Alle vittime di mafia: a quelle innocenti ed alle loro famiglie a cui la violenza ha negato il diritto di vivere; ma anche a chi, cresciuto con la morte nel cuore, nessuno ha saputo insegnare ad amare la vita.
In copertina: il corpo senza vita di Carmelo Marziano, ucciso il 12 maggio del 1993. I killer spararono da due lati, i proiettili frantumarono il lunotto posteriore. Marziano nel ‘92 era scampato ad un agguato in cui persero la vita Girolamo Di Gerlando e Marco Balsamo. Restò vivo anche Salvatore Morello, che temendo per la vita, cominciò a collaborare con l’autorità giudiziaria, svelando i retroscena della faida di Naro. Ma poi si pentì d’averlo fatto e tornò sui suoi passi.
2
Alfonso Bugea
COSA MUTA AGRIGENTO, LA FORZA DEL SILENZIO
Introduzione di Luigi Patronaggio e Gian Antonio Stella
IL CONTESTO, LA MAFIA. UOMINI D’ONORE, PENTITI, POLITICA, STRAGI. APPUNTI SU UNA PROVINCIA RICCA DI STORIE, DAL FUTURO INCERTO.
3
Copyright © 2002
Centro Culturale Editoriale Pier Paolo Pasolini - Agrigento Centro Studi Giulio Pastore - Agrigento Provincia Regionale di Agrigento
La pubblicazione è stata realizzata grazie al contributo dell’Assessorato Regionale ai Beni Culturali, Ambientali e Pubblica Istruzione Si ringrazia per il sostegno il Comune di Porto Empedocle La pubblicazione è disponibile sul sito www.centropasolini.it
ISBN 88-85418-10-4
Cosa Muta: Agrigento, la forza del silenzio: il contesto, la mafia, uomini d’onore, pentiti, politica, stragi, appunti su una provincia ricca di storie dal futuro incerto / Alfonso Bugea. Agrigento: Centro Culturale Editoriale Pier Paolo Pasolini, 2002. 1. Mafia - Agrigento 364. 106 CDD - 20 SBN Pal 0195119 CIP - Biblioteca centrale della Regione Siciliana
4
Prefazione di Gian Antonio Stella inviato del Corriere della Sera
Non fosse stato così ciccione da non poter proprio maneggiare un fucile a pompa dentro la minuscola A112 in quell’imboscata sospesa tra la morte e il ridicolo, Giulio Albanese sarebbe diventato un assassino. Non fosse stato così entusiasta di salire sul fuoristrada dell’amico di papà dove l’avrebbero ucciso scambiandolo per un altro, il piccolo Stefano Pompeo avrebbe potuto compiere dodici anni. Non fosse passato in quel momento davanti al bar Albanese mano nella mano con la sua fidanzata, Filippo Gebbia avrebbe sposato quella ragazza che si chinò in pianto su di lui nella pozza di sangue. Non fosse rimasto per otto anni chiuso in un cassetto dov’era stato archiviato senza che nessuno si prendesse la briga di leggerlo, il rapporto delle Giubbe Rosse canadesi avrebbe potuto rivelare ai nostri investigatori tutti i segreti della mafia agrigentina, studiata e indagata e radiografata meglio a Toronto che nella antica e sonnacchiosa Girgenti. Ciò che colpisce nella lettura del libro di Alfonso Bugea, nel continuo susseguirsi di episodi spaventosi e grotteschi, tragici e surreali volutamente affastellati senza un apparente ordine logico o cronologico, come fosse un copione di “pulp fiction”, è il peso della casualità. Un niente e sei salvo, un niente e sei morto. E il tuo destino, sottratto ai capricci di Giove Olimpico o Giunone Lacinia i cui templi sono assediati da un abusivismo edilizio che troppo spesso si salda con la criminalità in quello che l’autore denuncia come «un flusso continuo di illegalità», è affidato a un fato sgangherato e violento segnato da una criminalità che inquieta e terrorizza proprio per la sua faccia oscenamente banale. 5
L’autore non aggiunge un solo aggettivo al suo racconto. Non uno. Non cerca consensi di maniera, non si iscrive al partito dei «professionisti dell’antimafia», non vuole toccare le facili corde dell’emozione. Di più: si permette perfino il lusso di non additare responsabilità, non strillare indignazione e non dare giudizi morali (tanto ovvi da essere superflui) sui protagonisti della sua foto di gruppo. L’asciutta cronaca dei fatti, così come sono stati ricostruiti al «processo Akragas» e registrati giorno dopo giorno sul taccuino degli appunti, basta a disegnare il quadro raggelante di una terra dove decine di migliaia di persone perbene sono costrette a lavorare, portare i bambini a scuola, andare in trattoria, fare una gita al mare, gironzolare tra i banconi dei supermercati e insomma vivere una vita normalissima che in qualsiasi momento, per il motivo più stupido, può fare corto circuito. E incrociarsi con l’«altra» vita che nella stessa Agrigento, la stessa Porto Empedocle, la stessa Racalmuto, è fatta di sopprusi, prepotenze, racket, usura, omertà, delitti. Ed è qui, in questa terra di nessuno, che emerge la solitudine di chi si rifiuta di vedere cosa sono diventate negli anni Agrigento e la sua provincia dove, secondo un rapporto della Dia, la mafia “sembra riunire i maggiori requisiti per far nascere Cosa Nostra del futuro”. Qui, dove mosse i primi passi quel don Vito Cascioferro ritenuto l’assassino del leggendario Joe Petrosino, hanno via via trovato rifugio Totò Riina, Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca. Qui è stato tenuto prigioniero il piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido dopo una lunga prigionia durante la quale era così convinto che i suoi carcerieri lo proteggessero dalle cosche nemiche di suo padre che li chiamava “marescià” e “brigadiere”. Qui si è scatenata una guerra con decine e decine di morti tra cui Giuseppe Settecasi, che dopo essere stato ucciso fu portato da qualcuno alla famiglia e «venne vestito e messo su un letto al centro della casa e quando arrivarono i carabinieri quello tutto sembrava tranne che un morto ammazzato». La solitudine dei preti che non possono riconoscersi nei messaggi tranquillizzanti che furono del cardinale Ernesto Ruffini e che per 6
troppo tempo hanno dovuto attendere una pastorale coraggiosa contro «il fetore di disumanità» come quella del vescovo Carmelo Ferraro. Dei giudici coraggiosi come Antonino Saetta o Rosario Livatino, assassinati perché avevano cercato di tagliare quell’invisibile filo spinato che tiene l’antica e sventurata Girgenti in ostaggio di ragazzini che uccidono per una paga mensile di cinquecento euro. La solitudine di poliziotti come il capo della mobile Giuseppe Cucchiara che il giorno prima l’assassinio del «giudice ragazzino» urlava: «Noi siamo come la squadra di calcio dell’oratorio, giochiamo in pochi e corriamo tutti appresso alla palla, cioè al morto. Avviene in media un omicidio ogni quattro giorni, e siamo costretti ad inseguire il nuovo morto, tralasciando l’approfondimento delle indagini precedenti». La solitudine di tanti postini, impiegati, giornalisti, infermieri, avvocati, idraulici che cercano di fare onestamente il loro mestiere. Ecco, questo libro è per quelli che vogliono capire Agrigento come chiave per capire l’intera Sicilia e con la Sicilia la Mafia. Per quelli che non si rassegnano. Per quelli che, al contrario di quanto dichiarano tanti uomini d’onore, e cioè di avere giurato fedeltà all’«onorata famiglia» perché non volevano essere un «un nuddu ammiscatu cu nenti» (un “nessuno” mischiato col niente), pensano che ciò che davvero merita il rispetto degli altri non sia il mettere paura agli inermi. Ma il piccolo eroismo quotidiano di vivere con la paura e di tener duro lo stesso. Gian Antonio Stella
7
8
Prefazione
di Luigi Patronaggio magistrato
C’è stato un tempo, quando i giudici vendicatori andavano di moda, che non passava giorno senza che venisse pubblicato l’ennesimo libro sulla mafia. Al tempo dei giudici vendicatori è seguito il tempo dei garantisti a tutti i costi ed, infine, quello degli avvocati che si fanno consiglieri del Principe fino ad avere la pretesa di scrivere essi stessi Leggi e Codici a misura di potenti. In questo triste tempo è cosa rara – è ancora più rara nella terra di Pirandello – leggere un bel “libro – testimonianza” sulla mafia che vibra e si segnala per impegno civile e morale. E’ questo il libro di Alfonso Bugea, giornalista serio, impegnato, mai sopra le righe. Nello scrivere un libro sulle cose di mafia, c’è sempre il rischio di cadere in descrizioni folcloristiche del fenomeno e in giudizi auto-assolutori. Bugea si distingue fra le numerose file di esperti e di presunti esperti di mafia - questi ultimi insieme ai tuttologi costituiscono addirittura un esercito! - per la capacità di sapere raccontare i fatti con animo sinceramente partecipe alle sorti delle vittime. C’è negli scritti di Bugea una pietas verso gli sconfitti e le vittime che lo eleva da arido cronista ad apprezzato narratore. In questo libro, accanto a pagine accoratamente partecipate (si leggano per esempio le pagine relative alla triste vicenda del piccolo Di Matteo o quelle relative alla morte del giovane Stefano Pompeo), ve ne sono altre sorprendentemente ironiche. Leggetevi le pagine sul Capodanno di Totò Riina a Torre Makauda al suono di «Stasera mi butto» di Rocky Ro9
berts e capirete come mai affermazione fu più vera di quella che vuole che «una risata vi seppellirà insieme a tutto il male del mondo». Ma a parte il colore, il libro si segnala per l’esattezza e la fedeltà dei fatti ricostruiti e qui, davvero, il mestiere di cronista di Bugea lo si apprezza per intero. Rigorosa è stata la ricostruzione cronologica delle guerre di mafia che hanno insanguinato l’agrigentino, attenta la ricostruzione delle vicende giudiziarie, sempre pertinente, infine, il riferimento al contesto politico – sociale in cui sono maturati i fatti. Ed è proprio con riferimento al contesto – concetto caro a Leonardo Sciascia – che ci vogliamo di seguito soffermare. Della mafia si possono offrire diverse chiavi di lettura: alcune storiche, altre sociologiche, altre ancora antropologiche, fors’anche psicologiche, ma di certo della mafia non si potrà mai comprendere nulla senza un attento esame del contesto in cui la mafia si genera e si alimenta. Si diventa mafiosi perché si nasce o si è allevati in una famiglia mafiosa; si diventa mafiosi per desiderio di onnipotenza o per non essere «nuddu ammiscatu cu nnenti»; si diventa mafiosi per necessità o per scelta; si diventa mafiosi, infine, perché il male e il potere sono fascinosi; e tuttavia non si può essere mafiosi, con tutto ciò che di potente e sinistro significa essere mafiosi, senza che «gli altri», i non mafiosi, non si pieghino, per forza, per viltà, per connivenza, per pigrizia, per in-cultura, al rispettoso riconoscimento del mafioso. Ora, se allo Stato, alle Forze di Polizia, alla Magistratura, spetta combattere, ognuno per quanto di rispettiva competenza, la mafia sul terreno della repressione, spetta, viceversa, alla politica, alla società, al mondo della cultura, ridisegnare quel contesto su cui si genera e perpetua la mafia. Fino a quando vi sarà il mercato del voto, la cultura della raccomandazione, la fame di lavoro, fino a che la politica non sarà vissuta come servizio, fin quando non si capirà che legalità e progresso economico sono un binomio inscindibile, la mafia non sarà mai sconfitta. Agrigento è diventata, a torto o a ragione, l’emblema nazionale dell’abusivismo edilizio, nel senso che ad Agrigento, la gente, gli am10
ministratori e finanche la Chiesa, lungi dall’essersi schierati a fianco dello Stato per il ripristino della legalità infranta si sono sentiti, in modo e con ragioni diverse, di schierarsi a fianco degli abusivi piuttosto che a fianco di chi la legalità intendeva ripristinarla. Ora, vi possono essere diversi motivi per solidarizzare con gli abusivi, e primo fra tutti una malintesa pietà per chi si accinge a perdere il focolare domestico frutto di sacrifici e carico di speranze, ma solo pochi si sono posti il problema che combattere l’abusivismo significava ripristinare la legalità, l’ordine, avviare un sano programma di sviluppo del territorio e delle risorse economiche, ambientali, architettoniche e culturali. Se gli incantevoli templi dorici di Agrigento, le bianche scogliere calcaree del suo litorale, gli odori e i colori dei suoi mandorli, delle sue ginestre di mare, non creano opportunità di lavoro non è forse perché quei templi, quel mare, quegli odori sono poco fruibili e minacciati dal cemento di anni di abusivismo edilizio? Ed ancora, se ogni iniziativa imprenditoriale, così nel settore turistico come in quello commerciale o industriale, deve fare i conti con le imposizioni del racket mafioso ovvero affidarsi al finanziamento di capitali gestiti dagli usurai, vi potrà mai essere sviluppo senza legalità ? Infine, prima di abbandonare il lettore alle pagine di Bugea, ci sia consentito di richiamare la necessità di serbare la memoria di chi non c’è più, di chi è morto – sia esso magistrato, poliziotto, giornalista, sindacalista, sacerdote, semplice fra i semplici, ultimo fra gli ultimi – per una società libera dalla mafia e giusta, dove ognuno possa esplicare la propria personalità ed avere la propria occasione. Questo libro può essere, per l’appunto, un’opportunità per non dimenticare e riflettere. Luigi Patronaggio
11
Foto archivio Giornale di Sicilia
Foto archivio Giornale di Sicilia
ASSALTO AL VERTICE. Il 4 agosto del 1986 il gruppo dei Grassonnelli elimina Antonio Messina, considerato il capo “famiglia” di Porto Empedocle. I killer lo freddano in piazza Italia mentre il vecchio boss stava andando in via Roma dal barbiere. Per vendetta Cosa Nostra decise di rispondere con un agguato, luogo prescelto la sala trattenimenti “Madison” dove i Grassonelli erano stati invitati ad una festa di matrimonio. Venne rubata una A 112. Ma i Grassonelli intuirono il pericolo e imbottirono di tritolo l’auto destinata a trasportare i loro killer. L’esplosione ridusse in brandelli Calogero Salemi (nella foto i resti dell’auto).
12
Foto archivio Giornale di Sicilia
Foto archivio Giornale di Sicilia
Foto archivio Giornale di Sicilia
PRIMA STRAGE. Venne decisa per annientare il clan Grassonelli. I killer arrivarono a bordo di due cabriolet ed uccisero a colpi di mitraglietta Gigi Grassonelli ed il padre Giuseppe, mentre Bruno e Salvatore sfuggirono per caso ai colpi di mitra. Nell’agguato, eseguito davanti al “Bar Albanese”, morirono altre quattro persone. Tra questi due innocenti Filippo Gebbia (nella foto) ed Antonio Morreale. Era il 21 settembre 1986.
13
Foto archivio Giornale di Sicilia
Foto archivio Giornale di Sicilia
SECONDA STRAGE. La vendetta dei Grassonelli superstiti arriva quattro anni dopo sulla statale 115 di Porto Empedocle, davanti ad una autofficina (foto in alto). Un commando di Stiddari gelesi uccide Sergio Vecchia, Giuseppe Marnalo, Stefano Volpe e ferisce Calogero Palumbo, Francesco Vecchia e Calogero Albanese. Era il 4 luglio 1990. Per questo agguato verranno processati e condannati Bruno e Salvatore Grassonelli, suo figlio Giuseppe ed il genero Giuseppe Pullara. Pene severe anche per la sorella Grazia, sua figlia Rosina ed il marito Giovanni Tuttolomondo (figlio di Sal vatore, ucciso nella prima strage). Strage a gestione familiare. Nella foto sopra l’aula bunker di contrada Petrusa dove si è celebrato il processo Akragas contro i clan di Cosa Nostra della Provincia di Agrigento.
14
Foto archivio Giornale di Sicilia
GIUDICE GIUSTO. Il 25 settembre 1988 la mafia uccide il giudice Antonino Saetta, assassinato insieme al figlio Stefano che era con lui in macchina. Aveva lasciato la sua casa di campagna a Canicattì e stava facendo rientro a casa. I killer lo raggiunsero sulla statale 640. In primo grado sono stati condannati all’ergastolo Salvatore Riina, Francesco Madonia (considerati mandanti) e Pietro Ribisi di Palma di Montechiaro, unico superstite del commando composto in larga misura da agrigentini. Secondo i pentiti il delitto sarebbe avvenuto perché il giudice Saetta aveva condannato all’ergastolo il figlio di Madonia per l’omicidio del capitano Basile di Morreale e perché avrebbe dovuto presiedere la Corte d’appello per i primo maxi processo. Foto archivio Giornale di Sicilia
Foto archivio Giornale di Sicilia
15
Foto archivio Giornale di Sicilia
Foto archivio Giornale di Sicilia
OMICIDIO LIVATINO. Il 21 settembre del 1990 la mafia uccide il giudice Rosario Livatino. Con la sua vecchia Ford rossa era uscito da casa per raggiungere il palazzo di giustizia. Sulla statale 640, in contrada Gasena, venne affiancato da una macchina e una moto. Il magistrato scese e si mise a correre per sfuggire ai killer. Ma venne raggiunto ed ucciso. Un testimone oculare, Pietro Nava, vide la scena e fece arrestare gli assassini. Al processo i genitori si sono costituiti a spese loro, parte civile. Poi, però hanno rinunciato in contrasto con lo Stato che aveva concesso il gratuito patrocinio e pagato le spese legali ai killer del figlio.
16
1
In principio fu la strage Settembre nero, inizia la faida
All’improvviso andò via la luce e la via Roma s’illuminò solo del fuoco delle mitragliette. Una pioggia di proiettili sulla folla, l’oscurità, le grida, l’aria festosa della domenica sera interrotta da uno, due, cento colpi d’arma da fuoco. Sembrava una parata di giochi pirotecnici, ma bastò poco a comprendere cosa stava accadendo. Il sangue sgorgava a fiumi sotto i tavoli del bar Albanese. La gente atterrita cercava scampo, correva all’impazzata mossa solo da paura e terrore. Alcuni cercarono riparo nei portoni dei palazzi del corso, inerpicandosi su per le scale fino a raggiungere l’ultimo piano, altri finirono dietro i banconi dei bar situati tra la Matrice e la piazzetta della farmacia. Altri ancora si stesero per terra dietro gli alberi secolari di via Roma. Intanto i secondi passavano ed il commando, compiuta la missione di morte, andò via. Per terra si contarono sei morti, tragico bilancio di quella che nella storia viene ricordata come la «prima strage di Porto Empedocle»: un’azione di guerra decisa da Cosa Nostra per rispondere agli affronti ed alle umiliazioni subite a causa della famiglia dei Grassonelli. Il primo della lista era Gigi, poi il padre Giuseppe ed i fratelli Bruno e Salvatore. Il commando stanò solo i primi due, ma si rifece assassinando Salvatore Tuttolomondo e Giovanni Mallia, il loro guardaspalle. Morirono anche due innocenti. Poi, mentre il panico dilagava nel paese fino a ricoprirlo di vergogna, di colpo tornò la corrente elettrica. Fu quasi una magia ed in un baleno Porto Empedocle guardò in faccia la verità: la mafia c’era, aveva esteso i suoi tentacoli, si era intrufolata tra le stradine arabe di via Alloro, si 17
era ancorata nei quartieri vecchi ed all’altipiano Lanterna, la zona satellite rimasta per anni ed anni senza farmacia, senza ufficio postale, strade, cinema, fogne, acqua. Senza civiltà e neanche un medico. Alla Lanterna c’era solo la sezione staccata della scuola elementare «Luigi Pirandello», unico avamposto dello Stato, ed unico divertimento per le bande di giovani che per quest’enorme edificio hanno nutrito sentimenti di amore ed odio: vi giocavano al calcio di giorno usando il suo ampio spiazzale, ma l’assaltavano di sera scaricando ogni tensione sull’enorme portone di legno scorticato e mortificato con coltellini, scacciacani, pietre (“i giachi firrigni”), e trafitto da frecce ricavate da vecchi ombrelli trasformati in rudimentali archi. 1. La mafia smascherata dalla follia omicida Dopo la strage tornò la luce e si scoprì la mafia. Considerata entità astratta eppure così vicina, così tragicamente presente. Così forte da non essere stata ancora messa a fuoco e combattuta. C’era la mafia in provincia di Agrigento, con le estorsioni e le intimidazioni; c’erano gli “intisi” con in testa Settecasi, boss dei due mondi nonostante la sua apparenza dimessa, ed anche Colletti, Salemi, i Messina di Villaseta e di Porto Empedocle, i Capizzi di Ribera, i Caruana di Siculiana. C’era la mafia, lo sapevano tutti. Ma si era finto di non sapere. 2. Serata indimenticabile Quella sarebbe stata, in ogni modo, una serata da non dimenticare. Era il 21 settembre del 1986, l’ultima dell’estate: fine delle vacanze ed inizio delle lezioni. La gente era tutta lì nel budello di quattrocento metri che da quel “maledetto” bar porta fino al chioschetto della scuola elementare «Luigi Pirandello», dove un tempo ormai lontano si vendevano enormi bicchieri di “acqua sersa”, vera overdose di bollicine. C’era tanta gente, tanti giovani. Lui, Filippo Gebbia, aveva 30 anni ed era un tipo allegro e socievole. In quelle ore stava lavorando su due fronti, era infatti promo18
tore di un torneo di sport per la parrocchia di Santa Croce. Più personale l’altro progetto: finalmente le nozze dopo aver atteso per anni un lavoro. Era tra la folla e si ritagliava una striscia di marciapiede in lungo ed in largo per la via Roma. Non era solo, teneva per mano la fidanzata e con lei sognava il futuro. Parlavano guardando l’orizzonte, un pò come fanno tutti i “marinisi” sempre presi ad anticipare il tempo per non essere sorpresi dalla burrasca in alto mare. Lui, per la verità, di mare non ne capiva più di tanto, aveva forse frequentato la mitica banchina della “prima scalì” (che ha tenuto a battesimo migliaia di intrepidi piccoli nuotatori), ma non dava l’impressione di essere uno che non sapeva rinunciare ad un tuffo in acqua. Filippo era un creativo, ma anche un tecnico con diploma di perito industriale, e per diventarlo aveva trascorso cinque lunghi anni fuori casa. Pendolare già a 14 anni, era stato uno dei tanti studenti che la domenica pomeriggio salutavano amici e parenti per raggiungere la sede scolastica. Per lui era Gela, perché dalle nostre parti non aveva trovato scuole che soddisfacevano la sua voglia di sapere e di guardare al mondo del lavoro con un titolo più richiesto dal mercato. Non era uno qualsiasi, Filippo era un arguto, dall’intelligenza vivace, ironico. Guardava avanti, ma non aveva fatto i conti con il suo paese, con la sua gente. Per anni gli avevano raccontato delle frottole, gli avevano detto che era nato in un luogo pieno di prospettive, simbolo dello sviluppo industriale, e dunque ricco. 3. Svanisce l’industria, inizia il dramma Ma ricco di cosa? Se lo è chiesto una intera generazione, soprattutto quando dal 1974 in poi ha visto le strade sbarrate ed occupate dai lavoratori della Montedison rimasti senza “posto” dopo che Eugenio Cefis, l’uomo del Nord, aveva ritenuto improduttivo lo stabilimento empedoclino. Così in quegli anni centinaia di maestranze hanno scaricato per strada la loro rabbia, bloccando la statale, presidiando lo stabilimento. Vent’anni prima avevano fatto lo stesso i lavoratori portuali, ‘i carrittera, che si erano spinti anche a seminare 19
terrore nelle scuole per difendere il posto di lavoro. La protesta fu tanta, ma altrettanta la decisione dell’azienda milanese. Così la classe politica, quella stessa che aveva consegnato all’industria uno dei tratti di litorale più affascinanti della provincia ed a vocazione turistica, per mascherare il fallimento di un sogno, tirò fuori dal cilindro la cassa integrazione guadagni: l’operaio perdeva il lavoro ma almeno portava a casa uno stipendio pari all’80 per cento dell’ultima busta paga percepita. Pagati per non far nulla, ed il paese fu presto invaso da centinaia di onesti operai rimessi sulla strada con una retribuzione appena sufficiente a mantenere a galla la famiglia. Esplose il sommerso e per molti fu il doppio ed il triplo lavoro. Naturalmente in nero. L’epoca della cassa integrazione accellerò il crollo dell’economia del paese con un aumento vertiginoso del fenomeno del clientelismo che a Porto Empedocle aveva già, comunque, trovato una tana ed un sicuro rifugio. Tramontate le speranze riposte nell’industria privata era iniziata la caccia al posto pubblico, al 27 sicuro. 4. Clientelismo? Fa rima con familismo Questo clima di necessità ha di fatto rafforzato la cultura del gruppo, con cui cercare una risposta concreta ai propri bisogni. Dando ampio spazio a quello che i sociologi chiamano familismo. Cos’è? Lo ha spiegato Damiano Zambito nel 1991 al primo convegno organizzato per ricordare il martirio di Rosario Livatino. «È quell’atteggiamento culturale che indica la deresponsabilizzazione individuale che si ottiene con l’affidarsi a persone che decidono per conto nostro, isola l’individuo e lo chiude in piccoli gruppi di persone che pensano allo stesso modo ed hanno un cieco rispetto per l’autorità che si afferma col potere». Ed ancora Zambito: «Questo complesso di atteggiamenti ha un risvolto sociale: favorire l’affermarsi del clan, della cricca, delle clientele, fondato sul primato della famiglia, degli amici e dei sodali (“la gente per bene”, “la gente che conta”), che delimita i confini 20
della socialità e definisce ciò per cui solamente vale la pena vivere». Il contesto era questo: un intreccio di interessi per appagare i desideri di una società divisa in tanti piccoli gruppi, ciascuna piena di ambizioni ed aspettative. Una “febbre” che prendeva tutti, aggregando allo stesso livello la cosiddetta società civile con quella che, invece, preferiva agire nell’ombra e nella illegalità. Studenti, padri di famiglia, politicanti, portaborse, casalinghe, universitari, laureati, diplomati, disoccupati, poco di buono, aspiranti mafiosi e mafiosi conclamati sotto lo stesso tetto che è la cultura del gruppo, dell’associazione o della cosca. Guardando al futuro così incerto, la gente si era frastagliata, aveva fatto del familismo una specie di ideologia e comunque qualcosa da approfondire nelle segreterie degli onorevoli, in una sagrestia o, per i più inappagati, e magari senza titolo di studio, in una cosca mafiosa alla quale oltre al corpo vendere anche l’anima, con buona pace della Chiesa sempre così incerta e debole dinanzi al potere politico. 5. Arrivano le cabriolet, inizia la fine Ecco dove era cresciuto Filippo e la sua generazione, in un paese perennemente alla ricerca di una raccomandazione, apparentemente normale ma intriso di clan mafiosi, teatro di mille estorsioni e omicidi. Porto Empedocle come Naro, Sciacca, Agrigento, Licata o Palma dove si conosceva tutto di tutti e di ciascuno si sapeva chi era, come aveva trovato lavoro, chi l’aveva raccomandato, come aveva ottenuto la promozione, come poterlo “avvicinare”. Si conoscevano le virtù ed anche i vizi e dove non arrivavano le conoscenze personali c’era sempre un’amico pronto a venirti incontro per ampliare il “bagaglio informativo”. Così spesso i bar, o gli uffici pubblici, assurgevano al ruolo di «supermarket dell’informazione» dove cercare o scambiare notizie nel rispetto di un sistema di intrecci, connivenze ed autocontrollo sociale. La mafia, del resto, non si trova a suo agio in situazioni normali. Eppure dopo che quelle due cabriolet decappottate si fermarono davanti al bar Albanese con sopra i mercanti di morte e le mitraglie che 21
spazzavano via ogni traccia di vita, subito si cercò di banalizzare. «Roba da delinquenza portuale», si disse a gran voce dal palazzo municipale. Non era così. La verità era che i tentacoli di Cosa Nostra erano già da qualche tempo giunti anche a P. Empedocle, e che la cupola provinciale aveva firmato quella strage per lavare col sangue la violenza subita dai suoi uomini aggrediti da un gruppo di emergenti che riconosceva capo un “pilu russu”, un giovanotto figlio d’arte cresciuto in una famiglia d’intisi. Si chiamava Gigi Grassonelli, la mitraglietta lo cercò e spense ogni suo estremo gesto di spavalderia. Lo colpì mentre cercava di sparire nel vicoletto che dal “corso” porta verso il cinema Mezzano. Il killer lo seguì finendolo con disprezzo, senza pietà. Accadde lo stesso, contemporaneamente, al povero Filippo Gebbia che con la ragazza ed i suoi sogni era arrivato dentro il bar per ordinare qualcosa proprio un attimo prima che giungesse l’auto con gli assassini. Chissà, forse lo avrà tradito quel suo ciuffetto rossiccio ed il suo nome: Filippo come Adorno, consigliere ed amico d’infanzia dei Grassonelli. Il commando sparò nel mucchio e lo colpì solo di striscio. «Filì, Filì», si sentì gridare, proprio mentre il killer aveva ripreso a sparare colpendolo senza scampo convinto di aver stanato uno della banda. Invece era stato eliminato un innocente, spirato all’ospedale San Giovanni di Dio dopo un giorno di agonia. 6. Strage dimenticata, paese senza memoria Da quella strage ad oggi ci separano quindici anni. Di quel commando si conoscono i nomi dei killer a loro volta assassinati da altri carnefici della mafia, e la morte sopraggiunta ha di fatto impedito che si potesse celebrare un processo. Quei morti sono, così, finiti nel dimenticatoio sepolti senza memoria. Oggi nessuno parla più del povero Filippo, né di Antonio Morreale, pensionato, altra vittima innocente. Aspettava che il genero tornasse a riprenderlo per riportarlo a casa, e lui per riposarsi un pò aveva deciso di stare seduto al bar per gustarsi un gelato insieme alla moglie Bianca Frassi, una piemontese. 22
Mai scelta si rivelò così sciagurata. Il suo tavolo era troppo attiguo a quello dei Grassonelli e quando arrivò la furia omicida, fu travolto da una scarica di piombo. Racconterà la moglie in ospedale dove venne portata per medicare le ferite: «Davo le spalle alla strada, pensavo che fossero mortaretti fatti scoppiare dai ragazzini. Mi sono resa conto di quello che stava accadendo solo quando ho visto mio marito vacillare. Ha tentato di gettarsi sotto il tavolo, ma è stato colpito prima». Oggi di quel fiume di sangue, che per giorni restò appiccicato alle antiche “balate” del corso, non c’è più traccia. Eppure quei morti gridano vendetta, certo non quella mafiosa ma piuttosto del riscatto sociale, della conquista della libertà negata per riportare a galla un paese segnato da una violenza efferata che ha visto protagonisti del crimine giovani alle prese con il futuro proprio come Filippo Gebbia, ma che sono stati ingannati da quel familismo che soddisfa solo la logica dell’apparire più che dell’essere, dell’avere più che del vivere. Ed eccoli i vari Gigi Grassonelli, Pasquale Salemi, Filippo Adorno, Alfonso Falzone, Luigi Putrone, Giulio Albanese, cresciuti ai margini di Porto Empedocle nei quartieri degradati del Piano Lanterna, nel cosidetto quartiere “dell’ indiani”, alle Cannelle, o al Ponte di ferro. Zone popolate di speranze, dove il campo di calcio era la strada, con i pericoli ed i suoi tentacoli. 7. La resa delle istituzioni. Così uno alla volta sono caduti nella trappola mortale del clan e della violenza. Scelte colorate di “normalità”, in un paese senza regole certe, dove le istituzioni troppo spesso si sono sottratte al ruolo di guida verso lo sviluppo e la crescita civile. Fu in quel periodo che ai clan venne riconosciuto un ruolo “sociale” da rappresentare anche negli uffici pubblici e Giuseppe Messina, figlio del capo “famiglia” del paese, divenne addirittura assessore ai Lavori Pubblici. Qualche tempo dopo anche Salvatore Albanese, ‘u cippu’, piazzò il figlio dentro il Comune che diventò assessore alla Polizia urbana. Anche nelle 23
liste per il consiglio comunale, intanto, cominciavano a figurare candidati che hanno poi riempito le pagine di cronaca giudiziaria per la guerra tra i Grassonelli ed i Messina. In quegli anni nei comizi le giunte, senza alcuna esitazione, si battevano strenuamente in difesa di chi aveva occupato abusivamente le case popolari della zona dello Sport costruite per sopperire ai danni causati dall’alluvione del 1971. Erano state strappate con la violenza ai loro legittimi proprietari, ma il Comune anziché cacciarli via, (così come qualche anno dopo è avvenuto in altri centri), protesse gli abusivi empedoclini: «State tranquilli, nessuno oserà buttarvi fuori da qui, gridava a squarcia gola uno dei politici più in vista di allora. Prima di entrare nelle vostre case dovranno passare sul mio cadavere». E così fu, in barba a centinaia di famiglie cui lo Stato aveva riconosciuto il diritto ad un alloggio popolare. Per non parlare poi dei concorsi pubblici, tutti rigorosamente lottizzati e divisi equamente tra le forze politiche. Così il candidato prima ancora di presentare domanda di partecipazione doveva fare in modo di trovarsi l’appoggio giusto per rientrare in questa logica di spartizione. 8. L’impunità approda nelle pagine dei giornali È stato così per i concorsi, figurarsi per le cosiddette cooperative giovanili che consentirono a centinaia di ragazzi, di tutta provincia di Agrigento, e della Sicilia, di trovare un lavoro con un meccanismo che era la più grande esaltazione del consociativismo.Un equilibrio spartitorio perfetto, garanzia di impunità. Con la strage, Porto Empedocle si conquistò la ribalta della cronaca nazionale che ha raccontato di un paese soffocato dalla morsa criminale. Obiettivo primario? Accaparrare soldi e potere, spiccare il cosiddetto salto di qualità e ritenersi degli uomini importanti, degli arrivati. Uomini da rispettare senza riserve, pena la vita che negli anni crudeli non aveva proprio valore. Bastava un nulla e “tac”: una scarica di proiettili era pronta a lavare col sangue un affronto subito. A Riccardo Volpe bastò una lite al Lido Azzurro con Alfonso Falzone. «Iu di tia un mi scantu», gli gridò dinanzi ad una folla che si era ra24
dunata incuriosita. Un affronto che scatenò la reazione omicida. Volpe venne ucciso nonostante fosse imparentato con i Messina all’uscita di una pizzeria-dancing di Ribera sotto gli occhi della moglie. Si usava il brivido della morte per sentirsi vivi, per considerarsi uomini tutto d’un pezzo. D’onore per l’appunto.
continua a pag 26 - next
25