vento tornato a lucidare in attimi di vetro immobile, tornato a morire dentro gli occhi in un impareggiabile schiaffo di luce.
VII.
Tele o fasci di mani spiovono in un azzurro esitare di mezzogiorno.
VIII.
Un poco d’anima Un poco d’anima, d’un solo silenzio, buon amico del frumento ed il frullo che mi si placa in appena intuite cattedrali di luce. I miei libri che s’addormentano, frasi che si sciolgono e par che partano dove labbra verdeggiano. Forse son io e non mi basto, furioso tarlo fra l’arsura ed il ghiaccio, come un bimbo in un nido lavato di tristezza
IX.
Vorrei raccontar cose Vorrei raccontar cose, adagio, dentro notti di ghirlande buie e campane alte, sotto lenzuola calde come granai di mezzogiorno. Vorrei parlare, adagio, nella città, nell’ora più nascosta dei lampioni e delle nebbie, quando la pioggia accompagna treni stanchi ed i miei libri hanno sempre più pagine gialle. Me lo propongo spesso di raccontare finalmente i miei nodi infiniti, l’uva ardente di strofe affamate che difendo ad oltranza. Vorrei spendermi e parlarti della mia patria che corre disperata, dei miei cieli sbagliati, delle frontiere che non riesco ad attraversare e di certe onde che non riesco a raccogliere. Ma succede che nell’attimo barcollo e dimentico le parole e i crepuscoli che mi ero così bene annotati su foglie secche di stagioni silenziose. Ma succede che d’improvviso mi trovo sconfitto da una ferita infertami nell’ombra. E cosi spesso rimango impigliato nella trama dei miei sospiri e non trovo un ordine preciso, qualcosa che mi riaccompagni
Giunge come tonfo di chiavistello, come polvere su un territorio bianco, un’assenza, pallida e fredda, come un arpione smagliante che mi strappa dalle tue labbra calde, come un Inverno d’anima che mi toglie ossigeno alle parole e del mio cuore di pioggia lascia soltanto una goccia imprecisa su di un foglio di carta bianco.
X.
Scucito nel tramonto Questo mare che mi desta coralli ed occhi tesi ad aspettare, che mi trova sbadato, intento ancora col mio pennello di pena, arpa furiosa tra i capelli. E così, scordo spazi e getto pietre, tocco l’acqua che porta il vespro. E di tanto in tanto son foglia lucida anch’io nel libeccio che prega e passa l’onda, son nulla che s’accosta nell’abbaglio ultimo del mondo, ormai traccia nuda che divampa nella mia bandiera al vento.
XI.
Stretto mare in palpebre di vetro. A nulla vale tirar sudate reti, sfibrato cielo d’ t di
XII.
Forse una parola, forse una nuvola caduta dai tuoi occhi, o forse l’Autunno con la sua chitarra d’aria. Fammi entrare, le mie scarpe tornano ora dal mattino, ed un bacio vuol toccare le tue labbra mentre stai dormendo. Forse è la sera che abbraccia la neve, o forse sono quei treni itineranti che nascono da altri profumi. Siediti qui, dove una goccia vuol dir pioggia, dove aria e sangue nascono dalla stessa sorgente.
Forse è voce che torna indietro, forse è sabbia che annuncia il sole. E’ tutto qui ciò che volevo dirti, sotto le lenzuola, sotto la luce. Lucciola, siamo macchiati dall’equinozio e dall’erba, e da tante altre cose che si asciugano sul cuore e lasciano che per un po’ le verità fioriscano su radici di favole.
XIII.
Vuoto libero del viale, e ti prendo sottobraccio e mi parli del freddo che torna, dei segni delle braci che rimangono sulla sabbia e delle musiche che viaggiarono tra le luci mediterranee. Eravamo sirene, adagio lavorati dal sole, i silenzi che tu dicesti di mare e preghiere sciolte d’alghe che ora insieme recitiamo nel vuoto libero del viale.
XIV.
Ispirazioni All’indomani, con un verso di nulla su un filo di chitarra mancato d’erba,
tepore lasciato in qualche angolo di te. Vapori di carta all’indomani, sulla spiga gialla di malinconia. E l’oceano consegna come sempre la sua schiuma, e tu tremi e non dici che parole calde di ardenti falò su nastri nuziali pronunciati dentro il silenzio degli altri.
XV.
Marame di terra indurita, secca e spaccata, pietre votate in infinito, di pazzo desiderio d’avvento risacca. Mani madide di sudore stringono la vanga lucidata di silenzio e d’unghia schiacciata nel limone pieno. E sferrano dall’aria colpi sul delirio delle zolle senz’aria, con sforzo che morde le labbra, in viaggio di luce e d’ombra. S’aggiunge poi secco come striscio sottile di fionda la cicala col suo canto che taglia a strappi quell’anima vista sola a colpi di vanga.
XVI.
Oggi il vino riempie il mio bicchiere pazzo ed il cielo par annusi altri dolori.
XVII
Resistenza
Aprimi le tue finestre al fiato caldo, là dove giunge la neve, come una volta, con l’eco nell’ombra ed un viaggio di lingua sul coltello assassino. Ahi amore mio, vedi, vivo da capo a fondo e non trovo tributo al sangue dei miei compagni, dei miei amici. Ora afferro solo briciole stanche e resto sonnambulo per sempre, questo fatale volger veloci e le mie lacrime in fiamme, impaurito sulle ammassate pelli fredde nelle sere illuminate a sparo dai cannoni.
XVIII.
Avrai ancora tempo per me? Avrai ancora tempo per me, per i miei saluti bianchi di calendario e i minuti che libero come ceneri dalle mani negli autunni rossi degli alberi? Dimmi, avrai ancora tempo per me? Sulla tua schiena che profuma d’India e sull’erba appena galoppata, ti scrivo solo un appunto, giusto perché tu non te ne dimentichi: sono le mie valigie fredde, piene di frantumi e sedimenti di baci e sorrisi ancora non decifrati e meno che mai studiati.
Avrai ancora tempo per me, quando anche tu ti sentirai passeggera e avrai parecchi nodi sui fazzoletti e ti vedrai nube tra le fiamme? Dimmi, avrai ancora tempo per me? Ti dico questo non certo per insegnarti, ma perché nessuno disturbi mai il tuo amore, perché nessuno mai percorra i tuoi corridoi lucidi spargendo fango o unghie di viandanti coi cappelli in perenne equilibrio. Non so se avrai ancora tempo per me, so però che tutto ha un prezzo: la rugiada o il succo d’arancia, le foglie o il silenzio.
Di tutte queste cose voglio annotarmi solo i tuoi occhi: continuerò a toccarli, a dormirci accanto, a scomparirci dentro; continuerò a visitare la pioggia campestre e, mia beneamata, prestarmi alla luce, che mi indica nuove strade e nuovi fogliami.
XIX.
Riviera innevata Era l’inverno che graffiava sotto le scarpe e sferzava pesanti ballerini in un ritmo bianco sulle facce fredde. Sul litorale bruciava la neve e rimbombavano i colori e gli spigoli, tutto un po’ più rigido come il nostro respiro. Non ci aspettavamo un naufragio o cose del genere, forse solo una foglia esasperata, l’innoquo indizio di una mappa di un ammiraglio stanco. Aspettavamo e basta senza aver preso neanche il numero, così, un segreto dopo l’altro, parlando d’angeli, danzando adagio su tasti bianchi di pianoforte.
XX.
A Peppe Dalia Oh notte, come voce
volge ad imbrigliar le forme nell’oscuro grembo. Amico tu vi eri addentro, ignoto come veloce stella sotterranea, cellula in disparte col vento tra i capelli. Oh notte di paura, di letame e secca tosse, che logori cordami e inesorabilmente strappi ogni volo limpido d’aquilone; notte di bestemmie e mani fredde, di fiato grosso e zitti specchi rotti sull’erba nera. Notte, riportami il mio buon amico. Sono qui che scavo con le mani nude e non lo trovo. La pietra che rotola è sangue e la mia anima è niente. Riportami o notte il mio buon amico; placa la tua fame stellata, riponi il tuo inaspettato coltello che lacera senza suono. Riportami il mio buon amico, libero come bianca pagina, leale e robusto come corteccia d’alta quota tesa e generosa, fiero e coraggioso come geografia del mattino. Il mio buon amico, nient’altro che il mio buon amico, il cielo che s’apre ed il mio buon amico nell’aria pura.
XXI.
Ah quasi fossi silenzio, piano lambire taglio di risacca, fresco che lascia l’acqua e lento avanza sulla mia pagina bianca
che strisciano sulle mani ed in segreto ossidano campane. Cambiano pianeta altre navi, studiano adagio di stella in stella, nascendo e morendo, suonando con fiori che segnano un NORD che non esiste.
XXII.
1 Gennaio
Insonne mia mano sulla tua pelle di schiuma. Sono il tuo aquilone che urla e che nasce, che ricalca in volo la tua freschezza, che assapora l’onda della tua costellazione nell’ora più votata al bacio, nella strofa che mai ti dissi quando il giorno sorse ed io morii tra i tuoi seni caldi. Vorrei dirti ciò che non dimentico nel tuo abbraccio, ciò che mi sussurrò la notte quando tutto fuori era freddo e tu dentro eri il mio miele nudo. Tu, mia delizia notturna, mia gemella che attendi il mio sonno e mi prepari ai vapori marini e riempi la mia cantina lasciata fredda l bb
Mia donna, mia fragola perpetua, mia piccola viandante tra le foglie, che cerchi il mio ieri, che soffi piano sulle mie ferite, siamo in corsa, chiusi e veloci, lĂ , dove nascono i papaveri dal nostro sangue, lĂ , dove muoiono gli artigli dai nostri baci.
XXIII.
Fratello africano
Sera e passi di Cartagine, mio fratello che suda sotto le palme, sotto la luna; e danza aspettando la buona marea, e scrive con lingua antica preghiere di padre in figlio, aspettando il suo buon battello, un sogno, un addio.
XXIV.
Come nave di saluto nel vapore di una bandiera tra le fiamme, usciti da un lembo d’arsura, raffica ora giunge sulla tua chioma che sa di bocca. Ecco, quel tuo minimo gesto che raccoglie i capelli morbidi in un tuffo di miele, rapiti come siamo dalle aride ruote arancioni di una estate che adagio sfila.
dove s’accosta un’ombra di presto addio. Qui noi squilliamo, forse per un attimo con iridi d’oro, con stile di tenerezza decantata. Si svela ed oscilla leggero un profumo di gelsomini, e s’alzano ora gialli aghi nell’azzurro di cerbottana. Adoro la tua schiena di pesca, la terra che schiera le sue rughe secche e l’odore caldo del ferro che attende il prossimo diluvio. Adoro questi mattini di flauto vergine, voci d’infanzia dietro le finestre spalancate, il mio fuggire con gioia di nuova polpa tra le vigne prossime al vino.
XXV.
Il tuo Inverno, il mio Inverno, le schiume basse che ci conducono, le labbra spaccate e le frequenti strade dove ora s’appoggia il freddo. Ho una data segnata, una tenue scrittura in polveri d’Africa. Ho questa memoria che corre veloce, il ricordo di un balcone ubriaco nel giorno, il nostro essere risacca, questo andare e venire, andare e venire, come il cuore, come niente
Ora questo spiraglio di freddo dai vetri impassibili, le coperte che aumentano, il tuo naso che cola, il nostro volo sempre più a rasoterra. Ora porto strade bagnate con me, il silenzio grigio delle città, e le tue mani fredde. Il mio fiocco di neve, le tue gocce di pioggia, il nostro letargo quando giunge l’Inverno. E già bianco il tuo respiro, ed i tuoi tacchi pigri sulla strada che passa. Chiusi nei baveri andiamo con una gracile fame di tepore e parole perse dentro i tuoi capelli salati.
XXVI.
La strada non trattiene l’aria nuova ed è come luccicar controvento
XXVII.
Lungo una strada provinciale ad ottanta all’ora
Lungo una strada provinciale, ad ottanta all’ora, un profumo di speranza si dipana. Costeggio i tuoi occhi neri, prati di leggende e violini che salgono al cielo. Che vuoi farci, oggi sono felice,
Le ho gettate via le mie angosce, l’ho fatto ad ottanta all’ora, dopo quella curva, dentro il tuo grembo nell’aurora che mi bussava alla porta. Perdona questo mio sentimento ma sai t’ho aspettato tanto che ormai ti sentivo soltanto come un ricordo non vissuto, uno scarabocchio in un quadro tra le fiamme; ed ora ti trovo ed io mi apro come un fiore ad ottanta all’ora.
XXVIII.
Passano vele di febbraio
Passano vele di Febbraio nella luce che si scatena; s’annotano la mia anima con tatuaggi di pupille e malinconie di bandiere che si stirano a Nord. Sulla sabbia, nella curva piena del vento, scrivo e piango anch’io parole di partenze e baci incendiatisi all’orizzonte. Qualcosa, come una ruga giudiziosa, nella paura del mare che si ripete con le sue rovine bianche, vuole che vada, che mi consegni e riconquisti come un fantasma di conchiglia inattaccabile, la solitaria brezza che a pelo d’acqua sfida il dolore utile di un indomito viaggio, cieco e virile, che luccica e frulla dentro gli occhi, e che di tanto in tanto come un legno morto sulla riva lascia al mondo tracce, fibre di distanze praticate, h
XXIX.
Mi torna oggi
Dei tuoi alberati silenzi, del tuo borgo che adagio pennellavi quando l’aria si puliva e le campane restavano fredde dopo la pioggia fuggiasca, mi torna oggi il buon odore, l’impronta bianca dei tuoi respiri e le preghiere recitate in fretta dopo l’amore, barlumi e veli della tua stanza tutta notte spiata.
XXX.
Neve meriggio, piano, come nuvole sul mondo.
XXXI.
Riprendiamo quelle strade
Riprendiamo quelle strade, quei passi nascosti nella tramontana ubriaca che passò fredda come un uccello che nonostante tutto cercava ancora il suo meridiano. Se vuoi ci basta una vita e tanto silenzio sottobraccio, amori affilati in strappi d’anima ed occhi senza uscita.
che misuri il passo con idee di veliero. Poi magari si faranno lunghe le nostre ombre, si sporcheranno d’inchiostro le nostre mani, e ci vedremo in controluce, ormai dei in soffitta. Ma le strade ed i passi nelle scarpe consumate li porteremo sempre, con mani di bimbo, sempre, a squarciagola.
XXXII.
Domenica mattina d’ottobre
Amore, mi parli di nebbie seppellite, di vapori e di carezze giunti a me come bisbigli traslati nel vento. Amore, ho chiuso gli occhi giusto il tempo di un sospiro graffiato nel cielo, in attento equilibrio su un verso d’Autunno nel sole di sbieco.
XXXIII.
E non s’ode bene l’autunno
E non s’ode bene ancora l’Autunno che giunge: a me solo le ellissi delle foglie nelle stanze del mattino e nei vapori dell’infanzia. S’odono e piano fanno male queste secche palpebre di noia, queste lente lettere d’addio. E m’abbraccio e m’abbandono
Sopra l’erba, mi dico: “SCRIVILO!”, ora solo un suono obliquo e grigio che s’allontana in fredde curve di tristi uccelli nel vespro silenzioso sui portali e sul bugnato bianco. S’ode poco l’Autunno che giunge: solo spazio di silenzio che s’incide nel trionfo delle persiane che si chiudono.
XXXIV.
Fata libera come spiaggia gialla, verso lasciato di voce in voce nel mattino del cortile. Cullami un verbo che soffi tra le dita, leggero, come la tua pelle premuta sulla mia, un lascito d’angelo nella domenica dell’Agnello, un canto-dialetto, quando spunta il primo vino, nell’amore steso ad asciugare al profumo di vendemmie.
XXXV.
Fogli sciolti come erba di nuova stagione, d’aria che cambia, nella terra che ora si scalda. S’aspetta che fluttino profumi come repentini assaggi di favole che ci lasciano in un batter di ciglia. Vieni, insieme saltiamo il fosso, perdendo ogni orologio, con spalle novizie nel sole mattutino.
Fresca linea di risacca, ammorba sogni e non nuoce. Ti trovo qui, appena giunta, stinta un attimo nel paesaggio con lacrime nei calendari. Paura della corrente, occhi pungenti oltre il giunger dell’ombra. Ahimè, itineranti senza vie, profughi nella brezza di un silenzio, della sabbia che ci lascia come foglie perdute nel vento.
XXXVII.
Lunghi spazi d’innocenza straniera, ombre lievi su un cuore liscio, risa che lasci sul tuo libro sottolineato nelle viuzze graffiate di freddo. Forme d’acqua ci confondono, e noi beviamo con occhi di commiato, aspettando l’ora che pulisce come un urlo obliquo sul vetro che ci divide. Siamo di carta, parole lanciate nel cielo, insegnati all’etica delle nuvole, nude creature nel buio fluir dell’acqua, di un campanile che squilla come madre che conduce.
XXXVIII.
Perché tu mi piaci così
Abbiamo anime sparse come aperti pugni di polvere, un silenzio di campagna e suoni di violini che salgono dall’erba. Perché tu mi piaci così, come un succoso frutto giallo: lievitata dalle mani della terra, inattesa parabola di luce. E non ti chiedo di segnarmi l’affanno degli orologi con le loro ragnatele feroci, non ti chiedo di seguire le rotaie che vanno dove si nasconde il freddo, no, tutt’altro.
Voglio da te una chiave di sabbia, quella dove per un attimo giunge il mare e si riposa con i suoi eterni segreti di subacquei confessionali; voglio da te delle margherite educate da sfogliare controvento, l’attimo azzurro di una stella cometa, il fumo incostante delle vecchie birrerie. Voglio che mi porti la voce del nostro Sud, la voce roca delle nostre vecchie pietre calde, o il suono del ruvido olio sulle patate condannate. Voglio che mi riveli il saggio aroma rosso dei pomodori, il millenario fidanzamento delle arance con i limoni, o come si dorme nei nidi dei passeri, o come si fa a spargere la primavera da una mongolfiera di luce. Voglio da te l’acqua che secca in estate nei fiumi, e al mattino il tuo sudore sul mio letto affaticato. PerchÊ tu mi piaci cosÏ, come la mia terra, salutata dal sole mentre sorseggio il vino migliore.
XXXIX.
Fascio in breve strofe e titoli che lascio liberi come tranquille navi dentro le bottiglie.
delle spighe e i binari poeti dentro l’erba al soffio triste. Però promettimelo che tu non ci sarai quando lo sguardo migrerà altrove, nell’istante che spazzerà, come acqua sullo scoglio, il mistero duplice di chi parte e di chi arriva nelle stazioni che non ci sono.
XL.
A variopinti disegni, in un quieto crescer d’erba, t’affacci al sole che t’aspetta. E noi vediamo lungo il viale che studia la stagione, come un umido presagio, un lento soffermarsi sugli istanti, in un ritmo benedetto che par invochi vita.
XLI.
C’eri tu nella mia corsa verde. Pensavo fossi di sbieco, un insistere su una riga come laccio che può tradire. C’eri tu, e non eri vapore di silenzio, eri musica di sponda in sponda, conchiglia ritrovata, desiderio cucito con un filo di brivido, mattini specchiati su nuvole in viaggio.
XLII.
chiuse nel mio sangue. Altrove un abbraccio e ventagli, nitore di grano caldo, la grazia che ci vuol trovare nudi, annegati in un fil di vento, strappati e bruciati, sudati nella nostra doppia geografia di delirio notturno. E tu curerai le mie ferite? Sparpagliato in puro giorno, cerco ancora tra i rottami dei miei affanni.
XLIII.
E già s’appresta la sera con colori verde rame. Vieni, culliamoci fuori nel vitreo mormorio delle lampade che illuminaron le cose con vibrazioni d’oro stupefatto. Guarda, il cielo è incostante laggiù e le carezze non fan rumore su due esseri appena tinti di penombra. Attenta, segni e profumi ancora ci giungono da antichi falò, memorie di caldi graffiti, un coagulo di sogni
dei tuoi occhi nei miei.
XLIV.
T’imbianchi come di pietra silenzio, di sbieco transitata in un fioco soffio d’altri stormire. Lesta seguivi i miei passi favola com’eri per me di pioggia, dal sonno mi chiamavi dietro le coperte e in approdi finivo in un’infanzia d’infinito.
XLV.
Talvolta nasco, l’alba stira le sue ali umide appena, e ritorno agile al tuo sorriso di fresca corrente e di patrie d’avena. E li’ perdo ogni ruga, indovinato tra le tue braccia, confessato nella tua chiesa di pelle che professa sotto la lenzuola. E tu t’affacci, semplice, nel mattino che profuma e spera, come goccia perduta nell’erba, ed i tuoi gesti rituali che carezzano il mio risveglio che palpita tra il tuo cuore ed un bacio.
XLVI.
Quando ti amo
Ti amo quando i tuoi occhi hanno il profumo dell’Inverno, carattere umido di inabissato arcobaleno, d l
come luce che s’apre al suono del cielo, alla brezza che s’affaccia ai tuoi baci di vendemmia. E t’amo e t’attendo come l’eco attese il grido che fuggi con strormi in volo e Dio, come lo scoglio attese l’onda che mai più rivide.
Guardami, sono la tua sostanza spezzata, sono la tua ferita aperta che stilla gocce di sangue e petali di girasole. Ti amo perché anch’io mi sfoglio di tanto in tanto, possiedo baci confermati nell’aceto e sogni che tremano dentro case di pioggia. Ti amo così, come un dio ubriaco che corre cieco nel silenzio di una burrasca, sottile e leggero nella fresca sera, febbricitante chicco d’uva alla tua bocca ansiosa di zucchero. Ti amo, e guardo i tuoi occhi, li annuso, li copio, li libero. E s’aprono a me le tue finestre d’estate, bandiere d’altri venti; e sento dentro, forte, sempre più forte, un gran frullar d’ali.
Note biografiche Massimo Martorella, giovane poeta agrigentino è nato nel 1971. La sua vocazione trova una funzionale maturazione attraverso studi artistici e l’assidua frequentazione di ambienti letterari.La prima raccolta di versi, “Voci d’aria”, ha ottenuto un lusinghiero successo di pubblico e di critica. Nel 1998, il poeta ha vinto un prestigioso concorso letterario nell’ambito della “Settimana Letteraria” di Torino. L’autore ha ricevuto un’apprezzata recensione della Casa Editrice Einaudi e la pubblicazione, in forma antologica, di alcune sue poesie in un libro pubblicato dalla Rubbettino. Amante della Valle dei Templi e dei suoi ulivi saraceni che è solito ammirare nei bei tramonti agrigentini. La presente fatica letteraria “Cieli brividi”, è l’ulteriore testimonianza in bilico tra passato e futuro.